“Echi” (Il Convivio Editore, 2022, pp. 48, Euro 9), di Gabriella Maggio, è una silloge poetica che fa onore al titolo che porta. Risuona infatti di “echi” provenienti da fonti svariate di irradiazione semantica e simbolica: interiori, che riemergono dalle profondità psichiche più remote (anche quelle inconsce), ad esempio gli «echi di un tempo smemorato»; naturalistici, ad esempio i suoni registrati sulla spiaggia (il mormorio del vento, il «mare che compone versi» – cioè il suo fenomeno come personificazione/manifestazione del poièin creativo, quasi che il mondo stesso fosse “poeta” e il tempo la sua scrittura – elaborando metriche «al ritmo lento della risacca», ecc.); culturali, attraverso le stratificazioni che la poetessa palermitana, assimilando in quintessenza le smisurate letture e mettendo felicemente a frutto una solida formazione classica, come attestano gli efficaci versi in latino, incardina per così dire alla filigrana più sottile della pagina. La periclitante condizione umana dell’esserci percorre ogni momento il «limite dubbioso»: la voce intima di queste poesie viene così articolata da un bordo fragile, che poi è la «soglia dell’anima» oltre cui si apre la profondità dello sguardo. È lì che si lascia percepire, più intensa che mai, l’ansia della vita, il ben noto struggimento di amore e dolore che ci predispone all’attesa perenne e alla speranza. Una dicotomia simbolica fondamentale del libro è quella tra luce e tenebra: l’«arcobaleno di pace» che dischiude il dono dei nuovi orizzonti e, inevitabile contrappeso, le «gocce velenose» che brinano il cuore procurandoci ferite immedicabili. La verità racchiusa nei forzieri del mistero, con la sua «parete di pietra compatta», sta alle dinamiche quotidiane di inganno (e conseguente disinganno) come la poesia “altra” del sogno sta a quella, non del tutto priva di sortilegi, dispiegata nella prosa dell’ordinario, con le «piccole cose d’ogni giorno» e la dolcezza malinconica della loro “musica”. “Echi” sviluppa i propri tracciati poetici come “secretum” di abissale introspezione: libera dunque le sue emozioni senza compiacimento da un soliloquio dell’anima allo specchio, di sé e del mondo (talora senza paratie divisorie, come in uno scambio energetico di osmosi):
Vorrei ascoltarti
Vorrei ascoltarti attenta dulce loquentem nella bolla di un sogno nel vuoto del tempo Vorrei guidarti dulce ridentem nel miele dell’anima nel brusio dei ricordi.
Naturalmente non si tratta di una dolcezza edulcorata, ma della triste gioia della malinconia che sgorga dalla vita al suo culmine tremante, liberando la musica delle cose perdute. Quindi un suono sullo sfondo delle parole, quali che siano, come un “basso continuo” che distende il telo oscuro su cui si disegnano costellazioni di riflessi e tracce scintillanti di comete. Gabriella Maggio estrae dal quotidiano la sua “epica”: la poesia è l’annuncio di un «tempo epico / di assoluta vertigine» che balugina tra le pieghe e gli anfratti del viaggio dove il “fraterno Ulisse” (cioè l’everyman di ogni tempo e luogo) affronta un percorso sempre «pieno di dubbi», oggi più che mai periglioso, senza stelle e bussole a conforto. Ma Ulisse, per abbandonarsi al destino di questo viaggio, deve portarsi «fuori dalla folla» e scegliere – ascoltando il monito di Robert Frost – la strada meno battuta. La recita sociale si basa su patti di ipocrisia condivisa: i poeti, quando autentici, patiscono lo stato delle cose e la mediocrità delle persone, e allora come i burattini dopo lo spettacolo «tremano incompresi» nell’«angolo più nascosto» dove «non visti piangono amaro con la testa china».
La scrittura nasce dall’ascolto profondo delle realtà fisiche e metafisiche (quelle che sono, o non sono più, o non sono ancora), raccolte nell’invaso della «voce calma» che riecheggia dal «vuoto del tempo». La musica del tempo che scorre, così presente e viva nel suono quieto ma robusto di queste poesie, diventa perciò tessitura di sogni, paure, speranze… eterna sostanza umana che trapela come «residuo smarrito della pienezza della vita». La scrittura è anche “magnificentia temporis” che celebra i nostri “trionfi” da reperti sepolti che emergono alla luce imponendo «la loro forza tenace / contro la strage del tempo». E i reperti possono essere ad esempio ricordi ancestrali (come le fiabe dell’infanzia, le storie familiari, il pranzo della domenica) che, con efficace ossimoro, «baluginano ombre» poiché la conoscenza non è soltanto lunga masticazione ma, talora, lampo di rivelazione dentro il buio più fitto e assoluto. La poesia si produce come antro divinatorio che trae presagi da «segni insondabili di possibili svolte». Le parole catturano indizi di una trama nascosta che il silenzio congiura di dissipare, come la sabbia che «ingoia l’onda silenziosa». Gabriella Maggio, pur tenendo ben salda la nostra realtà, fruga «macerie di sogni vissuti» mentre stringe «in gomitolo ricordi» rielaborando epoche e occasioni. Opera viva in lei la volontà di recuperare, di quei sogni tanto amati, i brandelli avviluppati intorno alle spine delle rose. La poesia è un medicamento, una cura dell’anima, una forma di auto-terapia. Le parole sono mani pietose che tentano di ricomporre i cocci dell’amore crepato dal tempo e di stendere ponti empatici sopra un mondo pieno di indifferenza, alla ricerca di uno sguardo su cui impigliarsi per costruire insieme speranza:
Di là dal muro
Di là dal muro spuntano già i fiori nella primavera della speranza.
Ovunque è tristezza e gelo di solitudine, «occhi bassi» e «bocche serrate» di «passanti frettolosi». Ma la poesia sa incunearsi anche tra le maglie più strette della desolante realtà sociale per cogliere il dono di un «raggio di sole tra presagi di tempesta». Quindi il volto sporco delle cose, pur innegabile, non potrà mai cancellare la ricchezza impareggiabile della vita dove «chicchi di melograno risplendono» anche se è notte. È proprio questo il compito dei poeti: dire «pietose / parole d’amore» per «cercare sempre la luce», anzi – più semplicemente – portare alla luce l’«albero della vita» anche se «difficile è dispiegare oggi / il canto del cuore / più certa l’oscurità»:
Alma Poësis
Alma Poësis nutrice di passioni e di sdegni vai per sentieri senz’orma e silenzi Respiro della vita stessa magica iridescenza arca per il prossimo diluvio Oggi io sono ansiosa di dire pietose parole d’amore a chi si unisce nella scrittura in quest’albero della vita che noi poeti portiamo alla luce I versi cercano sempre la luce per l’agile slancio dell’equilibrista. Obscura de re tam lucida pango carmina mi sussurra una voce fioca e lontana
ma difficile è dispiegare oggi il canto del cuore più certa l’oscurità Sul tavolo restano dolenti e spesso muti gli strumenti della scrittura.
