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“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Luca Benassi

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Dopo il primo tentativo sistematico di Antonio Iacopetta del 2009 (Il cerchio aperto. Studio su Dante Maffìa, edizioni Feeria), che però aveva rinunciato a una bibliografia e una bibliografia critica ragionata, nel 2014 la critica cercò di fare il punto sull’opera di Dante Maffìa. L’editore Aracne pubblicò la raccolta di saggi – di fatto gli atti del convegno tenutosi a Roseto Capo Spulico – Ti presento Maffia a cura di Rocco Paternostro. Si trattava di 530 pagine di saggi sulla figura e l’opera di Maffia, anche questa però senza bibliografia e bibliografia critica. Sempre nel 2014, Marco Onofrio spostava il punto di vista e si incaricava di analizzare Maffìa in prosa con Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo (Città del Sole edizioni, senza apparato critico e bibliografico). Nello stesso anno uscì La casa dei falconi per puntoacapo editrice, a cura dello scrivente. Si trattava di una snella antologia di 249 pagine che rendeva ragione di un lungo periodo di scrittura in versi dall’esordio del 1974 al 2014, corredata da 36 pagine di bibliografia, antologia critica e un saggio introduttivo ricognitivo della poetica dello scrittore a firma del curatore.

Mancavano alcune vaste aree ancora da esplorare (il critico letterario, il saggista, l’autore teatrale, il critico d’arte), ma tutto sommato si pensò che la “questione Maffìa” fosse almeno per il momento sistemata. Non era affatto così. Mentre i critici si affannavano a scrivere, sistematizzare, fissare e chiudere, il poeta lavorava febbrile, inquieto, feroce, magmatico, sotterraneo e scoperto a un tempo. A maggio 2013 usciva un poema di 628 pagine, IO. Poema totale della dissolvenza (Edilazio editore). Nello stesso 2014 veniva dato alle stampe un altro poderoso volume di versi Il poeta e la farfalla (edizioni Lepisma) che apriva stagioni e percorsi totalmente inediti. I critici stavano correggendo le bozze dei loro saggi e Maffìa scappava loro fra le mani con migliaia di nuovi versi, con squarci e abissi nuovi e giganteschi come continenti.

A distanza di 7 anni da quel 2014, Marco Onofrio riprova a fare il punto rivolgendo il suo impegno critico sul versante della poesia con L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa (Città del Sole edizioni). Che Dante Maffìa sfugga alla critica e a chi in un modo o nell’altro cerca di dargli un vestito, una posizione e un ruolo, Marco Onofrio lo sa bene e lo evidenzia già nelle prime cinque pagine del volume dove racconta di un poeta che manda al diavolo, rifiuta onorificenze, sbatte la porta ma allo stesso tempo spalanca portoni al cuore, all’amore, all’amicizia, senza mai farsi chiudere o ingabbiare e, soprattutto, senza piegarsi a logiche di consorteria e cricche editoriali. Onofrio è consapevole che fare critica su un poeta vivente – e che scrive a getto quasi continuo – comporti l’impossibilità di mettere tasselli definitivi. Il punto però non è questo: è la poesia di Dante Maffìa a sfuggire, a essere rutilante, magmatica, a sfidare il pensiero, la conoscenza, l’amore, il divino. Anche di questo Marco Onofrio è consapevole; scrive sapendo di mettersi per mare con ottimi strumenti critici, ma sapendo di non sapere la vastità del pelago nel quale si muove. Del resto, per comprendere come Maffìa sfugga a una declinazione unica e definitiva, basta leggere le definizioni del poeta calabrese rinvenibili nella prima parte del libro, la Sintesi analitica che occupa le prime 74 pagine: Dante Maffìa è un grande poeta; il poeta lo è per lo sguardo avuto dalla natura; il fare del poeta è quello stesso del suo essere; Maffìa non bleffa; Maffìa non è uomo incline al compromesso né alle mezze misure; Maffìa non sa bussare né chiedere; Maffìa va dritto al bersaglio; Maffìa non edulcora; Maffìa chiede al sole di aprirsi e dettare; Maffìa ha chiaramente ricevuto o forse ereditato un dono spirituale che lo obbliga a innescare la cerimonia magica della scrittura; non c’è luogo o anfratto dove Maffìa non abbia avuto curiosità o ardire di incunearsi; Maffìa sa raccogliere un canto dal deserto di ogni terra desolata; Maffìa non lascia cadere il filo d’Arianna della comunicazione; Maffìa cerca l’origine; Maffia è il maggiore poeta vivente; Maffia parte sempre dalle cose comuni; Maffia sa bene come controllare il fuoco; il poeta è, citando Quasimodo, un umile “operaio di sogni” che lavora “nella marginalità dello spazio”.

Da questa lunga elencazione il lettore potrà cogliere due aspetti dell’analisi di Onofrio. Il primo è il seguente. Il critico romano inizia la sua analisi con l’affermazione Dante Maffìa è un grande poeta. Si tratta di una proposizione di principio che può essere colta più come un assioma che come una tesi, con la conseguenza che le pagine che seguono non hanno lo scopo di dimostrare l’affermazione, ma semplicemente illustrarne le conseguenze in termini strettamente poetici. Del resto basta aprire una qualsiasi delle pagine del saggio introduttivo per accorgersi – e questo è uno dei pregi del libro – come le analisi e le riflessioni di Onofrio siano sempre legate ai testi che, attraverso una costante citazione, portano a creare una rete di connessioni, indispensabile per entrare nell’opera di Maffìa. La citazione, tuttavia, non ha un intento dimostrativo, essa piuttosto si inserisce in maniera intertestuale nel tessuto del saggio al punto che in una lettura ad alta voce l’ascoltatore farebbe fatica a separare i versi del poeta dalla prosa del critico.

Il secondo aspetto che il lettore può trarre dall’elenco di definizioni del poeta Dante Maffìa è l’intenzionalità di Onofrio di puntare alla molteplicità e non a un’analisi che voglia definire e chiudere. L’obiettivo ampiamente raggiunto è quello di guidare il lettore innamorato nella ricerca del cuore del poeta Maffìa. L’officina del mondo non è quindi un punto di arrivo, ma semmai un luogo dal quale partire con la speranza di perdersi e ritrovarsi nei versi del poeta. È una mappa, un prontuario da tenere con sé che ricorda le migliori pagine di quella biografia-saggio-romanzo che è l’Evaristo Carriego di Jorge Luis Borges.

