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“Voci sepolte”. Poesia inedita

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VOCI SEPOLTE

Invisibile palazzo della storia:
centomila piani di silenzio
a guardia del suo vuoto.

È immenso il peso dei secoli
sulle rovine mute
degli imperi.

Voci sepolte per sempre,
fatti che nessuno potrà
più recuperare.

Solo lei, l’infame giustiziera
non smette di parlare dentro il pozzo
che brucia ogni momento
la memoria.

Che cosa può mai la gloria
se tutto inesorabile divora
l’enormità del tempo?

Ognuno è solo al mondo
e vive un soffio.
Eterno è solamente
il dileguare. 

Marco Onofrio
(poesia inedita)

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“Dentro il muro”, poesia inedita. In memoria di mia madre

DENTRO IL MURO

Liberarmi di tutto
anche di me
in te precipitato
fino al pensiero senza più parole
che scioglie il sentimento
il non evento
del fato universale:
dice non dice
e disammanta il velo
che ricopre chiaro
il suo mistero.

Ho soltanto perso
uno dei corpi che abbiamo,
quello toccabile di carne.
Era morituro.

Lo so, mi manca appunto
toccarti vederti
sentire la tua voce.
Sfondo porte aperte
dentro il muro
che t’incarna nella voce
delle cose,
luce del tempo
forma invisibile del vuoto
limpida visione
che dilegua
amnesia divina
strazio e compassione
ai vertici del senso
e del profondo.

M’impiglio con i piedi
sulle nuvole,
saltimbanco indegno
del silenzio.

Chiudo gli occhi e sento
lo Splendore
a cui ora appartieni.

Traccio ponti di fiori nel cielo,
li percorro fermo a testa in giù
e dormo beato
fra le tue coltri d’acqua
mentre abbracciati cantiamo insieme
madre dolcissima
i tramonti che non vedremo più.

Marco Onofrio






“Fummo ragazzi felici”, poesia inedita

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FUMMO RAGAZZI FELICI

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Gorgoglii di cose liquide,
scrosci sopra i tetti, crepitii.
Il mondo piccolo in un tempo chiuso
dal fluire dolce della vita.
Quant’era bello l’orto dei nonni!
Freschezza verde ombrosa
nel celeste molle dei mattini.
Si giocava per ore, indemoniati
a rincorrerci dentro le savane
ma poi, sopraggiunta la stanchezza
il sereno degli occhi s’incupiva
di uno strano veleno
mentre cresceva il senso dell’ignoto
e il mare distillato dai silenzi
come i pensieri scritti negli sguardi
e i suoni in fondo al cuore.
Che si trova, a terra
nel punto dove il fulmine è caduto?
Forse un sale, che ad averne
i cristalli in bocca
poi si può nuotare in aria
per volare? E raggiungere
gli imbuti delle nuvole
per capire cosa dicono davvero
mormorando arcani alle pianure?
Eccole, stupende, le rivedo
arricciate nell’azzurro come lana
di pecore ancestrali…

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Oh, lo scintillio dei platani
dolcemente accarezzati dalla brezza!
Splendore di vette lontane
contro l’ocra-arancio delle sere!
L’estate infinita
e incorruttibile durava
oltre la morte
fuori dalla sua portata.
Era la morte stessa, forse
che aveva tutta in pugno l’esistenza
la gamma ultravioletta del mistero
nel barlume d’oro dentro noi.

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.

Marco Onofrio
(poesia inedita)

 

 

 

 

 

 

“Pier Paolo Pasolini e il cinema”

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Magia, realismo, tragedia: sono questi i pilastri del cinema di Pasolini, e girano intorno al gorgo del “sacro”, nella doppia accezione di angelico e demoniaco, come vitalismo mitologico e oscuro fondamento sadomasochistico dell’amore. Il “sacro” è il guscio che vela e insieme svela il nucleo fondamentale della sua vis creativa: la morte. Tutta la sua Opera non è altro che un interminabile discorso sul problema della morte, sul lavoro del cordoglio, sull’elaborazione del lutto, sulla necessità di opporre strumenti culturali e simbolici alla sua ineluttabile irreversibilità. Pasolini ha un bisogno disperato e quasi doloroso di sincerità, che obbedisce alla pulsione vitalistica con cui vorrebbe non solo contrapporre alle fauci della morte una traccia durevole, ma anche scardinare le convenzioni ipocrite della borghesia e liberarsi dall’ombra del peccato. Se la società moderna è basata sulla menzogna, l’unica possibile felicità è tornare alle sorgenti sacre dell’essere, e quindi immergersi nella realtà pagana in cui – come gli antichi – vivono i sottoproletari: eros panico, forza fisica, gioia semplice di vivere. La capacità di danzare sul mondo con leggerezza, come farà Ninetto Davoli nei suoi film. È il paradiso perduto del Friuli che ha vissuto nell’infanzia e che poi ricerca a Roma, prima, e in Africa e Asia, poi. Ama e ricorda con nostalgia il mondo in cui è nato e cresciuto, il mondo contadino e artigiano preindustriale: ingenuità, candore, integrità, purezza, umiltà, lo “splendore” negli occhi della gente. Afferma Pasolini: “Detesto il mondo moderno, l’industrializzazione e le riforme. L’unica cosa che può contestare globalmente la realtà attuale è il passato”. Ecco la sua spinta regressiva (“Io sono una forza del passato…”) verso il modello antropologico dell’Italia contadina, certamente almeno in parte idealizzata alla luce mitica dei ricordi infantili. Il consumismo, secondo lui, è un fascismo peggiore di quello storico, che era totalitario ma non totalizzante.

L’Italia, all’alba degli anni ’60, passa troppo rapidamente da Paese sottosviluppato a sviluppato, e perde la propria identità. Come recita Ugo Tognazzi in “Porcile” (1969), da quel momento “non ci sarà più traccia di cultura umanistica e gli uomini non avranno più problemi di coscienza”. Conterà solo il denaro, tra accumulo e consumo, cioè (come scrive Pasolini in “Petrolio”) “il peccato dell’arricchire, del possedere, dell’avanzare, del raggiungere: tutte cose che si fanno tragicamente sempre contro la propria coscienza e contro la libertà altrui”. In altre parole: il progresso borghese della civiltà tecnologica e tecnocratica garantita dal neocapitalismo. L’omologazione colonizza le coscienze di tutti, anche dei sottoproletari che aspirano a diventare borghesi: non a caso i media irradiano l’edonismo “di massa”. Questo non solo travia la naiveté degli umili, snaturandoli per sempre, ma produce il genocidio delle culture autoctone, determinando una mutazione antropologica dei popoli. Pasolini, da intellettuale “no global” ante litteram, sviluppa il suo discorso – anche cinematografico – nella dialettica tra spinta progressista (dove incardina la sua vocazione pedagogica, e quindi l’impostazione marxista del suo “comunismo sentimentale”: si pensi al docu-film “La rabbia”, 1963) e nostalgia regressiva (dove convoglia le pulsioni irrazionali della poesia decadente). Il cristianesimo in generale e il problema della morte in particolare possono mediare questi due versanti. Pasolini gioca la sua opera tra Storia e Mito, cioè demitizzazione da una parte e destorificazione dell’altra, con tutte le possibilità di coesistenza, se non di intreccio e contaminazione. Ha uno sguardo razionale e storicistico nell’interpretare il mondo e farne cadere gli idoli; idoli che d’altra parte adora, perché è forte in lui la componente mitica e irrazionale.

