
IL TEMPIO DEL TEMPO
Quamdiu stat Colysaeum stat et Roma,
quando cadet Colysaeum cadet et Roma,
quando cadet et Roma cadet et mundus.
Beda il Venerabile (VIII sec.)
“Secondo me è immensurino”, mi dice la ragazza in un sorriso.
Sto raccogliendo materiali sul monumento emblematico di Roma. Pareri, immagini, ricordi, testimonianze. Come cicatrici sovrapposte. Scalfitture, crepe, escoriazioni. Punti di sutura e di cesura, che ne rendano la pelle come nuova. Bucando il cerone dei luoghi comuni. La patina americaneggiante. Le rughe posticce dei peplo-film. L’indifferenza degli stessi romani.
“Che vuol dire immensurino?”
“Che è immenso come lo vedi… ma è pure piccolo, in proporzione, perché fa parte dell’arredo urbano, anzi: ne è parte irrinunciabile. Che sarebbe Roma senza il Colosseo? Questo leone che miagola? Questo gatto che ruggisce? Così, finisce che ti abitui alla sua mole… che se la guardi bene, però, ti stupisce e ti impaurisce ogni volta. Ma lo guarda bene solo il turista, il viandante, quello che a Roma ci sta pochi giorni, o poche ore. Perché lo guarda con occhi speciali: per la prima e, forse, per l’ultima volta. Divorando l’immagine con voglia. Assaporandola, come una delizia. Succhiandone il midollo. Imprimendola bene alla memoria. Per non scordarlo più… Ma se a Roma ci vivi, finisci per non vederlo. Anche se gli passi accanto dieci volte al giorno. Anzi: più gli passi accanto e meno te ne accorgi! Eppure lo sai che c’è, lo “senti”. È parte di te; sei parte di lui – e guai se non ci fosse. Questo legame profondo di affetto e di orgoglio – di orgoglio, sì, per la magnificenza che esprime dinanzi al mondo, che è anche la tua; e per il passato di cui reca traccia, che è anche il tuo – mi porterebbe a definirlo, addirittura, immensuretto… o forse immensurello…”
“E che voi sape’? E che t’o dico a fa’? Sta sempre là, che nu’ lo vedi? Sta là … boh …” mi dice il conducente dell’autobus.
I romani non vedono Roma. È così piena di significato, di sensi plurimi e contrapposti, di sfumature, di stratificazioni, così ricca di segni storici e umani che, per “sopportarla”, sei costretto a metterla “tra parentesi”. Devi viverci la tua vita. Non puoi permetterti di fare un “oh” di meraviglia ad ogni passo, o di ammutolirti di sgomento, come pur dovresti. Queste cose sono consentite al turista, entro la sfera circoscritta del suo soggiorno. Roma può arrivare a conoscerla il forestiero: chi ci viene a vivere da fuori, con gli occhi vergini dinanzi al suo proliferante “oggetto”. Il romano può soltanto sapere Roma, sapere di Roma. Perché Roma per lui è “soggetto”: è lo scenario stesso della sua esistenza. Non ha e non è altro luogo, da sempre. È impastato di Roma, e Roma di lui. Indistinguibili: come il latte e il caffè nel cappuccino. Questa disseminazione dell’identità nel contesto topologico dell’Urbe, complicata dal vissuto personale – fitto come il reticolo di esperienze, di ricordi, di immagini interiorizzate, e anche di fantasie, che fanno esistere “quel” luogo, “quel” vicolo, “quel” monumento per ognuno che lo vive, da sempre, dentro la propria vita, dandone il tono e dipingendone il volto alla facciata, la peculiare “rappresentazione”, talvolta a prescindere dai confini stessi della sua “realtà” –, questa disseminazione, dico, funge da ulteriore ostacolo alla conoscenza. Se ogni luogo della propria Roma, di ciò che Roma è e rappresenta per chi ne vive, risveglia una filiera di echi, di risonanze, di vibrazioni, belle quanto insieme dolorose, conoscerla meglio, allora, significa conoscere meglio se stessi; e non sempre questo è piacevole o possibile, mai semplice. E poi c’è l’eterna disponibilità di Roma che ti aspetta, come un foglio bianco la scrittura. Se inviti il romano ad approfondire la propria città, e gli dici che è uno scandalo se non domina certe storie, o ancora non ha visto certe cose, che pure il milanese e il torinese inurbati stanno messi meglio al riguardo, lui ti risponde che… tanto mica scappa, Roma: e che, abitandoci, ha tutta la vita per porvi rimedio, gli basta quando vuole uscir di casa… e intanto, a forza di rimandare e non pensarci, gli passa davanti tutta la vita e, puntualmente, non lo fa. O forse non ti risponde nemmeno: si limita a guardarti con quell’aria sorniona e indolente, cinica, che non è soltanto un tratto convenzionale del suo carattere. Si sa, del resto: le cose che abbiamo a portata di mano sono proprio le prime che finiamo per perdere, o per non vedere. A parziale scusante, c’è da aggiungere che Roma ci mette anche del suo per nascondersi, per rendersi inafferrabile: è infatti così complessa e “infinita” da atterrire e paralizzare anche il più agguerrito dei ricercatori. E il Colosseo?
