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“Amen”, di Chiara Mutti. Lettura critica

Leggendo “Amen”, il nuovo, suggestivo libro di Chiara Mutti, vien fatto di estrarre dalla robusta tessitura dei “racconti”, sospesi tra diario senza date, espresso in terza persona, e poema lirico di frammenti in prosa, dall’impatto poetico-musicale piuttosto che narrativo, una sorta di identikit della protagonista fittizia, Giulia, in cui l’autrice, decidendo per sé un ruolo apparentemente neutro di “io narrante”, sembra con ben altra evidenza sostanziale riconoscersi e riversarsi, in guisa di “alter ego”. Starà poi al lettore comprendere e decidere quanto di Giulia appartenga a Chiara, o viceversa. Quanto cioè Chiara Mutti abbia avuto bisogno di uno “schermo” esterno – come la visiera con cui l’operaio si protegge gli occhi dall’incandescenza della saldatura – per maneggiare e, appunto, saldare i frammenti di un passato traumatico che le brucia dentro, malgrado i decenni trascorsi.

Regge, la finzione di Giulia? È un personaggio credibile, dotato di vita autonoma? Oppure è una mera funzione narrativa, ricavata semplicemente trasformando l’io nella “terzietà” di una prospettiva equidistante, almeno in teoria, tra l’io e il tu, cioè tra lo sguardo interiore e quello esterno proveniente dal lettore? Secondo me la risposta è “sì” per entrambi i corni del quesito: vale sia come finzione realistica, o almeno verosimile, e sia come trasposizione strumentale di contenuti privati che, anche grazie all’espediente narrativo, si pongono e si porgono in senso universale. È un problema di “sospensione dell’incredulità”: sta al lettore credere in Giulia, o vederci Chiara in trasparenza. In un caso o nell’altro emerge il temperamento, forte e fragile al contempo, di una donna fieramente anticonformista, e intendo l’anticonformismo autentico, non quello esibito, per darsi un tono, dai conformisti. Un mix di autonomia, libertà, orgoglio, dignità, volontà di bastare a se stessa. Un retrogusto antico di femminismo anni ’70 dove però gli slogan programmatici e le frasi fatte si sono ormai stemperati nella dolce maturità dell’esperienza e, perché no, in una prima forma di “saggezza”. Una infanzia difficile ha costretto Giulia a farsi da madre e padre, ad essere figlia di se stessa, ma anche a farsi compagnia come “unica amica dei giochi”. Aveva ed ha tuttora una sensibilità diversa: suonava fin da piccola “un’altra musica”, sventolava “una bandiera tutta sua”. Ha uno spirto guerrier ch’entro le rugge: un’anima barricadera che la spinge alla ribellione fin dalle cose più semplici, plasmando la sua volontà di uscire dal “bozzolo rassicurante” delle abitudini, dalla narcosi del tran-tran quotidiano. Ma specialmente una integrità morale che la costringe a non piegarsi, a non arrendersi mai: è persuasa che “la pace non fa saldi” e non può esistere senza giustizia. I vecchi ideali di un mondo che nel frattempo sembra cambiato di secoli, e non in meglio, sono agganciati ai contrappesi di un “disincanto” che è nutrito anzitutto di sano realismo: il coraggio di non raccontarsi favole e non cedere alle facili illusioni – forse per troppe delusioni subite.

Per Giulia la realtà è un baratro immenso e vuoto, come il “buco in fondo all’anima” dove cerca sempre la sua voce; il dolore è buio che illumina, svelando inganni e ipocrisie; l’esistenza è un desolato magazzino di depositi (scorie ricordi traumi ferite squallori): “migliaia di immagini… Non tutte comprensibili, ma ognuna sembra racchiudere una importanza vitale” – così scrive Chiara. Il fatto è che l’artista, quando lo è davvero, è “abitato” da visioni inconsumabili che nelle opere cerca di circumnavigare, comprendere, esorcizzare: le insegue per tutta la vita. Sono i miti personali: le scene che continuano sempre ad accadere, per esempio dopo l’ultima lite col padre “la porta sbattuta così violentemente da continuare a sentirne le vibrazioni per tutto il resto dei suoi giorni”. Essere artisti è un crisma che unisce benedizione e dannazione; il rovescio della medaglia che il dono comporta è il disagio esistenziale, cioè la difficoltà di adattarsi al mondo, alla comune socialità, alla comunicazione banale e insincera che domina i rapporti umani. Ecco quel tipico stato di sospensione e impaccio: la sensazione costante di “aver rimandato qualcosa di molto importante” o di essere “sempre in ritardo di qualche minuto sulla vita”.

