Ho letto più volte “Azzurro esiguo” di Marco Onofrio, edito da Passigli nel 2021. È una poesia difficile, che richiede tempo e dedizione per coglierne l’incanto. Lo ha ben visto Dante Maffia nella sua bella prefazione: “La poesia di Marco Onofrio non è stata mai di facile lettura”. Le cose belle sono sempre difficili, secondo Platone. L’intensità dei sentimenti e delle emozioni, s’intreccia a vaste letture e dà alla ricerca poetica di Marco Onofrio il carattere della complessità, il senso di un’esperienza che investe la mente e il corpo in un percorso circolare che abbraccia anche la natura: stelle, nuvole, mare, santuari e luoghi di protezione del poeta, emblemi del suo stato d’animo. Le ricorrenti immagini marine mi hanno fatto ricordare alcuni versi di Mallarmé: “Noi navighiamo, o miei diversi /amici, io di già sulla poppa / voi sulla prora fastosa che fende / il flutto di lampi e d’inverni…” (“Brindisi”, da Poesie, trad. L. Frezza, Feltrinelli) che ben rispecchiano il modo tutto personale di Onofrio di assimilare la tradizione poetica da Dante a Luzi, i suoi diversi amici. Anche la poesia di “Azzurro esiguo”è un’avventura rischiosa tra lampi e inverni verso il mistero e il suo silenzio, affrontati con la determinazione di chi compie una “oltranza” per estrarre le parole dalle cose, la loro verità segreta oltre il visibile per giungere a afferrare l’ombra del sogno rivelatore prima che si dilegui, per serbarne dantescamente almeno il sentimento. Verso l’origine della verità… dove tutto è libero e infinito…t ornare alle emozioni primordiali… percepire il ritmo della terra, il mistero verde blu del mare, sono le parole con cui Marco Onofrio esprime il suo streben e la sua sensucht. Due termini forti eppure adeguati ad esprimere la sua concezione della vita e della poesia come sforzo incessante, tentativo continuo di superare il limite materiale e spirituale, unito ad un senso acuto dell’irraggiungibile meta: camminiamo sul bordo / di un davanzale piccolo e scosceso / da cui scivola tutto / prima o poi (“La verità più vera)”. Il poeta può intuire non decifrare i segni di scritture/ incomprensibili / lasciate non sai quando / né da chi. Ineludibile è lo scacco: Ma io passo, attraverso le nuvole / col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso: non credo più alle favole… ho finito di essere un’allodola, quella che secondo Baudelaire plana sulla vita e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Lo scacco non intacca l’amore per la vita, che ne esce rafforzato dalla consapevolezza che è possibile la felicità, se si accetta il limite stesso della vita, apprezzandone le cose minime essenziali, perché troppo spesso siamo già felici / e non lo sappiamo. Non s’arresta però la ricerca dell’oltre, il desiderio di oltrepassare il limite per comprendere / la creazione infinita/ del mondo e la bellezza inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato. /…disfarne il nodo… Trascendere il visibile apparente. Questo è il compito dell’uomo-poeta espresso nella poesia che apre la raccolta, “Il compito”. In questo dramma interiore pieno di tensioni emerge lo scopo della poesia: La poesia ci consola… con l’invisibile pensiero / del mondo senza fine / dentro il cuore. / È la dolcezza amara / della profondità: / fa più lieve, luminosa e cara /la vita che dobbiamo sostenere (“Ilbalsamo sublime”). E la vita con i suoi errori si riscatta nell’amore per il padre, per la figlia, per la donna amata. L’ultima poesia del libro “Azzurro esiguo”, dà il titolo all’opera e riannoda le fila del viaggio interiore che Marco Onofrio ha affrontato ed espresso nei suoi versi, trattando i grandi temi della vita e della morte: come riuscire a direl’azzurro esiguo /dentro l’universo tutto nero?… la nostra casa è lo sguardo /i l canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. L’azzurro, il colore del cielo e del mare, anche se debole, esprime la tensione inesauribile verso la libertà e l’infinito nonostante la fatiscente basilica del mondo.
L’anelito all’infinito, una sete perenne e inestinguibile, è formidabile motore della parola poetica. È dalla sete di infinito che si diramano le direttrici in Azzurro esiguo di Marco Onofrio.