“Dovremmo venderlo ai cinesi. Sai i soldi!” propone il netturbino.
“Beh, proprio venderlo no”, rettifica un collega: “piuttosto, smontarlo e rimontarlo in giro per il mondo. Fargli fare un tour – e milioni di euro ad ogni tappa”.
“Dunque sappiatelo: se venisse tolto, in verità, resterebbe un buco nel cielo” ammonisce un sacerdote, segnandosi. Riecheggia, in lui, l’assimilazione cristiana del monumento classico. A chi invocava che fosse abbattuto, perché memoria della Roma pagana, emblema degli dei “falsi e bugiardi” e covo di idoli malefici, si rispose che, anzi, andava santificato come luogo di martirio dei cristiani. La terra dell’arena, già cenere demoniaca, si tramutò in reliquia. Ed ecco, poi, la Via Crucis celebrata dentro il Colosseo, dal papa in persona, in mondovisione!
Ancora il sacerdote: “Ascoltate l’eco nel silenzio delle pietre. Le urla atroci dei martiri sbranati dalle belve. La terra lavata dal sangue degli innocenti. Ricordate, fratelli, meditate”.
“Io me ricordo solo che ce venivo a scopa’ … Era tutto operto… mica co’ le sbare de oggi… De notte era un viavai de pomicioni…” replica un pensionato che cammina col bastone.
“Pensi, dottore, se – sistemandoce drento un campo de carcio: c’entrerebbe? boh – un giorno er derby se giocasse ar Colosseo! Che spettacolo! Forza Roma!”, dice accalorato il tassinaro.
Lo gelo informandolo che sono della Lazio: non mi rivolge più parola fino al termine della corsa.
“Lo hai mai visto il film dei Pink Floyd a Pompei?” trilla la mia amica rockettara. “Immagina che fico un evento rock dentro il Colosseo! Non so: la reunion dei Genesis. O il prossimo concerto degli U2”.
Gianni, un mio amico esperto di “scrittori e Roma”, mi parla della teoria, invero balzana, secondo cui Dante avrebbe desunto lo schema dell’Inferno dopo avere visto il Colosseo. Anzi, per essere precisi: sotto l’effetto della tremenda impressione suscitata in lui dall’interno del gigantesco rudere. E, inoltre, dall’avere saputo della leggenda di Virgilio – il sommo antico da lui scelto come guida per il viaggio oltremondano – quale costruttore del Colosseo: il Virgilio “mago”, prima che poeta, che vi andava a studiare e svolgere le arti negromantiche. E mi parla del Colosseo interpretato dai pittori fiamminghi, dopo il viaggio a Roma, come “torre di Babele”. In particolare, Bruegel il Vecchio. E del topos romantico, tra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento, del Colosseo al chiaro di luna: Goethe, Madame de Stäel, Stendhal, Henry James. Pare infatti che il Colosseo si animi di forze magiche particolari, propense all’accadere degli eventi, proprio a mezzanotte e a mezzogiorno di ogni giorno. La corona dei raggi solari e il gioco delle ombre a mezzogiorno; le fioche luminescenze seleniche e, ugualmente, il gioco delle ombre, a mezzanotte.

