
Categoria: Riflessioni
“(H)ombre(s) migranti”, di Andrea Cantaluppi. Lettura critica

Onesto e intenso, multiforme e sfaccettato, leggibile e coinvolgente, (H)ombre(s) migranti (Ediesse, 2009), di Andrea Cantaluppi, è un libro all’incrocio tra narrativa e saggistica: racconto, diario di viaggio, reportage giornalistico, referto di indagine antropologica, sociologia, geografia umana. E ancora: regesto di urgenti riflessioni sul nostro tempo. È infatti la problematica complessità del mondo contemporaneo, la sostanza che emerge in controluce dal tessuto di un’intensa, coraggiosa e sofferta esperienza personale. (H)ombre(s) migranti racchiude fin dal titolo il passaggio da “ombre” a “uomini” (hombres) che, evocando indirettamente il mito platonico della caverna, traguarda la possibilità di ridare dignità e forza ai reietti, ai “vinti” della storia. Il libro traccia dunque un percorso di autocoscienza, etica e sociale, che per rapporto antinomico parte da un contesto di sottocultura consumistica, di globalizzazione indiscriminata, di consumismo massificato. Un «clima di diffidenza e di violenza istituzionalizzata» dal quale Furio, il protagonista autobiografico, sente il bisogno interiore di staccarsi definitivamente. Il mondo di plastica. La realtà e la rappresentazione. La cosa concreta e l’immagine-simulacro. Il valore della persona umana non apprezzato a prescindere: oggi esisti e vali se appari, se si parla di te. Si dà importanza e attenzione solo a chi emana sentore di successo e potere. A nessuno viene voglia di approfondire, di andare a verificare per capire meglio. Anche a poche centinaia di metri dall’accaduto, la notizia viene vissuta come riflesso evanescente del solito TG. La televisione è satellitare ma impedisce di vedersi: ci fa vedere il mondo, ma ci rende invisibili a noi stessi. La comprensione autentica del mondo, invece, non può prescindere da una ricerca più seria e minuziosa di se stessi. Costa sofferenza, ma è indifferibile.
Sono convinto che più sarò bravo e sincero nello scavare entro di me, più potrò essere utile agli altri.
Furio è un uomo alla ricerca di se stesso. Ha voglia di bere alle sorgenti della vita. Per rinnovarsi e ritrovarsi: per vedere se è ancora capace di «legare i propositi con i fatti». È al mare, d’estate, e legge Confesso che ho vissuto di Neruda. A un certo punto, staccando gli occhi dalla pagina, assiste per caso allo sbarco di una carretta del mare carica di disperati. È proprio in questo incrocio tra pagina e mondo che si disegna lo spazio della possibilità, cioè della politica. Sognare la realtà per realizzare il sogno. Ma ci si scontra con la maggioranza silenziosa degli “idioti” (in senso etimologico). Penso alla distinzione aristotelica tra “polìtes” (chi si interessa alle questioni pubbliche e conosce i problemi politici) e “idiòtes” (da “idios”, cioè proprio, personale: chi si interessa solo alle proprie faccende private). Certamente non “idiota”, Pablo Neruda ha svelato l’anima poetica alla povera gente, dando voce all’anima poetica della povera gente. La libertà dei popoli si fonda sul nutrimento dello spirito garantito dalla cultura. I libri aprono gli occhi e accendono la mente. Fondamentale è la consapevolezza.
Quanti sentieri si possono tracciare se si è convinti di ciò che si fa.
Il mondo, dunque, si può cambiare. Dipende da ognuno di noi. Resistere. Pre-occuparsi. Impegnarsi. E soprattutto: «non smettere mai di indagare, con attente osservazioni, dentro di sé, ponendosi domande». Come quelle che Furio si fa continuamente, roso da un tarlo interiore, da un bisogno di analisi, di profondità, di comprensione. Capisce così che occorre distaccarsi dall’eurocentrismo, perseguendo l’idea di un’Europa non come club esclusivo di ricchezza e privilegi, ma come grande opportunità storica di unificazione dei popoli. Avvicinare mantenendo le differenze. La globalizzazione tende invece a uniformarle, ma così le accentua ancor di più. Ecco la recrudescenza dell’odio, del razzismo, della xenofobia. Che può la cultura al cospetto della vita? La realtà vera «è più dura e vigliacca di quello che ci piace immaginare. Bisogna sporcarsi le mani e provarla per poi cambiare, e non soltanto opinione ma atteggiamento, e poi forse capire cosa fare e quanto costa».
Ed ecco il “secondo tempo” del libro: dalla premessa analitica alla conseguenza pragmatica. Furio adesso parla in prima persona per raccontarci – con scansioni da “diario di bordo” – questo suo “grande salto”: già, perché parte per il Messico! Dove va a fare il volontario in una missione cattolica gestita da religiosi scalabriniani, che sostiene i migranti di tutti i Paesi del Centro America: uomini, donne e bambini che tentano di attraversare il Rio Bravo per entrare negli USA, in Texas. La missione si trova a Nuevo Laredo: un luogo di transito, di pericolo, di sofferenza, in un territorio gestito dai narcotrafficanti. È nel divario di questa frontiera/frattura che Furio scopre le radici delle sovrastrutture, del condizionamento culturale per cui si formano certi pregiudizi, certe categorie.
Lì c’è il Texas, il Primo Mondo. Di qua e di là, cosa significa? Nulla! Questa differenza va combattuta culturalmente ed è uno dei motivi che mi ha portato sin qui.
Bisognerebbe imparare a guardare il mondo come si vede dall’alto, dall’aereo: la «geografia naturale senza ostacoli visivi, mentali, istituzionali». Il cielo non conosce muri. Come le aquile che Furio vede varcare in volo il confine.
L’aquila è andata “di là” senza nessun controllo burocratico: lei è libera, l’uomo no. L’aquila va e viene quando vuole, l’uomo è riuscito a farsi prigioniero da solo in nome di un egoismo contro natura e far apparire folli coloro che rimettono in discussione lo stato delle cose in nome dell’amore e della libertà.
