28 maggio 2022: “Roma vince sempre” alla Fiera LADISPOLIBRI – Ladispoli (RM)

Presentazione del volume

ROMA VINCE SEMPRE COPERTINA

ROMA VINCE SEMPRE

in conversazione con Mariarita Pocino

Fiera del Libro LADISPOLIBRI

Giardini Nazzareno Fedeli

Palco “Dostoevskij”

Sabato 28 maggio 2022, ore 21

LADISPOLI (RM)

Pubblicità

“Novecento e oltre” recensito da Gianni Maritati su “Leggere:tutti” (dicembre 2020)

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Torniamo alla letteratura. Marco Onofrio ha raccolto nel volume Novecento e oltre ben 50 saggi critici dedicati ad importanti autori italiani del secolo scorso. Troviamo molti classici come Calvino, Campana, D’Annunzio, Luzi, ma anche molte firme poco note al grande pubblico o addirittura dimenticate, che meritano invece apprezzamento. Agganciato ad una visione europea dell’estetica novecentesca, l’autore dedica poi una speciale attenzione agli autori viventi, facendoci riscoprire la passione della critica militante e la sua inesauribile curiosità per il nuovo che porta il novecento “oltre”. Fra questi autori ricordiamo Dante Maffia, Paolo Di Paolo, Luciano Luisi.

Gianni Maritati

“Ungaretti e Roma” citato ed elogiato dal Prof. Carlo Franza nel blog “Scenari dell’arte – Il Giornale.it” (27 novembre 2020)

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(…) Il rapporto tra Giuseppe Ungaretti e Roma è stato dei più intensi, visto che Ungaretti lo frequentai nei due anni prima della morte. Voglio aggiungere per chi ha vissuto a Roma (io vi sono stato fino al 1980)  che il legame con la città passa anche attraverso i mezzi pubblici, certe circolari. Basti pensare alla fedeltà del poeta per la Circolare rossa. Istituita nel 1931, è stata il tram cittadino fino al 1975: da ponte Risorgimento saliva verso l’Aventino, scendeva, percorreva Viale Trastevere, passava per Porta Angelica, tornava al punto di partenza. Bene, anche il giovane critico Marco Onofrio nel suo  bel testo “Ungaretti e Roma” (edizioni Edilazio, Premio Carver 2009) racconta di quella schiera di ex studenti del professor Ungaretti, che (“per chiara fama” insegnò alla Sapienza), a fine lezione salivano con lui sulla Circolare, seguitando certo a discutere di Dante e Leopardi, ma fermandosi soltanto in caso di transito di belle ragazze. Leone Piccioni, che di Ungaretti ha curato l’opera poetica, racconta che il professore, alla sua fermata, “tante volte per dimenticanza, tante volte perché preso dal discorso senza aver volontà di interromperlo, altre volte ancora per stare un altro po’ insieme (“Dove scendi? A San Pietro? Ti accompagno”), non scendeva, e si faceva, intero, un altro giro di Roma”. Ma è ancora l’Onofrio a ricostruire di Ungaretti indirizzi e traslochi; cerca materiali  e mette a fuoco il  rapporto poetico con la città dove Ungaretti va a vivere nell’inverno del 1922, dettagli per lasciare scoprire la naturalizzazione di Ungaretti a Roma, romano per ragioni del cuore. Il vero, solenne ingresso nella capitale, a quasi trentacinque anni, coincide con quello di Montaigne: “lungo la Flaminia, dalla Porta del Popolo”. I primi passi sono dunque tra memorie letterarie; quelli fatti prima della guerra, nel ‘12, tra catacombe e monumenti, erano stati troppo incerti per via di “tante cose inconsuete” (…) 

L’articolo in versione integrale:

Il poeta Giuseppe Ungaretti a 50 anni dalla morte (1970-2020). Un innamorato della vita che si illuminava d’immenso.

“Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani” (2ª ed.), di Maria Pia Santangeli. Lettura critica

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Sono finalmente crollati, come muri pericolanti, i silenzi della Storia sulla vita quotidiana. Prova ulteriore ne è “Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani”, di Maria Pia Santangeli (scrittrice originaria della Toscana ma da anni residente e operante a Rocca di Papa), recentemente uscito in seconda edizione per i tipi di Edilazio. È ormai acquisita alla ricerca storica contemporanea la consapevolezza che un’eventuale penuria o assenza di documenti non significhi, con ciò stesso, assenza di storia. Anche perché – è noto – i documenti della Grande Storia sono spesso monumenti (ovvero prodotti intenzionati e/o falsificati): la vita quotidiana, così, non solo non è assenza di storia, ma di essa costituisce e può rappresentare addirittura l’essenza. Altrimenti detto: la storia siamo noi. “Non si sa nulla della vera storia degli uomini” scrive Céline nel Voyage au bout de la nuit: una frase che la Santangeli riporta, non a caso, in epigrafe al libro. Così, nel sentire e sapere che “quando un giorno finisce non esiste più” (I. B. Singer: altra epigrafe), viene spontaneo chiedersi quale minuta realtà esistenziale abbia segnato, sostanziato e attraversato il passaggio terreno delle generazioni. Se ogni uomo è un mondo dentro il mondo, mentre il silenzio inghiotte il suono della voce; se nell’oblio sfumano i pensieri, insieme a tutto il resto: quali sentimenti e sogni hanno acceso il suo cuore? Quali dilemmi ne hanno reso le notti insonni? Quali dolori lo hanno trafitto? Quali immagini si sono impresse sulle sue pupille? Quali parole hanno preso il volo come farfalle dalle sue labbra? La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: ogni istante il mondo muore, crolla, dilegua, entra nell’invisibile. Tutto è caduco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che, secondo il filosofo tedesco Wilhem Dilthey, spetta alla storiografia manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Lo scrittore di storia intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’Erlebnis, l’esperienza ri-vissuta. Compito dello storico è sottrarre il tempo all’oblio, ricostruendolo e ripensandolo sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i poeti e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare.

Scorrendo su tali coordinate epistemologiche e metodologiche si muove il libro, accuratissimo, della Santangeli. Lei stessa dichiara programmaticamente, all’inizio del libro, l’intenzione di «raccontare le giornate di lavoro di boscaioli, mulattieri, carbonai, di donne che scorzavano nel tentativo di non lasciarli nell’ombra». La grande Storia si trova spesso costretta ad ignorare, per limiti di campo, le “piccole storie”: «eppure un’accetta dal manico consumato conserva l’odore della vita», è satura di vita vissuta. Questo libro è splendido anche per l’autenticità umana che veicola, come valore aggiunto, alla verità storica dei documenti; ed è autentico perché nasce da una forte urgenza espressiva, quella di uomini e donne che «non hanno fatto altro che brontolare» dentro l’autrice, chiamata a dar loro un corpo di parole, a farli risuscitare dalla pagina, pur nella consapevolezza di poter restituire solo «frammenti dell’infinita molteplicità della vita, della sua misteriosa complessità». Un viaggio nel tempo, dunque, vissuto e attraversato su più piani contemporanei. Ci sono almeno tre prospettive diacroniche che la Santangeli indaga, da par suo: il piano quotidiano (la giornata di lavoro dall’alba al tramonto); quello stagionale (da novembre alla primavera); quello epocale (sino alla fine di quel mondo, cancellato dalla trasformazione tecnologica e dal diffuso benessere economico). Marchigiani (soprattutto di Sarnano) e cappadociani (cioè abruzzesi) davano vita a una migrazione stagionale che lasciava spopolati i paesi d’origine: si trasferivano nei boschi del Lazio, per avere sei mesi di lavoro assicurato. I proprietari dei boschi convocavano i “capoccia” boscaioli: ciascuno, trovato l’accordo economico, procedeva all’ingaggio di uomini per formare la “propria” compagnia. C’era quindi la fase di preparazione: si arrotavano le accette e si ingrassavano gli scarponi con la sugna. Poi, il giorno e il luogo dell’appuntamento. La marcia di avvicinamento al bosco. Il silenzio profondo e vasto. Ciascuno immerso nei propri pensieri. L’arrivo. L’alba. Cominciava il picchiare delle accette, i colpi sordi che si accavallavano. La giornata lavorativa era divisa in tre parti e segnata da due pause: quella per la colazione (intorno alle 9) e quella per la “merenda” (verso le 13.30). La giornata finiva all’imbrunire. Nelle baracche fumose si respirava l’amaro della lontananza e della nostalgia. Ci si risvegliava l’indomani, al canto del gallo.  