Quindi il rapporto tra Storia e Mito. Pasolini scrive per ricercare il senso profondo della realtà. Nell’avventura di questa ricerca giunge sempre al problema ultimo, al “muro della terra” di dantesca e caproniana memoria: l’“altro” irreducibile che è nel mistero del mondo. Lì si esce dalla storia unilineare dell’Occidente, e la ragione finalmente tace: è il nòcciolo non demistificabile. Pasolini è affascinato dai sottoproletari perché nella loro innocenza barbarica essi possiedono il mistero del mondo, anzi sono quel mistero, lo vivono in modo naturale, autentico e felice. Per questo sono “benedetti da Dio”. Ecco la loro umiltà ascetica, analoga alle società protocristiane, e dunque la loro inconsapevole carica rivoluzionaria. I borghesi invece hanno ucciso il sacro con la superbia e l’arroganza del loro edonismo: sono morti dentro e vivono un’esistenza inautentica tra le sbarre invisibili delle loro prigioni dorate.

L’ansia di verità che informa il messianismo ontologico di Pasolini lo porta a non accontentarsi della scrittura tradizionale: a un certo punto la parola non gli basta più. Ecco il cinema come stadio finale del realismo simbolico, strumento per demolire l’ultimo diaframma tra natura e linguaggio. Già nei libri la parola voleva coincidere con la cosa: ora l’immagine è la cosa, la esprime in modo più diretto ed eloquente. Lo stile vuole essere la vita: catturare tutta la vita nella sua immediatezza. Del cinema di Pasolini restano celebri i piani-sequenza che gli consentono di riavvicinare il cinema alla vita, facendone “linguaggio della realtà”. Nelle sue “Osservazioni sul piano-sequenza” (raccolte in “Empirismo eretico”) egli ragiona sul fatto che “il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire (un infinito piano-sequenza soggettivo che finisce con la fine della nostra vita)”.

Scriverà in una poesia del ‘71, “Res sunt nomina”:

C’è al mondo una macchina che non per nulla si chiama da presa.
Essa è il “Mangiarealtà”, o l’“Occhio-Bocca”, come volete.
Non si limita a guardare Joaquim con suo padre e sua madre nella Favela.
Lo guarda e lo riproduce.
Lo parla per mezzo di lui stesso e dei suoi genitori.

L’obiettivo cinematografico è il “siero della verità”, cioè lo strumento per tirare fuori l’essenza nascosta delle cose, alle quali aderisce direttamente poiché rappresenta la realtà attraverso la realtà stessa. Il cinema amplifica e approfondisce il potere ontologico della poesia come rivelazione. C’è unità profonda tra il Pasolini regista e poeta: il cinema gli consente di diventare, per così dire, “bilingue”. Infatti si parlerà, per i film di Pasolini, di “cinema di poesia”. Cinema di poesia significa cinema denudato, ridotto all’osso, essenziale; significa lettura critica della realtà e possibilità di ricavarne simboli di grande potenza evocativa, in contrapposizione al cinema di “consumo” e di intrattenimento, che addormenta le coscienze; significa infine afflato religioso, mistero, irrazionalità, importanza dei silenzi (che conducono fuori dalla dimensione storica della parola convenzionale) e dei dialoghi muti attraverso l’intensità degli occhi e degli sguardi.

Pasolini entra nel mondo del cinema grazie a Federico Fellini. I due si conoscono di persona nel 1957. Ricorda Fellini: “L’appuntamento era al bar Canova, a piazza del Popolo. Lo vidi arrivare e mi sembrò subito molto simpatico con quella sua faccetta impolverata, da muratorello, una faccetta da proletario, da peso gallo, da pugile di borgata. Accettò la proposta di collaborazione con entusiasmo, una qualità che me lo rese subito familiare. Era un uomo generoso, immediato. (…) aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta (…) e una sorta di dolcezza ferita, un fascino misterioso e segreto”. Il temperamento di Pasolini è infatti malinconico: lo circonda sempre una “bolla di vetro” dove si chiude – in silenzio – per proteggersi dal mondo. Deve appunto riempire questo vuoto con la sua disperata vitalità, il bisogno insaziabile di esperienza (mosso da una trascinante curiosità per ogni cosa) che traduce con l’assillo indemoniato dell’eros anonimo, la fame dei corpi e il richiamo dei vagabondaggi notturni. Cooptato da Fellini, a cui mostra i “gironi infernali” della Roma maledetta, le borgate, i luoghi delle “storie scellerate”, Pasolini sviluppa con Sergio Citti i dialoghi romaneschi per “Le notti di Cabiria” (1957). Ma il vero battesimo cinematografico è sul set de “La dolce vita” (1960), dove viene convocato come consulente e sceneggiatore non accreditato. Lì, immerso nella “bella confusione” del set felliniano, capisce la potenza simbolica e anche provocatoria del mezzo cinematografico. E acquisisce subito le tecniche per sprigionare il suo talento: “Quando ho girato Accattone” ricorderà anni dopo “era la prima volta che toccavo una m.d.p. (…) Mi diverto molto, è un gioco meraviglioso (…) In un quarto d’ora si impara tutto”. Davvero sorprendenti e straordinari i risultati ottenuti fin da subito, partendo da zero, anche nella capacità di guidare attori professionisti e non professionisti, traendone il meglio e perfino ciò che non sanno di avere.

Nel cinema Pasolini trova la sua idea di linguaggio del mito e del sacro, ossia in grado di rappresentare ciò che vi è di “ontologicamente poetico” nel reale. Il cinema può cogliere la sacralità fondamentale che emerge dai fenomeni, giungendo dunque al “mistero ontologico” delle cose.