L’anelito all’infinito, una sete perenne e inestinguibile, è formidabile motore della parola poetica. È dalla sete di infinito che si diramano le direttrici in Azzurro esiguo di Marco Onofrio.
Sono molteplici e dinamiche, queste direttrici, sono centripete (versi 6 e 7), ma con un centro che non si fa afferrare e, soprattutto, seguono traiettorie talvolta imprevedibili e attraversano territori anche molto diversi tra loro. Ciò che unisce è indubbiamente il tentativo persistente, tenace e resistente a rifiuti e a fallimenti, di bussare alle porte del mistero, di trovare il varco per l’oltre, per la luce, di risalire all’origine, all’archè.
Il segno unificante e caratterizzante è un colore, azzurro, come il colore della lontananza e dell’infinito nella più filosofica poesia romantica, quella che si pone a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.
Eppure questo azzurro è “esiguo”. Viene da pensare allora alla sensibilità del primo Novecento austriaco, al “mondo di ieri” che si riverbera nell’azzurro pallido della “scrittura femminile” di cui narra Franz Werfel (e invero anche in Azzurro esiguo, così come nel romanzo di Werfel Una scrittura femminile azzurro pallido, la coscienza della storia è ben presente); tuttavia, Marco Onofrio chiarisce sia l’ossimoro (figura retorica significativamente prevalente in questa raccolta) e il dilemma tra il desiderio d’infinito e l’impossibilità di raggiungerlo pienamente in questa esistenza nella poesia che dà il titolo al volume, concludendolo: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo/ dentro l’universo tutto nero?/ Siamo lampi che aprono il mondo/ tra due abissi di tenebra infinita» (p. 108). Non si limita a questo, Marco Onofrio, ma, con solido principio di realtà, egli mostra consapevolezza che, se l’azzurro percepito può essere solo un bagliore, un balenio, una lama di luce tanto repentina quanto fugace, urge tuttavia la domanda circa le vie e gli strumenti per dirlo, per esprimere tutto ciò, per affermare, come rivela la prima persona plurale in «siamo lampi di luce», un autentico, concreto umanesimo della contemporaneità.
Sapere che la ricerca e il tentativo di oltrepassare il varco sono elemento costante e movimento reiterato per chi vive nella parola poetica da una parte dà forma alla coscienza del legame stretto tra la sensazione di fallimento e la certezza circa l’inalterabilità e l’invincibilità del mistero («Miliardi di universi sfuggono/ allo sguardo», p. 21), dall’altra, per moto tenace e contrapposto, imprime slancio a ogni ‘assalto all’infinito’.
L’anelito alla luce, allo «splendore dell’eternità» spinge a «Trascendere il visibile apparente/ entrando nel dominio dell’eccelso:/ oltre le scorie inutili/ e le ramaglie delle sfilacciature» (Il varco, p. 17). La percezione del limite, di una barriera che appare invalicabile, si unisce alla nozione esatta che quel confine attende tutti, ciascuno nella sua individualità e nel proprio peculiare grado di consapevolezza. Nei confronti di alcuni tra coloro che hanno varcato quella soglia è più difficile «dirsi pronti» (p. 42, in Morte del padre), ma la distanza che dopo il passaggio appare incolmabile è innanzitutto impegno a proseguire il viaggio su questa terra con il respiro che si nutre del respiro dell’altro, poi anche pungolo perenne all’interrogazione.
Fin dai primi testi di Azzurro esiguo emerge uno dei motivi conduttori di questa raccolta, quello del passaggio alla dimensione altra, «che ci ruba per sempre/ alla materia» (p 17); indagare sulla sua natura è compito di un’intera vita.
Porsi interrogativi, schierare le proprie domande, intensificarle, affilarle: questo è ciò che spetta all’umano, che sa di non saper rispondere a tali quesiti, eppure, nel suo vivere la poesia, non smette di formularli: «Cos’è, cos’è, cos’è stato/ a generare tanta magnificenza?/ Nessuno può rispondere ma/ sciogliere quei lacci è/ vivere una vita;/ disfarne il nodo/ il compito finale.» (Il compito, pp. 15-16).
“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.
Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.
Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.
Sii il profumo che vuoi intorno.
Tieni la testa al sole come i girasoli che l’abbassano solo per seminare il terreno di nuova vita.
È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.
Il Mare qui ora…
E ancora:
se dovessi pensare alla Bellezza vedrei l’istante esatto in cui i petali si schiudono nella promessa dell’alba.
La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:
Aprila! scorgi il cielo che ti soffia parole di cura.
I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:
Vorrei essere piuma in un cielo fermo d’estate e piroette e volteggi disegnati nel sole posarmi a terra.
Nient’altro.
Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.
Arriva al centro delle cose del mondo, quelle per cui si è ciò che si dona.
Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia? “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.
Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:
Attenzione a come mi guardi potrei andare in frantumi. Parla sottovoce ché l’anima ha pelle di acqua scivola senza ricordo.
(…)
Siamo soffio non chiedere il peso la misura. La spuma divina ci accende. Un volo di fiori d’angelo ci disperde.
(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:
Come posso dire cose?
È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.
L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìache lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.
Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…
“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».
L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.
La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.
I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.
È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:
Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta nelle campane, anima, che si fa voce e più ci spaventa con la sua cruda vittoria, ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!
(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).
In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.
Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).
Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.
Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.
Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.
La sera, fredda nebbia che s’oscura
senza vie d’uscita
scende all’anima dal cuore
nel rosso del suo invaso
e lo fa grave: annaspa,
rischia di affogare
ma s’aggrappa
come un naufrago alla boa
di quelle luci fievoli
nel caldo delle case
che tornano a brillare
come le stelle tra le nuvole nere
appena si rischiara a fondovalle.
Sono le piccole cose preziose
che salvano la vita!
