





Ciao Marco, “È caduto il cielo” secondo me è tra le cose migliori che hai scritto. Splendide l’invenzione e la scenografia: semplici e magiche. È un testo fiabesco e al tempo stesso caustico fino a scarnificare, ma senza far soffrire: piuttosto fa sorridere e pensare, anche duramente, perché è un sogno che mette in scena la verità cruda dell’esistenza, raccontando i dilemmi del pensiero (la nostra evoluzione) senza emettere sentenze definitive, nell’impotenza di non essere di più e oltre ciò che siamo. Una prova di maturità da cui a mio avviso può partire un nuovo corso della tua già enorme produzione. Doni questa tua meraviglia con leggerezza apparente e gusto sincero del creare, che provoca poi la naturalezza dei nostri sorrisi. Straordinario questo dio piagnucoloso che resta appeso a un codice di comportamento scritto non si sa da chi, e poi la torcia che fa le luci stroboscopiche per la musica disco, e le illusioni incrociate, e la poesia – bellissima – recitata dall’angelo Grebel alla fine del terzo atto, e il concetto affascinante del “finizio”, e il corpo a corpo col mistero, e… potrei continuare a lungo. Hai messo in quest’opera tante parti diverse di te, forse senza rendertene conto, e le hai armonizzate in una misura perfetta, poiché nulla è velleitario o forzato, tutto viene da un atto creativo naturale… tutto è sempre di una schiettezza viva che quasi schiaffeggia, ed è così profondo in senso metaforico, surreale, disperatamente e anche tristemente umano! E malgrado questo non smette mai di essere un gioioso e riuscito testo drammaturgico, col suo meccanismo poetico, geniale e fin dei conti benefico poiché catartico. C’è la tua consueta voglia feroce di dissacrare e andare oltre il già detto e già vissuto (da uomini e artisti), il che non ti impedisce di assimilare la grande lezione del teatro classico, greco e latino. A parte l’antico, o forse proprio per l’antico rivissuto in chiave contemporanea, il grande Luigi Pirandello che citi nel colophon di apertura guarderebbe la rappresentazione con curiosità, divertimento, piacere e sofferenza… in poche parole, lo capirebbe in ogni dettaglio e, sono convinta, lo apprezzerebbe assai. Lui non può più farti i complimenti, quindi più modestamente te li faccio io: di questi tempi ci si deve accontentare…
Laura Sagliocco
Marco Onofrio non ha requie, è un vulcano in costante eruzione, le sue inquietudini interiori accumulano esperienze, letture, immersioni totali nei germogli di ciò che accade giorno dopo giorno e, una volta amalgamati nella sua dimensione e nel suo stile, nella sua sensibilità e nel suo ideale di poesia, di narrativa, di saggistica e di teatro, egli riesce a scrivere opere io direi incandescenti, perché c’è sempre nelle pagine un fuoco che cerca ragioni etiche ed estetiche, storiche e poetiche, e non per sperimentare soltanto ma per coagulare la sua necessità espressiva che punta a dissodare le incrostazioni del risaputo e innestarvi la forza del suo ideale. È quello che fa, disinvoltamente con “È caduto il cielo” opera di teatro innovativa, per dirla con Giorgio Taffon, “metateatro, senso allegorico-simbolico, tragedia metafisica e cosmologica, assieme a umoristici tratti farseschi, personaggi immaginari (a partire da un Dio perdente) e personaggi molto umani”. Taffon fotografa la pienezza del libro e lo fa da maestro che interpreta con gli strumenti del sapere e dell’esperienza quella che è una novità nel teatro, non solo italiano. E sappiamo tutti che Taffon non scende mai a patti con opere che non siano di valore e non abbiano un consistenza individuabile letteraria e artistica.
È difficile sintetizzare “È caduto il cielo” (per rappresentarlo occorrono almeno quattro puntate), ma conta poco, ciò che conta è la maniera in cui il nostro Autore sa maneggiare gli strumenti del palcoscenico ponendo in essere il capovolgimento della realtà, lo spostamento dell’asse logico, la simmetria dei dialoghi. Marco Onofrio sconvolge e dissipa il senso, lo ricostruisce e lo rinnova e poi lo rende polpa viva di ragioni che stanno dietro l’apparenza, costituendo così figurazioni che, sovrapposte, si coprono e si scoprono e danno la verità di qualcosa che fugge in fretta e si dilegua per poi ritornare a vivere in altra veste e con altre vicissitudini.