Di questo mondo l’autrice si impegna a darci ogni dettaglio (sia corposo grumo di esistenza, sia piuma di labile riflesso), con un “dono” totale di presenza, richiamo, enumerazione, acciocché nulla resti escluso dal tocco vivificante della sua penna, guidata da un non comune afflato di passione e ispirazione poetica, che accendono il rigore scientifico della ricerca e, nel perseguimento della verità, i frutti di una limpida onestà intellettuale. Scrivere storia è un po’ come saldare il “debito” con l’esistenza di ogni uomo che, in quanto tale, rivendica memoria. Ed ecco allora, passati in rassegna (puntualmente descritti e approfonditi, uno ad uno), i diversi mestieri del bosco: facciatori, segatori, scorzine, manicari, forcinari, fascettari, spinaroli, rogaroli, carbonai… Ed ecco, ancora, i canti di lavoro. Scopriamo così che quella gente cantava di tutto: dalle canzoni trasmesse in radio agli antichi canti popolari d’amore e morte, con gli epiloghi quasi sempre dolorosi. La melodia si confondeva col respiro, col sangue, col ritmo cardiaco: «era un tempo in cui la rima e il canto vivevano dentro la vita di ciascuno». E il canto era corale perché esisteva un patrimonio condiviso di storie: Pia dei Tolomei, la Sepolta viva, Genoveffa di Brabante, i Reali di Francia, i Paladini, il Guerrin Meschino, ma anche brani spesso lunghissimi (recitati a memoria) dalla Divina Commedia, dall’Orlando Furioso, dalla Gerusalemme Liberata. Le letture e i racconti eleggevano il proprio scenario ideale nelle veglie d’inverno accanto al focolare. C’era un gusto dell’ascolto diverso da oggi: più ingenuo e integro, non “saturo”. Le parole del narratore cadevano direttamente nell’anima: «gli occhi degli ascoltatori vedevano tutto, proprio tutto, al di là della parete di tavole». I poeti frequentavano le osterie – molti dei quali a braccio, da cui la tradizione dei “contrasti” (in rime cantate e improvvisate). La vita, insomma, camminava in modo semplice, obbedendo a ritmi precisi, antichi, tramandati intatti dal passato. Il tempo storico del lavoro si conformava al tempo biologico, operando organicamente, collaborando coi processi naturali. A livello umano, non c’era spazio che non fosse la solidarietà della fatica comune: «giornate piene di lavoro, di fatica, e le sere di fumo e di storie». L’esistenza quotidiana si componeva intorno a un fulcro stabile di valori, di punti cardinali: l’orgoglio di essere utili alla famiglia, il desiderio intenso di faticare, il piacere limpido e profondo del lavoro fatto a regola d’arte. E poi finalmente, giorno dopo giorno, ecco l’arrivo della dolce primavera, col sospirato conguaglio finale (“lu staiu”) e il ritorno a casa.

“Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani” è un libro di grande importanza storica e di squisita fattura letteraria. Si giova infatti di una scrittura “prensile”: vivida, acuta, multisensoriale. Un magnete che la Santangeli passa sulle cose per carpirne l’anima, l’essenza, il cuore profondo: suoni, odori, voci, parole, pensieri, sentimenti, usi e costumi di un mondo che non esiste più. Particolarmente gustose le descrizioni del cibo: il «caldo saporoso odore di minestra», il rituale quotidiano della polenta, il pane che scrocchiava sotto i denti. Poca materia e, conseguentemente, molta anima, molta luce d’uomo. Il vero poetico ritaglia le proprie zone di trasparenza in mirabili squarci di lirismo, ai margini stessi del vero storico (i documenti e le preziose testimonianze orali) su cui basa la propria fondatezza. Un affresco storico e umano che ci ricorda e dimostra come – nel portare alla luce l’onnipresenza umile e solenne della vita – la storia possa anche farsi opera d’arte, e lo scrittore di storia (ma questo va ascritto a merito di Maria Pia Santangeli) essere poeta.

Marco Onofrio

A 50 anni dalla morte: Giuseppe Ungaretti e Roma, tra memoria e innocenza

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Ungaretti e Roma: un incontro problematico ma determinante, senza il quale la sua poesia non sarebbe la stessa. Senza Roma, senza gli anni trascorsi a Roma, senza il contatto con le realtà multiple di Roma – essenza metastorica e vita quotidiana -, ebbene, ci domandiamo: avrebbe mai scritto Sentimento del Tempo o Il Dolore, o La Terra Promessa? E se fosse rimasto per sempre a Parigi, quale corso avrebbe preso l’evoluzione creatrice della sua scrittura?

Roma, scostante e affascinante alterità: richiamo che attrae ma disorienta – nodo da sciogliere, mistero da decifrare, incognita da depotenziare. Il problema è la “presa di possesso” di una città che “deve” fare sua in quanto forestiero. Prova rispetto sacrale per una Storia che inizialmente sente estranea, poiché lo intimidisce e quasi lo paralizza, con la dismisura irriducibile della sua “offerta”. Roma è un infinito che “non cape”, che sfugge da ogni parte, che non si lascia ricondurre ad unità. È proprio questo, infatti, l’ostacolo maggiore che, fin da subito, si frappone alla sua “presa di possesso”. Come scrive nelle “Note” a Sentimento del Tempo: «la difficoltà che avevo da principio era di arrivare a vedere come ci fosse una unità». La Città Eterna, infatti, gli si presenta come un «vasto e fitto agglomerato di memorie storiche», ma anche di vuoti e di salti inquietanti. A Roma ritrova il sentimento del vuoto del deserto e la violenza del sole africano. A Roma coglie le risposte alla sua ansia religiosa, che «si ritrova con un carattere inatteso di iniziazione». A Roma, infine, scopre e vive il sentimento del tempo. Quale luogo più appropriato sulla terra? Roma è la mostra permanente delle sue precedenze, del tempo che divora e che trasforma. È la presenza di tutte le sue assenze: «sede civica», per questo, «del sovrapporsi dei tempi storici, sistema urbano stratificato e sopravvivente del potere delle nazioni (come dice Vico) di distruggere e ricostruire. Quel potere con il quale gli uomini vincono il tempo e lo addomesticano, trasformandolo in memoria, tradizione e civiltà, in patria residenziale dell’eternità terrestre» (Gnisci). Roma è una città di “fondo barocco”; e in fondo al barocco, dunque in fondo a Roma, c’è una macina che mangia e che tritura, che riduce il mondo – sottoposto senza tregua al suo potere – a un abisso apocalittico di vuoto, dove tutto si fa rovina, nient’altro che “terra, fumo, polvere, ombra, niente” (Gongora). È la «pulsante voragine dei tempi che minaccia il pericolo di far scomparire la loro memoria» (Gnisci). Roma è la memoria di tutte le memorie che – con la presenza delle sue rovine – argina il vuoto del tempo, proprio sul bordo della sua voragine. È questa dimensione di confine, di snodo tra presenza e assenza, pieno e vuoto, tutto e nulla, che rende sempre possibile, a Roma, sempre sospesa e come in agguato, la visione rovesciata del classico – quale armonia pacificante di tempo posseduto – in trasfigurazione barocca di tempo dissipato, di residuo combusto, calcinato, allucinato. È la dialettica agonistica fra la “luce nera”, gonfia di angoscia e livido merore, e l’“ombra luminosa” attraverso cui si agguanta il filo d’Arianna dentro il labirinto, vale a dire il bandolo arruffato della sua matassa. Roma allora è un dedalo inorientabile di strade ma, al contempo, la mappa ordinabile delle umane rappresentazioni, e il senso ultimo dei loro infiniti significati – anche al di là della Storia.