L’officina del mondo è distinta in tre parti. La prima è la Sintesi analitica della quale si è già accennato. Si tratta di un’analisi che va al nocciolo della visione del mondo e della scrittura di Dante Maffìa, cioè della sua altezza nel senso medievale della parola latina altus, usata per indicare la sommità del cielo quanto la profondità dell’abisso. Onofrio riesca a cogliere la capacità della poesia del nostro di trovare il sublime nel firmamento e nell’esile filo d’erba, nell’opera più alta e nella latrina piena di mosche; la capacità di entrare nelle cose e nell’amore senza infingimenti, con quell’onestà di fondo che Maffìa trova nel suo poeta novecentesco più amato: Umberto Saba. Il critico romano prende con punto irradiante per la sua analisi il poema totale del 2013; da lì esplora tutto Maffìa, trovando agganci soprattutto nella poesia posteriore al poema, Il poeta e la farfalla del 2014 e i 7 libri dedicati a Matera, fino a quel libro, feroce, terribile e titanico che è il suicidio lo stupro e altre notizie del 2020. Effettivamente, nei pochi mesi della fine del 2013 e l’inizio del 2014 che coincidono con la pubblicazione del poema totale e Il poeta e la farfalla, Maffìa rivela sé stesso e il suo mondo in maniera sorprendente, apre spiragli nuovi, feritoie di luce e di nuova poesia che introducono la grande stagione materana che impronta gli ultimi testi. Tale fecondità ricorda un altro anno forse ancora più strabiliante: il 2011 quando il poeta pubblicò 5 libri di capitale importanza: Poesie Torinesi, La strada sconnessa, Abitare la cecità, Poesie ritrovate, Sbarco clandestino.

Nella sua analisi Onofrio sceglie di non occuparsi della produzione in lingua calabrese composta dai libri A vite i tutte i jùrne (1987), U Ddìje poverìlle (1990), I rùspe cannarùte (1995), Papaciòmme (2000), che fu accolta con grandissimo favore dalla critica e che ebbe l’avallo illustre di uno studioso della poetica dialettale italiana quale fu Giacinto Spagnoletti. La scelta è da ricondursi alla volontà di non cadere nella trappola di chiudere Dante Maffìa nella dicotomia poeta dialettale (e quindi regionale) – poeta tout court. È una valutazione corretta, anche se finisce per non considerare come Dante Maffìa affidi al dialetto la riflessione filosofica più alta e dolente, profondamente esistenziale, mentre quando deve affrontare i temi dell’emigrazione e cantare la sua Calabria, a partire dall’eredità infranta del 1981, preferisca affidarsi all’italiano. Basterebbe questa annotazione per fugare qualsiasi dubbio circa la presunta “regionalità” di Maffìa, il quale peraltro non ha alcun timore nel rivendicare un’origine mediterranea, misterica e antichissima.

La seconda parte di Officina del mondo è costituita dalle Letture e approfondimenti nella quale Onofrio si dedica alle singole opere poetiche del poeta. Il critico rinuncia a entrare in ogni libro o a compiere una sintesi tematica (peraltro accennata a pagina 46 e dintorni della Sintesi analitica). Sceglie invece 20 libri che ritiene più significativi e compila le relative schede, poste in ordine cronologico di pubblicazione, per guidare il lettore nei libri del poeta. Si tratta di recensioni che hanno l’approfondimento di veri e propri saggi che rendono ulteriormente conto della capacità di analisi e di sintesi di Onofrio, che anche nel rigore recensorio non dà mai nulla per scontato, ma aggancia ogni affermazione ai versi del poeta, attraverso una fitta rete di citazioni.

La terza ed ultima parte è l’Antologia. Si tratta forse dell’operazione più sfidante del critico romano. Si può solo immaginare la fatica di sintetizzare Dante Maffìa e i suoi 47 anni di continua e fecondissima produzione poetica in 57 pagine. L’operazione è riuscita e l’antologia riesce a fornire un quadro significativo, soprattutto in un’ottica di lettura sistematica del libro (la Sintesi analitica e schede).

Il libro non finisce qui, lo completano gli Apparati bio-bibliografici a cura di Francesco Perri che comprendono, oltre alla bibliografia, anche un’antologia dell’epistolario che include fra gli altri nomi quali Jorge Luis Borges, Jorge Amado, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Josif Brodskij che hanno scritto e conversato con Maffìa. Segue un’antologia essenziale di saggi, articoli, recensioni e prefazioni a firma, fra gli altri, di nomi come Aldo Palazzeschi, Mario Luzi, Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Franco Loi.

L’officina del mondo è quindi un libro completo senza avere la pretesa della completezza; è ricco sapendo di essere povero, vuole essere definitivo sapendo di non poterlo essere. Si offre con la stessa generosità e uguale indispensabilità a chi non ha mai letto Dante Maffìa e a chi di Dante Maffia si occupato estensivamente. Testimonia anche l’abilità di un critico come Marco Onofrio, il quale senza rinunciare al rigore è capace di costruire un grande affresco a tratti lirico, a volte narrativo. Del resto Onofrio ha avuto modo di confidare come questo libro sia prima di tutto un atto di amore verso un grandissimo poeta. Un amore che non si può non condividere.

Luca Benassi

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“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone

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Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.

Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.

(Dante Maffìa)

Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.

L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.

La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.

Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».

Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi   suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa. 

Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita.  Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.

Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».

Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.

Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».

Letizia Leone

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Carmine Chiodo

Va anzitutto ricordato che Marco Onofrio, saggista, scrittore e critico letterario di notevole spessore, ha dedicato a Dante Maffìa, oltre al libro che ora mi appresto ad esaminare, un altro che analizza a perfezione la narrativa maffiana (“Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”, Reggio Calabria, 2014); va pure ricordato, sempre di Marco Onofrio (a cura di), “L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” (libro-intervista, con ricco Album fotografico a colori), Roma, 2018. Orbene il nuovo volume – come ci dice chiaramente il titolo (“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa, Reggio Calabria, 2021) – analizza chiaramente e dettagliatamente la scrittura poetica di Maffìa, a partire dalle primissime raccolte fino alle più recenti. Anche questo nuovo lavoro monografico è molto limpido, chiaro, illuminante dei procedimenti poetici del poeta calabrese, che giustamente viene considerato il più grande poeta italiano del secondo Novecento. Sul poeta, sullo scrittore Maffìa esiste una sconfinata bibliografia, e della sua poesia come pure della sua narrativa si sono occupati innumerevoli critici e poeti, italiani e stranieri. Ora Onofrio, guardando esclusivamente ai testi, affrontati in un “corpo a corpo” spregiudicato e attento, senza mai sorvolare o svicolare nel vago, sa darci delle pagine di Maffìa calzanti e convincenti analisi. Così il lettore si trova davanti a un discorso critico-ermeneutico non difficile e astruso ma sempre comprensibile, limpido, scorrevole, che mette appunto chi legge nelle condizioni di capire e apprezzare i vari esiti poetici di Maffìa, conseguiti raccolta dopo raccolta. La scrittura critica di Onofrio è incisiva, sa cogliere la sostanza poetica dei testi analizzati, o meglio della scrittura di Maffìa, e dimostra con questo libro come il poeta di Roseto Capo Spulico (alto Jonio cosentino, ma da anni Maffia vive e lavora a Roma) è un “grande poeta”. Onofrio riesce benissimo nelle sue analisi e si riconosce in Maffìa, lo ammette egli stesso: “Mi riconosco in lui per questa sua passione totale e torrenziale che lo rende in grado di aderire alla propria interiorità, scrivendo in modo sempre autentico e sincero, senza ricorrere a mezzucci, schermi o infingimenti” (p. 10). Anche chi scrive queste note conosce bene l’uomo e il poeta Maffìa, come pure Onofrio, scrittore ed esegeta di grande talento che, prediligendo una lingua e uno stile sempre scorrevoli, riesce ad appassionare chi lo legge.