In Messico Furio incontra tanti casi umani (letti come libri viventi nel “terzo tempo” ideale del volume) con cui si confronta “alla pari”, sia pur da straniero, da europeo. Laggiù tocca con mano che «la giustizia è uguale per tutti, ma per i ricchi è un po’ più uguale». E capisce una volta di più che il prezzo della Storia lo pagano i poveri, i deboli, gli emarginati: perché la Storia la scrivono i ricchi e i vincitori. Anche per colpa del tradimento perpetrato dai garanti (o presunti tali) delle istituzioni etiche. L’adulterio tra il potere e il clero: la croce confusa con la spada. La Chiesa in America Latina, ad esempio, è sempre stata collusa con le destre reazionarie appoggiate dalla CIA, diffondendo oscurantismo e osteggiando la “teologia della liberazione” promossa dalle sette pentecostali ed evangeliche a favore degli emarginati, per la giustizia autentica. È il sentirsi «appartenenti all’umanità» che «ci rende solidali», pronti cioè a «crescere verso una comprensione reale dell’uomo così come realmente è, e non come ci è stato dipinto». Il mondo globalizzato sembra andare da un’altra parte: verso il baratro. Il prevalere del profitto come unico criterio. L’individualismo esasperato. La frammentazione delle comunità. La solitudine seriale.
Il dollaro è il primo valore nella scala sociale e l’uomo è stato relegato all’ultimo posto.
E invece «occorre mettere l’uomo al centro, questo è il punto. Davanti all’uomo, nessuno si può tirare indietro, non ci dovrà essere più spazio per grandi pensatori che, all’interno delle loro torri d’avorio, indicano la rotta da seguire: o si sta tutti insieme a tirare la barca, o questa si avvita in un girotondo fatale». Andrea Cantaluppi e il suo alter ego Furio ci ricordano che occorre un’etica umana globale, umanistica, post-ideologica. Capire una volta per tutte che ogni persona è unica, irripetibile, insostituibile: e da lì far discendere tutto. Risvegliare i veri valori oltre i miti narcotizzanti del consumismo di ennesima generazione. Dignità, appartenenza, identità, spiritualità, cultura, solidarietà: ecco le parole d’ordine del nuovo mondo da edificare, senza rinunciare alla speranza.
Porto con me la certezza che l’uomo ha ancora la possibilità di guardarsi allo specchio e ritrovarvi un essere gioioso e speranzoso, se è cosciente di chi è e che cosa deve fare insieme agli altri.
Un invito e un monito per ognuno di noi.
Marco Onofrio
Strisce blu e autovelox. Quando lo Stato si fa “taglieggiatore”…
I doveri del cittadino verso le istituzioni esistono a prescindere o dipendono anche dalla credibilità delle stesse? Credo che dipendano anche, pur esistendo a prescindere. Se è plausibile e addirittura doveroso, rispetto al tribunale etico interiore, contravvenire per obiezione di coscienza a una legge palesemente ingiusta, non è altresì lecito affermare che si obbedisce volentieri a uno Stato capace di imporsi non con l’autorità coercitiva, che in linea teorica finirebbe per legittimare anche i soprusi di una dittatura, ma con l’autorevolezza riconosciutagli dal cittadino per la capacità di emanare leggi giuste, di farle rispettare volentieri, di rispettarle esso stesso per primo, nell’esercizio quotidiano delle sue funzioni amministrative?
Le istituzioni devono dare esempio di integerrima onestà, se vogliono che la gente non accampi rivendicazioni e non si senta “giustificata” a compiere atti illeciti. La vox populi elabora più o meno il seguente pensiero: “se i primi a delinquere sono i politici, perché mai il cittadino dovrebbe essere onesto?”. E c’è un fondo di verità che impedisce di darle torto. Sia chiaro: ognuno deve sentirsi chiamato all’onestà indipendentemente dalle circostanze e dalle occasioni (che facciano l’uomo ladro, è sbagliato già di per sé), ma è innegabile che ogni autorità viene desautorata, cioè ipso facto destituita di fondamento, qualora il garante e il rappresentante della legge vengano trovati in flagranza di reato, cioè in evidente contraddizione con quanto da loro garantito e rappresentato, nonché solennemente promesso al popolo con il giuramento. Il presidente del Consiglio e i ministri, ad esempio, non diventano effettivamente tali senza aver pronunciato la seguente formula: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Tale differenza qualitativa del comune dovere civico è sancita anche dall’articolo 54 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Di conseguenza, lo stesso reato commesso dal semplice cittadino aumenta notevolmente la propria gravità qualora commesso da un pubblico ufficiale.
Risultano pertanto dannosissime all’opinione che il cittadino nutre dello Stato e delle sue legittime istituzioni, alcune illegittime e odiose iniziative intraprese a livello amministrativo, come ad esempio le strisce blu (anche in piccoli centri) e gli autovelox. Iniziative che svelano presto la reale volontà che le sottende: quella di fare cassa, cioè di rimpinguare le sempre anemiche risorse economiche dei Comuni, che in realtà sono anemiche non perché i soldi pubblici non ci siano, ma perché vengono male amministrati. Immagino discorsi preliminari, in camera caritatis, del tipo: “Oddio, non c’è rimasto più un euro! E adesso che cosa c’inventiamo?”. Da cui il toto-sanzione, cioè la caccia al modo più ingegnoso per estorcere denari. La colpa della corruzione non deve ricadere a pioggia sul cittadino innocente, rendendolo “mazziato” oltre che “cornificato” dalla stessa. Il politico che ruba, procura già un danno grave al cittadino; non può addirittura rifarsi degli ammanchi pubblici sulla vittima delle sue malversazioni!
Che la volontà politica effettiva da cui sono “animati” i parchimetri sia sostanzialmente quella di far cassa, sta a dimostrarlo il progressivo perfezionamento degli stessi a favore dei Comuni: non solo in termini di tariffe orarie, spesso davvero esose e soggette a non infrequenti rincari, ma anche con il recente “giro di vite” rappresentato dall’imposizione di personalizzare il ticket digitando la targa, il che ha drasticamente eliminato gli episodi di cortesia per cui si poteva regalare il tagliando non ancora scaduto a un altro automobilista in procinto di parcheggiare. Ora mi chiedo: i ricavi economici di questa personalizzazione valgono davvero la brutta figura del Comune che la impone? cioè lo svelamento spudorato della reale intenzione lucrativa che presiede a tutta l’iniziativa?