La parola per Giulia è il surrogato di “un’altra via di comunicazione” che segue “strade impervie e misteriose”, “percorsi siderali” entro cui “chissà dove si perde e chissà quando poi si ritrova”. Le è connaturale il mutismo, cioè il silenzio che, come il bianco i colori, contiene tutte le parole. È, per così dire, taciturna anche quando parla: preferisce parlare con gli occhi o completare le parole con gli sguardi. Di conseguenza, Chiara scrive di lei per sottrazione: ma questo, anziché attenuarla, amplifica la forza della parola così come, proprio quando si vuol far piano, i gradini di una scala di legno scricchiolano più del normale o del necessario… Il rapporto sofferto e combattuto che anche Chiara intrattiene con l’imprecisione riduttiva della parola trova un compromesso accettabile nella parola scritta, che (al pari della fotografia) “salva” le cose estraendole dal flusso del tempo, ed esime dall’obbligo della presenza perché continua a parlare anche quando chi ha scritto non c’è, o non c’è più. La scrittura viene onorata e praticata come rito ancestrale di sprofondamento nelle umane radici, attraverso una dinamica biunivoca dal particolare all’universale e viceversa. È una “terrazza aperta sulla notte e sui segreti del cielo” dove hanno modo di svelarsi e apparire, come i punti luminosi di una figura archetipa che riemerge dai canali aperti dell’immaginazione, i significati profondi e originari dell’esistenza. Da qui, la concentrazione tipicamente “poetica” di questa prosa, orchestrata sulle potenzialità di una scrittura tesa, tagliente e lucida come l’aria dell’inverno. Vale, per la Chiara Mutti prosatrice, il monito di Lalla Romano: stringere un libro intero nella pagina, la pagina in una frase, la frase dentro la parola.

Se intendiamo “poesia” anzitutto come “intensità” dello sguardo, dimensione dello spirito e stato della mente, “Amen” è un libro di poesia trafugato in pagine di prosa che dalla dissimulazione del focus traggono motivi di efficacia più sottile e, proprio per questo, ancora più incisiva. Anche per la sfuggevolezza del senso, che obbliga talvolta a tornare indietro per ripetere la lettura: ed è tutt’altro che un difetto, penso ai “Canti Orfici” di Dino Campana, a “Biografia a Ebe” di Mario Luzi, ai libri di Carmelo Bene… La dimensione poetica veicola naturalmente una tonalità melanconica, di inquietudine struggente e di atroce nostalgia (soprattutto di ciò che non è stato). Lo scrittore turco Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006, ha notato in un suo libro di preziose riflessioni sull’arte del racconto, dal titolo “La valigia di mio padre”, che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Sono ferite che non cicatrizzano mai completamente, e infatti il poeta è un essere scorticato, come ci ricorda Rainer Maria Rilke.

Analizziamo lo sguardo melanconico di Giulia: da un lato il miraggio fugace della felicità nell’“urgenza di volersi e di sentirsi eternamente vivi”; dall’altro il grido disperato delle cose inghiottite dal vuoto, la fine irredimibile che incombe e lo strazio sottile del pianto universale (sunt lacrimae rerum), per esempio il grido gioioso e grottesco che alla fine, espressionisticamente, coincide con quello stesso del cosmo, dal cielo “colmo di stelle”. A fronte della ineludibile realtà tragica, ecco il colophon da Montaigne, dedicato all’attrazione per gli inizi: «La nascita di tutte le cose è debole e tenera; e quindi dovremmo avere i nostri occhi dediti agli inizi». L’impatto di questa debole tenerezza si traduce e si declina in forza come slancio retroattivo e regressivo, ricerca dell’origine dei giorni: il tempo perduto da ritrovare e il mistero sconosciuto che palpita al centro del conosciuto “ordinario”, anche come improvvisa rivelazione. Ed ecco, subito, il secondo colophon, da Pasolini: «Quando si scrive senza pensare di rivelare un segreto, cioè sinceramente, ci si accorge di rivelare un segreto che non si sapeva di avere». La crisi è sempre opportunità di un nuovo inizio, a patto di esercitare la tanto decantata “resilienza” che però in “Amen” non è la parola oggi tanto di moda, ma la forza autentica di sormontare gli ostacoli (nella fattispecie di Giulia abbracciano ad arco filiere di traumi dovuti a disgregazione familiare, miseria, fame, collegio, esclusione, solitudine, e in una sola parola riassuntiva: disamore), cioè la prodigiosa capacità di estrarre armonia dal caos più nero e doloroso di una vita non proprio fortunata.