“Tutto è santo”: il discorso mitopoietico del centauro Chirone (Laurent Terzieff)

Grazie al cinema il suo sguardo raggiunge il gorgo dove si annida il “problema della morte”, che è ineludibile per lui. Al contrario di come recita Orson Welles ne “La ricotta” quando dice: “Come marxista [la morte] è un fatto che non prendo in considerazione”. In realtà a Pasolini il materialismo storico non basta. Ma neppure il cristianesimo. Roma, anzi, lo scristianizza, lo “scafa”, lo libera dal senso torturante del peccato, emancipa la sua omosessualità. Nelle borgate vige un paganesimo stoico-epicureo: “il sesso, non la religione; l’onore, non la morale”. Pasolini rifiuta il cattolicesimo perché è la religione dei borghesi. L’ortodossia cattolica de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), benché splendido e intensissimo film, rappresenta un opportunistico “concordato” con la Chiesa del Concilio Vaticano II, tramite la “Pro Civitate Christiana” di Assisi: Pasolini ha bisogno di “riabilitarsi” dopo i processi per oscenità, blasfemia e vilipendio della religione, ottenendo margini di libertà futura.   

La morte ricorre continuamente nei film di Pasolini – spesso violenta e/o imposta per esecuzione, quasi sempre sacrificale (sul modello cristico) o addirittura cannibalistica (in “Porcile”) – perché lui la avverte “necessaria” per la conoscenza autentica, sia in chi muore e sia in chi resta. Finché siamo vivi, cioè fluidi e in divenire, nessuno potrà conoscerci davvero poiché manchiamo di senso definitivo: invece, come riflette Pasolini, “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”. Viene in mente il “complesso della mummia” di André Bazin, cioè il tentativo di vincere la morte grazie a un calco fotografico o cinematografico dell’apparente, prima che svanisca. L’imbalsamazione degli egizi, la Sacra Sindone, le foto dei defunti. Il cinema per Pasolini è un viaggio verso la morte, cioè di avvicinamento alla verità. Come l’itinerario di Accattone (Sergio Citti) attraverso la polvere e il fango della borgata: sfida la morte tuffandosi per scommessa nel Tevere; si auto-seppellisce nella sabbia del fiume; sogna il proprio funerale; e infine muore fracassandosi con la motocicletta contro un camion, inseguito dalle guardie dopo un furto. Anche quello di Ettore (Ettore Garofolo) in “Mamma Roma” (1962) è un itinerario cristico, fatale e necessario: muore legato su un letto di contenzione, in una indimenticabile scena “pittorica” ispirata a Mantegna, Masaccio e Caravaggio. Stracci (Mario Cipriani), protagonista del cortometraggio “La ricotta” (1963), interpreta il ladrone in un set cinematografico caotico e profano: in una pausa delle riprese mangia così tanta ricotta che muore davvero, per indigestione, sulla croce. In “Uccellacci e uccellini” (1966) la morte tocca al corvo, che rappresenta l’ideologia marxista: viene ucciso e mangiato da Totò e Ninetto.

Dopo il 1966 Pasolini sembra nutrire una sfiducia definitiva nella ragione e nella politica, e allora sfoga il disinganno nel mito e nell’irrazionale. Ecco gli inferi mediterranei del mito greco, esplorati in film che grondano morte: direttamente con “Edipo re” (1967) e “Medea” (1969); indirettamente con “Appunti per un’Orestiade africana” (1970). Il visitatore divino di “Teorema” (1968) fa irrompere il sacro – cioè il Caos primigenio e incalcolabile – nella vita di una famiglia borghese che invece si fonda sul calcolo materialistico: il risultato è che tutti impazziscono, l’invito a trasformarsi li dispera e li distrugge. Il sacro resta precluso ai borghesi, ma è immediato e positivo negli umili: la serva Emilia (Laura Betti) è l’unica ad accogliere il dono, diventa santa e fa miracoli. Anche il giovane borghese Julian di “Porcile” entra in catalessi e sembra un Cristo in croce dinanzi alla perturbante opzione del conoscersi, che per qualche tempo lo mette in crisi. Ma l’universo del potere e del consumo è così “orrendo” che l’innocenza, come in Edipo, torna ad essere colpa: “gli innocenti saranno condannati perché non hanno più il diritto di esserlo”, e così Riccetto (Ninetto Davoli) muore fulminato da Dio alla fine di Via Nazionale, attraversata bighellonando a partire da Piazza Esedra, nel cortometraggio “La sequenza del fiore di carta” (1969).

Il problema della morte impronta persino il dittico tragicomico dei cortometraggi “La terra vista dalla luna” (1967) e “Che cosa sono le nuvole?” (1968). La morte non è una lacerazione definitiva (infatti “essere morti o essere vivi è la stessa cosa”) se Assurdina Caì (Silvana Mangano) vive a casa anche dopo morta. In “Che cosa sono le nuvole?” la morte segna addirittura un miglioramento di stato. Le marionette vive, per conoscere la realtà, devono prima “morire” e uscire dal teatrino delle illusioni, sottraendosi al dominio del burattinaio. Quando il mondezzaio Domenico Modugno viene a prenderli e li carica sul camion, Totò e Ninetto inizialmente gridano per la paura, e sono spasimi che assomigliano a vagiti: stanno per rinascere a nuova vita. Gettati nella discarica, scoprono finalmente la “straziante meravigliosa bellezza del creato”. Totò, che così pronuncia la sua ultima battuta nella storia del cinema, si abbandona sospirando a tale bellezza, come Accattone che morendo dice “Mo’ sto bene”.

La morte è liberazione e rivelazione, perché ci mette per sempre di fronte al sacro, al suo mistero tremendo e affascinante. Il problema della morte sembra attenuarsi nella cosiddetta “trilogia della vita” (“Il Decameron”, 1971; “I racconti di Canterbury”, 1972; “Il fiore delle Mille e una notte”, 1974) dove il sesso, vissuto in modo vitalistico, libero e gioioso, diventa equivalente dell’esperienza sacra. Ma è l’ultima fiammata prima della cenere di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), dove un ritualismo sadomasochistico e funereo sconsacra definitivamente il campo con l’allegoria della mercificazione dei corpi attuata dal potere. A quel punto viene meno anche la possibilità di un sistema “duale” di coesistenza tra i poli psichici e culturali del mondo barbarico e del mondo tecnologico, che Pasolini aveva vagheggiato ragionando, in “Appunti per un’Orestiade africana”, sulla trasformazione ateniese delle Erinni in Eumenidi: “ci sono solo opposizioni inconciliabili” osserva con orrore negli ultimi mesi del ’75. È proprio questo insuperabile muro contro muro ad averne decretato l’omicidio politico in cui e per cui venne massacrato all’idroscalo di Ostia, nella notte tra i santi e i morti di quell’anno.    

Marco Onofrio

“Azzurro esiguo”, letto da Stefano Vitale (www.ilgiornalaccio.net)

Azzurro esiguo cop-2

L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìa che lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.

Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…

“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».

L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.

La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.

I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.

È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).

In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.

Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).

Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.

Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.

Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.