Idem per gli autovelox: la sicurezza stradale, diciamoci la verità, è solo il motivo ipocrita e pretestuoso. Ho assistito di persona a un caso emblematico. Un autovelox era stato collocato in un tratto di strada dissestata che “impediva” di per sé alle automobili di superare i limiti di velocità. Ebbene, constatato che l’autovelox non rendeva adeguatamente, il Comune di competenza ha provveduto ad asfaltare solo il tratto di strada precedente l’autovelox stesso! Come a dire: “forza, prendete la rincorsa e… vai con le multe”. Si può essere più sciocchi e inopportuni? Un’amministrazione davvero “furba” avrebbe asfaltato sia prima sia dopo l’autovelox, per rendersi immune da critiche e mascherare meglio (cioè in modo più intelligente) le proprie reali intenzioni. Quindi i casi sono due: o i politici considerano gli italiani un branco di emeriti imbecilli, col cervello guasto e incapace di comprendere alcunché, ovvero (quand’anche consci del misfatto) di pecoroni impotenti e inetti ad ogni rimostranza; oppure – cosa che ritengo più probabile – la politica ha ormai dato per acquisito il tramonto dell’etica, e quindi si sente al di là del bene e del male, non più soggetta ai freni inibitori da cui un tempo scaturiva quella sana vergogna di sbagliare. Sarebbe davvero divertente vedere l’autovelox impossibilitato a “estorcere” multe, per conto dello Stato taglieggiatore, grazie all’ineccepibile comportamento degli automobilisti, attentissimi a rallentare fino al “passo d’uomo” in prossimità dell’apparecchio sanzionatorio; e poi, di lì a qualche tempo, assistere alla seduta del consiglio comunale dove si discute dei mancati introiti, e chiedere conto del disappunto incarnato sui volti della giunta dinanzi a ciò che, invece, dovrebbe suscitare soddisfazione e pubblico encomio. Se davvero gli autovelox fossero deterrenti all’eccessiva velocità – come sostiene la legge – e non volgari macchinette per far cassa, come spiegare infine certi musi lunghi?
Marco Onofrio
“Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia” letto da Giorgio Taffon, su www.menaboonline.it
https://www.menaboonline.it/le-segrete-del-parnaso-caste-letterarie-in-italia-di-marco-onofrio
Per la collana Angelus Novus della Terra d’ulivi edizioni, di Elio Scarciglia, nel settembre dell’anno appena passato, è uscito il libretto di Marco Onofrio Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia. Si tratta di un pamphlet, ma anche di un cahier de doléances, che, a mio parere, costituisce un indispensabile contributo per capire quale è la realtà del mercato editoriale italiano, in particolare quello dei generi letterari (poesia, narrativa, teatro), quali poteri, culturali e non, lo gestiscono, a quali condizioni, a favore e soprattutto a sfavore di chi.
Occorre una premessa fondamentale a quanto sto per scrivere, una precondizione: il contributo di Onofrio è garantito, sul piano della credibilità e della lucidità riflessiva, dalla sua ricchezza culturale, dalle sue doti davvero non comuni di poeta e scrittore, dalla sua consapevolezza, acquisita sul campo, di come son gestite le attività culturali italiane, dall’editoria all’accademia, dai premi letterari ai concorsi universitari. Naturalmente, essendo questo un terreno molto scivoloso, il lettore “addetto ai lavori” può relazionarsi a quanto il libello afferma e trarne le sue conseguenti convinzioni. Nel mio caso posso dire di aver condiviso, alla prima lettura, la gran parte delle ragioni sostenute da Onofrio, con qualche mia più specifica osservazione, dovuta ai miei trascorsi di docente universitario e di autore di alcuni libri per lo più a carattere manualistico-saggistico riferiti alle discipline d’insegnamento e ricerca, dalla letteratura contemporanea, alla drammaturgia scritta, al teatro italiani.
Da subito voglio sottolineare la nobile intenzione dell’autore nell’andare comunque oltre le proprie doglianze circa le delusioni vissute lungo gli anni, offrendo, al lettore interessato professionalmente, un quadro verosimile, condivisibile, ma disperante, di quello che è il potere culturale italiano gestito da “caste”, fra le quali appare monopolizzante quella legata alla Massoneria nazionale e internazionale. Naturalmente Onofrio non può e non vuole fare nomi, ma riporta eventi-chiave nelle sue esperienze che non possono non fargli capire che è la sua stessa persona e il suo profilo culturale che via via sono stati messi ai margini delle ufficiali ritualità comunicative, pubblicitarie, massmediatiche, che sono mezzi indispensabili di promozione sui canali di vendita del libro. E ciò nonostante un numero di pubblicazioni impressionante, e una serie di Premi letterari di prestigio vinti, oltreché di numerose traduzioni all’Estero.
Ma vorrei ora articolare il mio discorso per punti.
Il primo. Università e Istituzioni affini: Onofrio ha ragione pienissima, i concorsi son tutti pilotati, vige una incontrollata e incontrollabile “legge” della cooptazione (un tempo garantita dal valore dei cosiddetti “baroni”, ma ovviamente non sempre) qualsiasi sia la “casta” che detiene i poteri accademici: sindacati, docenti condizionati dai rapporti privati, come le relazioni amorose, circoli legati alla Massoneria, gruppetti di estrazione mafiosa, “scuole” di pensiero contrabbandate, appunto, come scuole, ma del tutto inefficaci, magari; e soprattutto legami di natura finanziaria, specie in certe Facoltà che costituiscono greppie molto “piene” (un esempio fra tutti quella di Medicina). Che fare, che suggerire a un giovane meritevole? Afferma Onofrio: andarsene dall’Italia, ed è quello che sta sempre più accadendo! Se il clima politico lo permettesse occorrerebbe una riforma dell’Università davvero rivoluzionaria! Ma accadrà mai in un Paese quale è l’Italia in cui ancora vige il “familismo amorale”, l’accordo sottobanco, la strizzatina d’occhio da mafiosetti?
Secondo punto. L’attività editoriale, lo scrivere, il pubblicare. Qui entrano in ballo altri condizionamenti, altre mentalità, altri schemi d’intervento, dettati in primis dal mercato; qui penso di integrare quanto ha scritto Onofrio nel suo pamphlet, quando opportunamente distingue piccole, medie e grandi case editrici (organizzate in potenti gruppi editoriali), ricordando che in Italia il mercato librario è dannatamente condizionato da una scarsa percentuale di lettori rispetto al numero degli abitanti (l’Istat rileva che il 51% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno): la torta si rimpicciolisce sempre di più, e ne deriva, come osserva l’autore, una catena di condizionamenti assolutamente dominante, che lega gli editori ai politici che devono legiferare le sovvenzioni, direttori e redazioni agli editori, autori e scrittori a quest’ultimi, e tutti sono costretti a diffondere opere che siano di facile lettura e di non gravoso impegno intellettivo; nel settore della narrativa, come ben ha segnalato Gianluigi Simonetti nel suo La letteratura circostante (Bologna, Il Mulino, 2018), occorre una “letteratura di nobile intrattenimento”, che viene raggiunto anche con l’attento controllo delle redazioni: solo così la casa editrice può acchiappare un certo numero di lettori.