Grazie al processo alchemico attivato nel corpo della rigenerazione creativa e poetica che Chiara opera in nome e a favore di Giulia, la musica del pensiero e l’intensità del cuore articolano il centro unitario da cui irradiano le suggestioni del libro: la pulsione che muove e commuove la scrittura verso un indefinibile “oltre” umanamente alto, qualcosa di diverso e più profondo, da cui procede il riscatto “postumo” delle energie negative prodotte, anche dopo molto tempo, dagli eventi. Chiara riesce ad estrarre la radice del mondo nella vita di Giulia, e la radice della vita di Giulia in mezzo ai fili molteplici del mondo. Non è dato sapere quanto travaso personale immetta nell’opera di trasduzione, ma è certo che nell’osmosi consente a Giulia di vedere il fondo delle cose attraverso la loro dolorosa opacità. Un fondo che spesso si rivela doppio, tanto che parla esplicitamente di “dicotomia d’immagine” a cavallo tra onirico e reale. Ma che cos’è reale? La realtà stessa è forse sogno? O il sogno è realtà? Una delle rivelazioni offerte dal percorso è che le cose più “normali” sono, a ben vedere, quelle più oscure e misteriose: come nel racconto di atmosfera kafkiana dal titolo “Il faro”. Realismo e simbolismo sono in effetti le due cifre estetiche in cui vanno a collocarsi le due forze motrici del libro, una centripeta (la paura) l’altra centrifuga (il desiderio): la paura tende al realismo, il desiderio al simbolismo, ovviamente con tutto l’arco delle gradazioni intermedie e degli impasti reciproci. Il grande dono offerto alla fine del percorso è la catarsi, che consente uno stadio di possibile guarigione e liberazione dal dolore, secondo il principio che tutti i grandi medici furono dei grandi malati, e ogni malato, se guarisce, può guarire a sua volta gli altri. Amen significa allora fare i conti col passato: perdonare e soprattutto perdonarsi per buttare giù la diga che opponiamo allo scorrere eterno delle cose, e che in realtà “non è altro che la nostra paura di vivere”. E allora imparare anche ad arrendersi, accettare che la vita faccia il suo corso malgrado noi, i nostri limiti, i nostri sforzi disperati di resistere e sperare.

Voglio concludere queste note evidenziando una straordinaria e forse non casuale assonanza tra il racconto “Pietra” e il pasoliniano “Teorema” (1968), film e romanzo. Leggiamo dal racconto di “Amen”: “La figura di sua madre si stagliava nitida contro il sole, stava rigida, inginocchiata come in un antico rito di adorazione, statua pagana nel mezzo dei prati brulli di fine estate”. La madre di Giulia, Giulia stessa e suo fratello maggiore sono usciti a passeggio per i prati del Tiburtino, dietro gli squallidi palazzoni, all’altezza del civico 613. La madre dei due bambini è malata di mente, preda di fissazioni mistiche e manie di persecuzione. Si pensa subito all’Emilia di “Teorema”, nel film interpretata da Laura Betti. Leggo passim dal romanzo di Pasolini: «Emilia (…) si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole. (…) piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia. (…) I due bambini (…) sono sul prato davanti alla casa (…). Infagottati nei loro vestiti da contadini a modo, già quasi simili ai borghesi, raccolgono le ortiche in silenzio, diligentemente. Solo la bambina, ogni tanto, si lamenta un po’ perché le ortiche la pungono. Il pentolino lo tiene in mano il maschio. (…) E intorno, quasi vertiginosi per quel loro verde, si stendono i prati (…). Emilia immobile (…) È davanti a lei che i due bambini si recano. A debita distanza, si fermano, e, coi gesti dell’abitudine (…) depongono il pentolino di coccio pieno di ortiche. (…) Emilia, assorta altrove, con gli occhi foschi che non guardano nulla, mangia a lente cucchiaiate il cibo verde della sua scandalosa penitenza».