Stefano Vitale

“La Biblioteca di Alessandria”, di Dante Maffìa. Lettura critica (anteprima del saggio “L’officina del mondo”, di prossima pubblicazione)

È l’indiscusso capolavoro tra i capolavori poetici di Maffìa, la sua opera più breve, distillata, assoluta. La verità storica di un fatto accaduto nell’antichità (l’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto) che segnò la tragedia della cultura classica e la fine irrecuperabile di tanti testi, rivive 20 secoli dopo nella ricostruzione immaginaria ma verosimile di un poeta contemporaneo, appunto Maffìa, che coglie con intuizione geniale l’opportunità di innestarvi retrospettivamente l’essenza del futuro rifiorito e maturato dopo quella catastrofe. Prova ne sia, ad esempio, il “modello Spoon River” adottato (come già ne Lo specchio della mente) per entrare direttamente in medias res – senza veli retorici o inutili giri di parole – attraverso quattordici “confessioni” postume, sotto forma di testimonianze in prima persona da parte di scrittori immaginari che persero nel rogo le proprie opere. I nomi fittizi e intercambiabili hanno la stessa valenza del milite ignoto: rappresentano tutti la stessa figura simbolica fondamentale, sono tutti lo stesso “scrittore” (una sorta di macro-autore collettivo) al di là delle possibili differenze originarie. E questo passato immenso, filtrato alla luce del suo futuro – via via, fino al nostro presente – è indicativo di come Maffìa consideri le epoche tutte contemporanee e reciprocamente inscritte, come cerchi concentrici in perenne dialogo; al punto che ogni attimo contiene il passato che lo precede e, simultaneamente, il futuro che lo seguirà. Ecco perché la sua poesia tende al «canto perenne, che insegue la memoria e sfida la morte e l’oblio», come scrive magnificamente Mario Specchio in Prefazione.  

Tutto ormai è compiuto: gli scrittori parlano dall’eternità, ricordando un fatto che nessuno – neanche una divinità – potrebbe cancellare e far sì che non sia accaduto. L’incendio è metafora della barbarie sempre incombente nella civiltà, ovvero della furia devastatrice che può scatenarsi ogni momento nella vita e nella storia, minacciando «l’uomo e la sua sopravvivenza» (Specchio). L’ammonimento continuo da un lato eleva la cultura come baluardo da opporre al caos; dall’altro incita la cultura a imparare dalla natura e – in ultima analisi – a risolversi in essa, così come fa Maffìa nelle sue pagine dolenti ma limpide e immediate, senza perdersi negli acquitrini dell’erudizione (di cui, dato il tema, c’era il rischio concreto). Infatti, come dice a un certo punto Lemmonio Minasica, «saranno eliminate, non avere dubbi, / soltanto le opere prive di vita, le altre / saranno il perenne fluire / della vita nelle parole». 

Un potentissimo versante simbolico dell’opera è quello relativo alla dissolvenza, all’imbuto del tempo che fa della storia universale una vicenda infinita di sparizioni, ablazioni, rimescolamenti, «città sparite» che «cadute nell’ombra s’impastano / a nuvole» dentro l’inarrestabile metamorfosi del mondo. Ecco la pietra tombale del silenzio, la protervia dell’orrore, la «libidine del Nulla e dell’Assenza», la tenebra dopo gli squarci di luce e la «crapula del Niente». Che cosa resta di tante voci, di tante storie, di tante civiltà? Sparisce tutto? Sembra di sì: «La Storia è finita nei tombini delle stelle, / non ha più bocca e ventre». L’inceneritore cosmico in cui l’Essere si auto-fagocita per rinascere e riprodursi, continuamente nuovo, non smette neanche un attimo di funzionare. L’emorragia è perenne, qualunque voce viene divorata dal silenzio: «il suono avvampa rapinoso e scende / nel mare sinuoso del non detto. / Un giorno tutti saremo nel non detto / esile orma d’un pensiero spento». Eppure quel «fiume straripante d’immagini e d’idee» che fu l’esistenza vissuta e perduta può ricomporsi, come in un «sordo borbottare» negli «avanzi dei ricordi» che ognuno degli scrittori, per così dire convocati in scena, può testimoniare dal proprio punto di vista. Per esempio nel “Controcanto” che anticipa le 14 apparizioni:

Nel cuore del giorno s’aprì un diluviare
di fiamme e scardinò le porte. In un lampo
morirono tutti, custodi e lettori,
carbonizzati i topi, i lepismi ed i ragni
.

Oppure Casibulo Deondenes (il terzo della sequenza):

Il fuggi fuggi. Chi usciva coi tomi
veniva fiondato da una freccia e cadeva
sulla soglia. Quanti morti coi rotoli in mano
avvolti dall’odore della pergamena.
Il rosso crepitare impestò l’aria
per giorni e giorni
.

O Zacosio Bifrantos (il quarto), che rivive tutto come allora:

Vedo. Io vedo. Le fiamme gridano
sbavando senza ritegno fino all’ultimo piano
.

O Remunero Stagistocos (il sesto):

L’acqua
arrivò troppo tardi, non ci fu scampo
(…).

La costante che accomuna queste voci è il rimpianto eterno per le opere perdute (il dramma sarebbe stato meno atroce dopo l’invenzione della stampa e la riproducibilità tecnica dei testi), di cui «ancora / nel fondo dei mari le sirene piangono», e quindi il tentativo disperato di riscrivere le pagine a memoria, che portò anche ad esiti fatali:

Per mesi ho poi tentato
di tornare a scrivere, alla fine ho deciso: una dose
di cianuro
. (Animosos Cautelo)

O comunque irreversibili:

Io invece
sono morto ebete a forza di tentare
di riscrivere ogni opera capitolo per capitolo
. (Efrito Cacasipulos)

Un’altra costante è la consapevolezza della scrittura come unica ragione di vita:

Senza i miei libri
niente aveva più senso
. (Animosos Cautelo)

E ancora:

Non ero mai esistito. Senza i miei libri
ero niente
. (Casibulo Deondenes)

La biblioteca divorata dal fuoco non allude soltanto alla fine dell’umanesimo, sempre possibile come rischio e realmente sperimentata da noi contemporanei, così come dagli antichi che vi assistettero e ne subirono le conseguenze («Da quel giorno il trionfo dello zero! / (…) distrutta ogni patria, / ogni pensiero, distrutte le pietre miliari»), ma è anche simbolo profondo della cultura assorbita da Maffìa (migliaia di libri letti, studiati, vissuti e fatti carne) per estrarne un lievito di naturalezza così illuminante da far sembrare la scrittura un “evento” della vita che si compie. Non a caso, identificandosi con gli scrittori che vissero quella tragedia e con ciò che provarono e vengono a raccontare, Maffìa può affidare alle loro parole alcune confessioni indirette (e forse involontarie) di poetica, particolarmente rivelatrici del suo universo creativo ed umano:

(…) ero riuscito a scandagliare / le ragioni del possibile e avevo saputo / sulle tracce dei padri innestare il futuro. / Ogni mio verso un grido degli dei / che amplificava la vita e allontanava la morte. / (…) nei miei versi cresceva l’infinito.