Come uscire dunque dall’impasse? È Michelangelo che, a un certo punto, lo soccorre e gli indica la strada. Quel Michelangelo da cui Ungaretti fa derivare il barocco: dallo scontro che in lui si combatte, fra mondo cristiano e mondo antico, e attraverso cui prende corpo, scrive Ungaretti, «la prima voce d’un uomo accortosi che l’incivilimento lo aveva di troppo discostato dalle fonti religiose dell’essere, dal mistero delle cose, e che le forze morali a sua disposizione, a disposizione dell’uomo d’allora, erano troppo piccole per colmare l’abisso. Da qui gli sforzi sbalorditivi che fa il barocco per raggiungere un equilibrio». Un equilibrio tra memoria e innocenza, diremmo traducendo nei termini in cui Ungaretti può riconoscere i corni del suo stesso problema artistico e i margini del percorso che lo informa. Questa evocazione di Michelangelo come padre del barocco è anche un modo ulteriore per appropriarsi di Roma. Ungaretti ci mette anni per farsela amica, per sentirla familiare. Il suo rapporto con Roma procede nel senso di una duplice e simultanea centralizzazione: la città diventa cuore del poeta nella misura in cui egli si appropria del suo (culturale, storico, semantico, simbolico); e viceversa.

Quando arriva a Roma, Ungaretti si “scontra” con una memoria immensa da metabolizzare, e la vive piuttosto come filtro – concrezione opaca e impedimento – tra sé e il segreto eterno della città, che avverte e forse intravede splendere, negli squarci aperti del suo guscio, come un diamante liquido di luce. È una memoria letteralmente incontenibile: un macigno che grava sopra il cuore di Roma, trasformandola in un tortuoso labirinto di stratificazioni che ne ostacolano il passaggio, se non il possesso, e le dinamiche multiformi di una libera, fluente percezione. Roma gli appare come un gigantesco parco archeologico di rovine, cioè di memorie, dove si aggirano visioni di fantasmi, dove prendono corpo epifanie, dove aleggiano misteri e apparizioni. Le passeggiate archeologiche dell’uomo-forestiero che vuole familiarizzare con Roma, e del poeta che aspira a coglierne il segreto, conducono Ungaretti all’incontro con i lacerti condensati di una Storia grandissima, che poi sono i classici memorabilia del turista romano d’ogni tempo e provenienza, ovvero vestigia opache e maestose di una civiltà ormai storicamente tramontata – malgrado i roboanti embateri della propaganda di Regime. Ungaretti riesce a tenersi quasi del tutto immune dal mito fascista di Roma imperiale, che pure è in gran parte contemporaneo al suo processo di assimilazione della città. Il vero “mito di Roma” che lo intriga prescinde da sollecitazioni occasionali, e tanto meno da istanze politiche, ma ha un’origine metastorica e una connotazione principalmente poetica, legata al mistero che Roma nasconde nella sua fibra intima – di spazio e di tempo, di vita quotidiana e di cultura: fin dalle lettere del nome. Sicché, scrive Domenico De Robertis, «quella a cui per le strade e per la campagna romana Ungaretti muove, negli anni Venti, è la scoperta di un paesaggio poetico (…) Roma, i suoi segni, i suoi colori non erano che il luogo d’incontro, ovunque e continuamente col mito (…); non erano, per dirla ancora con Ungaretti, che voci del vocabolario – come Apollo, come Giunone di due poesie ben note – accorse ad evocare i fantasmi che di frequente mi apparivano nella città dove vivevo». Anche la sua poesia, allora, diventa una poesia di “miti”. In Sentimento del Tempo, infatti, Roma trapela sotto apparenze velate e attraverso riferimenti non più che allusivi. È come se il poeta non si sentisse ancora pronto a nominarla direttamente. Roma, piuttosto, è una sostanza reagente che Ungaretti scioglie – a piccole dosi – nel suo liquore poetico, filtrato nei colini del barocco: invisibile, se non per rari granuli di saturazione, ma tale da rendersi avvertibile al sapore. Nota in proposito Emerico Giachery: «Nella prima fase romana, quella che confluisce nelle pagine di Sentimento del Tempo, l’incidenza di Roma nell’opera è certo profonda, ma non esplicita, come potrebbe supporre chi si limitasse a considerare il ripensamento di quegli anni compiuto nelle prose più tarde e nell’autocommento. Nell’edizione definitiva di Sentimento del Tempo i segni espliciti della presenza di Roma sono stati espunti, e come riassorbiti, se così si può dire, entro un’atmosfera diffusa». Fanno deroga: l’allusione ai “colossei” in D’agosto, resa peraltro generica dall’uso del plurale; e l’aggettivo del titolo La pietà romana, che è un rarissimo tributo alla retorica di Regime, all’idea fascista della nuova Roma e dei suoi restauratori.

Il paesaggio romano e laziale – convergenza e sovrapposizione, nell’ordine del “mito”, di “paesaggio naturale” e “paesaggio culturale” – offre a Ungaretti lo scenario ideale per una suggestiva trasfigurazione poetica, che trova nel barocco la sua chiave di volta. L’assimilazione di Roma, infatti, procede in parallelo con quella, tematica e formale, del barocco, rispetto a cui Ungaretti si trova in particolari rapporti di consonanza, di affinità elettiva, di congenialità, e che del resto proprio a Roma celebra i suoi massimi trionfi culturali. Il barocco storico è lo stile artistico e soprattutto architettonico predominante, capace di orientare, in termini diffusi e decisivi, la “facies” attraverso cui la città post rinascimentale si rende percepibile al fruitore. Ma il fatto è che, per Ungaretti, “barocco” è pure il Colosseo: ascrivibile cioè a un’accezione estensiva del concetto, decontestualizzata peraltro dalle sue origini storiche, denaturata delle sue peculiari caratteristiche formali e assunta per alcune vaghe ma potenti suggestioni tematiche, come l’“horror vacui” e il “sentimento del tempo”. Se, anche in tal senso, Roma è una città di “fondo barocco”; se c’è il barocco nel fondo di Roma; se cioè il barocco è per così dire endogeno alla sua essenza: è dunque l’esperienza del barocco, stimolata magari dalla violenza scarnificante della stagione estiva, la strada maestra per raggiungerla all’interno e conquistarne il segreto; la chiave per aprire la sua porta; il “ponte levatoio” per espugnare le mura della sua “fortezza”. La Città Eterna è “speculum mundi”: massima concentrazione stratificata e rappresentazione, anche scenografica, delle umane memorie. L’«intima diacronia» del rapporto con Roma è congeniale e funzionale al cardine poetico ungarettiano: per questo la città – al di là dei fattori biografici – risulta così centrale e importante, ai fini della sua meditazione. Il percorso, infatti, va «dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare»: compito del poeta è agevolare il “folle volo” verso la “terra promessa”, abbracciando una nuova ma antichissima dimensione di innocenza e dunque assolvendo il compito prometeico di emancipare l’uomo dal peso del corpo e del tempo. La pagina scritta si realizza come spiaggia mitica di liberazione: come spazio metafisico di resurrezione, di “materia guarita”. È nell’infinito margine del verbo creatore, nell’espansione luminosa del suo alone – riverbero del canto e irradiazione magica del suono -, che la poesia misura ed attua il suo mandato destorificante, traguardandosi come potenza mitopoietica. Scrive Ungaretti in Indefinibile aspirazione (1947-1955): Estrema aspirazione della poesia, è di compiere il miracolo nelle parole, d’un mondo risuscitato nella sua purezza originaria e splendido di felicità. Toccano quasi qualche volta le parole, nelle ore somme dei sommi poeti, quella bellezza perfetta ch’era l’idea divina dell’uomo e del mondo nell’atto d’amore in cui vennero creati.