E, ancora, lo sguardo barocco di Giuseppe Ungaretti, che lo definisce “enorme tamburo con orbite senz’occhi”… Il Colosseo come un teschio spolpo, combusto, calcinato: un relitto di millenni che riemerge, attimo dopo attimo, dall’oceano del tempo, dalle sue arcane e irraggiungibili profondità.
Samuele, un altro mio amico appassionato di storia, mi parla del Colosseo in epoca medievale quando, durante la feroce lotta per le investiture, i Frangipane lo occuparono come fortezza, come avamposto strategico alle spalle del Laterano. E di quando, per secoli, fu una cava inesauribile di marmi, di travertini, e anche di semplici pietre: venne saccheggiato e smantellato – indebolito fino ad essere pericolante e in qualche punto, addirittura, a crollare – per erigere e decorare chiese e palazzi e architetture varie, ad esempio la scala e la piazza di San Pietro. È suggestiva questa idea di un Colosseo disseminato per la città, di membra sparse, come un corpo che appartiene a tutta Roma. E mi racconta, Samuele, anche della curiosa idea che papa Sisto V, alla fine del Cinquecento, aveva escogitato per arginare l’indigenza del proletariato romano: impiantare una filanda dentro il Colosseo! Al primo piano la fabbrica vera e propria, coi laboratori; al secondo e al terzo le botteghe e le abitazioni degli operai. Ma il progetto, elaborato da Domenico Fontana, naufragò per la sopraggiunta morte del papa.
“E com’era a quei tempi il Colosseo? e la zona circostante? Che cosa vedremmo tornandoci ora?”
“Molti archi erano ciechi, chiusi, murati. La profondità interne stavano ancora sottoterra, ricoperte dalla ruggine dei secoli. Lo si riempiva oltretutto di letame, per ricavarne salnitro. Ogni sera e ogni notte era avvolto dal fumo nauseante dei fuochi. Era un nido di malaria, una selva di esalazioni mefitiche. Dentro c’era un immondo intricato serpaio, un roveto abbandonato senza fondo. Vi allignavano un sacco di piante ed erbacce. Uno studioso inglese, nella seconda metà dell’Ottocento, si divertì a contarle e a catalogarle in un libro oggi rarissimo, dal titolo “Flora of Colosseum”: risultarono ben 420 specie vegetali! Anche tutto intorno c’era campagna incolta, e vigne, e orti, e giardini. Le mandrie pascolavano tra le rovine. La zona del Colosseo era malfamata, pullulava di balordi, di ladroni, di mignotte”.
Ma, ammetto: mi interessa moltissimo la dimensione magica ed esoterica del Colosseo. Quelle strane storie di demoni. Chiedo lumi al Prof. Giano Tantucci, ordinario di antropologia. Mi conferma l’idea del Colosseo come centro magico dell’Impero, in quanto “tempio del sole” e sede di Phebo, “sol invictus”, simbolo della potenza e dell’immortalità di Roma trionfante. Nato per sempre sotto il segno di Giove, vale a dire ruota, cerchio, uovo, palla d’oro. E infatti sferico, tondo, compiuto: ricco di pienezza e di armonia. Emblema incrollabile di Roma Aurea, antica e moderna: eterna. Ispirato alla corona del sole: globo, dominio cosmico, cupola stellata, “totum orbem”. Era la “rotonda mole degli specchi”: pare che vi fosse lo “speculum orbis”, lo specchio del mondo che rifletteva ogni cosa esistente. Questo era Roma, peraltro: lo specchio di tutto mondo allora conosciuto. E il Colosseo era il maggiore di tutti i templi anche per la sua celebre vocazione ermetica, e poi alchemica. Le stesse statue, erette in apparenza ad ornamento, erano disposte secondo i dettami dell’arte negromantica: per difendere Roma dai suoi nemici. Si credeva vi convogliassero e vi sciamassero legioni di demoni. Molti, passando nelle vicinanze, erano atterriti dalla visione irreale di un Colosseo infestato da larve ghignanti, completamente avvolto dalle fiamme. Per questo la zona veniva esorcizzata con l’aspersione della “zaffetica”, una mistura nauseabonda a base di zolfo, che avrebbe dovuto cacciare i demoni dalla loro roccaforte. Mi chiedo come, dato che proprio l’odore di zolfo li avrebbe se non altro fatti sentire più a casa. Tantucci, incalzato dalle mie domande, mi parla in particolare di un idolo del Colosseo, di nome Pantaleo, dentro cui risiedeva il demonio Astaroth. Era il maggiore idolo di Roma. E mi colpisce la leggenda della regina Rosana, che si reca apposta al Colosseo per inginocchiarsi davanti a Pantaleo e pregarlo devotamente di darle un figlio.