Fare dei nomi di precedenti autori a cui idealmente Onofrio si possa ricollegare? Non serve e sarebbe un arbitrio, e per una ragione semplice: Onofrio ruba alla vita, ai paradossi che s’intrecciato e si bisticciano tra di loro e non trovano requie se non quando diventano parola, scena di vita, possibilità di un nuovo significante. Insomma, anche scrivendo teatro Marco Onofrio non tradisce la sua natura di prestigiatore che però non vende illusioni; di prestigiatore che sa dare alle immagini e ai pensieri un’adeguata sostanza di poesia, che è sempre l’anima viva e pulsante delle sue pagine più belle.
Dante Maffìa
Interessante e ricco di sfaccettature, il recente libro di racconti (Salvare Anastasia e altri racconti fra teatro e vita, EdiLet, 2021, pp. 180, Euro 13) che Giorgio Taffon dedica al settore primario dei suoi studi e della sua professione di docente e critico. Belli, anche e soprattutto perché incardinati al modulo estetico dell’arabesco, e per spiegarlo utilizzo un frammento delle riflessioni “Fuori sacco” che concludono il suo recente saggio La pagina, lo sguardo, l’azione. Esperienze drammaturgiche italiane del ‘900 (Bulzoni, 2019), laddove scrive: «pensiamo ad un accordo musicale, dove nessuna nota di per sé suona da sola, ma tutte ri-suonano assieme: bisogna insomma praticare l’arte della ri-sonanza, mettere in relazione anche gli opposti». È così che procede la scrittura di questi 14 racconti: tenendo assieme e facendo consuonare diversi livelli in simultanea, e anzitutto quello narrativo e quello teatrale.
Si può anche fare teatro scrivendo racconti ineccepibili? Non è facile, ma Taffon ci riesce disseminando la frequenza drammaturgica entro quella diegetica, cioè mascherando il teatro nel racconto. Così è, per esempio, nel racconto eponimo della raccolta: l’io narrante è un attore infiltrato con incarico di investigatore per conto della questura; Anastasia, una piacente colf ucraina, esce a un certo punto «da una sorta di botola verdastra mimetizzata tra le piante» che è un po’ il confine che unisce/separa teatro e vita, civiltà e natura, immaginazione e realtà; e ancora lo straniamento, guardare le cose «fuori orario» a guisa di «ospite inatteso, e magari indesiderato» come fa l’attore in incognita; e la «maschera del volto» tipica di «certi fools shakespeariani» con cui lo stesso parla in un tratto all’indagato, il maestro di musica Gianpaolo Sagittario. Oppure nel delizioso racconto “Rossella e Umberto”: Umberto contatta la sua ex collega ed ex amante Rossella, attrice ormai in pensione, e – cercando di coinvolgerla in un progetto teatrale con attori alle prime armi – le rinfaccia indirettamente, ma non del tutto involontariamente, certe cose del loro passato in comune, rievocato in una sorta di redde rationem con confessioni “postume” dove, oltre alla brillante, giocosa leggerezza goldoniana che spira tra le righe, si apprezza l’abilità di svolgere in una stessa trama il discorso professionale e quello sentimentale, sia nell’ottica del passato e sia del presente.