Ideale viatico per la lettura di questo bellissimo patchwork di “percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei” (L’ultimo sorriso di Beatrice, EdiLet, 2020, pp. 272, Euro 17), scritti e raccolti da Sabino Caronia, potrebbe essere il «magistero di Leopardi, la sua parabola» che, come scrive Stefano Verdino, «consuma una disabitazione del mondo» realizzando «il suo senso drammatico della trasformazione, tra “vicissitudine e forma”, estrema naturalezza ed estrema coscienza critica, in vista di un indicibile traguardo metafisico». La Weltanschauung che presiede ai saggi di alta critica letteraria sapientemente assemblati nel volume, scaturisce da una frattura originaria. «Tutte le corde, sotto il plettro, si ruppero» canta un desolato D’Annunzio giovanile. L’Armonia dei tempi mitici si è spezzata per sempre, e con essa si sono disperse e dissolte le Grandi Narrazioni. La Verità non più data o rivelata come un dono da raccogliere, a guisa di perla dentro la conchiglia, ma demandata alla ricerca di ogni singolo individuo, escluso per sempre dalla pienezza di quella ancestrale contiguità. Lo snodo fondamentale del libro è, infatti, il rapporto tra verità e letteratura. Il problema della verità è quanto mai attuale, come sta drammaticamente mostrando il caos mediatico e cognitivo ingenerato dalla pandemia, in un mondo che la globalizzazione digitalizzata aveva già da decenni reso assai complesso e per molti versi incomprensibile. Come nota Cesare Cavalleri, il problema «non è conoscere le notizie, soprattutto quello che conta oggi è avere un filtro, dei setacci per orientarsi nel mare magnum dei fatti e delle informazioni». Che cos’è la verità? chiede Pilato a Cristo. E Cristo non risponde. Lo scrittore risponde con le opere, se intende il proprio operato come adempimento di una “vocazione religiosa” sia pure esercitata in ambito laico. Infatti, scrive Caronia, «si sarebbe tentati di rispondere» che la verità è la letteratura. Ma allora la letteratura è chiamata a farsi, e ad essere, verità. L’arte, in chiave metafisica e teologica, è verità per se stessa poiché tende di sua natura a superare i limiti, a rompere gli schemi, a rappresentare l’infinito e l’eterno. Se la verità è bellezza, la bellezza è anche – a sua volta – verità. Con le parole di Franz Kafka («La poesia è sempre e soltanto una spedizione in cerca della verità») e di Guillame Apollinaire («I poeti non sono soltanto gli uomini del bello ma anche e soprattutto gli uomini del vero»), vien fatto di rievocare il mito degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. A tal proposito, giova anche ricordare la doppia versione del mito di Orfeo, quale incantatore di fiere o, d’altro canto, ribelle sabotatore e annunciatore dello spirito tragico. Engaño y desengaño, ovvero: incanto (addormentare la coscienza vellicandola con cose dolci) e disincanto (pungere la coscienza per svegliarla e spingerla al cambiamento). Si potrebbero distinguere intere generazioni di artisti, assegnandoli a ciascuna delle due chiavi estetiche fondamentali. Tra le quali si barcamena il critico letterario, con il suo “triste mestiere” che, come nota Giacomo Debenedetti (sua la definizione), viene «scambiato per un servizio pubblico: peggio ancora, per un servizio privato ad uso della vanità di chi scrive e del tornaconto di chi pubblica», quando invece il critico «scrive per sé, per servire alla propria verità».
L’avventura intellettuale incarnata in questo libro può essere idealmente rappresentata dal seguente passo del romanzo Il Quinto Evangelio (1975), di Mario Pomilio, citato con altri intendimenti da Caronia a proposito dei libri di Stanislao Nievo: «Scopre soprattutto che in ogni epoca ci sono stati altri uomini, santi, eretici, ribelli, credenti e non credenti, che al pari di lui hanno speso la vita nella medesima ricerca. Attraverso le loro biografie ne vede riemergere le attese, le illusioni, l’evangelismo, le passioni, i dissensi, talora i drammi. E lui stesso, a contatto di tutto ciò, si trasforma: la sua ricerca, da filologica che era, diventa a poco a poco una ricerca religiosa, la sua avventura, da puramente scientifica, diventa un’avventura spirituale». È proprio così che accade al Caronia scrittore, specie nelle vesti di serio studioso e raffinato critico letterario, quale egli è. La fedeltà alla vita e alla sua eterna, complessa, inafferrabile polifonia. Come Salvatore Quasimodo: dalla “poetica della parola” alle “parole della vita”. «L’essenza della poesia», riconosce Caronia, «non esiste se non in quanto si cala nell’esistenza». Ecco dunque il suo metodo critico-biografico dove la pagina, come la vita, è appunto una polifonia che sintetizza echi da ogni tempo e luogo, con citazioni puntuali, appropriate e sempre “chirurgiche” (la prima qualità del critico è nella capacità di selezione). Tutto risulta utile, in teoria, all’analisi che si va costruendo man mano sulla pagina, con implicazione totale dell’uomo e del saggista: naturalmente i testi, consultati sempre di prima mano, e poi le biografie, i carteggi, le rassegne bibliografiche, i contesti storici, filosofici, scientifici, i mitologemi, i portati antropologici, i contenuti psicanalitici, ecc. Dall’insieme scaturisce un confronto assai fruttuoso di voci messe in dialogo. Un incontro costruttivo di esistenze, a cominciare dalla propria. La critica come autologia e scansione autobiografica: servirsi dei libri e degli autori come “specchi” per capire meglio se stessi e raggiungere la propria verità. Ecco spiegato perché Caronia entra in scena direttamente, facendosi deuteragonista delle cose di cui racconta e ragiona, mettendosi in gioco senza filtri. Si leggano, qui di seguito, alcuni esempi:
«Ricordo il mio primo incontro con Bassani, avvenuto il 7 aprile 1983 nell’Aula Magna del Convitto Nazionale, alla presenza del preside e degli alunni dell’Istituto magistrale Isabella d’Este di Tivoli.»;
«Sbarcato da un volo della British Airway all’aereoporto di Heathrow mi sto dirigendo verso la città in taxi ed osservo e a proposito della misura architettonica di quelle basse costruzioni come di un villaggio ai margini di un bosco mi vien fatto di richiamare le considerazioni dell’autore del Gattopardo in una sua lettera da Londra, datata 5 luglio 1927»;
«Ogni estate in bicicletta, da Terracina, percorro la vecchia Appia sulle orme di Paolo di Tarso, e, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla, arrivo a Fossanova e mi fermo proprio davanti alla chiesa di Santa Maria. Entro.»;
«Sappiamo che nel 1272 Tommaso è a Firenze in Santa Maria Novella dove Dante con ogni probabilità lo vede. Proprio la visione notturna di Santa Maria Novella, una sera, alla stazione di Firenze, di ritorno dall’ospedale di Pistoia dove, dopo l’ictus, era stato ricoverato mio padre, si collega per me alla figura di san Tommaso».