Invece per la poesia e la drammaturgia scritta in Italia, contrariamente che in Francia, Gran Bretagna, Germania, non c’è proprio quasi mercato, e nulla fa presagire che si possa creare in futuro.
Per la saggistica (e anche in questo settore Onofrio ha offerto ottime prove) il mercato è costituito al momento soprattutto dagli studenti universitari, ma è un target appannaggio in gran parte dei docenti ufficiali, che mettono in adozione i loro libri; nelle classifiche generali coloro che registrano cospicue vendite sono giornalisti, specie se supportati dalle continue apparizioni televisive, opinionisti, politici, attori, cantanti, e compagnie di giro che occupano ogni spazio promozionale.
Cosa resta a chi sa, e nel caso di Onofrio del tutto giustamente, di valere almeno come gli autori da best sellers? Restano quelle case editrici piccole e medie (che, si badi bene, contano tutte assieme solo sul 20% del mercato) le quali, pòste in piccole nicchie, riescono a rivelare solo un esiguo numero di scrittori che vanno oltre una letteratura di “nobile intrattenimento”. Ciò vuol dire restar fuori dai circuiti massmediatici, dagli incontri sponsorizzati alla grande, da presentazioni di libri in grande stile, ecc.: ed un autore che viene edito solo da meritorie ed efficienti case editrici che non si limitano, comunque, a fare solo da “tipografe”, vede quasi svuotarsi anche il suo peso specifico economico! Si deve accontentare magari di un riconoscimento di quei pochi critici ancora liberi da pregiudizi e legami di potere. Onofrio tocca così, andando oltre la propria situazione di sofferenza, uno dei tasti più gravemente fermi dalla società italiana: troppo immobile, senza meritocrazia, senza ascensori sociali, un “Paese senza” (Arbasino). E allora giustamente Onofrio si chiede se non si debba rinunciare a una scrittura “assoluta”, a cui dare tutto sé stesso, limitandosi a un puro e semplice soddisfacimento delle attese del comunque scarso pubblico di lettori. Amarissima constatazione che mostra la possibile rinuncia a sé stessi, l’autocastrante articolazione di un pensiero e di sentimenti conquistati con sacrificio, con infinite letture e riflessioni, con rinunce anche economiche!
Però, però, però… (e vado a chiudere con quest’ultimo punto). Siamo in un cambiamento d’epoca, e, per tutto quello fin qui da me scritto, si profila una situazione davvero rivoluzionaria, dove il campo da gioco e le pedine stanno radicalmente cambiando. Non ho nessuna ricetta, sia chiaro, anche perché essendo un po’ avanti negli anni, mi sento piuttosto distaccato da certe problematiche, però giocoforza mi son dovuto un poco adattare ai nuovi media, all’uso dell’informatica, alla navigazione nel Web. Come sostiene Mimmo De Masi, valentissimo sociologo del lavoro, ancora in piena attività di studioso e di autore, si va verso società in cui il lavoro, grazie alle nuove tecnologie, diminuirà e si alleggerirà, ponendo le persone, un po’ come nell’antica Roma gli uomini liberi, in una situazione esistenziale in cui si distingueranno l’otium dal negotium; scrivere, leggere, musicare, ecc., saranno sempre meno remunerativi, facenti dunque parte dell’otium; per la scrittura i testi si diffonderanno gratuitamente nella rete, senza più controlli, senza più diritti d’autore (nell’antica Roma non si attribuivano quasi mai le opere architettoniche e quelle delle arti plastiche ad uno specifico autore). Per chi è ancora relativamente giovane come Marco Onofrio, ed esprime valori culturali e creativi di ben alti livelli, consiglierei di inventare nuove forme e nuovi canali comunicativi per avere ulteriori riconoscimenti, in quantità e in qualità.
Mi auguro davvero che questa fatica di grande significato, anche etico ed esistenziale, di Marco Onofrio possa dar luogo a un dibattito il più possibile partecipato e consapevole della posta in gioco.
Giorgio Taffon
“Ricordo di Nino Manfredi” nel centenario della nascita (22 marzo 1921-22 marzo 2021)

Nino Manfredi ci ha lasciato fisicamente il 4 giugno 2004. Solo il corpo si è arreso alla morte, poiché l’arte ne ha reso immortale la figura, sia l’attore sia l’uomo, e costante l’affetto che il pubblico gli ha tributato nel corso degli anni. In tempi recenti, tuttavia, e la cosa mi addolorava, il suo nome stava un po’ uscendo “dai radar”. Nessuno metteva in dubbio la grandezza dell’artista ciociaro, nato a Castro dei Volsci il 22 marzo 1921, ma se ne parlava troppo poco rispetto a ciò che invece merita. Mi ha fatto molto piacere, quindi, il successo riscosso in TV (Rai 1, 25 settembre 2017) dal film “In arte Nino” (2016), regia di Luca Manfredi (figlio di Nino), con Elio Germano interprete principale – film riproposto appena due giorni fa, sempre su Rai 1, in occasione del centenario che si celebra oggi. Ne ho avuto piacere soprattutto perché è servito a ravvivare il ricordo di quello che considero, insieme a Sordi e Mastroianni, uno tra i maggiori attori italiani del ’900; e poi perché ha dimostrato che l’amore della gente per Manfredi è intatto e inscalfibile: un diamante su cui il tempo non può nulla. L’oblio, peraltro, era un grande cruccio di Nino, come in genere accade per gli artisti. Negli ultimi tempi aveva paura di essere dimenticato e di non avere tempo per quanto gli restava ancora da dire, ed era ancora tanto. È così che si confessa durante un’intervista sulla sua lunga e fruttuosa carriera: «Certe volte, nella mia follia, mi chiedo: e se fossi diventato immortale? Certo non mi dispiacerebbe, perché potrei continuare a raccontare le mie favole come da bambino. Dentro sono rimasto bambino, e questa è già una forma di immortalità». Dentro lo sguardo custodiva tutto il suo percorso: aveva gli occhi pieni di vita, ricchissimi di esperienza e tuttavia limpidi, sinceri, pronti allo stupore. Curava e coltivava il bambino interiore alimentando ogni giorno la sua fantasia, la voglia di essere creativo, di non spegnersi nell’abitudine: la gioia d’esser vivo. Per fare Geppetto, nel “Pinocchio” (1972) di Comencini, era andato a studiare i bambini al giardino degli aranci, sull’Aventino. Comencini gli disse: “Secondo me sei l’unico attore che può parlare con un pezzo di legno”.