Torniamo ora a “Pietra”. I due bambini si tengono un po’ distanti dalla madre “inginocchiata, le mani giunte, lo sguardo fisso verso il sole”, poiché temono che sopraggiunga qualcuno a cui dover dare spiegazioni. Così accade: “A un tratto spuntò come dal nulla un uomo magro, alto ed elegante, il soprabito scuro svolazzante nell’aria quasi autunnale”. L’uomo si ferma, ipnotizzato dalla visione, e poi chiede ai due bambini se conoscono quella donna. I due bambini rinnegano la madre: alto è il rischio d’essere affidati ai servizi sociali, e perciò divisi. “Dopo minuti che sembrarono interminabili l’ospite indesiderato andò via, con il suo agile passo lungo, tornando a voltarsi e a guardare di quando in quando; loro fecero finta di giocare, fino a che fu sparito all’orizzonte”. Ora, considerando che da quelle parti – all’altezza di Casal Bruciato, nei pressi degli stabilimenti cinematografici della De Paolis – era praticamente di casa, ho il fondato sospetto che l’uomo dall’“agile passo lungo” fosse nientemeno che Pier Paolo Pasolini, e che abbia guardato avidamente quella scena strana, tragica e a suo modo ieratica per appuntarla mentalmente e poi riversarla (mutatis mutandis, per esempio trasformando i prati del Tiburtino nelle campagne della pianura padana) all’interno del film “Teorema” e del conseguente romanzo, dando così vita al personaggio della mistica Emilia. È da escludere una suggestione al contrario, poiché Chiara Mutti quando scrisse “Pietra” non aveva ancora letto né visto “Teorema”, e d’altra parte ha narrato un episodio, a quanto pare, realmente accaduto. Sarebbe peraltro da verificare la coincidenza temporale tra l’episodio stesso e “Teorema”, sempre tenendo conto che il multiforme ingegno pasoliniano aveva tempi rapidissimi di metabolizzazione, sintesi eidetica e scrittura. Insomma, era davvero Pasolini? Non lo sapremo mai, però a me piace credere di sì, e che in cambio della scena, così misteriosamente carica di simboli e significati, egli abbia trasmesso in dono a Giulia, quel giorno lontano nella polvere assolata della periferia romana, lo stigma e la dannazione della poesia autentica; e che di conseguenza Chiara Mutti li abbia ereditati, per Giulia, per sé e per noi tutti.

Marco Onofrio

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Note critiche di Sabino Caronia su “Specchio doppio”

 

Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.

I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.

C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».

Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.

Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.

Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.

È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.

C’è  il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.

Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.

Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non  a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.

Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?

                                                                                    Sabino Caronia

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“Specchio doppio”, letto da Letizia Leone

Oggi nella quasi totale omologazione, sia stilistica che formale, della sterminata produzione letteraria e d’intrattenimento, spicca il poco spazio riservato al genere del racconto da parte dell’editoria italiana. Eppure il racconto, anzi quella che un volta veniva appellata la novellistica, vanta una prestigiosa e consolidata tradizione nella letteratura italiana attestata già alla fine del duecento con Il Novellino. Il genere della prosa breve non rientra nelle politiche merceologiche dell’industria editoriale. Le motivazioni non sono culturali, bensì economiche, di profitto. Il libro, quale prodotto di consumo, deve rispondere a determinati requisiti di vendita tra i quali la semplificazione, l’intrattenimento e l’appartenenza a modelli destinati a fette di mercato predeterminate. Sebbene poi il racconto, così come la poesia, da questa posizione di marginalità e autonomia tragga linfa per la ricerca espressiva. Lo stesso Giulio Ferroni afferma che il racconto ormai sembra «farsi carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica». Salutiamo dunque con favore libri come questo di Marco Onofrio, racconti brevi ma densamente significanti, parodistici e rappresentativi di una società “borderline”, dove “Le persone normali” (per citare un titolo di Aldo Busi) sotto la superficie della consuetudine rivelano un estremismo esistenziale tutto contemporaneo.

Il titolo e la citazione ad incipit di Giordano Bruno annunciano, nell’immagine prettamente barocca dello specchio, una ontologia dell’essere e dell’apparire, un forte richiamo a certe questioni classiche della doppia identità vita/arte, finzione/autenticità. Questioni già metabolizzate in una modernità pervasa ormai dal virtuale, dal bombardamento mediatico e che va smussando i confini del reale e del riflesso, del contingente e dell’illusionismo prospettico. Tempi di post-verità, ipoverità, fake-news, di illusione di massa dove i fatti indietreggiano rispetto ai pregiudizi o alle emozioni. Il reale e la finzione si mescolano. Istanze sottese a questi racconti. Se lo specchio riflette l’immagine reale e, in una distorsione diabolica un doppio specchio riflette un’immagine di secondo grado, magari con un certo impercettibile livello di deformazione, allora viene spezzato il rapporto biunivoco tra osservatore e osservato. Il doppio specchio di Onofrio, con la doppia rifrazione include osservatore e osservato in una visione straniante e obliqua che potrebbe essere anche una via di fuga dal semplice rispecchiamento. Ma anche il Vuoto e il Nulla sono fili rossi che innervano questi racconti con le variazioni socio-antropologiche dell’inettitudine, dell’inazione, del fallimento. Allora l’intuizione che ci raggiunge dal titolo è un’immagine di riflessione del vuoto che avviene tra due specchi posti l’uno di fronte all’altro, dunque auto-riflettentesi. Scrive R. Barthes: «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso». «Il vuoto del vuoto. Così vuoto da rimpiangere il nulla», scrive Onofrio in un atipico racconto dell’orrore, La vecchia Zerbe. Oppure in Caos: «È il vuoto, sotto e intorno a me. Tutto gira, tutto sfila. Sto cadendo. Precipito ed urlo, ma non sento nulla…»