Storie / che mi nascevano da dentro, / mi tendevano agguati o gridavano / tenerezza e volevano diventare / specchio del mondo, anima che vive.  

Nei miei libri era la sintesi del senso, / il seme della crescita che apre / albe infinite.

Per decenni infaticabilmente, ricercando, / scrivendo e riscrivendo, distillando carte / infinitamente, scavando nel passato, / dentro di me, arrivando a scalfire il segreto / dell’eternità e del mistero / (…) Io distrassi molte cose dalla morte / (…).

Sono cose che dicono i vari scrittori, ma in realtà le dice Maffìa: anzitutto a se stesso. Chiedersi dove le fiamme hanno portato le parole che erano scritte sulle pergamene equivale a chiedersi «quali segreti / si nascondono nel guado delle stelle». Gli scrittori e i loro ricordi, che Maffìa resuscita dall’oblio, son diventati parte dell’eternità, anzi: si sono mescolati al mondo, sono «anima del vento che non si ferma mai, / sostanza d’azzurro, linfa delle piante». Questo perché “Giubilo della rinascita perenne” potrebbe essere il titolo di tutti i suoi titoli; e «si riparte, si riparte sempre» il logos della forza universale, il motto stesso della Fenice che risorge dalle ceneri, dopo il grande fuoco. Il sogno dell’uomo è interminabile, si autoalimenta e si rafforza con le sue cadute e le sue momentanee sconfitte: «Non finirà la promessa della renovatio». E allora i libri di Alessandria, così come miliardi d’altre cose, non sono andati perduti ma appartengono alla memoria del mondo: «sono custoditi / nel mio cuore che li rubò a una stella» perché in realtà

Non si perde mai nulla.  

Marco Onofrio
(dal saggio inedito L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa,
di prossima pubblicazione)

 

“L’ultimo sorriso di Beatrice. Percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei”, di Sabino Caronia. Lettura critica

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Ideale viatico per la lettura di questo bellissimo patchwork di “percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei” (L’ultimo sorriso di Beatrice, EdiLet, 2020, pp. 272, Euro 17), scritti e raccolti da Sabino Caronia, potrebbe essere il «magistero di Leopardi, la sua parabola» che, come scrive Stefano Verdino, «consuma una disabitazione del mondo» realizzando «il suo senso drammatico della trasformazione, tra “vicissitudine e forma”, estrema naturalezza ed estrema coscienza critica, in vista di un indicibile traguardo metafisico». La Weltanschauung che presiede ai saggi di alta critica letteraria sapientemente assemblati nel volume, scaturisce da una frattura originaria. «Tutte le corde, sotto il plettro, si ruppero» canta un desolato D’Annunzio giovanile. L’Armonia dei tempi mitici si è spezzata per sempre, e con essa si sono disperse e dissolte le Grandi Narrazioni. La Verità non più data o rivelata come un dono da raccogliere, a guisa di perla dentro la conchiglia, ma demandata alla ricerca di ogni singolo individuo, escluso per sempre dalla pienezza di quella ancestrale contiguità. Lo snodo fondamentale del libro è, infatti, il rapporto tra verità e letteratura. Il problema della verità è quanto mai attuale, come sta drammaticamente mostrando il caos mediatico e cognitivo ingenerato dalla pandemia, in un mondo che la globalizzazione digitalizzata aveva già da decenni reso assai complesso e per molti versi incomprensibile. Come nota Cesare Cavalleri, il problema «non è conoscere le notizie, soprattutto quello che conta oggi è avere un filtro, dei setacci per orientarsi nel mare magnum dei fatti e delle informazioni». Che cos’è la verità? chiede Pilato a Cristo. E Cristo non risponde. Lo scrittore risponde con le opere, se intende il proprio operato come adempimento di una “vocazione religiosa” sia pure esercitata in ambito laico. Infatti, scrive Caronia, «si sarebbe tentati di rispondere» che la verità è la letteratura. Ma allora la letteratura è chiamata a farsi, e ad essere, verità. L’arte, in chiave metafisica e teologica, è verità per se stessa poiché tende di sua natura a superare i limiti, a rompere gli schemi, a rappresentare l’infinito e l’eterno. Se la verità è bellezza, la bellezza è anche – a sua volta – verità. Con le parole di Franz Kafka («La poesia è sempre e soltanto una spedizione in cerca della verità») e di Guillame Apollinaire («I poeti non sono soltanto gli uomini del bello ma anche e soprattutto gli uomini del vero»), vien fatto di rievocare il mito degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. A tal proposito, giova anche ricordare la doppia versione del mito di Orfeo, quale incantatore di fiere o, d’altro canto, ribelle sabotatore e annunciatore dello spirito tragico. Engaño y desengaño, ovvero: incanto (addormentare la coscienza vellicandola con cose dolci) e disincanto (pungere la coscienza per svegliarla e spingerla al cambiamento). Si potrebbero distinguere intere generazioni di artisti, assegnandoli a ciascuna delle due chiavi estetiche fondamentali. Tra le quali si barcamena il critico letterario, con il suo “triste mestiere” che, come nota Giacomo Debenedetti (sua la definizione), viene «scambiato per un servizio pubblico: peggio ancora, per un servizio privato ad uso della vanità di chi scrive e del tornaconto di chi pubblica», quando invece il critico «scrive per sé, per servire alla propria verità».

L’avventura intellettuale incarnata in questo libro può essere idealmente rappresentata dal seguente passo del romanzo Il Quinto Evangelio (1975), di Mario Pomilio, citato con altri intendimenti da Caronia a proposito dei libri di Stanislao Nievo: «Scopre soprattutto che in ogni epoca ci sono stati altri uomini, santi, eretici, ribelli, credenti e non credenti, che al pari di lui hanno speso la vita nella medesima ricerca. Attraverso le loro biografie ne vede riemergere le attese, le illusioni, l’evangelismo, le passioni, i dissensi, talora i drammi. E lui stesso, a contatto di tutto ciò, si trasforma: la sua ricerca, da filologica che era, diventa a poco a poco una ricerca religiosa, la sua avventura, da puramente scientifica, diventa un’avventura spirituale». È proprio così che accade al Caronia scrittore, specie nelle vesti di serio studioso e raffinato critico letterario, quale egli è. La fedeltà alla vita e alla sua eterna, complessa, inafferrabile polifonia. Come Salvatore Quasimodo: dalla “poetica della parola” alle “parole della vita”. «L’essenza della poesia», riconosce Caronia, «non esiste se non in quanto si cala nell’esistenza». Ecco dunque il suo metodo critico-biografico dove la pagina, come la vita, è appunto una polifonia che sintetizza echi da ogni tempo e luogo, con citazioni puntuali, appropriate e sempre “chirurgiche” (la prima qualità del critico è nella capacità di selezione). Tutto risulta utile, in teoria, all’analisi che si va costruendo man mano sulla pagina, con implicazione totale dell’uomo e del saggista: naturalmente i testi, consultati sempre di prima mano, e poi le biografie, i carteggi, le rassegne bibliografiche, i contesti storici, filosofici, scientifici, i mitologemi, i portati antropologici, i contenuti psicanalitici, ecc. Dall’insieme scaturisce un confronto assai fruttuoso di voci messe in dialogo. Un incontro costruttivo di esistenze, a cominciare dalla propria. La critica come autologia e scansione autobiografica: servirsi dei libri e degli autori come “specchi” per capire meglio se stessi e raggiungere la propria verità. Ecco spiegato perché Caronia entra in scena direttamente, facendosi deuteragonista delle cose di cui racconta e ragiona, mettendosi in gioco senza filtri. Si leggano, qui di seguito, alcuni esempi: 