Un incrocio di ricordi, sguardi e prospettive che produce la scrittura in tessitura di umane presenze, riaffermando il valore umanistico della letteratura come vita, come esperienza continuamente verificabile, come palpito caldo di autentica conoscenza. Dalla parte dell’incanto gioca soprattutto l’esplorazione del Mito, tipica peraltro della scrittura (anche narrativa) di Caronia. Per esempio la nostalgia dannunziana dell’estate nella sua fase morente («E un’ansia repentina il cor m’assalse / per l’appressar dell’umido equinozio / che offusca l’oro delle piagge salse» – “La sabbia del tempo”, Alcyone) che corrisponde al rimpianto dell’Ellade perduta (l’uomo moderno depauperato della divina armonia), e quindi all’eco immemoriale di un’infanzia eterna, fuori dal tempo. Anche Quasimodo, scrive Nicola Cimmino, sogna talvolta «un mondo felice nel quale rifugiarsi fatto di dolci ricordi, di miti stagioni, di cieli profondi, di paesaggi infiniti, sogno che talora la vita rafforza con l’intensità del vissuto e il fulgore dell’amore». E così anche Luigi Santucci, quando rievoca l’inebriante profumo dei tigli che segnava, a giugno, la chiusura delle scuole e l’inizio della «cara estate delle vacanze». Prefigurazione di un substrato più profondo, dove si annida la nostalgia del paradiso prenatale, il regressus ad uterum verso l’impossibile rinascita, la strada interrotta che conduce al preformale, l’inconscio, la fluidità ancestrale del liquido amniotico. Ecco D’Annunzio, Luzi, Tomasi di Lampedusa, Santucci, e anche Aldo Moro (cui Caronia ha dedicato uno splendido romanzo), qui ricordato per la sua caratteristica “sindrome da scirocco”: «Abbiamo davanti agli occhi le foto di Moro nella “prigione del popolo”, quella espressione di stanchezza e di noia con un baluginare di ironia, quella piega dolceamara sul labbro, al margine sinistro della bocca, quello sguardo in cui era possibile leggere i segni di un male antico come gli uomini della sua terra. Era la sindrome da scirocco, la sensazione di una violenta e gratuita fuoruscita dalla monade, di un trapasso improvviso da una condizione di immobilità, la nostalgia di un tempo stabile, di una impossibile regressione, quella tentazione del grembo materno e della morte che rimanda al trauma originario, al trauma della nascita». Laggiù, in fondo a quella «luce di un ricordo lontano» (Corrado Alvaro), c’è la freschezza viva della matria, la patria perduta di terra e mare, dove vige – nella coincidenza orfica degli opposti – la dimensione panica della natura. È la mente estatica, la felice condizione di immersione nel grembo del mondo (culla e insieme tomba, questo è il mare) che Mario Luzi cattura in una similitudine indimenticabile: «come pesci in un’acqua luminosa». È il sentimento oceanico a cui Freud accenna ne “Il disagio della civiltà” e che, estratto dal contesto originario, può richiamare il naufragio cristiano nell’oceano sconfinato di Dio: sia nel rapimento dell’estasi, sia negli attimi estremi del trapasso. Quello intrauterino è uno «stato di grazia, uno stato estetico. Il feto, nel seno materno, nuota e danza nel liquido amniotico come una piccola foca, al ritmo del suo piccolo cuore e della musica cantilenante della voce materna, di cui gli giunge come una lontana, rassicurante vibrazione. In principio è la musica e la danza. Poi verrà la visione, l’immagine e la forma, di cui il seno materno resta un modello perfetto. E con la conoscenza avrà inizio il desiderio. Il desiderio desiderante, il desiderio originario, senza scopo e senza oggetto, scoprirà quindi a poco a poco la realtà del proprio desidero. Ma quella musica, quella danza lo perseguiterà per sempre, come un paradiso perduto». Dalla parte del disincanto gioca la tensione conoscitiva alla verità. Ecco la linea narrativa Silone-Sciascia. L’umanesimo socialista e l’umanesimo cristiano chiamati a dialogare, ricercando insieme una possibilità di accordo sul terreno comune della coscienza critica e della dignità dell’uomo. Pietro Spina, il protagonista del romanzo di Silone “Vino e pane”, segna «la riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale moderna» per una «fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica». Insomma, «Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce», e la sua sofferenza «continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia». Viene anche evocata la differenza che Santucci segna tra il “così è” del regno di Dio e il “come se” del regno dell’uomo: «… il così è è il regno di Dio, la sua paterna prepotenza, il come se è il regno dell’uomo, la sua risorsa, la sua furbizia napoletana. Bisogna che lo freghiamo scombinando le sue regole; è la Sacra Scrittura a insegnarcelo: “Quelli che hanno moglie come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che possiedono come se non possedessero”…». Ecco quindi il tema-cardine della pace, strettamente legato a quelli della giustizia e della verità. Ma il libro è ricchissimo di prospettive che si aprono l’un l’altra lo scenario. Fra gli altri temi che emergono: la “teologia della tenerezza”; lo stupore, l’inesauribile meraviglia per tutto ciò che esiste; la scoperta dello straordinario nell’ordinario, da cui l’amore per le “piccole cose” che poi piccole non sono (come ad esempio le “cose belle” per Aldo Moro: «non erano altro che lunghi giorni sulla spiaggia a Terracina, notti in cui solo lui sapeva calmare i timori della figlia prediletta, e piccole avventure fatte di brevi scappatelle di padre e figlia insieme a prendere un gelato o un paio d’ore al cinema», sicché per qualche tempo, durante la prigionia, «aveva fantasticato di poter essere di nuovo a Terracina al ritorno della bella stagione, di camminare ancora sulla spiaggia con Luca e dare uno strattone a lui e al suo gommoncino»); le rondini per Mario Luzi (lo affascinavano come accordo esaltante di libertà e necessità, che nell’uomo invece sono in rapporto drammatico: vanno dove vogliono entro l’ordine loro assegnato dalla natura, che è quello di volare, e volare in quel modo); il tempo dell’anima, che è l’eternità; la bellezza in fuga (la grazia e il mistero sono sempre sul punto di scomparire, come scrive Cristina Campo, ma questo rende la percezione delle cose ancora più preziosa e struggente); la speranza, l’attesa di un “supplemento di rivelazione” che ci sveli finalmente ciò che non riusciamo a vedere con i nostri poveri occhi mortali, ecc.
Il libro, che ha anche il merito di riproporre all’attenzione autori validi e ingiustamente dimenticati, come appunto la Campo, Elio Fiore, Margherita Guidacci e Biagia Marniti, si articola in due sezioni, di dodici saggi ciascuna. Per la poesia il titolo scelto è “La ferita dell’essere”, che è un verso di Luzi, a significare il trauma che ci ha estromesso dalla contiguità con il mondo delle origini, ma anche la letteratura come risarcimento di uno scacco patito: quello stesso di nascere, oppure qualcosa che accade o purtroppo non accade nel corso dell’esistenza (per esempio la Commedia come compensazione dell’amore negato a Dante da Beatrice: lo slancio infinito verso la bellezza, del resto, ha tutte le caratteristiche di una pulsione inibita alla meta, Orfeo docet, ma si pensi anche al titolo del libro, allo struggente “ultimo sorriso” che segna il commiato eterno di Beatrice – Paradiso, 31, vv. 91-93: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana» – intorno a cui si intrattiene a riflettere Jorge Luis Borges e, sulle sue tracce, Caronia nel saggio conclusivo ed eponimo della raccolta). Per la narrativa il titolo è “Un atomo di verità”, tratto da una lettera di Moro a Riccardo Misasi: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e sarò perdente». Altro mondo, altra Italia. E riflessioni universali senza fine che il libro ci aiuta a recuperare, liberando «il senso vertiginoso, insondabile e metastorico della dimensione spirituale dell’uomo» (il «senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo») e riportando al centro del villaggio globale, ora purtroppo anche pandemico, la maestà della vita coi valori perenni, ormai obsoleti in questa società che guarda ottusamente solo all’utile immediato – da cui la celebre distinzione che Moro faceva tra “politico” e “statista”. «La perdita del sentimento del sacro, la scomparsa dell’uomo, l’eliminazione del “centro” della vita, come amava dire lo stesso Testori, e le parallele conseguenze, la sottomissione alla mentalità dominante, la moralità della vita pubblica, la schizofrenia caratterizzante i rapporti interpersonali», ecc. Scriveva Robert Musil: «L’uomo non c’è più, ne rimangono soltanto i sintomi». Ma sono sintomi nonostante tutto grandiosi e confortanti, aggiungo io, se la cultura è ancora in grado di generare libri straordinari come questo, grazie a cui Sabino Caronia si consacra ad autentico maestro della letteratura contemporanea, e non solo.