Il libro è strutturato in dieci coppie di racconti centrati su dieci parole-chiave (La Letteratura, La Carne, La Borghesia, la Morte, Il Caos, Il Sentimento, Il Football, La Politica, L’Italia, Roma) quasi un paradigma di variabili esistenziali dove la vita stessa è incasellata nei suoi aspetti macroscopici. La scrittura di Onofrio si muove con strategie stilistiche che rifiutano la rappresentazione lineare, mimetica. Lo straniamento ne è la cifra stilistica. Quasi tutti i racconti prendono avvio da situazioni di routine quotidiana, viaggi in treno, appuntamenti di studio, esami universitari di dottorato, Onofrio stesso lo dichiara in più punti: momenti di vite qualsiasi. Ad esempio nel racconto Le mutandine: «Una vita qualsiasi, Attilio lo sa, eppure non riesce a lamentarsi anche nella normalità puoi trovare, se vuoi, dello straordinario…». Attilio infatti si è specializzato nelle fantasticherie, come altri protagonisti del libro, tanto che nella “continuità dell’argomentazione logica”, per dirla filosoficamente, irrompe facilmente il surreale o il fantastico, l’assurdo o lo straordinario. Si tratta di rêveries, sogni ad occhi aperti, allucinazioni, esperienze surreali vissute come eventi normali. Fantasmi pubblici e privati. La narrazione di Onofrio ci suggerisce che il “Reale” è precario, incoerente, fluttuante e fluido, aperto alle irruzioni di altre dimensioni magari psichiche o inconsce che si mescolano ai fatti del giorno o della notte. Il principio di realtà ha perso il suo fondamento e l’Io ne esce indebolito e disorientato.

Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte scrive: «Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione, è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia ci sono soltanto dei simulacri.» Non a caso Onofrio parte dalla letteratura con un primo racconto eponimo smaccatamente pirandelliano, Specchio doppio, e lo colloca dentro un mosaico di temi, metafore e allusioni. Autore, lettore, in un gioco di continua interscambiabilità. Nel guardarsi allo specchio (il narcisismo, questa malattia tutta contemporanea!) ci si confonde infine, si entra in un loop, in un gioco di ripetizioni e di scatole cinesi, non si sa più chi è l’autore e il lettore, l’artista e il fruitore, L’Io e l’Altro. In fondo la coscienza e l’identità sono solo un punto di vista, un punto di osservazione prospettico che potrebbe cambiare da un momento all’altro. E l’equilibrio è solo un’illusione. Basta poco, un’impressione, una percezione, un nonnulla…Allucinazioni fantasmagoriche o illusioni ottiche sono ormai piani interscambiabili. L’assurdo e l’inverosimile vengono normalizzati.

La bravura di Onofrio è anche nella sorpresa. La sua narrazione parte da posizioni quasi didascaliche, ad esempio in Roma, dove le descrizioni di un monumento iconico quale il Colosseo vengono dispiegate in memorie storiche e aneddotiche fino ad un’inattesa virata nel grottesco e nell’umoristico con il racconto rocambolesco di un amplesso fantasmatico, finché nell’epilogo lo scrittore ti aggredisce poeticamente alle spalle con un finale che commuove a tradimento chi legge. Così come nel racconto Il grande sogno dedicato alla squadra del cuore, la Lazio, dove  entrano ed escono fantasmi e si può saltare da una parte all’altra della linea temporale con la facilità di una situazione onirica. La memoria è un fatto quotidiano come gli altri, e prendendo un autobus il protagonista può andare a cercarsi nel proprio quartiere a quarant’anni di distanza, magari arrivare dietro la porta di casa e ascoltare la propria voce infantile. Altro tema ricorrente quello del sesso, vissuto in una distorsione straniante, con femmine fameliche e maliarde, con l’immagine grottesca a tratti caricaturale del sesso femminile che ricorda certo espressionismo e deformazioni gaddiane. Non mancano gli affondi nella deiezione: «Indi calarsi le braghe, lentamente o meno – di questo ci si prega. Indi ancora, senza alcuna verecondia, liberamente dare inizio al cago: che ne spurghi le budella, dal gravame dell’attuffo che l’intrippa, e rilasci il ponderoso pegno di ventresca, che più utile riesca alla salute…». Con il cerimoniale scenografico della defecazione nel racconto Festa a tema avviene il ribaltamento grottesco del rito sociale della festa e del perbenismo borghese. Lo scarto fisiologico viene normalizzato a momento conviviale, parodia del trash mediatico in cui siamo immersi. Oppure la ricorsività di umoristiche  descrizioni delle performance sessuali sotto metafora calcistica.  