Salvare Anastasia è un libro che svela dall’interno che cosa c’è e cosa ribolle dietro le quinte e le rappresentazioni. Non solo gli attori ma anche i registi, gli scenografi, i costumisti: le varie professioni che vivono di teatro e nel teatro. E quindi le diverse fenomenologie attraverso cui si esplica questa suggestiva nebulosa estetica e umana. Alcuni esempi:
– la dimensione ludica dell’arte, l’«eterna dimensione infantile» che riverbera anche nel colophon pirandelliano (dal meraviglioso dramma incompiuto I giganti della montagna): «Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà meravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza»;
– un gioco dunque più serio di qualunque cosa che tale si dichiari: la finzione teatrale è più vera e viva del mondo reale, anche se l’apparenza farebbe credere il contrario. I personaggi sono più reali delle persone, tanto che possono dare o ridar loro vita, eternandole anche quando non sono più o stanno per morire (come il marito malato della signora ne “La strana avventura estiva di Salvatore Losurdo”). Diceva non a caso Eduardo De Filippo, ed è un altro dei colophon del libro: «teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male». Infatti gli attori cercano di «creare attraverso lo spettacolo una vita “altra”, addirittura superiore alla vita-vita». Questo è così vero che il già citato Losurdo, attore protagonista dell’omonimo racconto, è costretto a fingere e recitare «la sua più grande performance» dinanzi al tenente Spadaccione dei Carabinieri, cioè a improvvisare il falso, ancorché verosimile, per evitare guai con la giustizia, pur essendo innocente; e quindi la finzione diventa vera, mentre la vita reale è falsa, confusa, distorta. In questo modo procede l’arte del teatro, che in tal caso – come il racconto per Sherazade – salva la vita;
– i problemi di sempre dell’ambiente teatrale: l’eterno conflitto tra attori e registi («siete voi registi del cazzo a comandare!», sbotta Rita in “Si tratta d’amore…”); la crisi economica, la mancanza endemica di contributi statali e privati, e quindi il «panorama piuttosto modesto del teatro italiano» tra sale fatiscenti e claustrofobiche, sipari polverosi, attori noiosi e saccenti; e ancora: le rivalità artistiche, spesso sottaciute, represse, negate; l’invidia, la mala pianta che alligna universale, come quella di Marco che, nello spassoso racconto “Le beffe di un farmaco speciale”, versa – dietro le quinte – dosi sempre crescenti di Guttalax in gocce nel bicchiere del “primo attore” Anselmo, ma finisce paradossalmente per contribuire al suo trionfo in scena perché gli spasmi intestinali accentuano l’efficacia espressiva della performance!
Insomma: cose di teatro, ma non solo per gli “addetti ai lavori”. Chi non riconoscerebbe, ad esempio, l’archetipo dell’attrice che, anche se non bella nel senso classico, è «molto sensuale, molto femminile, davvero attraente» anche grazie alle doti umane del suo talento, al fascino empatico della sua arte?
E tuttavia la preziosità di questi racconti è soprattutto nella capacità di aprire varchi dentro e oltre le superfici del «più o meno risaputo», verso una esplorazione delle realtà sottili e invisibili che la ricerca estetica insegue, anche a livello teorico. La vita e l’arte, contrapposte e mescolate. Da un lato l’esistenza, feroce come «pura e cruda battaglia per la sopravvivenza», mentre il tempo demolitore «cambia le persone, scompagina gli incastri dei rapporti e muta le attrazioni» ma talvolta riporta, lungo le sue orbite immense, cose che – come nella famosa canzone di Antonello Venditti – fanno giri immensi e poi ritornano; e quindi la vita reale delle persone con i suoi contrasti, la «vita-vita» con i «molteplici e labirintici sentieri» che la squadernano nel mondo. Dall’altro la dimensione spirituale e il lavoro su se stessi che gli artisti esplorano e perseguono, anche a nome di chi non lo è, per muovere le risorse «più nascoste, più incapsulate nei centri energetici», e quindi consentire alla società di evolversi.
Sono diversi i nomi storici che vengono evocati a supporto delle riflessioni (Shakespeare, Molière, Stanislavskij, Copeau, Grotowski, Barba, Artaud, Pirandello, Bob Wilson, ecc.), ma su tutti Taffon predilige un grande filosofo e teologo indoispanico: Raimon Panikkar. E anzitutto per la dimensione umanistica integrale di una pienezza consapevole e profonda che il teatro, con la sua «quadruplice dimensione» (parlante, ascoltatore, significato, vettore sonoro), determina durante e dopo il rito collettivo dello spettacolo, innescando la lucidità rivelatrice della coscienza. Cosicché sia l’attore e sia lo spettatore si sentono «un tutt’uno» con la realtà, al contempo «distinti ma non separati». Che è un modo per rimettere in circolo l’energia delle origini e accedere alle sorgenti dell’essere, lungo le strade ancestrali interrotte dai sedimenti grigi delle abitudini.