Riflettendo sul titolo dell’ultima raccolta poetica di Marco Onofrio (Azzurro esiguo, Passigli, 2021) e sulla dedica personale che trovo all’interno – per un azzurro tutt’altro che esiguo – resto perplessa: ma insomma questo azzurro è esiguo o no? Calma, procediamo per gradi. La parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:
Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta nelle campane, anima, che si fa voce e più ci spaventa con la sua cruda vittoria, ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!
(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).
Non è un caso che sia Mallarmé e sia Onofrio parlino di voce e di suono: Il suono,padre della terra / si incarna dentro un guscio / di splendore (…) (Il compito, p. 15)… Trionfo della creazione, dunque azzurro – lontano anche – che vince e supera la materia. Azzurro come dire Ideale, Bellezza, bellezza del mondo, bellezza / inconcepibiledell’attimo / presente, / ora che è già passato. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo gettato qui sulla terra, dopo aver attraversato silenzio, spazio, tempo, è dilaniato tra la materia di cui è fatto e il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere, è combattuto tra la vita, che fa nascere e la morte che fredda nelmistero. Come dire le Città del Sogno / dove tutto è luce di pensiero (Il varco, p. 17). Tutto ciò scaturisce e prende forma dal tempo e dallo spazio e nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi, fatti di carne, di materia e di spirito, anime inquiete, intrise di mistero. Si resta colpiti dalla capacità dell’io del Poeta di sfaldarsi, allargarsi, perdersi dissolversi nello splendore dell’eternità, nell’universo, dilatato che inghiotte nella sua vastità:
Rinasco, ora, tra le braccia del vento che mi porta lontano laggiù… laggiù… sulle ali del tempo dentro le vie dei colori oltre l’orizzonte in fondo al mare ascolto la sinfonia dei giorni (…)
(So da sempre, p. 30)
Uscire dalla stanza. Diventare luce dentro luce! Sciogliersi nel sole come una goccia che cadendo in mare mare diventa.
(Trascendenza, p. 33)
Risuona spessissimo la parola vuoto – una delle più presenti della silloge–, vuoto incolmabile, vuoto che divora dove ci si spaventa senza che il turbamento diventi mai angoscia pura: è il centro ove tutto accade e si forma. È vuoto il silenzio, il silenzio / dei misteri?
L’universo è un grande buco dentro il vuoto pieno del nulla che ci ingoia…
(Ingranaggio nascosto, p. 20)
Anzi il vuoto non è indeterminato ma ha fattezze fisiche ben precise: Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portamida lei (Gigante di uomo, p. 80). Abisso, fondo, silenzio (più volte ripetuto), questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto. Fare il vuoto in se stessi, nel senso simbolico che danno a questa espressione poeti e mistici, è liberarsi del turbine delle immagini, dei desideri e delle emozioni; è scappare dalla ruota delle esistenze effimere, per provare solo la sete di assoluto. È, secondo Novalis, il cammino che va verso l’interno, la via della vera vita… “Il profumo dolce del silenzio / inchiavardato al vuoto” (Grato, p. 27). Il vuoto è vertigine che si attorciglia su se stesso in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore. Io interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del cerchio magico: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su dime (Magia, p. 53). C’è una corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo si specchia nel cuore,
Velati, gli occhi, e semichiusi insensibili ormai a qualunque cenno guardavano dentro scorrere visioni trascendenti come in un film eccelso di indicibile grandezza che qualcuno proiettasse dal cielo dritto sullo schermo del suo cuore proprio mentre stava per fermarsi.
(L’oasi, p. 38)
Anzitutto si specchia, anche il cielo nel mare: Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli) (Sale sacro, p. 62), il cielo nel pozzo, un occhiolino bianco che vacilla… Guardarsi dentro e trovarvi il firmamento, l’infinito… Sono tutto l’universo / l’infinito. L’Azzurro allora è esiguo rispetto alle aspettative umane, rispetto all’anelito, al desiderio di elevarsi ma, nell’essere inarrivabile, diventa vasto (azzurro senza fine):
Invólati ben lungi da questi miasmi impuri; sali a purificarti nell’aere superiore, e bevi come un puro e divino liquore, Il fuoco trasparente di quegli spazi limpidi. Alto sui tedi e sui pesanti affanni che gravano quaggiù l’esistenza brumosa, beato chi potrà con ala vigorosa lanciarsi verso i campi luminosi e sereni: quell’uomo i cui pensieri, lieti come le allodole si involano al mattino verso il cielo – colui che plana sulla vita. ascolta e sa comprendere il linguaggio dei fiori, e delle cose mute!
(Chales Baudelaire, Les fleurs du mal, Mursia, traduzione di Mario Bonfantini, 1980, Élévation, p. 35).
L’Azzurro – il cielo – coincide con la trascendenza, con l’eterno, la divinità, il desiderio di assoluto, di bellezzasuperiore ed implica la ricerca di un’entità spirituale superiore, perché il Poeta vuole vedere l’esistenza con gli occhi /stessi della divinità (9 passi, p. 28):
Chi disegna il mondo intorno a noi? Chi sospinge il vento che trascorre? Chi prepara i segni del futuro quando noi emergiamo e si fanno vivi, nel silenzio, catturare? Chi decide i corsi e i mutamenti? (…).
(Chi è, p. 22)
La grande Luce irradia amore nel silenzio: il silenzio è un preludio di apertura alla rivelazione, apre un passaggio. Secondo le tradizioni, ci fu un silenzio prima della creazione; ci sarà silenzio alla fine dei tempi. Il silenzio avvolge i grandi avvenimenti, dando alle cose grandezza e maestà. Il silenzio, dicono le regole monastiche, è una grande cerimonia. Dio arriva nell’anima che fa regnare in sé il silenzio. Lassù c’è un silenzio così pieno / che rende inutile parlare (Inutile parlare, p. 79). Al poeta è dato di sognare, di lasciarsi andare al sogno, senza opporvi fuga o resistenza (9 passi, p. 28) e di arrivare un giorno al centro inabitabile del cielo… Attenzione! Dobbiamo avere cura dell’Azzurro, in un attimo sparisce, in un attimo cade, precipita e poi non resta che sprofondare nella palude. Lassù, con l’Azzurro, ci sono le stelle, ci sono i baci:
(…) quella bocca dolce da baciare che ora sto baciando, non è un sogno! Gusto tra le stelle il tuo sapore di sorgente alpestre e di marina fresca da annusare: è un’acqua che non basta e non finisce la gioia senza tempo che fa male e spande una carezza in fondo al cuore mentre ringrazio e benedico il mondo per il miracolo che sei viva tra le mie braccia in questo spazio sacro, e tutto attorno ciò che non sei te l’impenetrabile ignoto dell’insensato niente.