E se spesso il soggetto subisce una «perdita di realtà», in una conversione umoristica arriva più volte la sberla liberatoria. Come una catastrofe, il rivolgimento giunge alla fine dell’azione e la conclude: «…stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e…PEM…gli assesto un manrovescio coi fiocchi, da farlo rivoltare.» (Il “Dannunziano”) Se il nichilismo ha depredato la realtà di ogni valore facendoci precipitare verso una incognita,  la vita ha assunto una parvenza farsesca. E questa scrittura stride di critica sociale e si dipana sempre un gradino sopra la logica tranquillizzante e la ragionevolezza. Ha detto bene Paolo Di Paolo nella quarta di copertina: «Marco Onofrio poeta nutrito dalla tradizione». Ma non si tratta di epigonismo, bensì di appropriazione per assimilazione cosciente di una tradizione letteraria nell’originalità e individualità propria dello stile dello scrittore Onofrio al quale aderiscono le parole di Ernst Robert Curtius: «Per la letteratura, tutto il passato è presente… Il presente atemporale, caratteristica specifica della letteratura significa che la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente».

Dunque racconti densi di stratificazioni letterarie, fantasmi pirandelliani, disarmonie espressionistiche gaddiane, trappole kafkiane, ironie alla Flaiano. Perché in fondo ognuno di questi racconti potrebbe anche rivelarsi un omaggio ai grandi testimoni della più alta tradizione letteraria, da Pirandello a Pasolini, da Flaiano a Kafka, da Calvino al Dürrenmatt.

Letizia Leone

“Il roseto sul bunker”, di Italia Vitiello Izzo. Lettura critica

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Il romanzo “Il roseto sul bunker” (Europa Edizioni, 2022, pp. 198, Euro 14,90) configura un rapporto di continuità con le precedenti opere narrative di Italia Vitiello Izzo. Lo spettacolo della gente, l’eterna faccenda delle esistenze in gioco, i temi universali. Insomma, la scrittrice e biologa di origine salernitana pare costantemente appassionata alla scrittura del tempo, ovvero il tentativo quasi impossibile di ricostruire gli anni, i giorni, le ore e i minuti volati via per sempre, non prima di annodare le trame e lasciare le tracce da cui è formato il patrimonio storico che sostanzia la nostra identità; quindi, nella fattispecie, la ricognizione del Novecento in Italia, in particolare dagli anni della seconda guerra mondiale al boom economico attraverso le vicende esemplari di personaggi comuni “pedinati” nella loro evoluzione quotidiana. Occorre sempre distinguere tra un vero poetico, basato sulla rielaborazione dell’esperienza e sulla libertà dell’immaginazione (tesa al verosimile); e un vero storico, basato su fatti e documenti di pubblico dominio, che è il traliccio su cui l’autrice annoda le trame della sua scrittura. Da una parte la Storia con l’iniziale maiuscola; dall’altra le “storie” come gocce d’acqua che, unite nell’amalgama del tempo, compongono il mare. Ma sono proprio le storie ricostruite e immaginate dagli scrittori a restituirci il sapore autentico della grande Storia! Nei romanzi, così, troviamo atmosfere, aspetti e particolari su cui la storiografia ufficiale non può e non vuole soffermarsi. Per capire e “sentire” lo spirito del tempo che intride di unicità ogni epoca storica occorre anche e soprattutto leggere le opere narrative che di essa si nutrono, sostanziando le proprie intime ragioni. 