Manfredi è stato un grande interprete, un protagonista a 360° dello spettacolo italiano: teatro, cinema, televisione, musica, doppiaggio. Indimenticabile di autentica romanità, fra i tanti ruoli, il “Rugantino” (1962) di Garinei e Giovannini, con musiche di Trovajoli, accanto ad Aldo Fabrizi nei panni del ferale Mastro Titta. E poi i film con Gigi Magni, su tutti “In nome del Papa Re”, 1977 (nei panni di Mons. Colombo da Priverno) e “In nome del popolo sovrano”, 1990 (nei panni di Ciceruacchio). Che tipo di attore era? Tutti lo ricordano scrupoloso, meticoloso, assai severo con sé stesso, estremamente concentrato sul set. Entrava davvero nel personaggio: recitando arrivava a pensare, sentire e vivere come lui. Non si affidava all’improvvisazione, teneva a bada l’istinto. C’era tutto uno studio a monte: Nino meditava a lungo sul copione, soppesava le sfumature, costruiva con impegno e precisione il personaggio che doveva interpretare. «Nel costruire un personaggio» ebbe modo di riflettere «mi ispiro alla realtà delle cose, anche se i gesti non vanno riprodotti in modo meccanico, ma reinventati e poi espressi in un linguaggio che tutti possono comprendere. Cioè trasporto i gesti, i movimenti, i tic che sono un patrimonio di esperienze comuni alle mie corde interpretative». E poi la tecnica: aveva una capacità straordinaria di far lavorare tutto il corpo in funzione espressiva, soprattutto la micro-mimica del volto. Diceva: «Conta prima la mimica, poi la parola: questo non lo insegna più nessuno». La sua arte di attore insegue anzitutto l’ideale del film muto; riconosceva infatti C. Chaplin come maestro intramontabile. Così Manfredi recita nella prima delle sue tre prove di regista, “L’avventura di un soldato” (1962), dall’omonimo racconto di Italo Calvino, in cui un fante vive solo attraverso i gesti e il progressivo contatto fisico la sua fugace avventura con una vedova sul vagone di un treno. Ricorda Manfredi: «Mi diedero da leggere i racconti di Calvino, mi soffermai su L’avventura di un soldato, dove capii che c’era un’idea con cui potevo confrontarmi: inconsciamente la molla dell’interesse mi scattò dentro anche perché io stesso avevo vissuto una esperienza in certo modo simile quand’ero giovane, durante una gita a Ostia. Mi decisi allora per questo racconto; e dato che i miei padreterni erano stati Chaplin e Buster Keaton, mi dissi che se volevo dimostrare a me stesso di aver capito il cinema, dovevo rifarmi al cinema muto, alla nascita del cinema. E la misura dell’episodio mi pare giusta, per un racconto di pure immagini».
La potenza epifanica dell’immagine muta richiama, per assonanza evocativa, lo stilema caratteristico di Manfredi: il doppio sguardo. È una cifra tipica del suo stile, quella di guardare e poi riguardare, una o più volte. Secondo me ha un valore ontologico. Anzi: segna forse il passaggio dal piano ontico (le cose chiuse nel loro mistero) al piano ontologico (la scintilla dell’essere che si svela all’uomo in cerca di conoscenza). Guardare e poi riguardare è la sua reazione dinanzi al mistero dell’esistente: per vedere e capire meglio; perché la prima volta gli è sfuggito qualcosa che pure lo spingeva a riguardare; perché magari non riesce a capacitarsi di qualcosa. Guarda e poi riguarda perché non può distogliere lo sguardo e si sente toccato dalle cose: ciò che appartiene all’uomo non può lasciarlo indifferente. Guarda e poi riguarda perché ciò che ha di fronte lo riguarda. Come dice nelle vesti di Ciceruacchio (“In nome del popolo sovrano”): «io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo, e l’omo se impiccia». C’è una volontà di conoscere e di approfondire, al di là degli schemi acquisiti e dei luoghi comuni, per cui si sente pro-vocato dalla verità nascosta nelle cose. L’arte obbedisce a un impulso inesauribile di ricerca e scavo nell’infinito dell’universo umano: occorre recitare sul set per risultare autentici nella vita, inducendo gli spettatori ad essere altrettanto. Questa tensione gnoseologica, che infine si rivela nel suo carattere precipuamente etico, lo spingeva verso il cinema di impegno sociale e i film “difficili”, oltreché splendidi, come ad esempio “Girolimoni, il mostro di Roma” (1972), di Damiani, o “Pane e cioccolata” (1973), di Brusati, o “Brutti, sporchi e cattivi” (1976), di Scola, o “Café Express”, di Loy, dove Manfredi spesso si trasfigura con impressionante realismo pur di giungere al cuore scomodo delle apparenze e delle convenzioni. Ebbe infatti modo di affermare: «Io ho sempre scelto film difficili. Se non sono difficili, non mi stimolano».
Manfredi non è mai stato un “buonista”, e questo gli ha consentito di avere la credibilità per interpretare i tipi umani e sociali più disparati, anche diametralmente opposti: vincenti e perdenti, cattivi e buoni, violenti e timidi. La dimensione etica a cui tende riesce efficace dal momento in cui egli non si tira fuori dalla rappresentazione ironico-satirica del mondo, come farebbe un moralista, ma sente di farne parte perché conosce e comprende l’ambivalenza del cuore umano e l’enigmatica stranezza delle cose. Tutti potremmo essere vittime e tutti carnefici, poiché l’angelo e il demone albergano nel cuore di ogni individuo, e l’attore – se vuol essere grande – deve riuscire a sprigionare questa complessità in forme di volta in volta autentiche senza cedere allo stereotipo o, peggio, alla caricatura. In tal senso Manfredi è attore non dico maggiore, ma forse più convincente del pur bravissimo Sordi, proprio per la capacità di interpretare le molteplici verità dell’Uomo tout court prescindendo dalle tipizzazioni nazionali e regionali come l’italiano e il romano degli stereotipi acquisiti. E lo si è visto – per intensità e profondità – fino alla sua ultima, commovente prova, nel personaggio testamentario di Galapago-Garcia Lorca per “La fine di un mistero” (2003) di Miguel Hermoso, che gli valse un meritatissimo Premio alla carriera.