L’innocenza è il riscatto della memoria, ma senza la memoria l’innocenza non può essere raggiunta. È la memoria, sostanza e materia del viaggio. Il poeta deve raccogliere tutta la memoria, propria e altrui, per oltrepassarla, attraversando le paludi infere prima di salire in paradiso. La memoria del mondo attraverso la propria, e la propria attraverso quella del mondo. Senza paura di infilarsi a capofitto nel buio della sua angosciante e dolorosa vicissitudine. Perché la luce brilla laggiù, in fondo al tunnel, dentro l’opaca oscurità della materia: oltre la fine della sua disperazione. Allora il poeta ha bisogno della memoria, giacché alla memoria stessa chiede di produrre il suo riscatto. L’innocenza nasce dalla combustione della memoria. Occorre “sentire” il tempo per sfondarlo e trapassarlo, per raggiungere il suo “tutto”, il suo cuore di bianca eternità. Ungaretti dunque s’imbatte nella memoria impenetrabile di Roma. E punta al nucleo semantico, al cuore del simbolo, rivendicando spazio ai suoi percorsi: anche una breccia d’obice, tra quelle mura, pur di conquistare un varco al mistero che Roma rappresenta. Ha bisogno di Roma nella misura in cui deve attraversare la memoria, se vuol raggiungere la massima innocenza, in grado di affrancare l’universo. È come una grande trasformazione alchemica. Come un fuoco da accendere – e il comburente è proprio la memoria. Come raggiungere la massima innocenza? Trasformando la massima memoria. Ecco Roma, dunque. L’obiettivo più o meno conscio che anima il percorso ungarettiano è quello di convertire Roma – emblema mondiale della memoria – a parametri equivalenti, opposti ma complementari, sul piano dell’innocenza.

Ed ecco che irrompe l’innocenza dal seno stesso della memoria. È l’opera poetica – percorso di memoria trasfigurata e spazio metafisico ai confini dell’innocenza – l’autentica “terra promessa” che si apre alle umane possibilità? È un poeta, o un lettore di poesia, il “nuovo Ulisse” al quale «pare di ritrovarsi nel momento incontaminato dell’universo, quando non era ancora corrotta la materia?» C’è in effetti, nella Terra Promessa, «quasi inavvertibile, un lentissimo smemoramento in un’ebrietà lucida. Poi è il rinascere ad altro grado della realtà: è per reminiscenza il nascere della realtà di secondo grado, è, esaurita l’esperienza sensuale, il varcare la soglia d’una altra esperienza, è l’inoltrarsi nella nuova esperienza, illusoriamente e non illusoriamente originaria – è il conoscersi essere dal non essere, essere dal nulla». Si entra così «dalla sfera della realtà dei sensi alla sfera della realtà intellettiva». Un cambio di stato mentale prodotto dallo «smemoramento», che presuppone, in quanto oltrepassa, l’opposto ma complementare «rammemoramento»: l’anàmnesis, la reminiscenza. Smemorarsi non significa banalmente dimenticare, cioè escludere la memoria; bensì, ricordare ancor di più: attraversare tutta la memoria per poi uscirne e, finalmente, liberarsene.

Occorre attingere all’innocenza stessa della memoria, che la memoria racchiude dentro sé, come un segreto. La vera innocenza, infatti, non è oblio o beata inconsapevolezza, ma “ebrietà lucida”, cioè supercoscienza. L’ebrietà lucida è lo stato mentale in cui vediamo tutte le cose come sono davvero, iuxta propria principia, aprire la loro scorza opaca e liberare spontaneamente, per epifania, i frutti del loro più intimo significato. È la Terra Promessa, infatti, il luogo poetico «in cui si compie una vera e propria operazione di ribaltamento dello stesso “ermetismo”, ed è allora che Ungaretti raggiunge i massimi risultati, secondo la lettura debenedettiana, quando cioè non essendo più in grado di raggiungere coi sensi “le arcane immagini dell’eterno”, il poeta lascia che siano l’anima, lo spirituale “a fruttare – scrive Debenedetti – immagini che annunciano ermeticamente ma non spiegano il loro significato nel mondo dei sensi”», sicché i riferimenti materiali scompaiono e il poeta arriva a riconoscersi un essere metafisico, fatto di solo pensiero, di puri modi di essere senza materia. Chi è questo alter ego del poeta-viator, del poeta-argonauta? Chi è questo “nuovo Ulisse” in viaggio perenne verso la “nuova Itaca”?
È Enea, l’eroe di Virgilio.

Allora è Roma la “nuova Itaca”, la Terra Promessa dove edificare umanamente l’uomo e realizzare la palingenesi del mondo. Il luogo mitico della grande “trasformazione alchemica” dove convertire la memoria massima nel suo corrispettivo di innocenza. Ungaretti cerca l’“innocenza romana” attraverso tutta la memoria storica, ormai metabolizzata. Il progetto incompiuto del poema nasce da questo gigantesco tentativo di raccogliere e oltrepassare il senso umanistico di Roma, in chiave di liberazione cosmica.

Marco Onofrio
(da Ungaretti e Roma, passim,
Edilazio 2008)

 

Il Settecento a Roma e il nuovo gusto teatrale, in un saggio di Lodovico Paolo Lemme. Lettura critica

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Il Settecento è un secolo che da tempo affascina gli studiosi. Già nel 1985 lo storico Lucio Villari, introducendo la sua raccolta di saggi Settecento Adieu (Bompiani), aveva modo di scrivere: «Una emozione estetica sta seducendo l’Europa: l’abbagliante ritorno del Settecento. Si percorrono musei e mostre, si leggono libri e si osservano con maggiore attenzione luoghi e architetture dove l’ultimo secolo dell’età feudale ha dato il meglio di sé, stimolato dal riformismo dei governi e da nuovi linguaggi politici, letterari, figurativi, musicali e filosofici. Le affinità elettive con la cultura di quel secolo fanno del Settecento uno spazio della storia moderna quasi familiare, come se esso fosse comprensibile nella sua totalità proprio perché amabile in tanti suoi aspetti, dai più lievi ed effimeri ai più drammatici». Si sarebbe potuto pensare, vista la data di uscita del libro di Villari, ad una moda effimera, dovuta all’approssimarsi del bicentenario della Rivoluzione francese (celebrato tra vari revival nel 1989). In realtà l’interesse per il Settecento è proseguito nel corso degli anni, con mostre, articoli, cataloghi, libri.

A Roma il Settecento è il secolo delle scoperte archeologiche e delle sistemazioni museali: la Città sviluppa una nuova sensibilità, si apre al “sociale” e vede realizzate strutture ad uso del cittadino (come Piazza del Popolo, la scalinata di Trinità dei Monti, il Porto di Ripetta), laddove comincia a individuarsi un ceto borghese, seppure assai limitato rispetto ad altre città italiane ed europee. Il Settecento è anche il secolo dei teatri a Roma: l’Argentina, il Valle, il Tordinona, il Capranica, l’Alibert… A tal proposito, è proficuo leggere l’agile ma pregnante volume di Lodovico Paolo Lemme, La commedia borghese nel Settecento a Roma, pubblicato nel 2006 da Edilazio per la collana “Studi e documenti”. Il saggio di Lemme inquadra e raccoglie le prime aurorali manifestazioni di un gusto nuovo che comincia a prendere forma nel variegato pubblico dei teatri romani. Il primo capitolo, dal titolo emblematico “La nuova poetica”, ci dà la “chiave” con cui leggere il resto del libro e aprire le diverse porte che individua sui muri granitici della storia. Una sorta di griglia teorica, che saranno poi i capitoli seguenti a riempire via via di dati, notizie, aneddoti, personaggi, autori e opere, fino a rendere esaustivo lo scenario, pur nei limiti storiografici della ricerca. Lemme, cioè, fornisce il necessario inquadramento storico-ideologico della materia, enucleando le “radici” che nutrono la nuova arte e – insieme causa e conseguenza – l’istanza del pubblico cui va ad ottemperare.