La narrativa vuole “edificare universi” (è il titolo della collana che ha accolto il romanzo) restituendo il lievito del vissuto, la sua inafferrabile sostanza di complessità. Lo scrittore di storie intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’esperienza ri-vissuta. La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: tutto è cadùco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che spetta alla storiografia o alla narrativa di impianto storico manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Il tempo viene sottratto all’oblio, cioè ricostruito e ripensato sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i narratori e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare. Scrive Vincenzo Cerami: «Nessun linguaggio è in grado di restituire nella sua complessità ed interezza il sistema di segni che forma l’immaginario umano. I linguaggi artistici, tentando di riprodurlo, creano una sorta di mitologia del reale, nella quale vanno a specchiarsi le cose segrete e rimosse del vivere». Naturalmente lo scrittore mette insieme tutto: impasta ciò che ha vissuto, o visto, o ascoltato con ciò che immagina, fantastica, sogna. In un romanzo la realtà viene oltrepassata, selezionata, modificata, in una parola: creativamente trasfigurata. La narrazione è come l’armadio che si descrive a p. 14, con «una serie di cassetti, cassettini e porticine segrete, in cui spesso Graziella [così come Italia, la nostra autrice, quando narra – NdR] andava a curiosare alla ricerca di qualche oggetto, di qualche documento, che svelasse qualcosa di sorprendente». Tale natura prismatica delle cose ben si attaglia a quella profonda delle persone e delle loro esistenze in continua evoluzione.

Italia Vitiello Izzo libera dalla polvere questi “italian graffiti” attraverso le storie di numerosi personaggi, soprattutto femminili, seguiti nelle loro vicende di resilienza distese nell’arco di periodi storici difficili o tragici come quelli da cui parte il romanzo, nel settembre 1943. Giorni terribili di bombardamenti (la scrittrice ci fa sentire nelle ossa «l’urlo della sirena che lacera il silenzio»), giorni di corse precipitose nei rifugi, di razionamenti, penuria, miseria, malattie, disperazione. Una condizione di estrema precarietà che abbiamo riattivato nella nostra coscienza con la pandemia, e ora con la guerra in corso. La dimensione corale che emerge dalla “scena” di queste storie, seguite e sviluppate in parallelo, non è mai anonima, ma originale e diversa in ogni voce: tutti i personaggi hanno la loro nota peculiare, la loro impronta distintiva che li fa emergere dalla folla e dalla nebbia del tempo. E appunto in parallelo ci sono gli eventi della grande Storia, citati “a latere” delle storie come motori nascosti o cause segrete delle vicissitudini individuali. E quindi, per esempio, l’armistizio di Cassibile del 3 settembre ’43, o le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre ’43). Si riflette soprattutto sul destino dei ragazzi di quegli anni, costretti a sbocciare e dissipare il fiore della loro giovinezza in un periodo di guerra. Poi il 1947, la vita che risorge dalle ceneri tra le immense macerie materiali e morali della guerra, con lo strascico infinito di ferite visibili e soprattutto invisibili (paure, angosce, traumi irrisolvibili, ossessioni). Il primo ritorno alla vita “normale” partorisce una visione un po’ più rosea del futuro e la speranza di un mondo migliore. E arrivano gli anni ’50, l’età dell’oro: «Un mondo stava cambiando ai loro occhi, ma intravvedevano ancora incerto il futuro». Ecco le festicciole e i balli in casa, le nuove istanze di «posizionamento sociale», l’accentuarsi dei contrasti tra città evolute e province arretrate, e la comparsa dei primi televisori con la fruizione comunitaria nei bar e nei circoli, raramente privata dato il costo elevato degli apparecchi. E infine gli anni ’60, con il boom economico che trasforma velocemente l’Italia da Paese agricolo a Paese industriale su base capitalistica e consumistica. Di quel periodo contraddittorio, ma felice e ricco di speranza, Italia Vitiello Izzo ci fa sentire l’energia come materia vitale, un misto di immaginazione creatrice, possibilità “aperta” di proiettarsi nel futuro e capacità di imporre la propria impronta sul corso delle cose. Il cambiamento non elimina, ovviamente, le sacche di arretratezza. Per esempio in questo tratto: «Nel mezzogiorno, permangono tradizioni familiari che tardano ad estinguersi. Le donne sono ancora in condizioni di totale subordinazione. L’uomo invece può godere di tutte le libertà». Ed ecco, ancora, le tracce della grande Storia: la “nuova frontiera” di John Kennedy per un «equilibrio tra le super potenze, non fondato più sulla sopraffazione, ma sulla democrazia e sui diritti civili». E il contatto visivo con un suo passaggio italiano: «Era il 2 luglio del 1963 e Mergellina trovò una folla in tripudio che agitava bandierine italiane e americane; il presidente Kennedy sfilava tra due ali di folla a bordo della Lincoln nera decappottabile e veniva accolto da un incontenibile entusiasmo popolare. Era abbronzato e in abito azzurro scuro». Un sogno mondiale che sarebbe tragicamente finito dopo qualche mese, il 22 novembre, con l’assassinio del presidente americano a Dallas. Ma i semi avrebbero dato i loro frutti, i nuovi scenari prefigurati dal progresso, dall’emancipazione di popoli e costumi. Ecco i movimenti giovanili, la contestazione globale, il femminismo, ecc.