Condizionato da tante e tali suggestioni, finisco quella notte per sognarmelo, il caro anfiteatro. E trovo spiegazione al suo mistero: è un castello di sabbia, oggi indurita dal trascorrere del tempo, forgiato da un ciclope di nome Pantarotte per far giocare sua figlia Sorana, e divertirsi lui stesso, quando Roma era tutta una spiaggia lambita dal mare. Ma Sorana scivolò al centro di questa immensa torta, e fu inghiottita dalla sabbia bagnata. Invano Pantarotte tentò di afferrarla. Poi, pazzo di dolore, prima di inabissarsi volutamente nel punto stesso in cui era sparita la figlia, per raggiungerla almeno negli inferi, urlò così forte che il mare indietreggiò, lasciando per sempre Roma, e il cielo si piegò fino a spaccarsi. Dalla fenditura del cielo cadde un timone, che gli eredi del compianto Pantarotte collocarono, avvinghiandolo con un complicato sistema di funi e di argani, al centro esatto del Colosseo, nel cuore più segreto e profondo. Questa ruota di timone cominciò a girare da sé, lentamente, inesorabilmente, su se stessa. Apparve ad ognuno, in breve, come la ruota del tempo. Si diceva che fosse Pantarotte a manovrarla, da sotto, per espiare prima il suo dolore. Il Colosseo venne santificato come il “tempio del tempo”. Si aveva la certezza che, bloccando il giro consueto del timone e spingendolo poi al contrario, si potessero muovere le nuvole, le stelle, le montagne, le città, le cose toccabili e intoccabili. Si sarebbe vista la luce tornare al sole, invece di scendere: e lasciarlo scoperto, una volta per tutte, il volto misterioso della vita. La ruota è ormai coperta da strati e strati di terra. Probabilmente è ferma da secoli. Per questo, forse, non siamo più gli stessi: abbiamo perduto qualcosa di fondamentale (ma non sappiamo che). Se la portassi di nuovo alla luce, liberandola dagli impacci e ripristinandone il giro, si potrebbe tornare alle configurazioni della realtà che si sono dissolte in altro, che non ci sono più.
Dal catino del Colosseo, infatti, vengono proiettate in continuazione, come flash di foto scattate dal tempo, le immagini del mondo verso il cielo, verso l’universo. È uno dei pochi posti dove questo avviene, perché in genere è il cielo che manda le sue foto sulla terra. Non a caso è il tempio del tempo. Vi si apre la bocca di un grande portale, un varco, per infilarsi in questa specie di asola cucita: raggiungere nel passato il proprio futuro, o nel futuro il proprio passato, attraverso un attimo che si allunga infinitamente, uscendo dentro di sé, per sempre, come una goccia che si scioglie in mezzo al mare. Potrei tornare indietro a recuperarle, queste immagini proiettate, divaricando i lembi del tempo e sbarcando nelle forme di Roma che non ci sono più. Le voci che hanno suonato. I colori che hanno brillato. I cieli che sono scorsi. I corpi che si sono mossi in questo spazio, occupandolo. Le scene di vita che si sono condensate, forme dell’eterno divenire. Le estati che sono combuste. Le cicale che hanno frinito, senza più memoria. Miliardi di miliardi di miliardi di identità diverse. Che fine ha fatto tutto questo? Cenere, polvere, nulla. È stato tutto mangiato dal vuoto, che mangerà anche me. Ecco: penetrare nel tempo attraverso il vuoto, l’eternità del luogo medesimo. E già: è sempre stato qui il Colosseo, da quando esiste. L’identità del luogo attraverso il tempo. Strappargliele di nuovo, al vuoto, tutte quelle cose. Tirarle fuori, aprendogli la bocca. Come il domatore col leone. Allora sì che sarebbe “speculum orbis”, e potrei vederci il mondo intero. Il mago illusionista e la sfera magica. È o non è, del resto, il Colosseo, prototipo ancestrale di ogni circo?