“L’età dei Don Rodrigo” è ormai in declino: già si avverte, diffuso tra le coscienze, un concetto nuovo dell’uomo, per cui sono degni di rispetto anche gli umili, contro il prepotere dei potenti. Il nascente spirito illuministico esalta la ragione come luce di libertà e di esame critico cui tutte le manifestazioni del reale sono chiamate a sottoporsi, pena la loro destituzione di fondamento. L’autorità non può più auto-fondarsi. La religione con la sua santità e la legge con la sua maestà pretendono di sottrarsi al vaglio critico della ragione, ma solo ciò che regge al libero esame appare ormai degno di rispetto. Sapere aude! Abbi il coraggio di sapere, serviti della tua propria intelligenza, confida in te stesso: è questo il monito che gli Illuministi rivolgono a ogni uomo, fermamente convinti che tutti sono ugualmente portatori di ragione, poiché la ragione ci appartiene come prerogativa, come fondamento. Da qui il cosmopolitismo, l’egalitarismo, lo slancio ottimistico verso un mondo migliore (nella misura in cui conforme alla ragione). È la Weltanshauung della borghesia emergente che aspira al potere, e quindi finisce per scontrarsi con le strutture monarchiche e assolutistiche dell’Ancien Règime. L’uomo razionale è spregiudicato, cioè libero da pre-giudizi, e si sente cittadino del mondo: capisce che le barriere nazionali sono solo convenzioni artificiose, che vanno superate mediante la volontà di aprirsi a ciò che è diverso e quindi – in quanto tale – degno di essere conosciuto con disposizione fraterna.

Perde colpi la letteratura intesa come esercizio ozioso e formalistico all’interno di una casta chiusa di raffinati cultori e nell’ambito esclusivo di corti e palazzi nobiliari. Si afferma l’esigenza di una cultura utile, che giovi alla pubblica felicità offrendosi come veicolo di diffusione dei “lumi”, come strumento pedagogico e divulgativo, come fomite di polemica, di messa in discussione. Occorre passare dalla soporifera cultura secentesca, “fatta di parole”, a una pungente cultura “fatta di cose”, che risponda ai bisogni concreti della società. Che il linguaggio sia limpido, immediato, spigliato, accattivante: che parli anche al pubblico dei non letterati. Ma in Italia c’è il solito problema della lingua: manca una lingua colta che sia anche lingua d’uso e, di conseguenza, un pubblico medio che faccia da interlocutore. Il letterato, nonostante i migliori propositi, finisce per parlarsi addosso: ad ascoltarlo, tutt’al più, i soliti quattro “aristogatti” delle cerchie elitarie, nei salotti buoni. È tuttavia significativa l’esigenza di un’aria nuova, anche laddove la teoria non si traduca in esiti concreti.

E il teatro? La drammaturgia deve necessariamente postulare l’esistenza di un pubblico (reale o ideale) per cui è scritto il progetto dello spettacolo, che poi si metta in scena oppure no. Ogni testo ha in sé, incarnata nelle sue pieghe, la “regia” del proprio spettacolo: vive per lo spettacolo, in vista della messa in scena. Anche quando letto e non rappresentato, vive dei personaggi che lo interpretano – sia pure nello spazio ideale della parola, della scena immaginaria. La drammaturgia è, fra i generi letterari, quello che più si apre al contatto con il pubblico; ai gusti del quale è chiamata direttamente a rispondere, più che ad orientarli, pena l’insuccesso dello spettacolo. È proprio il teatro, dunque, a darci il polso più attendibile della situazione, come un sismografo sensibilissimo delle fluttuazioni del gusto. Così, mentre la tragedia prosegue dritta per la sua strada (intellettuale, erudita, accademica), è nella commedia che prende man mano corpo la nuova sensibilità borghese. Il pubblico comincia a non condividere più, supinamente, il vecchio ordine del mondo. Si forma un “pubblico medio” che rifiuta sia la paludata tragedia sia, d’altro canto, la grossolana e farsesca commedia dei lazzi: le sconce arlecchinate di cui continua invece a bearsi il popolo minuto. La nobile commedia dell’arte, infatti, è andata via via degenerando. Occorre una riforma, ispirata al binomio natura-ragione: che la commedia ritragga l’uomo dal vero, che realizzi l’unione della vita con la scena. Si sfaldano gli schemi acquisiti. I confini diventano fluidi: non c’è più la rigida separazione tra i contenuti alti e profondi della tragedia e la risibile superficie della commedia. Alla commedia, anzi, non si chiede più di far ridere: semmai di far piangere. Nasce la tragicommedia dal sorriso amaro, che spesso mira alla frustata, alla satira dei costumi. Il tragico quotidiano, non più aulico e regale, dà una risposta più autentica e vicina alle esigenze di un pubblico che non è più soltanto di letterati. Nasce insomma il dramma delle persone, che scendono dal piedistallo e si agitano in un mondo di passioni concrete, di scene quotidiane in cui “ognuno può ritrovarsi”. Sintetizza Francesco De Sanctis, citato da Lemme: “Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, così l’ideale, uscendo dalla sua astrazione serena, entrava nella vita lacrimosa, ed era patetico e sentimentale”. La ragione degli Illuministi non porta ancora al “razionalismo”: non è fredda, ma equilibrata dalla “natura”, cioè dalla sensibilità, dall’affettività, dalla fantasia. Cuore e ragione procedono a braccetto, in piena armonia. Tra natura e ragione non c’è conflitto. Il sentimento, anzi, deve essere guidato e temperato razionalmente, non sfrenarsi in modo selvaggio. La commozione è, inoltre, il preambolo della conoscenza, il “primo modo di percepire i moti misteriosi del cuore, di scoprire la propria interiorità turbata”. Ed ecco il sentimentalismo soffuso del nuovo dramma. Il cuore come stoffa di colori da sfogliare, come variazione di sfumature, come misura di reagenti alchemici. Tutto diventa più sottile e sensibile al dettaglio. Scrive Lemme:

Nonostante avversioni pedantesche alla commedia lacrimosa da parte di accigliati barbassori, affiliati alle molteplici accademie, pullulanti nei recessi più ombrosi d’Italia, che decretavano il “socco” destinato al riso ed alla satira, il pubblico che si evolve coll’evolversi dei tempi, accolse la nuova commedia, suscitatrice di riso, ma pur di mestizia, con gradito consenso, e da allora in poi “commedia” significò rappresentazione di vicende umane in senso lato, non più rispondente a temi precisi e a scopi obbligati. Tragedia senza re ed eroi, muta di roboanti versi (che rimarranno tenaci nei libretti d’opera!) che si esprime con il linguaggio genuino dell’uomo, che lotta contro i pregiudizi e le avversità, nel realismo progressivo all’evoluzione sociale: eroi discesi dal cielo in terra, non come titani, ma come modeste figure del vivere quotidiano che agitano sulle scene le loro passioni, non plutarchiane, ma pur degne di commozione.

Però il nuovo teatro comico fa presto a perdere slancio creativo, per ricodificarsi in clichés di facile e sicuro successo, sicché i temi di tutte le commedie dell’epoca finiscono per essere sempre gli stessi. Un repertorio finito per variazioni prefissate di “ars combinatoria” – guidate dalla risposta più o meno positiva del pubblico – cui attingono scrittori e librettisti, con interscambi reciproci fra teatro di prosa e melodramma. Ed eccoli, i protagonisti di penna e/o di scena del nuovo teatro. Anzitutto Carlo Goldoni, celebre fautore della “riforma”. A Roma giunse nel 1758. Si lamentò molto del pubblico romano, che definì “terribile” per cui – ebbe modo di osservare – “a Roma è principalmente dove soffrono le mie commedie” (e tuttavia circa 70 ne andarono in scena, in genere con successo, fra i vari teatri). Goldoni fece fiasco al Tordinona con la “Vedova spiritosa”, ma ebbe fortuna al Capranica con la “Pamela”, prima, e la “Pamela maritata”, poi. Lemme passa in rassegna anche i “minori”: un variegato universo di personaggi, spesso bizzarri, che diventarono popolari per il pubblico di quel tempo. Fra i più graditi a Roma furono il Cerlone, l’Avelloni, l’Albergati Capacelli, il Federici, il Willi, il Sogràfi… Meno successo ebbe Gian Gherardo De Rossi, del quale è emblematica la sproporzione fra le intenzioni programmatiche e le effettive realizzazioni drammaturgiche. Mentre per la tragedia si mantiene più accademico, legato al personaggio antico (non ammette in scena che personaggi sublimi tratti dalla Storia o dal Mito: un “ferro delittuoso” lo vede solo in mano a Bruto), per la commedia si fa promotore del rinnovamento, cioè della fedeltà alla naturalezza e al vero: scopo della commedia è dipingere i difetti dell’uomo per correggerli, castigando mores. In questo richiamo alla natura è d’accordo con l’Albergati Capacelli, con cui intrattiene un interessante carteggio di riflessioni sul teatro; ma poi, all’atto pratico, scrive utilizzando un linguaggio pesante come il piombo, per dipingere tipi esangui, impegnati in azioni fiacche e prive di mordente. E tuttavia non riesce a mettersi in discussione: dei suoi fiaschi incolpa la superficialità del pubblico, che non si dimostra in grado di capire.