«Ricordo il mio primo incontro con Bassani, avvenuto il 7 aprile 1983 nell’Aula Magna del Convitto Nazionale, alla presenza del preside e degli alunni dell’Istituto magistrale Isabella d’Este di Tivoli.»;

«Sbarcato da un volo della British Airway all’aereoporto di Heathrow mi sto dirigendo verso la città in taxi ed osservo e a proposito della misura architettonica di quelle basse costruzioni come di un villaggio ai margini di un bosco mi vien fatto di richiamare le considerazioni dell’autore del Gattopardo in una sua lettera da Londra, datata 5 luglio 1927»;

«Ogni estate in bicicletta, da Terracina, percorro la vecchia Appia sulle orme di Paolo di Tarso, e, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla, arrivo a Fossanova e mi fermo proprio davanti alla chiesa di Santa Maria. Entro.»;

«Sappiamo che nel 1272 Tommaso è a Firenze in Santa Maria Novella dove Dante con ogni probabilità lo vede. Proprio la visione notturna di Santa Maria Novella, una sera, alla stazione di Firenze, di ritorno dall’ospedale di Pistoia dove, dopo l’ictus, era stato ricoverato mio padre, si collega per me alla figura di san Tommaso».

Un incrocio di ricordi, sguardi e prospettive che produce la scrittura in tessitura di umane presenze, riaffermando il valore umanistico della letteratura come vita, come esperienza continuamente verificabile, come palpito caldo di autentica conoscenza. Dalla parte dell’incanto gioca soprattutto l’esplorazione del Mito, tipica peraltro della scrittura (anche narrativa) di Caronia. Per esempio la nostalgia dannunziana dell’estate nella sua fase morente («E un’ansia repentina il cor m’assalse / per l’appressar dell’umido equinozio / che offusca l’oro delle piagge salse» – “La sabbia del tempo”, Alcyone) che corrisponde al rimpianto dell’Ellade perduta (l’uomo moderno depauperato della divina armonia), e quindi all’eco immemoriale di un’infanzia eterna, fuori dal tempo. Anche Quasimodo, scrive Nicola Cimmino, sogna talvolta «un mondo felice nel quale rifugiarsi fatto di dolci ricordi, di miti stagioni, di cieli profondi, di paesaggi infiniti, sogno che talora la vita rafforza con l’intensità del vissuto e il fulgore dell’amore». E così anche Luigi Santucci, quando rievoca l’inebriante profumo dei tigli che segnava, a giugno, la chiusura delle scuole e l’inizio della «cara estate delle vacanze». Prefigurazione di un substrato più profondo, dove si annida la nostalgia del paradiso prenatale, il regressus ad uterum verso l’impossibile rinascita, la strada interrotta che conduce al preformale, l’inconscio, la fluidità ancestrale del liquido amniotico. Ecco D’Annunzio, Luzi, Tomasi di Lampedusa, Santucci, e anche Aldo Moro (cui Caronia ha dedicato uno splendido romanzo), qui ricordato per la sua caratteristica “sindrome da scirocco”: «Abbiamo davanti agli occhi le foto di Moro nella “prigione del popolo”, quella espressione di stanchezza e di noia con un baluginare di ironia, quella piega dolceamara sul labbro, al margine sinistro della bocca, quello sguardo in cui era possibile leggere i segni di un male antico come gli uomini della sua terra. Era la sindrome da scirocco, la sensazione di una violenta e gratuita fuoruscita dalla monade, di un trapasso improvviso da una condizione di immobilità, la nostalgia di un tempo stabile, di una impossibile regressione, quella tentazione del grembo materno e della morte che rimanda al trauma originario, al trauma della nascita». Laggiù, in fondo a quella «luce di un ricordo lontano» (Corrado Alvaro), c’è la freschezza viva della matria, la patria perduta di terra e mare, dove vige – nella coincidenza orfica degli opposti – la dimensione panica della natura. È la mente estatica, la felice condizione di immersione nel grembo del mondo (culla e insieme tomba, questo è il mare) che Mario Luzi cattura in una similitudine indimenticabile: «come pesci in un’acqua luminosa». È il sentimento oceanico a cui Freud accenna ne “Il disagio della civiltà” e che, estratto dal contesto originario, può richiamare il naufragio cristiano nell’oceano sconfinato di Dio: sia nel rapimento dell’estasi, sia negli attimi estremi del trapasso. Quello intrauterino è uno «stato di grazia, uno stato estetico. Il feto, nel seno materno, nuota e danza nel liquido amniotico come una piccola foca, al ritmo del suo piccolo cuore e della musica cantilenante della voce materna, di cui gli giunge come una lontana, rassicurante vibrazione. In principio è la musica e la danza. Poi verrà la visione, l’immagine e la forma, di cui il seno materno resta un modello perfetto. E con la conoscenza avrà inizio il desiderio. Il desiderio desiderante, il desiderio originario, senza scopo e senza oggetto, scoprirà quindi a poco a poco la realtà del proprio desidero. Ma quella musica, quella danza lo perseguiterà per sempre, come un paradiso perduto».
Dalla parte del disincanto gioca la tensione conoscitiva alla verità. Ecco la linea narrativa Silone-Sciascia. L’umanesimo socialista e l’umanesimo cristiano chiamati a dialogare, ricercando insieme una possibilità di accordo sul terreno comune della coscienza critica e della dignità dell’uomo. Pietro Spina, il protagonista del romanzo di Silone “Vino e pane”, segna «la riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale moderna» per una «fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica». Insomma, «Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce», e la sua sofferenza «continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia». Viene anche evocata la differenza che Santucci segna tra il “così è” del regno di Dio e il “come se” del regno dell’uomo: «… il così è è il regno di Dio, la sua paterna prepotenza, il come se è il regno dell’uomo, la sua risorsa, la sua furbizia napoletana. Bisogna che lo freghiamo scombinando le sue regole; è la Sacra Scrittura a insegnarcelo: “Quelli che hanno moglie come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che possiedono come se non possedessero”…». Ecco quindi il tema-cardine della pace, strettamente legato a quelli della giustizia e della verità. Ma il libro è ricchissimo di prospettive che si aprono l’un l’altra lo scenario. Fra gli altri temi che emergono: la “teologia della tenerezza”; lo stupore, l’inesauribile meraviglia per tutto ciò che esiste; la scoperta dello straordinario nell’ordinario, da cui l’amore per le “piccole cose” che poi piccole non sono (come ad esempio le “cose belle” per Aldo Moro: «non erano altro che lunghi giorni sulla spiaggia a Terracina, notti in cui solo lui sapeva calmare i timori della figlia prediletta, e piccole avventure fatte di brevi scappatelle di padre e figlia insieme a prendere un gelato o un paio d’ore al cinema», sicché per qualche tempo, durante la prigionia, «aveva fantasticato di poter essere di nuovo a Terracina al ritorno della bella stagione, di camminare ancora sulla spiaggia con Luca e dare uno strattone a lui e al suo gommoncino»); le rondini per Mario Luzi (lo affascinavano come accordo esaltante di libertà e necessità, che nell’uomo invece sono in rapporto drammatico: vanno dove vogliono entro l’ordine loro assegnato dalla natura, che è quello di volare, e volare in quel modo); il tempo dell’anima, che è l’eternità; la bellezza in fuga (la grazia e il mistero sono sempre sul punto di scomparire, come scrive Cristina Campo, ma questo rende la percezione delle cose ancora più preziosa e struggente); la speranza, l’attesa di un “supplemento di rivelazione” che ci sveli finalmente ciò che non riusciamo a vedere con i nostri poveri occhi mortali, ecc.