Ho sognato che c’è una vecchia megera corpulenta che si aggira al suo interno, come un fantasma dell’Opera. Forse è Sorana stessa, invecchiata dai secoli. Forse è la madre. La chiamano “Mora”, anche se non ha i capelli neri. È casa sua, il Colosseo: ne conosce e domina perfettamente il dedalo di pietre. Pare che, se la incontri, comincia ad urlare con la bava alla bocca e poi ti prende a schiaffi con la forza e l’efficacia di un carrettiere. Dopodiché, ti svegli per sempre.

Voglio proprio vedere. Scelgo la mattina di Ferragosto. Non c’è praticamente nessuno. Mi aggiro circospetto, ma rischio ugualmente di perdermi, nella selva aspra, arida, quasi lunare, di corridoi, anfratti, cunicoli, angiporti, archi ed ambulacri. È impressionante, la sottostruttura dell’arena, emersa dagli scavi archeologici d’inizio Ottocento. Sono appena le dieci, ma già fa un caldo torrido. Nessuna traccia della megera. Decido allora di provocarla: “Mora?… Morona?” Schiocco le labbra e metto le braccia a croce, improvvisando gesti apotropaici. Niente: solo il frastuono ondivago delle cicale. E i gridi delle rondini che legano fili invisibili di cielo, arando solchi nel cerchio azzurro-fuoco della enorme circonferenza… Poi scorgo come un guizzo di luce, il riverbero di un fulmine tra i ruderi. Mi attraversa un brivido freddo: un abisso di dolcezza e di terrore. Lascio cadere lo sguardo… e me la trovo davanti. Madre che colpo! È una cicciona bassa dal volto vagamente orientale. I capelli rossastri, tutti stoppacciosi e impolverati. Pallidissima. Sudata. Gli occhi completamente bianchi, privi di pupille. La bocca aperta e sdentata, fossa di bava colante. La pappagorgia molle che traballa. Indossa un peplo purpureo che lascia intravedere il corpo massiccio, da gladiatore. Mi guarda vogliosa in direzione del pube, deglutendo saliva. Si avvicina di un passo. Muove le labbra, mormora qualcosa in un sussurro. Mi sfiora con la mano la guancia, per accarezzarmi. È la mano delicata di una bimba, gelida al tatto. Sposta lentamente la mano verso le parti basse. Si inginocchia davanti a me. Si concentra sulla lampo dei pantaloni. Armeggia, ma non riesce ad aprirla. Lo faccio io, per lei. Estrae il mio “caduceo”. Rosso, lucido, scoperchiato: armato già da un po’. Le alzo il volto con la mano e, guardandola negli occhi che non ha, le chiedo: “Colis eum?” (“lo adori?”) E lei, in un sospiro ansimante: “Colo” (“lo adoro”). Quindi se lo abbocca in silenzio, con le labbra piene e verdognole, a ventosa… e comincia a ciucciare di gusto. Poi, dopo un po’, si alza e mi conduce dentro l’ombra di un anfratto. Si sdraia supina e, tirandosi su il peplo, mi offre il frutto delle sue cosce aperte. Ed io, preso da una foia strana e insana, con un gusto di sangue e di fiele tra le labbra, le sono subito sopra, e lì mi do da fare… È come calarsi nelle acque buie e aggrovigliate di un pozzo, dove nessuno saprebbe trovarmi. Tutto si obnubila e scompare. Poi, non ricordo più niente.
Quando riemergo, è mezzogiorno fatto. La luce mi acceca e mi stordisce, ci metto una mezzora per riavermi.
“Lo avrei capito soltanto quel pomeriggio, dopo essere tornato a casa”.
“Che cosa?” mi chiede nella piega di un sorriso Samuele.
“Di avere fatto l’amore con Roma”.
Marco Onofrio
(dal libro inedito Specchio doppio)