Amici, dunque, Maffìa e Onofrio. Ancora Onofrio scrive: “Gli incontri che la vita ci riserva sembrano fortuiti, in realtà non lo sono: noi chiediamo in silenzio e l’invisibile ci risponde sotto forma di “caso”. Avevamo dunque, ne sono sicuro, il destino di incontrarci e di essere amici (malgrado la differenza d’età di 25 anni): le nature simili si richiamano lungo il cammino. Abbiamo entrambi un’indole intemperante, libera, selvaggia. Siamo allergici al potere che non discenda dal merito […]. Ci disgusta quel retaggio di “feudalesimo” che ancora aleggia negli ambienti letterari, intricati di gerarchie simboliche e aprioristiche, di regole non scritte, di trafile umilianti da sostenere” (p. 10). Ho voluto abbondare con la citazione, con questa citazione, perché ci permette di capire l’uomo e quindi il poeta Maffìa ma pure il critico e scrittore Onofrio. Non bisogna però pensare che è un libro amicale, bensì è un lavoro che con la massima chiarezza – lo ribadisco – e con rigoroso metodo critico spiega ed evidenzia gli elementi caratterizzanti la personalità umana e artistica del poeta calabro-romano. Tutto sommato ci troviamo davanti a una guida preziosa e utile per entrare nel mondo poetico di Maffìa. Per esempio, in una “Nota” posposta alla riedizione a quarant’anni di distanza de “Il leone non mangia l’erba” con cui esordisce nel lontano 1974 (raccolta introdotta da Aldo Palazzeschi), si legge: “La poesia l’ho vissuta, lo ripeto spesso, e la vivo come una religione, una fede assoluta. La poesia come vita, la vita come poesia ed è ovvio che mi sento spesso come un pesce fuor d’acqua perché i miei valori sono spirituali e non venali […] Intanto frequentavo i salotti romani trascinato da Dario Bellezza, quello di Elsa De Giorgi, di Enzo Siciliano, di Barbara Alberti. Stavo sempre in disparte, sconosciuto ai più, silenzioso, attento, analizzavo gesti e parole e mi pareva d’essere tra selvaggi che si contendono una coscia della preda sventrata. Sentivo d’essere allora d’altra razza rispetto a molti di loro: postulanti, leccapiedi, cavalier serventi […] no, la letteratura per me era altro, era la tensione verso la bellezza, l’infinito, lo svelamento dell’invisibile, come aveva scritto Rilke” (p. 15). Maffìa ha lavorato e lavora assi bene nella poesia, nella narrativa, nella critica letteraria, e così facendo ha ottenuto e ottiene notevoli esiti artistici ben analizzati da Onofrio. Egli per esempio sottolinea che una delle costanti della poesia maffiana è “l’impossibilità di derogare da un approccio di sincerità assoluta alla vita e alla scrittura, che ne è diretta – anche quando non immediata – emanazione. Maffìa va dritto al bersaglio perché segue senza fronzoli e ammennicoli la via primaria della conoscenza, quella del cuore”.

Vediamo ora più da vicino come è fatto il libro. Comincia con pagine che nell’insieme, grazie a uno sguardo a 360° sull’intera produzione poetica di Maffìa (esclusa quella dialettale), danno vita a una “Sintesi analitica”; seguono poi “Letture e approfondimenti”; “La Calabria della cultura e della vita”; “Antologia” (99 poesie selezionate da 33 libri); “Apparati bio-bibliografici”, a cura di Franco Perri; “Epistolario” e infine “Bibliografia minima”. Onofrio ci offre così una puntuale sintesi dell’opera poetica di Maffìa, e tra le altre cose sottolinea appunto che la poesia del poeta di Roseto Capo Spulico non è mai esposta “al rischio sterile dell’arzigogolo, mai banalmente e riduttivamente  minimalista […] è una poesia che – nella sua semplice e sempre palpabile concretezza – dispiega a pieno regime le gigantesche potenzialità della lirica, quando è autentica espansione dell’“uomo vitruviano” negli spazi visibili e invisibili del cosmo” (p. 33). Da condividere l’affermazione di Onofrio che quando si legge la poesia di Maffìa si avvertono “le vibrazioni magiche e naturalistiche di Telesio, Bruno, Campanella, Marullo Tarcaniota, ma mi viene spesso in mente la luce del pensiero plotiniano: l’Uno come principio immobile del molteplice in cui e attraverso cui si irradia, in guisa di sole, negli esseri del mondo” (p. 37). Ogni poesia coincide con le parole dell’essere: per tale motivo “la scrittura si infila ovunque” e raggiunge “luoghi impensabili”, “lontananze assurde / che solo la poesia / millimetrando acciuffa” e tende a dire “tutto nel minimo dettaglio”. La poesia di Maffia, come ancora viene opportunamente notato da Onofrio, possiede pure le note “esacerbate e violente dell’invettiva (contro l’omologazione globalizzata delle città anonime, la crisi umanistica del pianeta, le società tecnocratiche, la “pornocrazia dell’insignificanza”, la decadenza dell’Italia contemporanea, ecc.) che può anche virare sul registro  apocalittico, in forma di profezia” (p. 47):

presto la terra sarà una filastrocca
raccontata da nani
nelle piazze americane,
con accompagnamento di pantomime
e spari che mirano al cuore dei passanti
per tenere vivo
il ricordo del disastro…

Altre volte la scrittura diventa allusiva e musicale come nell’arabesco, “dove la parola dice delle cose senza nominarle, e quindi va al di là di se stessa, oltre la comune denotazione, per accedere a una sorta di “intermondo” sospeso tra il piano fisico e quello spirituale, liberando il senso umano dalla contingenza del principium individuationis e connotandosi come “pura lucentezza di suoni di colori di immagini di sogno” (p. 50). Assai pertinenti pure le pagine dedicate al surrealismo di Maffìa: “Basta un’immagine a innescare il processo associativo, a scatenare  la “parata” […] “un piccolo insetto / che stride in armonia / con l’aeroplano che passa” […] e “all’improvviso la sfilata /dei ricordi, i nodi inestricabili / che danno il capogiro, ordinano / una sequenza arbitraria / di vicende estranee”… ed ecco, per esempio, “la potenza del particolare che si impone, come “il lampo d’una mutandina / bianca tra le cosce abbronzate” della ragazza che poi ha sposato” (p. 73). In “Letture e approfondimenti” sono analizzate in ordine cronologico 20 tra le varie sillogi poetiche apparse nel corso del tempo, a principiare da “Il leone non mangia l’erba” del ‘74, come già detto, fino a “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” del 2020.