Il libro, che ha anche il merito di riproporre all’attenzione autori validi e ingiustamente dimenticati, come appunto la Campo, Elio Fiore, Margherita Guidacci e Biagia Marniti, si articola in due sezioni, di dodici saggi ciascuna. Per la poesia il titolo scelto è “La ferita dell’essere”, che è un verso di Luzi, a significare il trauma che ci ha estromesso dalla contiguità con il mondo delle origini, ma anche la letteratura come risarcimento di uno scacco patito: quello stesso di nascere, oppure qualcosa che accade o purtroppo non accade nel corso dell’esistenza (per esempio la Commedia come compensazione dell’amore negato a Dante da Beatrice: lo slancio infinito verso la bellezza, del resto, ha tutte le caratteristiche di una pulsione inibita alla meta, Orfeo docet, ma si pensi anche al titolo del libro, allo struggente “ultimo sorriso” che segna il commiato eterno di Beatrice – Paradiso, 31, vv. 91-93: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana» – intorno a cui si intrattiene a riflettere Jorge Luis Borges e, sulle sue tracce, Caronia nel saggio conclusivo ed eponimo della raccolta). Per la narrativa il titolo è “Un atomo di verità”, tratto da una lettera di Moro a Riccardo Misasi: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e sarò perdente». Altro mondo, altra Italia. E riflessioni universali senza fine che il libro ci aiuta a recuperare, liberando «il senso vertiginoso, insondabile e metastorico della dimensione spirituale dell’uomo» (il «senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo») e riportando al centro del villaggio globale, ora purtroppo anche pandemico, la maestà della vita coi valori perenni, ormai obsoleti in questa società che guarda ottusamente solo all’utile immediato – da cui la celebre distinzione che Moro faceva tra “politico” e “statista”. «La perdita del sentimento del sacro, la scomparsa dell’uomo, l’eliminazione del “centro” della vita, come amava dire lo stesso Testori, e le parallele conseguenze, la sottomissione alla mentalità dominante, la moralità della vita pubblica, la schizofrenia caratterizzante i rapporti interpersonali», ecc. Scriveva Robert Musil: «L’uomo non c’è più, ne rimangono soltanto i sintomi». Ma sono sintomi nonostante tutto grandiosi e confortanti, aggiungo io, se la cultura è ancora in grado di generare libri straordinari come questo, grazie a cui Sabino Caronia si consacra ad autentico maestro della letteratura contemporanea, e non solo.

Marco Onofrio

“Morte del padre”, nel primo anniversario della morte di mio padre Aurelio

Mio padre Aurelio in casa di riposo, nel 2018
Mio padre in casa di riposo, 2018


MORTE DEL PADRE

Serve la tua foto per la tomba
che guarda dai colli verso Roma,
tua patria
dopo la Calabria che ti nacque.
Serve l’emblema,
la cifra riassuntiva d’una storia.

Eri un uomo comune
un ferroviere,
lo dico con l’orgoglio
con cui lo disse Quasimodo
di suo padre,
eri di quell’Italia
che oggi non c’è più.

“Benemerito della rotaia”
ti nominarono
prima d’andare in pensione,
per la tua esemplare
dedizione.


Scartabello amaramente
gli album di famiglia.
Nei cassetti trovo soltanto disordine,
mentre i ricordi s’affannano
fino a smemorarmi;
ho dimenticato
che cosa sto cercando.
Non riesco a non pensare alle parole
del primario.


Sta male. La saturazione va scendendo.
Lo abbiamo attaccato all’ossigeno.
Si nutre con la flebo. Speriamo
di riprenderlo, peggiora
purtroppo d’ora in ora.


Una luce torbida
ti attraversa lo sguardo,
intercetto le parole
che non hai potuto dire.
A tutte le foto si sovrappone
la tua ultima immagine
che sale dallo specchio delle acque
dove splende il nero informe
senza nome
su cui le stelle annodano
scritture.
È laggiù la spugna enorme del silenzio
dove annegano le voci della vita.


Cedo, cado, precipito
per scale misteriose elicoidali
nei convolvoli interiori
della profondità.
Mi lascio andare,
mi arrendo alla tristezza universale.
Siedo, immobile, sul fondo del mare.
Guardo tutto da dentro una bottiglia.


Dove sei finito? In quale altra parte
dell’universo è ora il calore spento
dei tuoi giorni? Ridevi e singhiozzavi
battendoti la fronte con la mano.
Io provavo a fermartela,
sentivo il polso dell’operaio antico
ancora forte che si ribellava.


Si è aggravato ancora. Rantola.
Ha lo sguardo perso nel vuoto.
Si prepari: sta per trapassare.


Impossibile prepararsi,
dirsi pronti.
La falce ti ha reciso il 4 giugno,
il giorno di Roma liberata.
Sì, ti sei liberato
dal peso sofferente
del tuo corpo.
Sei andato oltre.
Sei in viaggio
dentro l’incredibile realtà
delle rivelazioni.


La distanza è incolmabile
come il vuoto che ci divide,
eppure ormai
abiti ogni mio respiro.


E io abito il mistero
d’essere te e me.
Un’unica persona.