(Il bacio, p. 71)
Mi piace concludere con queste bellissime parole d’amore del Poeta, amore che coinvolge tutti i sensi (assaporare, gustare, annusare, ecc.). La donna idealizzata, Madonna degna dei più famosi Trovatori, è essere angelicato che rientra nella benedizione del mondo:
Ella si va, sentendosi laudare, benignamente e d’umiltà vestuta, e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare.
Da qui la metafora della spazio sacro: è il luogo dove Madonna passeggia dispensando baci e gioia e frescura, qui si riuniscono gli amanti e il resto è l’insensato niente.
Si riproduce sempre e in ogni luogo. L’eterno femminino, che manifesta la grazia del mondo. La bellezza irresistibile delle donne. Il potere della loro seduzione. La malia del loro sorriso enigmatico, che guarisce il male e blocca la mano alla morte. La luce vellutata e calda che splende nei loro occhi, sorgenti di un’acqua che rinfresca la gioia di essere e di amare. L’anfora generosa del loro corpo: spandono la vita tutta attorno (quando arriva una donna, un luogo si riempie di anima). La tenerezza calda del loro seno, porto di dolcissimi sospiri. Il profumo delizioso del loro collo. Il miele speziato delle loro bocche. La loro pelle liscia, lucida, ambrata, tutta da baciare e da abbracciare. Le ginocchia tonde, le forme che ricordano la terra. Il mistero sacro delle cosce che – da sole – bastano a dimostrare l’esistenza di Dio. Donne: intuitive, curiose, sensibili; languide, sensuali, appassionate; morbide, liquide, burrose. Donne, semplicemente donne, meravigliose donne!
Se ami la vita, non puoi non amare le donne. Solo loro che ci mettono (e ci rimettono) al mondo. Le donne sono sacre. Chi le odia e le maltratta, firma con ciò stesso la propria condanna: è amico della morte, e la vita prima o poi lo punirà.
Il mistero sacro di ogni donna. Tra il seno, le spalle, il cuore. Bere la vita, gustando il sapore del mondo, dalla sorgente della sua bocca dolcissima. Accarezzarle il viso. Accendere la luce dei suoi occhi. Palpare i fianchi dell’anfora divina. Abbracciare la terra intera abbracciando lei. Passione struggente, languida sensualità. Ogni donna è un universo a parte: ha un fascino diverso da scoprire. Ciascuna, unica. Offerta ambulante di delizie. Scrigno segreto di gioie. Incrocio labirintico di possibilità. Fermarsi a una, d’accordo. Ma come rinunciare al dono delle altre? Amarle tutte: perché tutte esistono per essere amate. E l’uomo per amarle.
Lo stesso titolo del nuovo testo poetico di Marco Onofrio (Azzurro esiguo, Passigli, 2021, pp. 112, Euro 14, Prefazione di Dante Maffìa) pone al centro le contraddizioni che animano il cuore del poeta. L’azzurro non può essere esiguo; nel definirlo con questo aggettivo l’azzurro a cui pensiamo, quello del cielo e del mare, rievoca immagini di lontananza. E appare irraggiungibile, nebuloso e vago, e riporta alla dimensione interiore di una vastità che ha le sue radici nell’anima e che trabocca nei versi.
…La verità più vera / è il cuore buio / che incista in fondo all’incubo sublime /nel dolore del suo volto /ancipite: /da un lato la vita / che ci fa nascere; / dall’altro la morte che ci fredda /nel mistero. (“La verità più vera”)
…Miliardi di universi sfuggono / allo sguardo /e come polverume di foschie / si lasciano intuire / dentro il buio gelido / dell’inghiottitoio. (“Scritture incomprensibili”)
…L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia / dove entrano-escono le cose… (“Ingranaggio nascosto”).
Già in questi versi tratti dalle prime poesie del testo, Onofrio s’immerge nella dimensione dell’universalità in cui il buio e la morte non sono intesi come elementi di un pensiero negativo, bensì come l’altra faccia del nostro vivere, nella grandezza e sublimità di un mistero che la poesia tenta di decifrare, offrendo la possibilità di scorgere oltre l’umano. E nella poesia intitolata “Chi è” il poeta propone al lettore una sequela di domande che sa già essere senza risposta e che, proprio in questa mancanza, assumono senso. Nel libro intercala ai versi pagine di prosa poetica, quasi non trovasse che in prosa lo spiraglio necessario per esprimere l’arcano che avvicina al Mistero. Nella “Favola”, ad esempio, i tre tempi dell’umano sono scanditi come in una partitura: la rinuncia prima, poi il volo senza più barriere per raggiungere spazi infiniti e infine il mutare e il trasformarsi nel cuore di ogni cosa. Scrive il poeta: «tutto è Amore, di sempre e di mai»: ecco, il segreto alfine assume un senso che è significato del mondo in sintonia con il proprio essere. In questo sogno il poeta ritrova sé stesso, percepisce l’universo che ora appare raggiungibile, perlomeno nella visione poetica. Percorrendo il cammino iniziato da Onofrio, il lettore avverte una leggerezza che si colora di speranza dove la primavera, rinascita del cuore, annuncia l’inizio di un nuovo disgelo, anche quello dei sentimenti: l’amore per la vita e la natura e l’invisibile pensiero sono un grido dolce, non più la voce stridula di chi emerge dal pozzo senza fondo ma di chi risalito guarda dall’orlo del burrone, ormai conscio delle infinite possibilità che la poesia apre al sé stesso sconosciuto e celato nel profondo del cuore che ne svela i segreti.
Si avverte una grande umanità in questi versi e nei seguenti in cui il ricordo della figura paterna assume contorni tra il reale e l’immagine evanescente, sfumata, che riporta al buio profondo della perdita e della distanza non avvertite nell’evocazione poetica. I dubbi sul viaggio, dal luogo da cui nessuno ritorna, si moltiplicano insistenti e si concretano nell’unica Domanda finale: «Finisce poi davvero tutto quanto?» E questa volta la risposta del poeta è senza esitazioni. Il luogo-non luogo, che fa di noi una goccia nel mare immenso dell’Universo, è dove fiorisce la radice dell’amore, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”, l’indecifrabile svelato che viene da lontano. E il miracolo è compiuto dal poeta mentre crea versi che suonano e risuonano come note di uno spartito ampliato dal riecheggiare di nuove sensazioni, visive e uditive insieme: dai sensi che percepiscono la bellezza del mare e del cielo alla luce delle stelle lontanissime che rivelano l’Assoluto. La verità –scrive il poeta – è nel cuore, piccolo e immenso perché è uno dei due estremi (l’altro è la luce delle stelle di cui percepiamo appena lo splendore) del filo invisibile che ci unisce all’Eterno. Sbalordisce questa capacità di Onofrio di infondere nelle parole, attraverso le metafore e le sonorità, la complessità di una natura di sogno, mitica, che allude al mistero di cui le cose e noi stessi siamo pervasi.