Ma chi è veramente Dante Maffìa? In sintesi si può affermare, con Onofrio, che è “un uomo e un artista insaziabile di vita e di bellezza”, e ancora che “è soprattutto l’interprete di una Calabria che finalmente, senza nulla rinnegare del suo passato, si avvia a una svolta etica, a un rinnovamento totale del suo cammino”. Alla città di Reggio Calabria il poeta mediterraneo dedica le sue attenzioni; Reggio “signora / dei due mari” che si accende all’alba e racconta “antiche storie” sotto l’egida attenta dei Bronzi. Il poeta “trasfigura ciò che vede e, oltrepassando nella Fata Morgana che aleggia e palpita sullo Stretto la “sacra effigie del viaggio infinito”, riconnette la città di oggi alle origini del mondo, dell’essere, del tempo” (p. 190). Segue poi una corposa antologia delle poesie estrapolate dalle varie raccolte, e poi ancora la bibliografia delle opere di Maffìa e della critica, la folta e qualificata critica su di esse. Esiste su Maffìa – lo accennavo prima – una vastissima bibliografia. Molte sue opere sono tradotte in lingue straniere, come pure in diversi atenei italiani sono state discusse tesi sulla sua sterminata produzione. Ancora va segnalato l’epistolario, qui antologizzato con minima parte di esso. Maffìa fin da ragazzo ha avuto una fitta corrispondenza con grandi autori della letteratura italiana e internazionale, tra cui Borges, Amado, Pasolini, Calvino, Primo Levi, per fare soltanto qualche nome. Il libro di Onofrio si accomoda con disinvoltura fra tanti contributi di prestigio, da cui riceve il “benvenuto” per la freschezza e l’acuta intelligenza dello sguardo. Ogni grande poeta ha bisogno di un critico capace di realizzare una osmosi creativa tra la filologia, l’interpretazione e lo spirito profondo della parola. È un connubio che questa potente narrazione monografica, bella anche perché ha essa stessa il respiro di un “poema”, realizza compiutamente; tanto che Maffìa trova in Onofrio, per certi versi, il suo critico ideale.     

Carmine Chiodo

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”. Nota critica di Antonella Caggiano

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Marco Onofrio nel 2014 ha dedicato a Dante Maffia un saggio molto interessante intitolato “Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”. Ora dedica un altro saggio alla poesia di Maffia (L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffia, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2021, pp. 294, Euro 16), scandagliandone tutti i testi, mettendo a fuoco la tecnica compositiva del poeta calabrese, individuandone le scaturigini, fotografando da vicino il fare ed entrando, nel contempo, nelle atmosfere, nelle germinazioni dei versi, nella vasta e multiforme armonia che plasma i componimenti, senza trascurare ogni particolare riguardante le tematiche, i nessi con l’antico e il moderno. Venti volumi messi quasi in trasparenza per cogliere l’essenza della scrittura di Maffia e per poter affermare, come già avevano fatto Giacinto Spagnoletti, Dario Bellezza, Leonardo Sciascia e Jorge Luis Borges, che siamo al cospetto di un grandissimo poeta del Secondo Novecento.

Onofrio ha saputo leggere in profondità e ha saputo darne conto all’inizio con una “sintesi analitica”, come egli la chiama, e poi soffermandosi sui singoli libri per individuare le essenze, la materia di un poeta che della sua inquietudine sa fare un’arma che gli permette di scendere negli abissi per riportare alla luce fermenti di misteri, ombre sfuggenti, segni indelebili della ferocia del tempo, dell’essenza dell’Amore, e delle verità che tentano sempre di rifugiarsi dietro le apparenze. Onofrio dimostra il valore di Maffia offrendo la bellezza e la “castità” dei versi, la complessità d’un mondo che dapprima ha accumulato esperienze, letture, sofferenze, dubbi, e poi ha cercato nella parola cristallina la soluzione per entrare nel vivo delle emozioni, nel divenire eterno, per usare una espressione cara al poeta.

Convince il libro di Onofrio perché la tenuta critica si poggia sulla concretezza e riesce a coinvolgere, a dimostrare che con la poesia non si gioca, che la poesia è il traguardo che dà alle civiltà la via del futuro. Il libro offre anche una antologia dei testi maffiani, esattamente novantanove. A cura di Francesco Perri alla fine del volume si trovano gli apparati bio-bibliografici e un florilegio di giudizi critici su Maffia. Solo qualche nome: Amado, Starobinski, Pasolini, Calvino, Brodskij, Vargas Llosa; Palazzeschi, Zanzotto, Pontiggia, Luzi, Givone, Bodei…

Antonella Caggiano

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Giuseppe Trebisacce

Con Dante Maffìa ho da sempre un rapporto fraterno, frutto della coetaneità, del medesimo luogo di nascita, della comune estrazione sociale e dell’assidua frequentazione, un tempo prevalentemente fisica, ora più che altro virtuale, che si avvale di quel tanto di attitudine che abbiamo sviluppato alla nostra età nell’utilizzo dei nuovi media digitali. Per questo ogni suo successo – una pubblicazione, un premio, una laurea, un riconoscimento, un apprezzamento della critica specialistica – è per me un’occasione di soddisfazione e di orgoglio. Come nel caso del recente scritto di Marco Onofrio L’officina del mondo (Città del Sole Edizioni, 2021, pp. 298, Euro 16) che è un bellissimo saggio sulla scrittura poetica di Maffia.

Premetto che non mi intendo di poesia né di critica letteraria, anche se per “darmi un tono” più che per far piacere all’amico, mi sono avventurato di tanto in tanto nel passato a scrivere qualche noterella sulla poesia di Dante, soprattutto quella cosiddetta “impegnata” e a sfondo sociale, e sulla sua narrativa, specie quella che si ispira a personaggi, luoghi e ambienti di vita che hanno fatto la storia della nostra infanzia.

Da comune lettore, curioso e bisognoso di trovare la chiave che spiega i continui e prestigiosi suoi successi, e con ciò gioire assieme lui, ho letto alcuni volumi tra i quali La forza della parola (Cassano Jonio, La Mongolfiera, 2015), curato da Carlo Rango, e Il cerchio aperto di Antonio Iacopetta (Firenze, Edizioni Feria, 2009), che ricostruiscono l’itinerario poetico di Maffia, a partire da Il leone non mangia l’erba del 1974, l’opera che tanto piacque a Palazzeschi e la cui elaborazione coincise con gli anni romani della mia frequentazione più intensa di Dante.

Il primo è un doveroso omaggio, reso da un gruppo di amici calabresi di antica data, “ad una delle più autorevoli voci della cultura internazionale (…), ad un ricercatore attento a quanto storicamente, e di nuovo, è stato e viene espresso nei campi della produzione letteraria e artistica italiana e straniera” (p. 9). Esso contiene, oltre a testimonianze di rapporti di amicizia duratura e inossidabile e ad una sintesi critica dell’intera produzione poetica e narrativa di Maffìa, anche un interessante apparato iconografico e una raccolta antologica di poesie, racconti e note critiche da lui scritti in tempi diversi su temi e personaggi legati al suo mondo calabrese delle origini. Il secondo è un saggio organico che enuclea, attraverso un interessante excursus storico-critico dell’intera produzione in versi del Maffìa, considerata nel quadro delle tendenze evolutive della poesia italiana degli ultimi cinquant’anni, le caratteristiche principali della sua poesia sul piano della maturazione linguistica e dei contenuti etico-esistenziali. Dando un giudizio complessivo sulla sua poesia l’autore scrive che “Maffìa ci dà la netta impressione di essere rimasto sin troppo ancorato ad una idea di compostezza classica (…) lontano dalle convenzioni e dai conformismi stilistici e poetici imperanti”. Per questo lo avvicina a Umberto Saba: “entrambi sono penetranti nel bel mezzo della tradizione lirica moderna, per scardinarla dall’interno, due cunei entrati dolorosamente e inesorabilmente dentro il corpo di una poesia oramai cristallizzatasi o nell’empireo di una inscanfibile purezza o tra i proclami rivoluzionari trasformatisi troppo presto da avanguardia in istituzione o museo, forse anche in potere” (p. 175).