Sono molteplici e dinamiche, queste direttrici, sono centripete (versi 6 e 7), ma con un centro che non si fa afferrare e, soprattutto, seguono traiettorie talvolta imprevedibili e attraversano territori anche molto diversi tra loro. Ciò che unisce è indubbiamente il tentativo persistente, tenace e resistente a rifiuti e a fallimenti, di bussare alle porte del mistero, di trovare il varco per l’oltre, per la luce, di risalire all’origine, all’archè.
Il segno unificante e caratterizzante è un colore, azzurro, come il colore della lontananza e dell’infinito nella più filosofica poesia romantica, quella che si pone a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.
Eppure questo azzurro è “esiguo”. Viene da pensare allora alla sensibilità del primo Novecento austriaco, al “mondo di ieri” che si riverbera nell’azzurro pallido della “scrittura femminile” di cui narra Franz Werfel (e invero anche in Azzurro esiguo, così come nel romanzo di Werfel Una scrittura femminile azzurro pallido, la coscienza della storia è ben presente); tuttavia, Marco Onofrio chiarisce sia l’ossimoro (figura retorica significativamente prevalente in questa raccolta) e il dilemma tra il desiderio d’infinito e l’impossibilità di raggiungerlo pienamente in questa esistenza nella poesia che dà il titolo al volume, concludendolo: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo/ dentro l’universo tutto nero?/ Siamo lampi che aprono il mondo/ tra due abissi di tenebra infinita» (p. 108). Non si limita a questo, Marco Onofrio, ma, con solido principio di realtà, egli mostra consapevolezza che, se l’azzurro percepito può essere solo un bagliore, un balenio, una lama di luce tanto repentina quanto fugace, urge tuttavia la domanda circa le vie e gli strumenti per dirlo, per esprimere tutto ciò, per affermare, come rivela la prima persona plurale in «siamo lampi di luce», un autentico, concreto umanesimo della contemporaneità.
Sapere che la ricerca e il tentativo di oltrepassare il varco sono elemento costante e movimento reiterato per chi vive nella parola poetica da una parte dà forma alla coscienza del legame stretto tra la sensazione di fallimento e la certezza circa l’inalterabilità e l’invincibilità del mistero («Miliardi di universi sfuggono/ allo sguardo», p. 21), dall’altra, per moto tenace e contrapposto, imprime slancio a ogni ‘assalto all’infinito’.
L’anelito alla luce, allo «splendore dell’eternità» spinge a «Trascendere il visibile apparente/ entrando nel dominio dell’eccelso:/ oltre le scorie inutili/ e le ramaglie delle sfilacciature» (Il varco, p. 17). La percezione del limite, di una barriera che appare invalicabile, si unisce alla nozione esatta che quel confine attende tutti, ciascuno nella sua individualità e nel proprio peculiare grado di consapevolezza. Nei confronti di alcuni tra coloro che hanno varcato quella soglia è più difficile «dirsi pronti» (p. 42, in Morte del padre), ma la distanza che dopo il passaggio appare incolmabile è innanzitutto impegno a proseguire il viaggio su questa terra con il respiro che si nutre del respiro dell’altro, poi anche pungolo perenne all’interrogazione.
Fin dai primi testi di Azzurro esiguo emerge uno dei motivi conduttori di questa raccolta, quello del passaggio alla dimensione altra, «che ci ruba per sempre/ alla materia» (p 17); indagare sulla sua natura è compito di un’intera vita.
Porsi interrogativi, schierare le proprie domande, intensificarle, affilarle: questo è ciò che spetta all’umano, che sa di non saper rispondere a tali quesiti, eppure, nel suo vivere la poesia, non smette di formularli: «Cos’è, cos’è, cos’è stato/ a generare tanta magnificenza?/ Nessuno può rispondere ma/ sciogliere quei lacci è/ vivere una vita;/ disfarne il nodo/ il compito finale.» (Il compito, pp. 15-16).
Leggo per un caso fortunato una bella poesia di Marco Onofrio, struggente per me di sangue calabrese. Conosco le poesie di Marco Onofrio, il suo “Azzurro esiguo” ha trafitto a suo tempo la mente e il cuore di chi, leggendo, vi ha scoperto l’anima del poeta.