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Più viva e corposa, rispondente ai canoni della nuova poetica sociale, è la sostanza drammaturgica di Francesco Albergati Capacelli, con le sue tragicommedie romanzesche, ricche di “colpi di scena, fughe, rapimenti, stupefacenti agnizioni, furori e struggimenti”. Era costui un teatromane marchese di Bologna, attore e autore traboccante di furor scaenicus. Scrive Lemme: “Trascurò il blasone per il coturno ed ebbe vite coniugali da teatro tragico”. In particolare con la seconda moglie, l’attrice Cattina Boccabadati. La quale era insistentemente corteggiata da un vecchio compagno d’arte: l’Albergati Capacelli si trasformò in un Otello pazzo di gelosia. In un impeto di furore, afferrò un coltello da tavola: Cettina, per disarmarlo, si ferì mortalmente. Con questa versione dei fatti il marchese venne assolto dalla fondata ipotesi di uxoricidio. Sulla vicenda impernierà un drammone Giovanni Giraud, dal titolo “Il sospetto funesto” (1818).

Un altro autore bizzarro è il livornese Giovanni De Gamerra. Anzitutto perché era un esaltato: malgrado la sua evidente mediocrità artistica, riteneva di essere ingegno superiore a Goldoni, a Lope de Vega, addirittura a Shakespeare e a Molière! Poi, per un incredibile caso di necrofilia che lo vide protagonista, e che egli descrive dettagliatamente in una lettera all’Albergati Capacelli del luglio 1790. De Gamerra avrebbe esumato il corpo dell’amata Teresa Calamai, a suo tempo negatagli dai di lei nobili parenti, praticando una breccia nelle mura della chiesa di Pisa dove era sepolta. Trafugò la salma e la portò a casa propria, dove la ricompose, la vestì e la ripose dentro un armadio, che aveva fatto adorno di quadretti illustranti la sacrilega avventura. Quando poi provava nostalgia di Teresa, tirava lo scheletro fuori dall’armadio e, tra lacrime copiose, lo riempiva di baci! Anche i suoi drammi non sono da meno, animati dal gusto del macabro, scritti in uno stile enfatico, gridato e orripilante. C’è in atto quello “spettacolare stupefacente” in cui – a parte poche eccezioni, come Goldoni e Albergati Capacelli – finisce per tradursi la nuova poetica borghese. Contano certo le esigenze di cassetta, la necessità di fare successo, accontentando i gusti immediati del pubblico. La commedia borghese, nonostante le migliori intenzioni, dilaga spesso in un ambito di effetti spettacolari da melodramma (con cui arriva a gareggiare in fantasia), dove a darsi da fare sono soprattutto i macchinisti del teatro, più che il drammaturgo. E quindi tempeste, combattimenti a fuoco vivo, rulli di tamburi, duelli all’arma bianca, sbarchi, rombi, assedi, marce, evoluzioni militari… Un tourbillon di colpi di scena a ripetizione, un tumultuoso caos di accidenti inopinati e avventure e passioni romanzesche, in trame spesso senza capo né coda, con osti e staffieri che talora si producono in improbabili tirate filosofiche, dove in realtà è l’autore che parla: quanto di più lontano dalla riforma goldoniana! È chiaro che, depotenziando il rilievo drammaturgico dei singoli elementi, la combinatoria dei casi e degli effetti acquista uno spazio potenzialmente infinito: diventa molto più facile scrivere. In tal modo, forse, si spiegano i circa 600 drammi assemblati da Francesco Antonio Avelloni! Così numerosi che spesso dimenticava di averli scritti: gli capitava di entusiasmarsi per opere che riteneva d’altri, ma che in realtà erano sue. E pure Antonio Simeone Sogràfi, teoricamente più goldoniano, aveva un respiro drammaturgico corto, disorganico, tendente alla farsa.

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Quella inquadrata da Lemme è la vicenda storica di una sconnessione fra teoria e pratica, tra concezioni programmatiche ed effettive realizzazioni delle premesse date. Il teatro si vuole borghese ma, spinto da forze contrastanti, finisce per non esserlo ancora. Epperò è questa la fase in cui emette i primi vagiti, in Italia e anche a Roma, la tragicommedia lacrimosa e sentimentale del nuovo, incerto gusto. È probabilmente la mancata rispondenza di un pubblico borghese definito a causare certe titubanze, certi strafalcioni, certe clamorose cadute di tono. Com’era, dunque, questo pubblico a Roma? Eterogeneo, quanto e come la stratificazione socioeconomica del tempo. C’era un considerevole numero di luoghi destinati allo spettacolo: dal basso all’alto, teatrini popolari (come quelli per le marionette) disseminati in ogni rione (antri sporchissimi, autentici immondezzai); sale modeste (come all’Arco dei Saponari); sale dei collegi religiosi (come quella del Seminario Romano, vicino S. Ignazio) per testi edificanti od opere drammaturgiche purgate; prestigiose sale pubbliche di grande capienza (il Valle, l’Argentina, l’Alibert, ecc.); e infine sale private nei salotti patrizi (come quello di Maria Casimira, vedova del re di Polonia, a palazzo Zuccari in Trinità dei Monti, dove si rappresentavano opere in musica e austere tragedie). Per la nobiltà, invero, anche il palco al teatro pubblico era assimilabile al salotto di palazzo, in guisa di succursale esterna. Scrive Lemme: “Il teatro era non solo specchio di vita, ma esso stesso vita, e modo di vivere sociale: luogo d’incontro, luogo di ricevimento”. A teatro si scherzava, si rideva, si giocava, si amoreggiava, si spettegolava, si mangiava… Per questo i romani preferivano il teatro in musica: perché consentiva una percezione distratta e discontinua, compatibile con la conversazione. Il teatro di prosa, invece, richiedeva attenzione e silenzio. Le sale pubbliche, inoltre, erano troppo vaste e dispersive per potervi recitare con un tono di voce naturale. Occorreva gridare per farsi sentire dal pubblico, anche perché spesso la gente andava a teatro con il dichiarato intento di fare baccano. Il pubblico romano era turbolento, indisciplinato, facile all’apostrofe salace. Così lo dipinge anche Mario Monicelli nel film “Il marchese del Grillo” (1981). C’era chi, addirittura, nascondeva un botolo ringhioso sotto il cappotto e poi a tempo debito lo faceva abbaiare – da cui il pandemonio generale di urla e fischi, e per gli attori l’impossibilità di continuare. Gregorovius annota: “Chi non ha visto uno spettacolo al teatro Montanara di Roma non può avere idea di cosa sia il fracasso… Sembra di essere sull’Arca di Noè”. Dal loggione, poi, cadevano i più strani “proiettili”, talvolta anche di consistenza liquida. E gli attori finivano per rispondere alle apostrofi (lo stesso farà Gustavo Cacini nel ’900) e… ai lanci! Come quando, dopo una serie di recite burrascose al Capranica, gli attori esasperati decisero di ammassare sul palcoscenico un cumulo di tegole rotte, pronte all’uso… La censura papalina era occhiuta ma incapace di intervenire per imporre la disciplina. E fors’anche poco interessata: faceva comodo che il popolo romano preferisse i lazzi sguaiati e le buffonate – innocui – alle commedie, garbate sì ma adatte a veicolare germi malsani, idee pericolose. Meglio la gazzarra che il silenzio. Meglio ridere che pensare.