Marco Onofrio
Tre pensieri sulla Donna (da “Nuvole strane”, 2018)
Si riproduce sempre e in ogni luogo. L’eterno femminino, che manifesta la grazia del mondo. La bellezza irresistibile delle donne. Il potere della loro seduzione. La malia del loro sorriso enigmatico, che guarisce il male e blocca la mano alla morte. La luce vellutata e calda che splende nei loro occhi, sorgenti di un’acqua che rinfresca la gioia di essere e di amare. L’anfora generosa del loro corpo: spandono la vita tutta attorno (quando arriva una donna, un luogo si riempie di anima). La tenerezza calda del loro seno, porto di dolcissimi sospiri. Il profumo delizioso del loro collo. Il miele speziato delle loro bocche. La loro pelle liscia, lucida, ambrata, tutta da baciare e da abbracciare. Le ginocchia tonde, le forme che ricordano la terra. Il mistero sacro delle cosce che – da sole – bastano a dimostrare l’esistenza di Dio. Donne: intuitive, curiose, sensibili; languide, sensuali, appassionate; morbide, liquide, burrose. Donne, semplicemente donne, meravigliose donne!
Se ami la vita, non puoi non amare le donne. Solo loro che ci mettono (e ci rimettono) al mondo. Le donne sono sacre. Chi le odia e le maltratta, firma con ciò stesso la propria condanna: è amico della morte, e la vita prima o poi lo punirà.
Il mistero sacro di ogni donna. Tra il seno, le spalle, il cuore. Bere la vita, gustando il sapore del mondo, dalla sorgente della sua bocca dolcissima. Accarezzarle il viso. Accendere la luce dei suoi occhi. Palpare i fianchi dell’anfora divina. Abbracciare la terra intera abbracciando lei. Passione struggente, languida sensualità. Ogni donna è un universo a parte: ha un fascino diverso da scoprire. Ciascuna, unica. Offerta ambulante di delizie. Scrigno segreto di gioie. Incrocio labirintico di possibilità. Fermarsi a una, d’accordo. Ma come rinunciare al dono delle altre? Amarle tutte: perché tutte esistono per essere amate. E l’uomo per amarle.
Marco Onofrio
“Le segrete del Parnaso” recensito da Palmira De Angelis su «Voce Romana»

Nel suo ultimo libro “Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia” (Terra d’ulivi edizioni, 2020), Marco Onofrio descrive i meccanismi di selezione nell’industria culturale italiana. Ci spiega come gli editori scelgono i manoscritti per la pubblicazione, come il testo stampato arriva nelle librerie e come gli scrittori riescono a farsi pubblicità sui quotidiani nazionali e in Tv, rilasciando interviste e aggiudicandosi premi. Parallelamente, attingendo alla propria esperienza, apre una finestra sul mondo universitario, il luogo per eccellenza dove la ricerca ha lo scopo di far avanzare il sapere e permettere che venga condiviso. Non si dovrà però credere che il testo sia un manuale informativo. Tutt’altro: si tratta a tutti gli effetti di un libro politico, nel senso originario e proprio del termine, perché rappresenta ambiti che appartengono alla dimensione più alta della vita civile indicandone impietosamente i vizi.
L’autore si augura di raggiungere un pubblico di lettori ampio, che includa anche quella “gente comune” generalmente disinformata e spesso indifferente alle modalità di produzione e diffusione della cultura per la convinzione che tali argomenti interessino solo gli addetti ai lavori. C’è una motivazione etica che lo spinge: vuole mettere nero su bianco quanto avviene nella realtà italiana perché, ci ricorda, la cultura è linfa vitale nell’esistenza di ogni individuo per come viene fruita, assorbita e ricreata in ogni atteggiamento e in ogni decisione; quindi, ciò che risulta disfunzionale nella fase di produzione e diffusione, nell’editoria come nell’accademia, non può che danneggiare ognuno di noi.
Scrittore prolifico egli stesso, consulente editoriale, recensore, ideatore di eventi culturali, Onofrio ha la possibilità di osservare quanto descrive da un punto di vista ravvicinato, tanto da poter affermare senza velature che molti e gravi sono i problemi e i danni. Manca la meritocrazia, il coraggio, la lungimiranza, proprio in un settore che non dovrebbe volere altro per alimentarsi. Al loro posto abbiamo cooptazione e baronaggio. Da tanto tempo ormai siamo in una condizione di stagnazione, se non di propria regressione, perché non si promuove chi più vale, avendo come obiettivo il rinnovamento e l’avanzamento culturale e scientifico. Si preferisce, al contrario, ignorare il talento e la preparazione, per accogliere i soliti figli e figli di amici e amici di potenti che restituiranno il favore. E ciò su larga, larghissima scala.
Storia vecchia? Annosa questione? Assolutamente sì, se è vero che gli scrittori che hanno mantenuto l’integrità morale, i ricercatori che faticano a farsi riconoscere, gli insegnanti più impegnati intellettualmente ne parlano, eccome, ma ormai quasi sempre sottovoce, con la rassegnazione che arriva dopo anni di battaglie perdute, oppure con la rabbia degli esclusi. Da tempo si è smesso di denunciare e di informare. E di sperare. Sono lontani quegli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, gli ultimi in cui ancora si voleva credere alla possibilità di un cambiamento e di una rigenerazione. Nei decenni successivi, fino ai nostri giorni, i metodi di cooptazione si sono progressivamente affinati, rafforzandosi e invadendo ogni ramificazione dell’industria culturale.
Cosa c’è dunque di nuovo?
C’è anzitutto che la situazione si è incancrenita: ormai le storture sono diventate sistema, non c’è nemmeno più camuffamento, forse nemmeno più consapevolezza del danno che si provoca. La rassegnazione e lo scoraggiamento di chi viene tenuto fuori dalle “segrete del Parnaso” è tale che più spesso si rinuncia, con una perdita per il paese nemmeno immaginabile, perché il genio e l’unicità non si possono immaginare.
Avviene, inoltre, che il ruolo stesso dello scrittore sia ormai cambiato drasticamente. Non è più maestro del pensiero, ma giullare dei media e dei social, tanto che, scrive Onofrio, «la letteratura ormai si fonda più sul presenzialismo, le pubbliche relazioni e l’uso spregiudicato delle virtù sociali, che non su ciò che davvero si scrive, pagine alla mano». Lungi dal dissociarsi da tale asservimento, molti sono caduti nella trappola: «Amano più se stessi e il proprio successo, appunto, che la propria arte». Del resto anche i lettori li stimano solo se li vedono in Tv, magari invitati ai talk show per parlare di tutto fuorché del loro lavoro.
Ciò è la prima conseguenza del fatto che non ci viene offerto alla lettura il meglio che potremmo avere, ma per lo più opere mediocri e non originali, «la fotocopia di una fotocopia, che a furia d’esser riprodotta si sbiadisce sempre più». Se il valore del prodotto culturale è sempre più basso – la diffusa sciatteria nell’uso della lingua accompagna la superficialità della visione – anche il gusto del pubblico si degrada e non riconosce più il letterario. Ci si diletta del libro come fenomeno effimero, accessorio patinato e semplice passatempo.