Occorre tendere all’assoluto, pur consapevoli che è irraggiungibile. Operare e comportarsi come se la vita fosse eterna. L’assoluto che ci compete è: agire sempre al massimo delle possibilità, essere sempre autentici e “centrati”. Questo è possibile se però non si esorcizza “a priori” la complessità oceanica della psiche e dei suoi abissi, come fanno appunto i personaggi di questi racconti. Si osservi con attenzione l’immagine di copertina perché è emblematica: il libro aperto, lasciato ai margini del bosco, con sopra una bolla trasparente da cui si vedono alcune farfalle, probabilmente imprigionate nella bolla, mentre una è sicuramente già fuori, libera, posata sulla pagina del libro. E le ali delle farfalle sono azzurre sopra e marroni sotto, come a dire che il volo è un gioco delicato e pericoloso, dove occorre mettere in equilibrio il cielo e la terra, lo spirito e la materia, l’alto e il basso. Taffon fa notare anche in quarta di copertina che psyché in greco «significa anima, respiro e farfalla allo stesso tempo». Difatti la mente dei personaggi “sfarfalla” spesso «alla ricerca di una luce, di un lume che sia punto di orientamento». Il groviglio dell’anima è un rimescolio di sensazioni e stati d’animo talvolta perturbanti, «come una matassa di serpenti». Ci si può sentire persi in un «labirintico gioco mentale, in un frullatore di spinte emozionali» che confondono, fino agli attacchi di panico di Alfonso (in “Alfonso sta male”). Il teatro si propone, allora, come aiuto psicologico, se non come rimedio terapeutico, perché fa riemergere materiali mnestici sepolti ed esperienze rimosse, liberando gli «stati più incistati delle emozioni». È uno spazio di auto approfondimento esistenziale che consente di allineare le dimensioni fisiche, psicologiche, spirituali, per l’intuizione delle dimensioni sottili e delle «fluorescenze» che la vita ordinaria tende ad oscurare.
Occorre però una rifondazione del teatro, di cui nel racconto “La resilienza di Paolo” si elabora anche un Manifesto, andando oltre l’ormai consunta formula dello spettacolo borghese inserito nel ciclo del “consumo”. Recuperare il «valore-teatro» al di là di quello ufficiale, «protetto e maggioritario». Più che di originalità c’è bisogno di originarietà, come appunto Taffon scrive all’inizio delle succitate riflessioni “Fuori sacco” dove definisce l’arte del teatro «primigenia, originaria e universale, concepita come pratica espressiva, la più completa, che include: parola, azione, gesto, musica, danza, coreografia, arti figurative. Ed è strettamente in rapporto biunivoco col mondo della vita, come specchio che, però, inverte, raddoppia, deforma, e così via».
Il «grande regno del teatro» è la dimensione magica della Poesia dove vigono regole profonde e dove riverberano «echi d’oltretomba», uno spazio sacro dove «ogni identità perde i suoi confini» e solo così, perdendosi, può ritrovare se stessa. Se la vita «reclama i suoi diritti» e la realtà «preme su tutti noi» (come abbiamo tutti capito molto bene in questa pandemia), mentre ci illudiamo che il pensiero coincida con le cose o possa anticiparle, o controllarle, o trattenerle, il teatro è una tra le arti più effimere, più soggette all’impermanenza del tempo che tutto ingoia dentro il vuoto: di uno spettacolo restano tracce evanescenti, «è destinato a dissolversi come i castelli di sabbia». Arte minoritaria, di nicchia, il teatro – scrive Taffon – non morirà mai «finché vita e mondo continueranno ad esistere» poiché custodisce una dimensione «altra e irrinunciabile» di cui c’è necessità antropologica, prima che culturale, «come arricchimento dell’immaginario collettivo, e dell’ideazione politico-poetica». Con le parole di Eugenio Barba, citate anch’esse in colophon: «Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurlo in parole, è: un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi».
Ma affinché il teatro torni e continui ad essere specchio dell’Uomo e laboratorio dell’immaginazione, dovrà essere lasciato nelle mani amorevoli degli attori appunto “di” teatro, non dei mercanti e dei mestieranti. I palcoscenici hanno più che mai bisogno di poesia, cioè di fluido creativo, di rivelazione, di suggestione, di ri-creazione e con-creazione della realtà. Ed è anche questa perduta ma sempre attuale dimensione che i racconti teatrali di Giorgio Taffon ci consentono, fra le altre cose, di visualizzare.
Marco Onofrio