Guidami, Spirito, tienimi per mano / quando la notte illumina il cammino / mentre oscura, il sole / la verità segreta / delle cose / come se il mondo fosse / quello che vediamo / con gli occhi di carne, / e non soltanto l’ombra / la parvenza / del sogno che vorremmo / ricordare. (“Adorcismo”)
Il sogno che permea questi versi, nucleo di un segreto celato in ogni cosa, rende affascinante la scoperta rivissuta nell’immagine poetica della natura, come se ogni elemento trovasse posto in un’armonia irradiata da una infinita sorgente di luce. La perfetta felicità appartiene all’Eterno, la sete immensa di felicità del poeta non sarà mai placata. Non c’è in queste ultime poesie del testo, impropriamente conclusive se non graficamente, un prima e un dopo ma un filo sottile che è da ricercare esplorando la profondità dei versi, ed è la meraviglia e lo stupore di fronte al Mistero della natura che il poeta riscopre nel sogno quando si scioglie nella ricchezza di un bacio, nella sofferenza del disagio e del dolore per ciò che muta senza ragione, nella discontinuità del sentimento che vivifica e nello stesso tempo sussurra che la vita è passata. Non resta che abbandonarsi alla natura che saprà darci l’ultimo abbraccio, quello che ci riporta al luogo a cui apparteniamo e che la Poesia rende eterno.
Nella complessità di questo libro, da lettrice, ho ritrovato nella sua interezza la bellezza di versi che non si dissolvono e non si perdono nel vuoto che si crea dentro e intorno a noi. E nonostante incomba il Gigantesco del vuoto, richiamato nel testo “Gigante di vuoto”, il poeta rasserena sé stesso, quando offre il proprio cuore alle Parole («Le Parole sono tracce di sogni perduti», da “Parole dalle cose”), e così ritrova l’azzurro esiguo dentro il suo universo, non più tutto nero, ma rischiarato dalla luce della Poesia.
Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. (“Azzurro esiguo”).
La terza silloge di Antonella Radogna, “Io accado” (Lepisma Edizioni, 2018, pp. 70, Euro 12), apre – fin dal titolo – suggestioni filosofiche di grande portata e di eccezionale rilevanza per la vitalità e l’efficacia della ricerca poetica messa in opera attraverso e oltre le cinquanta composizioni raccolte nel libro. La vocazione ontologica della talentuosa poetessa materana ha modo di estrinsecarsi con la continua modulazione dell’essere nellaparola, che sale alla parola per manifestarsi come “evento”. Impossibile non pensare a Martin Heidegger, che nel saggio “Sull’origine dell’opera d’arte” (1935) introduce la formulazione del concetto di essere, appunto, come “evento” (Ereignis). L’essere si appropria dell’uomo consegnandosi a lui, in quanto ne ha bisogno per accadere: e questo accadere è l’essere stesso. D’altra parte anche l’uomo, per essere e non esistere soltanto, ha bisogno dell’avvento e dell’evento dell’essere. L’uomo e l’essere si co-appartengono, nella misura in cui accadono insieme. L’essere non è più pensato come un “in sé” nascosto nell’ente, a mo’ di perla dentro l’ostrica, ma come l’evento di un’illuminazione che accade solo nell’uomo e per l’uomo, il quale però non ne dispone poiché in questo evento, come scrive Antonella Radogna, «l’imponderabile accade / e l’insondabile / sfiora le sue profondità eterne». Non possiamo estrarre la radice del divenire al punto di conoscerne le profonde ragioni metafisiche: «Noi fioriamo perché fioriamo». E ancora:
Non si sa quando, ma un giorno accade. Tutto crolla inaspettatamente.
Le rappresentazioni soggettivistiche della conoscenza sono come strutture fatiscenti che esplodono contro lo tsunami incontrollabile del divenire. La poesia è l’orizzonte dove la verità è “alétheia”, cioè “non nascondimento dell’essere” che si svela come evento in divenire, per cui l’oggetto da conoscere e il soggetto che conosce vengono ad implicarsi in modo reciproco, uscendone trasformati. Ecco dunque il mistero che si dischiude, colto nel baluginio dell’ente che – aiutato a fiorire dal poeta – sale allo sbocciare linguistico dell’essere come una sorta di dono di trasformazione e di rivelazione. La poesia dunque è il luogo metafisico dove «tutto accade come un miraggio / che si fa carne e sangue / di desiderio». Nell’evento di illuminazione dell’essere, per Heidegger verità e bellezza fanno corpo unico. La verità è la presenza misteriosa dell’essere che accade, e la bellezza è l’apparire stesso di quella verità. Una delle chiavi estetiche del libro di Antonella Radogna è proprio la coincidenza di bellezza e verità, tanto che la bellezza, scrive, «se non bacia la verità / è meglio che non nasca affatto / o si lasci morire».
Un’altra evidente traccia filosofica è l’esistenza bruta dell’essere nella “accecante evidenza” del suo prodigio, e della sorpresa infinita che produce in chi lo osservi fenomenologicamente, al di fuori degli schemi consueti. Ricordate Antoine Roquentin, il protagonista de “La nausea” (1938), di Jean-Paul Sartre? A un certo punto perviene all’autocoscienza assoluta dell’esistente, e la esprime con questa formula pregnante: “ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste”. E poi, al giardino pubblico, oltre-vedendo la radice del castagno che affonda nella terra proprio sotto la panchina dove siede, ha modo di scrivere: “Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa dura e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura”. Questo angelo düreriano che si interroga sulla massa bruta dell’essere (“bruta”, cioè non riducibile e non ordinabile in schemi acquisiti di rappresentazione), aggiornando in “nausea” novecentesca la melancolia rinascimentale, indica la strada anche allo sguardo pensante di Antonella Radogna allorché, parlando del suo amore, scrive – come incapace di capacitarsi: «Dunque esisti? / Non sei l’illusione-allucinazione / della mia mente folle. / Esisti, / non sei l’eco delle mie parole / che m’ingannano / come fossi un amante fantasma, / (…). Ti ho incontrato finalmente / nei meandri dell’anima e del sangue, / ti ho accolto in me, / vero, pulsante». L’essere amato è la carnale rivelazione di un «miracolo giunto sino a me / per darmi una nuova nascita / e fresca linfa nelle vene», ovvero l’evento dell’essere che accade, nella bellezza della sua stessa verità. Ed è un miracolo perché obbedisce a leggi imperscrutabili come quelle che, sotto la traccia “divina” dell’apparente casualità, producono gli eventi decisivi:
Una strada imboccata alla fine di una giornata per intuizione divina cambia la vita. Tutto muta in un istante (…).