Fresco di stampa, ho appena letto il saggio sul poeta calabrese di Marco Onofrio, noto critico letterario che ho avuto il piacere di conoscere personalmente alla recente cerimonia di premiazione dei vincitori del premio “Tulliola-Filippelli”. Si tratta di uno scritto dal rigore logico e metodologico notevole, che non registra il benché minimo refuso tipografico, assai raro nella produzione editoriale corrente. In esso l’autore, partendo dall’assunto che la vera poesia è un dono di natura, che si nutre di cultura, e ricordando le umili origini di Maffìa, perviene alla conclusione che la grandezza poetica del Nostro è il risultato del combinato disposto della coltivazione caparbia e continua di questo fuoco interiore che lo possiede e della determinazione a stare lontano dai “circuiti ufficiali” del successo, per difendere la sua libertà e indipendenza, confidando orgogliosamente sulla sola virtù del talento e della forza di volontà.

Quali sono allora – si domanda Onofrio – le costanti della poetica di Maffìa, gli elementi distintivi che, nella complessità filosofica ed estetica della sua produzione in versi, la rendono interessante e di qualità? Eccone alcune. Per il poeta calabrese:

1. la poesia è religione, fede, “tensione verso la bellezza”, “svelamento dell’invisibile” (pp. 14-15). In questo suo viaggio straordinario il poeta si sente sorretto da forze misteriose e straordinarie che gli consentono di cogliere “l’invisibile che il visibile nasconde” anche se non riesce a canalizzare questa “visione” entro i limiti della parola, perché il linguaggio degli uomini non è adatto ad esprimere compiutamente una realtà multidimensionale (p. 31).

2. la poesia è tensione verso l’annullamento della distanza tra la parola e la cosa (p. 37). Vi riesce solo quando la parola esprime la totalità dell’esperienza umana, quando cioè diventa “materia viva capace di splendere più reale della vita”.

3. la poesia è nella storia e, in quanto tale, appartiene completamente alla vita. Così si spiega l’attenzione di Maffìa alla politica, alla sociologia, alla storia, alla cronaca, all’epica civile che gli permette di denunciare le brutture del mondo e lanciare un grido di allarme e di condanna che incita alla lotta e mai all’inazione o alla resa.

Altre dominanti della poesia di Maffìa Onofrio ricava dall’analisi del suo percorso poetico, paragonato ad una “officina del mondo”, tutta protesa a squarciare il velo che offusca la verità e a comprendere “il divenire continuo della Creazione che fa nuovo tutto ciò che esiste” (p. 44). Si tratta però di caratteristiche talmente tecniche e specialistiche che non mi arrischio a riassumerle per tema di sbagliare. E allora concludo dicendo che per me è un vero piacere e motivo di grande soddisfazione e gioia, leggere che un mio fraterno amico “è, obiettivamente, il maggiore poeta vivente. Almeno in Italia. E lo è non solo per l’inarrivabile perizia tecnica e la sterminata cultura, ma anche per gli universi che racchiude nel cuore e che fioriscono miracoli allo sguardo” (p. 52).

Giuseppe Trebisacce

“L’officina del mondo” su Prima Pagina News (22 novembre 2021)

https://www.primapaginanews.it/articoli/-l-officina-del-mondo-racconta-dante-maffia-e-la-magia-della-sua-poesia.-504961

“Come dentro un sogno”, uscito nel 2014 per le belle edizioni Città del Sole di Reggio Calabria, si leggeva come il “romanzo dei romanzi di Dante Maffìa” dato che consentiva al lettore di appassionarsi alla narrativa dello scrittore calabrese, più volte candidato al Nobel. Ora, 7 anni dopo, “L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, in uscita questi giorni sempre per Città del Sole. Il volume, di quasi trecento pagine, rappresenta una sorta di “poesia delle poesie” di Maffìa, grazie a cui ci si addentra nel cuore del suo immenso mondo creativo e nei meccanismi segreti della sua poliedrica scrittura.

Marco Onofrio, il cinquantenne saggista romano, assai noto per una produzione critica di primissimo livello (avendo dedicato volumi monografici ad autori storici come Ungaretti, Campana, Caproni, ed essendosi occupato di alcuni tra i più meritevoli contemporanei), ha dalla sua il vantaggio di essere egli stesso un buon poeta: possiede quindi uno sguardo congeniale all’interpretazione della straordinaria Opera in versi di Dante Maffìa, qui definito come «il più grande poeta italiano del secondo Novecento». Attenzione però, niente proclami encomiastici: che Maffìa sia un grande poeta lo testimoniano i ragionamenti estetici del saggio, oltre che i versi ampiamente citati; non le formule vuote o le prese di posizione aprioristiche. Onofrio è uno dei pochi critici letterari che legge davvero ciò di cui parla: egli frequenta i testi di prima mano e li affronta senza riserve pregiudiziali, in una sorta di «erotico e salvifico corpo a corpo» che riesce a portare alla luce i livelli profondi della scrittura, svelando prospettive insolite e sorprendenti agli stessi autori. Lascia cioè che sia la poesia a “dimostrare” le affermazioni critiche, e non viceversa. La critica della poesia diventa narrazione ed esperienza della stessa, modo per viverla “da dentro”: semplicità piena di significato, non fumisterie di “paroloni” e inutili tecnicismi. Ecco perché il volume, pur poderoso e forbito, si legge tutto d’un fiato dalla prima all’ultima pagina.

La sezione iniziale è una “sintesi analitica” che apre la possibilità di un viaggio avventuroso entro e oltre i paesaggi evocati dalla lirica di Maffìa, con i lieviti sempre intrisi di vita della sua «celeste e carnale terrestrità». La seconda parte è costituita dagli “affondo”, cioè dalle letture critiche di 20 opere poetiche, tra cui capolavori come “La biblioteca di Alessandria”, “Lo specchio della mente”, “Al macero dell’invisibile” e “IO. Poema totale della dissolvenza”, dall’esordio de “Il leone non mangia l’erba” (1974), che ebbe l’avallo «affettuoso e partecipe» di Aldo Palazzeschi, al recente ed esplosivo “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” (2020). Segue poi una stupenda antologia di ben 99 poesie, che – pescando da 33 volumi, 3 composizioni ciascuno – offre una delle più efficaci proposte di lettura per rivivere l’evoluzione tutta del percorso analizzato. Completa il volume la sezione degli “apparati”, a cura di Francesco Perri, miniera preziosissima di notizie utili a ricostruire la scansione cronologica della carriera poetica di Maffìa (libri, premi, cittadinanze onorarie, convegni, epistolario, giudizi critici, voci bibliografiche, ecc.).