In questo panorama desolante sta a noi fare qualcosa di nuovo: abbandonare l’acquiescenza e la rassegnazione opponendoci apertamente a questo sistema. Da qui l’importanza di informare quanti non sanno. Onofrio ci prova nella speranza che il suo j’accuse renda «edotti anche e soprattutto gli autori, esordienti e non, che ingenuamente credono ancora nelle favole, quelle partorite dalla loro immaginazione e quelle propinate dallo stesso sistema corrotto». Non perché si scoraggino, ma perché affrontino con più strumenti la loro personale battaglia. Nel contempo, ci dice, l’obiettivo potrà e dovrà essere più ampio, e sarà quello di far comprendere come la cultura, la sua produzione e il suo uso, siano aspetti essenziali nella vita del paese perché toccano «ambiti da cui sono coinvolti i problemi della libertà, della democrazia, della vita civile, della storia».
Palmira De Angelis
“Le segrete del Parnaso”, letto da Patrizia Pallotta
Armato di un coraggio non comune, che peraltro è da sempre tra le sue prerogative, Marco Onofrio ha da poco pubblicato il pamphlet “Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia” (Terra d’ulivi Edizioni, 2020), dove disquisisce sulle problematiche occulte del mondo letterario, affrontandone i relativi, scomodi argomenti.
L’analisi dettagliata che lo scrittore conduce è una “sfida aperta” che ha sapore di “denuncia”. Si tratta di verità non conciliabili per molti e quasi sempre taciute o vagamente sottintese, malgrado la consapevolezza della loro esistenza. Il riferimento al monte Parnaso, scelto non a caso per il titolo, richiama il concetto di “ierogamia”, atto a significare le nozze fra una divinità e una persona umana. Secondo la mitologia greca il Parnaso era dedicato al dio Apollo, protettore delle arti e sede delle nove muse. Il testo di Onofrio implica a mio dire questa metafora di alto discernimento, che reca quasi sottotraccia qualche nostalgia per la pienezza di un mito ormai impossibile da riportare ai giorni nostri. La parola ha perso la sua dimensione ontologica, cioè «lo statuto “alto” di credibilità e sensibilità che la rappresentava su un piano di consistenza e riconoscibilità dei valori, dei contenuti, degli stili». Ora il mondo letterario tenta di funzionare come una specie di “star system”. Gli autori, cioè, invece di lavorare seriamente, cercano solo di farsi notare, auto-promuovendosi e sgomitando per inseguire le chimere del “successo”.
Qual è il fulcro del problema, esposto con lucidità intellettuale ed eleganza stilistica dall’autore? I giochi “truccati”, la corruzione, la scarsa trasparenza che si annidano dietro le quinte (appunto le “segrete”) delle istituzioni letterarie, dove tutto sembra regolare ma non è. Onofrio parla in realtà di meritocrazia e, più a largo raggio, di civiltà democratica. Ma anche di diseducazione del pubblico, ormai obnubilato dalle mode più effimere e come incapace di autentico giudizio critico. Annotazioni illuminanti di stampo storico, sociologico e politico vengono via via evocate a supporto del discorso fondamentale che impegna Onofrio, e non solo in questo libro, in un “corpo a corpo” direi psicanalitico con il Potere, da cui si sente escluso – e di ciò sembra lamentarsi – ma al quale non potrebbe comunque appartenere, incapace com’è di accettarne gli usi, gli abusi e i soprusi, ovvero i compromessi e i bassi traffici continui. Da qui, l’apparente contraddizione.
Però forse Onofrio non disdegna il potere in se stesso, bensì quello deviato dal buon governo, cioè dalla sua destinazione comunitaria. E infatti oggi, secondo lui, l’Italia è in mano alle massonerie che l’hanno trasformata in oligarchia, cioè in dittatura strisciante sotto vesti democratiche, dove tutto in realtà viene deciso a tavolino e a prescindere dal merito dei candidati. I premi letterari, per esempio, sui quali Onofrio scrive: «Ho visto di persona come si svolgono i lavori all’interno delle giurie. O tutto è deciso “a priori”; o, se non è deciso, vi prevalgono logiche indipendenti da una analisi seria e profonda dei testi a concorso. I giurati spesso neppure li sfogliano. Sono altri gli oggetti di discussione. E quindi ci si chiede quale autore ci conviene premiare?» Le logiche di convenienza presiedono ai meccanismi di “cooptazione” che impongono i “raccomandati” e bloccano chi invece – per incompatibilità sociale o estraneità politica – “deve” essere ostacolato poiché pericoloso concorrente. Onofrio sente e dimostra di appartenere a questa seconda categoria (quella degli esclusi, degli invisibili), nonostante – o proprio per? – l’enorme lavoro svolto e maturato, senza dipendere da nessuno, in quasi 30 anni di carriera letteraria. Indipendenza e libertà, evidentemente, sono peccati originali che in Italia si pagano caro.
La sua denuncia, lanciata anche a nome della stragrande maggioranza degli autori (i privilegiati sono pochi, giacché la casta è per definizione elitaria), merita di essere ascoltata e discussa oltre i “muri di gomma” di un sistema che proprio nel silenzio omertoso confida per sopravvivere e riprodursi.
Patrizia Pallotta
“Le segrete del Parnaso”: l’intervista su Metamagazine

Marco Onofrio ha sempre dimostrato di essere uno scrittore coraggioso, diretto, senza peli sulla lingua. Ora ne dà l’ennesima, dirompente prova con un pamphlet di un centinaio di pagine dedicato allo svelamento dei meccanismi nascosti dietro le quinte e le facciate della cultura nostrana. Il volume, tascabile e di gradevole aspetto, si intitola emblematicamente “Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia” (Terra d’ulivi Edizioni, settembre 2020), e procede ad una analisi meticolosa delle ragioni storiche e sociali che presiedono alla condizione attuale degli scrittori e degli intellettuali, da quelli sommersi a quelli affermati. Onofrio vuota il sacco e dice veramente tutto sulle storture che impediscono la meritocrazia, in letteratura come in altri settori del Paese. E lo fa con sincerità assoluta, unendo al “vulcanismo” solito della sua verve polemica una lucidità di sguardo così limpida e affilata da ricordare gli illuministi francesi del ‘700 o, in tempi a noi più vicini, le pagine “corsare” di Pasolini. Lo abbiamo incontrato a Marino, dove vive dal 2006, per rivolgergli qualche domanda sul nuovo lavoro, il trentacinquesimo libro della sua prolifica carriera letteraria.