Quando poi la scorza dell’ente si apre per svelare la potenza del suo essere che accade – trasformando sia l’oggetto, sia il soggetto che lo osserva –, erompe lo splendore di una vera e propria epifania, come la «luce accecante» da cui la poetessa è investita se s’immerge nello sguardo dell’essere che ama. Tutto il movimento della sua poesia tende alla ricerca e alla conoscenza del profondo che soggiace alla “crosta” della realtà ordinaria:
Gli occhi scrutano in profondità. L’anima si immerge per esplorare movimenti sommersi di sabbia e resti di conchiglie di tempi e luoghi remoti.
È dotata di un vulcanismo innato della parola che la spinge verso una trasfigurazione antropologica del vissuto e una dimensione tellurica e ancestrale delle realtà molteplici, comprensibili o ignote, per cui scrive di «viscere / profonde / di conoscenza», di «magma, / sostanza primordiale», di «arcaici crateri / di misteri inesplorati», di «perduta Atlantide» che «non è mai stata / così vicina», di «viscere della terra» da esplorare «sempre più a fondo / fino a che non saremo disciolti / nel suo nucleo», ecc. Si tratta ovviamente di metafore alchemiche: la catabasi non è materiale ma simbolica, spirituale, soggettiva. L’io sviluppa ad ampio raggio le sue «trame di ricerche» per coincidere con «il più profondo sé» laddove il pensiero poetante sgorga come acqua pura da un’unità spirituale denominata «mente-cuore», fatta di ragione e sentimento, in cui appunto l’intelligenza del cuore coincide con l’anima stessa della conoscenza rivelatrice. Naturalmente questo induce alla coscienza della complessità che informa di sé il mondo, tra oceani interiori, abissi impenetrabili, misteri di senso e nonsenso dove coesistono «vivi ossimori» per la legge cosmica che rende armonici i contrari. C’è un esprit de finesse congeniale alla “microfisica” delle emozioni e delle percezioni, per cui Antonella Radogna scrive, distillando le esperienze, di «tacite vibrazioni», «sieri preziosi dell’anima», «rarefatte gocce di tremori» fino alla materia elementare che ci rende «polvere primordiale di luce, / stelle remote perse nel tempo» destinate a brillare un attimo come lucciole nel vuoto del buio e del silenzio. Il che, tuttavia, non impedisce il “registro pieno” di una vita verso cui prova, nei momenti di grazia, «desiderio incolmabile» e «occhi avidi». La differenza la fa l’amore, combustibile sacro del processo di trasfigurazione con cui lo sguardo aderisce, più o meno, al mondo. L’amore è una voce che indica il «ritorno a casa» fino all’«oasi dell’anima», ed è – soprattutto – un miracolo (una «folgore in cielo» che apre l’orizzonte) grazie a cui si produce una fulminante liberazione («tutto quel dolore annientato dall’incontro / col tuo sguardo») e una decisiva ri-nascita:
con te vengo alla luce ancora una volta o forse posso dire per la prima volta.
Dammi una nuova data di nascita, quella del nostro incontro (…).
La scrittura, come l’amore, è un’avventura della conoscenza che «moltiplica le dimensioni / dell’essere», ovvero la percezione delle cose nella loro autentica complessità: i significati «si dilatano e amplificano / e moltiplicano / come cicli eterni di maree / e venti sommersi». Si tratta, sulla scorta di Hölderlin (poeta non a caso prediletto da Heidegger), di «abitare poeticamente il mondo», cioè «in ogni sguardo / percepire il respiro delle foglie, / l’anima dei gechi, / la voce delle ombre», e insomma «l’indicibile dell’evidenza / l’invisibile del visibile» ovvero l’infinito dell’infinitesimo. La poesia è un esorcismo dell’ombra, o meglio un adorcismo della luce («Ogni verso / un urlo / che espande la vita / e allontana la morte») grazie a cui si individua e si traccia il «cammino sacro / verso lo scrigno della vita». La parola è «prisma di infiniti mondi» così che, per meglio articolarne la rifrazione, Antonella Radogna mette in evidenza le radici etimologiche, com’è del resto tipico del linguaggio filosofico: ad esempio «com-baciare», «dis-chiudendo», «co-esistenza», «l’in-visibile», ecc. (anche come gioco anfibologico: «poetica-mente»). A un motivo simile risponde la scelta insolita di apporre i titoli delle poesie alla fine delle stesse, anziché all’inizio, proprio per non condizionarne il percorso di interpretazione e darne invece una possibile sintesi “aperta”.
La «carta geografica delle parole» coincide con la «mappa dell’anima» e configura l’altrove di una «landa metafisica» che evoca paesaggi culturali di ben nota ascendenza primonovecentesca: Breton, Aragon, Soupault, Max Ernst, Mirò, Dalì, e in Italia Papini e Bontempelli (la poesia “Giocando a scacchi con il destino” ricorda da vicino il racconto La scacchiera davanti allo specchio, 1922, dello scrittore comasco), oltre naturalmente a Giorgio De Chirico e a suo fratello Savinio. L’istante diventa infinito perché la coscienza smemora verso «l’assenza di memoria / e di identità», in uno stato di amnesia che coincide con la «perfetta felicità del nulla». Si tratta com’è ovvio di andare oltre il «filo spinato della realtà» e la «gabbia della ragione» (la ragione infatti «sbanda, / inciampa, / deraglia / come un fiume folle che percorre / il suo tragitto / al contrario / verso la sua origine») per abbracciare la dimensione surreale dell’«anima rapita», che non riserva soltanto delizie atarassiche o estatiche, ma anche raccapricci medusei e caligini sublimi (laddove scrive ad esempio di «bellezza terrificante», di «perturbante gravità», di «tempesta limpida», ecc.). Tutto questo senza mai abdicare alla «consapevolezza / del limite umano / di fronte al mistero», e quindi di trovarsi «sull’orlo d’un precipizio», confinati «a pochi passi dal salto nel vuoto». C’è una metafora splendida che Antonella Radogna utilizza per condensare questo senso di provvisorietà: «Noi ancorati al fischio / di un treno in corsa». Ma la provvisorietà, anziché disancorare, determina uno stato di maggiore e anche migliore appartenenza («Qui è profondamente il mio luogo») in una sorta di orgoglioso radicamento al confine che ci tiene e ci trattiene («siamo rose d’inverno. / Le più profumate, / fragili e delicate, / ma caparbiamente vive / e preziose»). Uno dei compiti fondamentali della poesia è di raccogliere e ricomporre i relitti dei naufragi per «costruire una dimora» da cui guardare il mondo a nuove condizioni. È proprio in questa casa costruita sulla cima delle immondizie che potrà accadere – nel “realismo magico” della percezione amplificata – l’inveramento del sogno con l’«eterno che accoglie la terrestrità». Qui sta il punto supremo della ricerca: unire il soffio del cielo al fiato delle cose più semplici o, con le parole di Umberto Saba, trovare “l’infinito nell’umiltà”. È già così, in fondo, che la poetessa vede e pensa ciò che esiste:
In compagnia di una foglia di basilico, sfoglio versi d’immenso. Cerco una vena d’acqua nel fiume incessante del tempo che inganna perché non esiste, eppure detta ogni rintocco dell’orologio appeso ai rami e alle zagare profumate dell’albero di limone.