Dal titolo emblematico “Quasi una madre” questa lirica, in cui il cuore del poeta trascende l’orizzonte dell’immaginazione, sebbene la visione nasca dalla concretezza dei luoghi, suscita indicibili emozioni in chi di questa terra si sente figlio. Diversa da tutte le altre perché nasce da un’ispirazione nutrita dalla suggestione dei paesaggi e dalle bellezze del territorio, oltrepassa qualsiasi essenza della parola “nostalgia”. Onofrio non è nato in Calabria ma anche il luogo dove non si nasce, quando si è poeti, può avere radici profonde che si immergono nell’acqua limpida del mare Ionio, nelle statue gigantesche degli eroi greci, nelle montagne lontane e nel contempo vicine, nell’odore di salsedine mescolato al penetrante aroma delle gemme dei pini. Il poeta ha ritratto il passato e il presente della nostra e ormai sua Calabria con poche pennellate, come un pittore rapito dall’asperità dei luoghi, dai colori e dalle forme inusuali di borghi appesi a rocce tra cielo e mare, circondati da boschi oscuri e trafitti dalla luce del sole che, splendendo su questa terra amara, ne rivela il duplice volto del destino e della storia antica e misteriosa. Sembra, scendendo verso Villapiana, di attraversare sul vecchio ponte di una strada tortuosa un paesaggio primitivo, risalente non a secoli ma a migliaia di anni dove l’ampia fiumara, via di commercio di una Calabria atemporale, incisa tra le guglie di quelle montagne erose, alimentata da acque di un inverno piovoso a tratti, quasi rigagnolo in estate, appare come solco di un’anima di questa terra così mutevole da lasciare il visitatore sorpreso, come sospeso tra fantasia e realtà .Le tre parole scolpite in un verso da Marco Onofrio: “orgoglio”, “lealtà”, “passione” sono identificative contemporaneamente dell’uomo di oggi e degli eroi di quella Magna Grecia, culla di una civiltà mai dimenticata, che risorge improvvisamente dal mare con le statue bronzee di sconosciuti atleti o guerrieri che appartengono al Mito. Il sangue greco scorre nelle vene del poeta, che innalza gli occhi al cielo scoprendovi nuvole dalla forma di barche che navigano anch’esse nell’azzurro immenso alla scoperta di un segreto in grado di unire cielo e mare in un unicum, segno di questa fusione tra mito e realtà visibile solo agli occhi del poeta.
La quercia, albero sacro alla cui ombra gli uomini interrogavano gli oracoli, simbolo di forza e virtù di cui è ricco il Pollino, e il pane che col suo lievito si configura segno di crescita e trasformazione, sono riconosciuti da Onofrio nella durezza e generosità della Gente di Calabria. Un omaggio a questa terra ricca e prodiga di eroi e di uomini grandi per mente e cuore.
17 maggio 2022: Michela Zanarella legge alcune poesie da “Azzurro esiguo”, di Marco Onofrio, in onda su Radio Doppio Zero per la rubrica “Ti leggo una poesia”.
L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìache lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.
Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…
“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».
L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.
La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.
I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.
È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:
Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta nelle campane, anima, che si fa voce e più ci spaventa con la sua cruda vittoria, ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!
(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).
In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.
Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).
Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.
Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.
Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.
Nella splendida cornice del Teatro Vittoria (via Gramsci, 4), si è svolta a Torino – domenica scorsa 31 ottobre 2021, a partire dalle ore 16 – la cerimonia di premiazione del “Premio Nazionale di Arti Letterarie Metropoli di Torino”, dove Marco Onofrio si è classificato 2° per la sezione “Poesia edita” con il volume Azzurro esiguo (Passigli Editore). Ecco la motivazione elaborata dalla giuria: «Una poesia per viaggiatori instancabili, quella di Onofrio. Lui ci vuole attenti, pionieri nelle remote miniere del sentimento, poi ci accompagna nel profondo stimolando intuizioni sempre nuove. Fino ad accendere con cura, ora quella pietra preziosa, ora un cielo di stelle blu cobalto. Ci invita ad essere gocce tra i sassi del suo personale percorso tra i versi. Tutti dovremmo leggerlo perché parla d’amore, mai banalmente: è un flusso liquido che conquista e apre al mondo l’esistenza positiva. Siamo certamente d’accordo con lui, quando scrive del delirio sfrenato / che mi rende insaziabile di gioia / e grato di appartenere al mondo».
Per la sezione VOLUME POESIE Azzurro esiguo è risultato meritevole del 2° Premio. La cerimonia di premiazione, alla presenza della giuria e delle autorità cittadine, avrà luogo domenica 31 ottobre 2021, dalle ore 16, presso il Teatro Vittoria, via Gramsci, 4 – TORINO.