Il saggio ha il merito di farsi leggere piacevolmente, nel momento stesso in cui restituisce il senso e il sapore di un mondo, sia pur nell’ottica particolare delle vicende teatrali. È un’epoca intera, qui, che si dipinge e rappresenta nel suo farsi. Dagli scenari generali alle dinamiche minute e quotidiane; dal tessuto dei macrotesti all’ordito fitto dei testi; dai personaggi tipici alle persone reali: così Lemme conduce la sua accurata ricostruzione di un momento storico che vede Roma – meta irrinunciabile del Grand Tour europeo – sospesa ancora fra le tenebre asfittiche di un tempo immobile e gli scenari luminosi di un tempo nuovo, che bussa ormai alle porte.

Marco Onofrio

“Andrea Baroni. Il cavaliere delle rose e delle nuvole”, di Annalisa Venditti. Lettura critica

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Storia “di guerra e di amicizia, di coraggio e determinazione, di tristezze e d’amore” sullo sfondo della vicenda degli IMI, i militari italiani internati in Germania dopo l’8 settembre 1943, Andrea Baroni. Il cavaliere delle rose e delle nuvole (Edilazio, 2011, pp. 132, Euro 16), di Annalisa Venditti, è un libro bello e avvincente: una biografia che si legge come un romanzo, anche perché scritta con una capacità narrativa che sa estrarre suggestioni poetiche e simboliche da un impianto di ricerca dove il rigore documentale si sposa alla verve giornalistica, per cui tutto è arioso e avvolgente nella misura in cui diretto, comunicativo, ricco di sapori, sfumature, lieviti umani. Annalisa Venditti è abile a condurre questo prezioso incrocio tra una storia (fatta di storie intrecciate) e la Storia, cioè la sintesi macroscopica che si legge scritta e riscritta sui manuali. Come la terra vista in volo dalle altezze celesti: si notano i contorni, i confini geografici, i rilievi maggiori; ma se vuoi scorgere i dettagli minimi devi abbassarti di quota, devi zoomare. Le storie sono il tessuto connettivo della grande Storia così come le gocce d’acqua salata lo sono del mare. È la storia che sui libri non si legge: una complessità di emozioni, ricordi, ansie, paure, tormenti, speranze, etc. destinata a perdersi con la fine biografica di ogni uomo che ha vissuto certe cose, se non vengono fermate su carta, se non c’è qualcuno che le raccoglie. Bisogna ascoltare i testimoni diretti e dar loro voce, finché si è in tempo, altrimenti le luci del passato si spengono con loro, una dopo l’altra, e nessuno potrà più riaccenderle. Quante immagini hanno attraversato gli occhi di ogni uomo e abitano in fondo al suo cuore? Ogni persona è un mondo, e perciò vale come il mondo. È per questo che la ricerca storica non finisce mai, nel tentativo impossibile di raggiungere e restituire tutto il tempo che nel tempo si è dissolto. Cercare è un verbo magico. Un magnete, un catalizzatore. Il tempo ha bisogno dei ricercatori, come l’aldilà dei medium, anche per aggiustare le cose dopo anni, decenni o secoli, per mettere in contatto persone e cose disperse, per concludere fatti incompiuti. I ricercatori, da questo punto di vista, sono operatori di pace, strumenti postumi di riparazione. Mettersi in cerca del passato, infatti, significa entrare in una dimensione magica di coincidenze, di trame sottili, di legami sottotraccia, di sorprese, di cortocircuiti inaspettati, di cose e persone che ti vengono a cercare, dopo giri immensi, guidati dalla forza di uno strano magnetismo che si innesca con l’avvio stesso della ricerca. Accade proprio così: se ti metti in cerca della Storia, è la Storia che ti viene a cercare. E tu senti qual è la strada giusta, come un rabdomante. Sono tanti tasselli di un mosaico che si ricostruisce piano piano, lasciando emergere reperti sommersi come scrigni di memoria. La ricerca storica assomiglia alla poesia: questione di sguardo. “Gli oggetti sanno parlare o tacere. Dipende da noi. Dal modo in cui li guardiamo o li vogliamo sentire”.

Annalisa Venditti è la “chiave” che ha aperto la “cassaforte dei ricordi” del generale Andrea Baroni, il meteorologo, proprio lui sì: uno dei volti più familiari della nostra memoria televisiva. Gli ha prestato il suo sguardo, il suo ascolto, il suo cuore. I ricordi chiusi dentro ad ogni uomo aspettano soltanto un interlocutore: qualcuno che sappia davvero ascoltare, sentendo e accogliendo con empatia. Meglio se più giovane: il racconto storico preferisce distendersi sulle arcate del ponte che distanzia ma al contempo unisce le generazioni. Annalisa Venditti ha tradotto e orchestrato, con la sua mirabile penna, la sostanza e l’essenza umana di questi ricordi, sollecitandoli oltre le barriere dell’oblio, dell’imbarazzo, dell’indifferenza. Ne è uscita un’opera di biografia e autobiografia intrecciate. La ricerca porta Annalisa Venditti al transfert, all’identificazione con le vicende descritte. Ogni scrittura di ricerca autentica diventa indirettamente autobiografica: l’oggetto e il modo della ricerca svelano il soggetto che la conduce. Questo libro finisce per rappresentare l’autrice in toto, anche se parla di Baroni, perché tutta si è donata a questo libro, senza riserve, senza resistenze. E quindi il suo modo di studiare, di ricercare, di vivere. È il tracciato di due respiri e di due voci che si sono annodate e armonicamente fuse, dialogando.

I ricordi del lager dove Baroni venne tradotto come IMI sono tremendi ma la scrittura di Annalisa Venditti sa renderli malgrado tutto avvincenti. Anche per la chiave avventurosa che Baroni utilizza per ricordare, perfettamente in linea con lo spirito che egli ebbe nel vivere quei giorni, affrontando con grande forza d’animo difficoltà e sofferenze di ogni tipo, dentro e intorno a sé (fame, stenti, penuria di mezzi, malattie, violenza, morte). Confessa a un certo punto: “Scrivendo questo racconto, mi pare di vivere di nuovo quei momenti drammatici”. Infatti vive e fa rivivere con immediatezza, sprigionando (cioè liberando dalle catene della memoria) il tempo perduto. Sono tracce indelebili di vita: ad esempio il viaggio per l’Europa che si rivelò un’odissea interminabile con destinazione sconosciuta (Tolone, Norimberga, Dresda, Cracovia, Leopoli, fino a Tarnopol in Ucraina); l’impossibilità di scrivere (“annotavamo nella mente”); l’interesse meteorologico inossidabile a dispetto delle vicissitudini, e quindi lo studio del cielo e delle nuvole per le quotidiane previsioni del tempo. Il cielo è il grande complice della vita di Baroni: “il cielo, per me, è sempre stato tutto”. Il cielo e le sue “signore”: le abbaglianti, “splendide creature” (le nuvole) che hanno sempre rapito il suo sguardo. Ecco la dimensione poetica, aerea, di leggerezza fiabesca e di celeste nostalgia che lumeggia tra le pagine del libro. Penso al film di Folco Quilici “Io vagabondo”, le avventure di un pallone-sonda sui cieli italiani, per il quale Baroni redasse la scaletta e da cui prese il volo per la sua carriera televisiva. E penso anche a “Che cosa sono le nuvole” di P. P. Pasolini, prima che alle pagine sublimi del “Piccolo principe” di A. de Saint-Exupéry, ed entro in risonanza infinita perché anch’io amo farmi rapire dal cielo e sprofondare con lo sguardo tra le nuvole. Certo, Baroni le guardava con occhi di scienziato per trarne le sue previsioni; ma non riesco a sentire la sua scienza disgiunta da un brivido di emozione poetica, da una luce di stupore e meraviglia. Scienza e poesia fuse in unico respiro: come quando descrive Roma, bellissima, fulgida, vista dal cielo, in verticale, durante i voli di osservazione meteorologica. Nel lager di Sandbostel faceva le previsioni da solo, tra sé e sé, “osservando e analizzando giorno dopo giorno il cielo, annotando mentalmente la sequenza delle nubi. In questo modo sapevo se e quando avrebbe piovuto. Non avevo con me carte, strumenti, libri. Solo i miei occhi e il cielo”. Ed ecco l’avventura della fuga dal lager di Altegrabow, il 14 marzo 1945. E l’attraversamento del fiume Elba, il 2 maggio 1945, grazie a un soldato tedesco che aiuta insperabilmente Andrea e due suoi compagni di prigionia:

«Dopo un po’ cominciò a piovigginare e, mentre aspettavo l’arrivo dei due miei compagni dalla ricognizione lungo la riva, mi sentii interpellare da un soldato tedesco che veniva verso di me.
Provai un certo spavento a quella vista, dubitando delle intenzioni di quel militare. Non conoscevo la sua lingua e ignoravo che proprio quel giorno la Germania era stata sconfitta e Hitler si era già tolto la vita.
Quel soldato tedesco mi diede queste notizie più a segni che a parole. Stavo per abbracciarlo. Mi fece pure capire che lungo la riva, proprio dove erano andati in perlustrazione Vittorio e Angelo, aveva ancorato un barcone da lavoro con il quale avrebbe attraversato l’Elba per tornare a casa, da sua moglie, che si trovava poco lontano dalla sponda opposta del fiume. Così mi disse.
Gli feci capire che quella era l’occasione giusta per noi, giacché due miei amici erano andati in cerca di una barca per intraprendere la traversata del fiume.
Intanto in cielo, a un centinaio di metri di quota sopra di noi, un piccolo aereo ricognitore, una “cicogna”, non sapevo se tedesco o americano perché non vedevo i segni di riconoscimento, ci stava probabilmente osservando.
Nel dubbio trassi dalla mia borsa tattica, una specie di piccolo zaino militare che mi ero procurato nel lager di Tarnopol, il mio asciugamano bianco.
Cominciai a sbandierarlo in direzione del piccolo aereo, nel tentativo di far capire agli occupanti del ricognitore che ci stavamo arrendendo.
Qualche attimo dopo sentii lo “splash” di remi sull’acqua e intravidi una grossa barca piuttosto malconcia che veniva verso di noi.
Era proprio il barcone che il soldato tedesco aveva ancorato qualche giorno prima! Ai remi c’erano Vittorio e Angelo».

Dai ricordi di Baroni emerge la potenza visiva, simbolica ed “epifanica” degli oggetti: ad esempio la piastrina di metallo con inciso il numero di matricola; il cappotto con la scritta IMI tracciata a vernice bianca sulla schiena; le posate da campeggio che Gisella – fuggevole quanto intenso amore di quel periodo (durante la sosta a Vels-leben) – gli regala prima del commiato definitivo; i due pacchi ricevuti dal caro amico Vittorio Casali De Rosa (glieli aveva spediti il padre e Vittorio disse ad Andrea di considerarli anche suoi: dentro c’era di tutto, latte in scatola, marmellata, miele…). Gli oggetti sono carichi di tempo vissuto e quindi basta già ricordarli per evocare situazioni, incontri, voci, stati d’animo, accadimenti, giorni, ore, attimi, frammenti di storia sepolti, inghiottiti dal silenzio e dall’oblio. Tutto ha un tono di commozione rattenuta, di tenerezza infinita, di struggimento dolce. Perché si dialoga con i segni del tempo, persone e cose che non esistono più. Si parla con l’invisibile. Così sbalza dalla pagina la scena del commiato con Gisella:

«Al momento del distacco e prima di salire a bordo della camionetta americana, che doveva consegnarci al comandante inglese di un vecchio ex lager tedesco, Gisella mi abbracciò appassionatamente.
Singhiozzava per la commozione. Entrambi sentivamo che quella separazione era ineluttabile. Fu allora che appuntò sulla pattina del taschino sinistro della mia giubba militare un nastrino rigido tricolore, simbolo della bandiera italiana.
Una volta a Roma, raccontai l’accaduto a mia madre e lei stessa volle scucire quella stoffa, sentendola stranamente troppo dura al tatto. Sotto il nastrino, infatti, c’era una bellissima spilla d’argento lavorata a marcassite, con incastonata al centro una piccola pietra tonda: un’acquamarina».

Questa è, in definitiva, l’operazione dell’autentica ricerca storica: scucire l’apparenza, cercare la verità nascosta sotto i nastrini della versione ufficiale. È così che viene condotto il “ritratto d’autore” di questo galantuomo d’altri tempi, “cavaliere” dell’intelletto e della vita, sempre guidato dalla ragione e illuminato dalla fantasia, dalla forza d’animo, dalla curiosità. E il suo percorso si completa, poi, con il ritorno da reduce a Roma, con l’attività di assistenza meteorologica all’aeroporto dell’Urbe, con i vent’anni in RAI TV a “Che tempo fa” (dal 7 agosto 1973 al 31 dicembre 1993), con le collaborazioni ai quotidiani “La stampa” e “La Repubblica”, con la vita serena e attiva che ha condotto, tra Roma e Pisterzo in Ciociaria, fino al giorno della sua dipartita (13 novembre 2014). Le evoluzioni che egli ha compiuto attraverso i cieli dei suoi giorni sono la quintessenza del volo che in questo libro Annalisa Venditti ha saputo così ben rappresentare, e sono come simboleggiate da quelle che egli, con leggiadria ritmata da violinista mancato, faceva fare alla bacchetta durante le previsioni televisive. È proprio la “leggiadria ritmata” il passo-base con cui Baroni ha affrontato l’esistenza, le gioie, i dolori, e con cui il tempo cronologico e quello meteorologico, che qui si incontrano e dialogano, intessono un discorso umano di memoria indimenticabile.

Marco Onofrio

“La Trilogia di Lina Raus” recensito da Luca Priori sul free-press «Il Caffè dei Castelli Romani» del 19 dicembre 2019

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Sono ormai tanti anni che Marco Onofrio, il noto scrittore di adozione marinese, promuove la cultura ai Castelli Romani: non solo con i libri che scrive e i riconoscimenti che ottiene in Italia e all’estero, ma anche con gli autori del territorio che ha o ha avuto modo di valorizzare – in primis Aldo Onorati, di cui fra l’altro dieci anni or sono curò una importante antologia poetica. Ora si è spinto più in là: per Lina Raus, psicoterapeuta e scrittrice che vive e lavora a Grottaferrata, ha scritto e appena pubblicato una monografia, “La Trilogia di Lina Raus. Dalla psiche al benessere sociale” (Edilazio). Si tratta di un saggio critico di quasi 150 pagine dedicato alla narrativa della Raus, autrice di tre validi e fortunati romanzi (“Cara domestica follia” del 2012; “Il figlio femmina” del 2014; “Nostra signora Solitudine” del 2018) con cui ha coraggiosamente affrontato temi delicati e universali come la nevrosi, l’identità di genere, il pregiudizio sessuale, la famiglia, l’amore, l’amicizia, l’abbandono, il lutto, l’angoscia, la solitudine, etc. Lina Raus attinge alla sua grande esperienza umana, maturata ascoltando giorno dopo giorno le storie dei pazienti, per nutrire quello che lei stessa definisce “realismo possibile”, dove il verosimile diventa più credibile del vero poiché sa mettere in dialogo realtà e fantasia, ragione e sentimento, scienza e arte. La psicanalisi viene utilizzata come uno strumento potente per conoscersi dall’interno e svelare i segreti di una realtà che il mondo contemporaneo sta rendendo inafferrabile. Ecco la natura terapeutica di questi romanzi: storie di guarigione attraverso cui è possibile sciogliere qualche nodo, se non uscire dal disagio psichico sempre più diffuso. L’autrice, infatti, vuole contribuire al benessere sociale, cioè aiutare la gente ad affrontare il dolore e a sentirsi meglio. Scrive Marco Onofrio in un tratto illuminante del suo saggio: «L’uomo (sembra dirci Lina Raus) nasce buono e predisposto al bene: è il “disagio della civiltà” a deviarlo e a corromperne l’animo. Occorre depurare le persone da queste scorie velenose, liberando le loro energie represse e rieducandole all’etica della vita. Curarle fino a che, sufficientemente guarite, sappiano rapportarsi a se stesse, agli altri e alla realtà circostante con equilibrata e umanistica consapevolezza del tutto in cui si iscrive ogni decisione ed entro cui ricadono le conseguenze di ogni gesto».

Luca Priori