Le cronache familiari sviluppate in questo libro accolgono una tessitura del quotidiano fatta di azioni minime, di pensieri che attraversano gli istanti, di cibi cucinati e mangiati, di confidenze, piccoli segreti, speranze, sogni, progetti, fantasticherie, trasfigurazioni infantili, palpiti, false promesse, delusioni… Su tutto aleggia un quid di inafferrabile struggimento, una sorta di “sunt lacrimae rerum” di virgiliana memoria, poiché il tempo – scultore delle cose e grande divoratore delle stesse – ha il «potere di cambiare nel profondo le persone» e allora «si trattava di mantenere in vita qualcosa di molto prezioso che sembrava spegnersi» resistendo alla realtà ma anche imparando ad accettarla, nuda e cruda, in tutta la sua dolce ferocia rivelatrice. Il tema dei temi è l’amore, l’eterna dimora del mondo: una casa fragile che va continuamente costruita e ricostruita, e noi siamo le pietre vive di questa costruzione. «L’amore, gli amori» scrive Italia Vitiello Izzo, costituiscono «l’essenza della vita; tutti gli amori, quelli veri, quelli traditi, quelli finiti». Lo snodo simbolico fondamentale è proprio il contrasto tra eros e thanatos, amore e morte, e quindi tra civiltà e barbarie nella misura in cui “amore” significa etimologicamente a-mors, cioè morte preceduta, negata e contenuta dall’alfa privativa, quindi: “senza morte”. Non a caso la guerra è l’opposto assoluto dell’amore, in quanto apoteosi dell’odio e della morte. La morte in verità non viene esorcizzata in questo libro: c’è ad esempio la malattia e la morte di Virginia e di Agnese; c’è la morte di Pietro, il padre di Celestina; c’è la morte per parto di Graziella… ma c’è anche la maternità felice di Vittoria; c’è il sospirato matrimonio di Celestina, c’è la sua prossima maternità che dissipa ombre, nostalgie e rimpianti («tutto cancellato grazie al potere della vita che portava in grembo»)… e insomma la Vita, sì, l’indomita volontà di vivere che trionfa su ogni tragedia, su ogni disperazione.

Di qui, la visione emblematica che dà il titolo al romanzo: «Quattro anni dopo, là dove una volta vi era stato il bunker, un’aiuola, delineata da mattoncini, racchiudeva un roseto variegato di tanti colori. (…) Il bunker era stato riempito e ricoperto di terriccio e sopra vi erano state interrate le piantine». La speranza del futuro è affidata a quelle tenere piantine da annaffiare e far crescere. Vorremmo che ogni bunker del mondo – e troppi ce ne sono! – fosse coperto da un roseto, ma sappiamo che non sarà possibile finché qualcuno continuerà a trarre vantaggi e profitti dalle guerre. E tuttavia, a questa potente immagine di vita possiamo ancorare il nostro contributo alla civiltà contro il pericolo sempre incombente della barbarie, oltre che il nostro sacrosanto desiderio di pace e felicità, tanto più sentito negli anni complicati che stiamo affrontando.    

     Marco Onofrio

15 giugno 2022: Marco Onofrio presenta “Il roseto sul bunker”, di Italia Vitiello Izzo, alla Sala Rossini dell’Hotel Quirinale – Roma

Presentazione del romanzo

IL ROSETO SUL BUNKER

(Europa Edizioni, 2022)

di Italia Vitiello Izzo

Relatori:

Vezia Mei

Carmen Costanzo

Marco Onofrio

Letture a cura di: Marinella Scognamiglio

Mercoledì 15 giugno 2022, ore 18

Sala Rossini dell’Hotel Quirinale

Via Nazionale, 7 – ROMA

Mini-tour in Calabria (Laino, Cosenza, Castrovillari, 8-13 maggio 2022): alcune foto delle serate

“L’officina del mondo” a Laino Borgo (8 maggio 2022)
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“Specchio doppio” a Cosenza (10 maggio 2022)
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