Insomma, un saggio imprescindibile per chiunque voglia felicemente immergersi negli oceani creativi di questo gigante ancora in gran parte nascosto – una sorta di vulcano sottomarino – che risponde al nome di Dante Maffìa. E complimenti a Marco Onofrio per la sua ennesima prova di bravura.             

“Passeggiate romane”, di Dante Maffìa. Lettura critica

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Alla sua città di elezione Dante Maffìa dedica, dieci anni dopo l’arrivo dalla nativa Calabria e cinque dopo la laurea in Lettere, conseguita alla Sapienza presso la cattedra di Gaetano Mariani, Passeggiate romane (Lecce, Capone Editore, 1979, pp. 104), un libro di amore disturbato dove la riconoscenza è mescolata all’inquietudine e la familiarità allo spaesamento. La rappresentazione delle cose vi nasce da uno sguardo “laterale” naturalmente attratto da percorsi desueti: infatti si autodefinisce «viaggiatore curioso / delle cose insignificanti».

A Roma, per esempio,
ho contato i balconi
di ogni strada.

Ne scaturisce una Imago Urbis originale, personale, non oleografica benché, sin dalla composizione di apertura, scriva ammonendo: «Anche tu sei stato ingannato / dai luoghi comuni». In realtà la percezione è mossa, liquida, leggera, come alterata da ebbrezza: obbedisce ai palpiti di una innocente, barbarica vitalità che lo fa scrivere con il polso caldo, seguendo un filo di sensazioni estemporanee e illuminazioni improvvise. Passeggiate romane è appunto il libro di un “barbaro” a Roma, anzi di un greco sibarita: il provinciale inurbato che mostra le “stimmate” della sua permanenza e i tentativi impacciati e disarmati di prendere le misure, adattarsi, ambientarsi, anche se – così scrive a un certo punto, rovesciando l’imbarazzo – «i monumenti sapevano del mio arrivo». L’immensità di Roma è un infinito spazio-tempo che “non cape”. Città già diventata metropoli, di «troppi / poeti, di nenie maliose» che invischiano la chiarezza dello sguardo, corrompendo la purezza originaria. «Qui il tempo dappertutto è un irrisolto / quesito»:

(…) Perciò
resto in disparte, guardo,
e solo a volte avverto il movimento
del mare nelle strade colme.

Roma è così spiazzante che può condurre anche a perdersi, o a perdere la parola. Ma lui tiene stretto un «filo d’Arianna» per tenere botta al labirinto, così durante il lungo cammino per i luoghi romani può ricapitolarsi ungarettianamente dalle origini e, traendola dalla propria stessa innocenza, riabbracciare la «memoria». Un modo per non smarrirsi è privilegiare tendenzialmente il centro, sia pure con sguardo eccentrico, poiché appunto Maffìa viene dalla provincia, dal profondo sud: «… “Ci sono anche le borgate, / la periferia…”. Chi dice di no.» scrive quasi per giustificarsi: «Ma vi pare che uno cerchi / quello che possiede?». Elenchiamoli in ordine sparso, dunque, questi luoghi romani deputati (con relativi particolari): Piazza Navona, Terme di Caracalla, Campo de’ Fiori, EUR, Via Poliziano, Gianicolo, Pincio, Piazzale delle Muse, Via Latina, Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Via Condotti, ecc. Attenzione, non è turismo garbato da borghese, con adesione all’immancabile “cartolina” stereotipata, ma esperienza di vita vissuta da un ragazzo del popolo, per di più meridionale, affidandosi all’avventura senza escludere nulla “a priori” dal quadro d’assieme, neanche i particolari osceni, per esempio i vespasiani puzzolenti o le prostitute intorno ai fuochi «a Tor di Quinto, ai Prati».

   Il motore di queste composizioni è il vagabondaggio, ed è un vagabondaggio libero e picaresco, non di un raffinato flâneur ma di uno spiantato, un provinciale privo di risorse e preda di allucinazioni, talora una specie di santone laico, come quando si inginocchia a Piazza del Popolo per rubare i raggi di luce dei fari dalle automobili in transito, o quando in Piazza San Pietro viene trovato (e già il verbo è indice di percezione alterata, se non di stato confusionale) «a benedire l’alba». Scrive, ricordando i giorni di quella condizione: «Dunque / avevo in corpo un fuoco indescrivibile / inquietudine / che mi portava da una strada all’altra». Trascorreva le «sere in scorribande / per le strade» e poi tutta la notte a camminare per Roma, senza sapere che ne avrebbe tratto versi «a distanza di anni».

Andiamo fino all’alba. Al Tritone
mangio i cornetti appena sfornati
e fumo addossato alla fontana.

È chiaramente una Roma più notturna e antelucana che diurna:

V’erano notti di miracoli, corpi levigati
di donne regine. Le amavo con la morte
negli occhi, sapendo che l’indomani
il tabaccaio avrebbe venduto le solite cose.

Gli piace catturare quanto offre Roma all’alba, allorché in cielo scompaiono le stelle e «aprono i bar sonnolenti / e l’odore, per poco, è quello di casa» mentre «il vento raccoglie / gli ultimi residui della notte / e si adombra nei vicoli». Sono tanti e non sempre scontati i caratteri che della città raccoglie e fissa alla memoria, girandola ininterrottamente: per esempio gli “alt” e gli “avanti” dei semafori, le caldarroste, le «grandi navi d’angurie» lungo i viali delle sere estive (le «allucinate sere / di scirocco romano»), le «donne vestite / di leggeri indumenti di seta», e i capelloni che cantano a Campo de’ Fiori, i manifesti strappati dai muri… E poi gli odori che «si perdono in labirinti di vento», gli odori antichi e solenni della città millenaria mescolati ad altri, più circostanziati e prosaici, come «quell’odore di scale consumate» avvertito in una pensione ad ore di via Marghera, con una ragazza. E la percezione del mare (ad esempio «Un cocciuto riverbero di mare / per via Frattina») che non è solo quello reale, distante trenta chilometri, ma anche e soprattutto il mare della Vita che, in chiave metaforica, il poeta contatta e ascolta come il suono stesso della città: «Un rombo sordo e infinito / m’intorbida il sangue». E ancora, l’estate a Roma che vince trionfalmente, con le «furie carismatiche del sole», sul «poco» della primavera:

Mi sfugge il nesso di questa vittoria,
i legami implacabili, che franano
nelle grandi estati del mare.

Vale a dire il mistero del tempo che muove dall’interno il divenire, l’eterna metamorfosi del mondo, da cui l’uomo trae post factum la sintesi parziale della storia e che a Roma svela più che altrove – Ungaretti docet – il suo “sentimento”. A Roma infatti l’eternità è tradotta a misura d’uomo e s’infila, come un vento dispettoso, negli interstizi tra il silenzio della storia e il banale sventolio della quotidianità:  

Notturno

Il vento ha bussato
ed io l’accompagno al Gianicolo.

Ditemi, pietre, parlate voi alti palazzi!
Roma è questo immenso silenzio,
questi panni che asciugano
sui fili di plastica dei cortili?