Marco Onofrio
(da Azzurro esiguo, Passigli, 2021)

“Appello” (a Dante Alighieri)

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APPELLO (a Dante Alighieri)

…ma non erano da ciò le proprie penne
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne…
(Paradiso – 33, vv. 139-141)

… Inesorabilmente, da quel cielo
nel suo perenne lumine irradiato
atterrò d’un attimo il mio ciglio
ché ancora non ardivo ricercare
la fonte del più nobile consiglio.
E lì si aperse il velo, innominato.

Lui m’induceva a dire come figlio
che domandato al padre si confessi
temendo di non reggere l’acume
nell’acqua trasparente dello specchio
ove polire, a forza di speranza
le brume incatramate degli abissi
e solvere l’enigma dell’andare
eterno che contiene l’esistenza.

Mi rischiarai la voce titubante
che più sottile in punta della gola
il brivido impediva nell’uscire
ghiacciato dall’aguglia che le vene
appinza, e a porgere quel dire
brillava la mia fronte di sudore.
Allora m’ersi, vocai tutto l’ardire
forse l’ultima possanza che restava
e nel silenzio, madido di luce
come appena mormorando
cominciai:

“Dante, i’ vorrei che la tua voce
amara sì non fosse messaggera
di ciò che in questo giorno
mi riserva ad essere la sera.
Ah, saperti pareggiare
nell’eletto idioma che mi degni!
Mi mancano parole, e non poeta
né retore sono, ma giovane confuso
che ha perso la sua strada, se la ebbe
e ritrovar vorrebbe, fin da ora
la più alta dimensione
della vita, quella da cui nacqui
e arriverò passando, come spetta
per corso naturale ad ogni uomo.
Sdegno infatti l’ardimento
di guardarti aperto, ché ritengo
di perdere la vista al tuo splendore
meato dall’interno del diadema
che cinge la tua testa, t’incorona.

La tua sostanza prome d’intelletto
e della mente il seme a un punto tale
che favellar, tacere o contemplare
l’amore ch’arde vivo in chiara amanza
e da se stesso aumenta e si mantiene
non reca giovamento a quel suo male
o passo decisivo alla salute,
ma sì piuttosto danno e non rimane
l’onnipresente danza che l’involve
al divenir del mondo e del suo fare
ché ne basisce il labbro al verbo muto
e impallidisce in volto il colorito
allor che d’esta ardenza colmo il cuore
e intriso il sentimento di tremore
come un cavallo zoppo al dir mi pongo:
troppo parvo sònti nel cospetto
e prego la tua guida pel cammino
che nel destino ignoto s’apparecchia
e chieggo della luce il senso oscuro
che fa sotteso darsi a questo viaggio
dovere universale che c’impelle
assiduamente a scegliere la vita
la grazia e la portata del suo velle.

Che significa lo spazio circostante
dove muore, spegnendosi nel vuoto
la forza palpitante dentro il cuore?
Che cosa ci vuol dire dai primevi
il tremolio silente dei notturni?
Questo cielo inascoltato
che non ha contorni?

Donami un segno, un simbolo del vero
e che una volta la favilla dell’uscita
baluginando sorga dall’oscuro,
non sia fata morgana
la chiave-gibigiana del mistero
caduta da millenni in fondo al mare;
abbracci la tua mente queste spalle
e rampi verso l’anima giocondo
di fulmini al galoppo il palafreno
ed illeonito rugga il mite agnello:
s’incieli nel silenzio del profondo
l’aquila ghermendo la saetta
seguendo tra le stelle l’alta rotta
e insieme negli artigli il ramoscello
argento-verzicante dell’ulivo
e un giglio immacolato come emblema
che nel mio cuore scopro: sono vivo!
perché la vita amo e dono amore
copiosamente attorno, senza tema
come fosse la suprema
verità – sapienza et umiltà
dinanzi al pergamo del mondo
dico – certo tu m’intendi –
di quello spirito sognante che matura
nell’incubo del giorno più importante
e che gravarmi sento nell’esteso
e non evolve l’ombra persistente
questa mostruosa immensa allucinante
di vuoto apocalisse e spazio nero…
deh, sveglialo, bardalo, frustalo se vuoi
o eletto capitano e marescalco
fammi da mossiere alla partenza
spronalo al volo, tornalo al creatore
all’infinita fonte del potere
come il fiume che divalla verso il mare;
siimi padre, consigliere, amico
e solo che lo sforzo non sia vano
all’alba del risveglio, te lo giuro
potrai vedermi ridere nel sole
nella stupenda luce del mattino
alunno fiducioso più che figlio
sul misterioso, semplice cammino
che proprio dal tuo cenno
avrò intrapreso”…

Marco Onofrio

Tre pensieri sulla Donna (da “Nuvole strane”, 2018)

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Si riproduce sempre e in ogni luogo. L’eterno femminino, che manifesta la grazia del mondo. La bellezza irresistibile delle donne. Il potere della loro seduzione. La malia del loro sorriso enigmatico, che guarisce il male e blocca la mano alla morte. La luce vellutata e calda che splende nei loro occhi, sorgenti di un’acqua che rinfresca la gioia di essere e di amare. L’anfora generosa del loro corpo: spandono la vita tutta attorno (quando arriva una donna, un luogo si riempie di anima). La tenerezza calda del loro seno, porto di dolcissimi sospiri. Il profumo delizioso del loro collo. Il miele speziato delle loro bocche. La loro pelle liscia, lucida, ambrata, tutta da baciare e da abbracciare. Le ginocchia tonde, le forme che ricordano la terra. Il mistero sacro delle cosce che – da sole – bastano a dimostrare l’esistenza di Dio. Donne: intuitive, curiose, sensibili; languide, sensuali, appassionate; morbide, liquide, burrose. Donne, semplicemente donne, meravigliose donne!   

Se ami la vita, non puoi non amare le donne. Solo loro che ci mettono (e ci rimettono) al mondo. Le donne sono sacre. Chi le odia e le maltratta, firma con ciò stesso la propria condanna: è amico della morte, e la vita prima o poi lo punirà.

Il mistero sacro di ogni donna. Tra il seno, le spalle, il cuore. Bere la vita, gustando il sapore del mondo, dalla sorgente della sua bocca dolcissima. Accarezzarle il viso. Accendere la luce dei suoi occhi. Palpare i fianchi dell’anfora divina. Abbracciare la terra intera abbracciando lei. Passione struggente, languida sensualità. Ogni donna è un universo a parte: ha un fascino diverso da scoprire. Ciascuna, unica. Offerta ambulante di delizie. Scrigno segreto di gioie. Incrocio labirintico di possibilità. Fermarsi a una, d’accordo. Ma come rinunciare al dono delle altre? Amarle tutte: perché tutte esistono per essere amate. E l’uomo per amarle.

Marco Onofrio