Onofrio, ci risiamo. Dopo i versi tambureggianti di “Emporium”, il suo poemetto civile recentemente tradotto e pubblicato in Spagna, e dopo le fiammeggianti denunce contenute nei racconti visionari di “Energie”, ora questo pamphlet che ha la forza esplosiva di un ordigno atomico. Quando si esaurirà la carica della sua indignazione?
Quando vedrò un mondo più giusto intorno a me, intorno a noi: cioè, mai. La mia sete di giustizia e verità è irriducibile, finirà solo col mio ultimo respiro. Più vado avanti negli anni e meno riesco a rassegnarmi.
Che cos’è che non funziona nel mondo letterario italiano?
Mi chieda, piuttosto, che cosa funziona. I giochi sono truccati, le faccende “ufficiali” decise a tavolino: chi ambisce a livelli importanti deve maneggiare delle garanzie di tipo politico o familiare, pena l’ostracismo. Il talento e il lavoro non bastano, se non a raggiungere l’aurea mediocrità di un’eco limitata; se si punta alle vette, cui legittimamente dovrebbero portare i meriti acquisiti con le “sudate carte”, ci si imbatte negli infiniti ostacoli frapposti dal Potere per bloccare l’ascesa ai “non autorizzati”. Oltre un certo punto non si va, ci sono i muri di gomma. E chi “sgarra” viene punito. La punizione è simbolica solo perché la letteratura conta infinitamente meno della politica o del malaffare, dove circolano interessi economici enormi, ma il principio è lo stesso: le persone scomode vengono “eliminate”.
Dinamiche e terminologie di stampo mafioso…
E che cos’è, la massoneria, se non una forma di mafia? La gestione occulta di ciò che invece dovrebbe essere trasparente e democratico determina la selezione dei candidati in liste “dorate” (privilegiati, raccomandati, predestinati) e “nere” (coloro che viceversa sono da escludere, soprattutto se meritevoli). A chi si ostina a rompere le uova nel paniere si crea il vuoto attorno. Isolamento, Esclusione. Maldicenze. La speranza è che il pericoloso “outsider”, stanco di non ottenere i risultati che merita, si scoraggi e a un certo punto molli la presa. Ma con me hanno fatto male i conti: io sono fatto in modo tale che più ostacoli trovo, più mi diverto a insistere.
Le maldicenze sono tipiche di ogni ambiente professionale, non crede?
Certo! Un conto però quelle messe in giro dai colleghi gelosi, un altro quelle decretate come sentenze punitive dai vertici di chi governa nelle “segrete” del sistema. Se non possono colpirti sul piano del merito, cercano di farlo sul piano umano: per esempio, diffondendo la voce che hai un “brutto carattere”. Nella maggior parte dei casi significa che sei una persona integra e non malleabile, cioè poco disposta a recedere dai suoi principi etici. E questo per il Potere è un difetto intollerabile.
Perché, secondo lei, la cultura italiana oggi “funziona” così?
Perché è lo specchio di un Paese che “funziona” tutto così. Non conta tanto il curriculum o il lavoro svolto, quanto bensì i contatti, le amicizie, le entrature, e insomma i sistemi di convenienze che ti vengono cuciti addosso dalla famiglia o dalla politica. Se non sei caldeggiato da una struttura di potere in grado di garantire su chi sei e ciò che ha fatto o potrai fare, non avrai mai l’autorevolezza di ottenere gli incarichi ufficiali che, per quanto dimostrato, già meriteresti. Ecco la cosiddetta “fuga dei cervelli”: le tante, troppe eccellenze soffocate dal sistema-Italia, che trovano in altri Paesi una degna o più adeguata corrispondenza al merito. La cultura italiana è, da ultimo, un meccanismo non di promozione sociale ed evoluzione civile, ma di riproduzione dei rapporti di potere, funzionale al consenso e al privilegio. La chiusura oligarchica riflette quella di un Paese dove l’ascensore sociale è fermo da almeno vent’anni, fossilizzato sullo “status quo” e governato per vie occulte dalle massonerie.
Quindi, Onofrio, lei parla di un problema trasversale a tutti gli ambiti professionali?
Assolutamente sì, il sistema riproduce ovunque le sue metastasi. Io ho parlato per il mondo che mi compete come scrittore professionista, ma praticamente le stesse denunce potrebbero – e, anzi, dovrebbero – farle gli esponenti di ogni settore (università, giornalismo, avvocatura, medicina, spettacolo, ecc.). Anche il calcio, che pure per natura dovrebbe essere meritocratico, soffre delle medesime storture. Si legga per esempio il recente sfogo di Claudio Gentile, indimenticato campione del mondo 1982, la cui brillante carriera da allenatore è stata “bloccata” solo perché incompatibile con la mediocrità e l’ipocrisia indispensabili a fare carriera e ad essere cooptati.
E lei non prevede conseguenze personali?
No, poiché sono già oggetto di ostracismo (il sistema ha rilevato da anni le mie “intemperanze”, decretando pollice verso) e non ho niente da perdere, né incarichi ufficiali né posizioni di potere; proprio per questo sono nelle condizioni di dire che il re è nudo.
Quali reazioni prevede al suo pamphlet?
Mi piacerebbe che spingesse al coraggio di vuotare il sacco anche altri professionisti; sarebbe interessante, poi, confrontare le rispettive esperienze per dare vita a un movimento di liberazione democratica fondato sulla rivendicazione del merito in ogni ambito della società italiana. Quanto al mondo letterario, si potrebbero ipotizzare reazioni di scandalo e biasimo, se è vero che – come scrive Cicerone – “l’ossequio partorisce amici, la verità odio”. In realtà mi aspetto esiti di indifferenza e silenzio assoluto, dall’alto e dal basso. Quelle dall’alto le capisco, quelle dal basso no. Ho dato voce al malcontento di centinaia di colleghi che ogni giorno inciampano sugli stessi ostacoli da me descritti, ma ora (ne sono quasi certo) si guarderanno bene dal condividere ciò che ho denunciato per me e per loro, o dal dimostrarsi partecipi e solidali, forse per il terrore di compromettersi agli occhi del Potere o per il timore che il mio libro possa avere successo. L’ipocrisia regna sovrana nel mondo letterario, e non solo. Sta di fatto che una voce isolata, per quanto dirompente, ha un impatto risibile e pressoché nullo; solo dal confronto degli sguardi e dall’unione delle esperienze può scaturire una forza autentica di cambiamento.
F. G.