Dove, oltre la citazione dalla prima delle Elegie romane di Goethe, è evidente la volontà di scardinare il segreto tetragono che le vestigia di Roma nascondono sotto la loro facies magniloquente e, perciò, inascoltata. In un’altra composizione Maffìa scrive non a caso della necessità di rimboccarsi le maniche per sollevare «le tenebre dai monumenti». È proprio questa volontà di giungere al cuore di Roma che gli concede di coglierne qualcosa di veramente essenziale, in un tratto di viva originalità (benché prossimo a certe atmosfere romane di Alfonso Gatto):

A Roma la pioggia
ha l’umore dei poeti; le donne
hanno il sonno, la vita
delle fontane.

La scansione topografica della città, più o meno attraversabile nelle sue infinite stratificazioni, si mescola a quella temporale, entro il decennio campito dal libro (1969-1979), nel passaggio biografico dalla Roma garbata del «caro» mentore Aldo Palazzeschi («Tutta Roma / adornavi del tuo sorriso; / via dei Redentoristi / com’è mutata all’improvviso.») a quella turbolenta delle lotte studentesche e delle opposte fazioni, che s’indovina nel fervore dei versi, seppur non dichiarata, a quella amorfa del riflusso ideologico e politico («Non c’è più nessuno nelle piazze. / scarseggiano gli scioperi anche all’Università. / I collettivi di Lotta e d’Avanguardia / sono in mano ai figli di papà»).

Fra tutti i motivi racchiusi o operanti nel libro emerge secondo me la solitudine dell’emigrante dinanzi alla metropoli sconosciuta, ovvero «lo strazio, la paura che si prova / a restare soli ogni sera», all’origine della struggente, indimenticabile visione della madre – già inferma e, peraltro, defunta da anni – che sale a trovarlo dalla Calabria ma rischia seriamente di perdersi:

Madrerosina se ne va    
per la città. Dev’essere
proprio lei, ha l’aria smarrita,
va in cerca di me.
A pensarci bene però
lei non conosce dov’è Roma,
né sa dove andare,
tra macchine e filobus,
fino a via del Vantaggio.

La Poesia è la città dei sogni dove tutto resta eternamente possibile; dove cioè Maffìa, con il cuore in gola, attende da un momento all’altro l’arrivo della madre per abbracciarla ancora tra i singhiozzi… dirle che è andato tutto bene e che Roma, dopo tanti anni, non gli fa più paura.     

Marco Onofrio
       

Ottiero Ottieri, “I divini mondani”. Lettura critica

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Cast del programma TV “Riccanza 3” (2018)

C’è un sottile fil rouge che lega – pur attraverso epoche e circostanze diverse – la satira degli aristocratici incarnata ne I divini mondani (1968), di Ottiero Ottieri, al grande modello del “giovin signore” di Giuseppe Parini (1763); richiamando com’è ovvio echi novecenteschi, dalla dissacrazione anticonformistica e antiborghese di Aldo Palazzeschi (Il codice di Perelà, 1911) e di Carlo Emilio Gadda (La cognizione del dolore, 1963 – pubblicato in frammenti sin dal 1938), alla disinvolta immersione nei vezzi nazionali e internazionali dei giovani rampanti, elettrizzati dal clima del “boom” in Fratelli d’Italia (1963), di Alberto Arbasino. Il racconto di Ottieri è in realtà un pamphlet satirico sulla mondanità di cabotaggio internazionale, “animata” (si fa per dire) dalla noiosa e annoiata ripetizione di situazioni e scene in cui i dominatori della cronaca rosa conducono stancamente la loro brillantissima ma insulsa esistenza. Una sarabanda caricaturale di particolari (cose e persone) intercambiabili, che inseguono la loro reiterata distensione senza stacchi, come note di un’unica, monocorde sinfonia, tra “gruppi”, cocktails, cacce, gare di tiro al piattello, viaggi transoceanici e ricevimenti continui presso i salotti delle famiglie-bene. «Non c’è trama,» notava Vittorio Spinazzola all’uscita del libro «solo un succedersi di cocktails, pranzi in piedi, pranzi seduti, pranzi in piedi seduti, defilès, “cacciate” al fagiano o al cinghiale e tanti tanti brancicamenti con donne. Non ci sono protagonisti o meglio sono tutti interscambiabili». C’è per la verità un personaggio che risalta sugli altri, spesso citati e descritti solo di sfuggita, ma anche lui è un simulacro vuoto, una specie di ologramma utile a “funzione narrativa”, per condensare le voci e cucire i frammenti dispersi, catturandoli nel magma dello sguardo, cioè nella scrittura. È Orazio, un fabbricante di bidet, anzi: il «re del bidet». Imprenditore sì, ma ama (o crede di amare) l’arte, tanto che vorrebbe «porre sul fondo dei bidet il ritratto di Rodolfo Valentino a occhi spalancati», per la gioia delle donne; oppure in alternativa, per quella degli uomini, la Venere di Cranach. «Il fatto è» continua Spinazzola «che in questo mondo fasullo non possono esserci vere individualità perché ogni persona, pur liberissima di sé, è in realtà schiava di un codice di comportamento (…). Così il racconto assume l’andamento di un balletto sincopato, eseguito da maschere senza volto e senza interiora». Proprio così: un balletto meccanico di “marionette sociali” che, con approccio più ilare e disinvolto, ma non per questo meno corrosivo, ricordano i “manichini ossibuchivori” di Gadda, impietosamente ridicolizzati nei “restaurants” frequentati dalla borghesia fascista, in una Milano travestita per l’occasione da Sud America (l’immaginario Maradagàl) nella già citata Cognizione. Anche il linguaggio di queste marionette è schiavo della serialità gergale che le ingessa e le imprigiona in una melassa di nonsenso e banalità, perfettamente in linea con la “fuffa” delle loro forme vuote. Eccone un saggio particolarmente compulsivo e reiterato, al limite dell’idiozia:

«Pronto». «Ci vediamo al Bum Bum». «Prima andiamo a bere una cosa al cocktail dei Lanza». «Al pranzo dei Crispi». «Al cocktail dei Lanza». «Ci vediamo tutti al Bum Bum». «Al Bum Bum». «Al cocktail dei Lanza». «Pronto». «Che cosa fai stasera?» «Ci vediamo tutti al Bum Bum». «Che cosa fai stasera?»

Lo snobismo cosmopolita impone l’utilizzo continuo di parole inglesi e francesi: sexy, social, image, esprit, allure, etc. Ci sono “categorie” predeterminate per ogni discorso, e anche quelle hanno confini fragilissimi che le rendono variabili e intercambiabili: «spesso il social non è sexy e il sexy non è social. Si intende che ciò che è augurabile è il social sexy e il sexy social». Ottieri lavora di spada e fioretto pur di deridere i colloqui fatui e insensati dei personaggi, utilizzando tutti gli espedienti possibili per fare in modo che il lettore, perdendo il filo della logica, possa a un certo punto chiedersi: che diamine stanno dicendo? Ecco dunque il montaggio incongruente dei pensieri, volutamente appiccicati senza ordine logico. Ad esempio:

L’intelligenza di Alì Khan è acutissima. È sontuoso e ha il senso del business; non si può più fare lo shopping a Parigi. Preferisco Zurigo.

L’insipienza delle loro forme vuote contagia anche il quanto di erotia (per citare ancora Gadda) che circola come un pulviscolo ossidante fra le pagine del libro:

Correvano sui centonovanta, la sera tardi, nella Bizzarrini di Orazio verso Roma. «Ti sei divertita?» Hata rispose: «Sì». «La prossima volta devi tirare anche tu». «No». Egli tolse una mano dal volante e le carezzò una gamba, prima sul ginocchio, poi sotto la minigonna. Hata strinse le cosce imprigionando quella mano e allungandosi all’indietro nel basso sedile concavo della Bizzarrini.

Il modus percipiendi imperante nel libro determina una visione distorta, frantumata e schizomorfa della realtà, che si innesta su un fondo liquido, fluido, “alcolico” e blasé, cioè indifferente di sentimenti futili e brillante chiacchiericcio. Ma, come i “manichini ossibuchivori” di Gadda, anche questi pretenziosi e sfarfallanti cialtroni attraversano momenti di apparente gravità, di retorica “dannunziana” solennità: «Pietro rimaneva in silenzio, teso a uno scopo indicibile». I “divini mondani” coltivano una visione esclusiva e oligarchica della società, e mostrano una spiccata tendenza a teorizzare (blaterando senza tema di smentita le loro arbitrarie semplificazioni). Ecco un paio di esempi: «Bisogna assimilare nella mente» esclamò Orazio «che esistono solo i pochi. Questi pochi sono i migliori»; «Le leve sono in mano al management. E il management comanda lo State, che si illude». Ogni rappresentante di questa classe privilegiata è, ça va sans dire, un essere straordinario, dotato di virtù eccezionali. Qui, poi, sembra di udire qualche eco del “Gastone” di Ettore Petrolini: «Nessuno sport» disse Orazio disteso, parlando verso il soffitto con voce di striscio «mi è sconosciuto. Batto il crawl come mi produco nel drive. Sono perfettamente ginnastico. Sapete che non mi fermo al massaggio, forma passiva di mettersi in forma. Ma lo sport da me preferito è sempre il social climbing». Questi indolenti arrampicatori sociali passano dunque di festa in festa e bevono continuamente champagne. Sono sempre in giro per il mondo, senza limiti di distanze e viaggi (possiedono aerei ed elicotteri personali).

«Orazzino, dove fai colazione domani?» «A Parigi, dal nostro brillantissimo Harry». «Ci sono anch’io, sono felice, vieni a prendermi, voliamo insieme». «Nel pomeriggio dà una battuta». «Ma io riparto subito, Orazio. Non vieni domani sera alla cena dei Del Doge a Venezia?»

(…)

«Pronto» disse Orazio. «La principessa è tornata?» Ascoltò. «Ma è riandata di nuovo a Giacarta?»

Credono di essere «quelli che ridono più sulla terra» anche se in realtà hanno poco di cui divertirsi, prostrati come sono da un permanente «fumo di noia», il tipico spleen decadente degli uomini di mondo. L’unica loro «grave preoccupazione» è «come spendere tutto il denaro», e questo li rende nullafacenti perdigiorno che vivono solo per uscire la sera, tutte le sere, e frequentare club esclusivi. Passano ore al telefono per invitarsi ai ricevimenti. Parlano spessissimo di astrologia, a cui danno un’importanza spropositata. Non sopportano le banalità ordinarie del quotidiano, la prosa del vivere, il grigiore delle masse: si sentono «superiori alle abitudini del mondo, alle code». Si ergono «sopra il mediocre livello della gente comune» con i loro colli lunghi, aristocratici, razziali. Anche i nomi peregrini ed esotici delle donne dimostrano che si tratta di altra cosa, di altra vita: Aldobrandina, Selvaggia, Rezzonica, Diamante, Annette, Violante, Hata, Mildred. E ancora (anche come imponenza proterva del suono, nomi più cognomi): Giada Anguissola d’Altor, oppure Maria Teresa Tranquilli Liberati, etc. Tutto in loro dice che non sopportano «il ritmo banale». Il lavoro è cosa che non li riguarda, per filosofia, non solo per mancanza di necessità:

Io odio qualsiasi lavoro. Se lavoro divento pazzo. Se lavoro perdo il mondo. Non adoro che la bellezza, il gioco.

La loro esistenza e la loro cultura sono fatte di allucinanti «forme assolute staccate dal loro eventuale impiego». Orazio è «straordinariamente snob» anche nel suo membro virile, infatti esso «non produce il suo sprint che con la nata bene». Fanno talvolta i conti con il vuoto che devono continuamente esorcizzare, la «duna dell’irrealtà», ma in genere abitano con apparente disinvoltura una dimensione fluida del vivere, basata su una tesi di fondo: «frequentare ogni possibilità e non concentrarsi su una sola». Dice a un certo punto Pamela:

Mi ricordo sempre che un maestro a scuola mi ha insegnato che una foresta si può guardare in due modi: fissando un albero da vicino e allora non si vede che quel solo albero, al posto della foresta. Oppure guardare da lontano, allora la foresta è composta da migliaia di alberi, uno non se ne può scegliere. (…) Per noi la possibilità è migliore della realtà.

E infine:

«È questo» insiste Pamela «il simbolo della nostra vita. Rimbalzare sempre, non andare mai in fondo».

Ottieri è magistrale nel riprenderli dal vivo, infilandosi nei meccanismi dei loro sguardi e nelle dinamiche dei loro “pensieri” a mo’ di etologo, anzi di entomologo al microscopio: «da presso, come ingranditi attraverso una lente». L’autore non commenta e non aggiunge nulla di suo, se non la sana ferocia con cui affonda il coltello nella rappresentazione parodistica. Ma la sua presa di posizione è già in questa ferocia e nel grottesco che ne consegue, per cui la riprovazione morale risulta implicita al discorso: l’esosa tracotanza di chi non sa come spendere il denaro ha il necessario contraltare nello scandalo di chi non riesce nemmeno a sopravvivere. In tal senso I divini mondani è opera di impegno assolutamente complementare ai libri in cui Ottieri affronta e analizza il mondo delle fabbriche e delle lotte operaie, per i quali è meglio conosciuto al vasto pubblico.

Marco Onofrio

Esce “Roma raccontata da venti scrittori italiani del ‘900”, a cura di Marco Onofrio

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Con ampia introduzione critica dello stesso curatore, il volume seleziona e raccoglie brani emblematici del rapporto con Roma che noti autori del Novecento italiano sviluppano in alcune delle loro opere più significative. Un percorso alla scoperta di Roma attraverso lo sguardo degli scrittori.

Elenco degli autori antologizzati: 

Sibilla Aleramo, Gabriele d’Annunzio, Alba De Céspedes, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda, Carlo Levi, Giorgio Manganelli, Elsa Morante, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Ercole Patti, Luigi Pirandello, Dolores Prato, Enzo Siciliano, Mario Soldati, Bonaventura Tecchi, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Vigolo.