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“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone
Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.
Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.
(Dante Maffìa)
Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.
L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.
La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.
Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».
Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa.
Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita. Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.
Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».
Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.
Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».
Letizia Leone
“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Carmine Chiodo

Va anzitutto ricordato che Marco Onofrio, saggista, scrittore e critico letterario di notevole spessore, ha dedicato a Dante Maffìa, oltre al libro che ora mi appresto ad esaminare, un altro che analizza a perfezione la narrativa maffiana (“Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”, Reggio Calabria, 2014); va pure ricordato, sempre di Marco Onofrio (a cura di), “L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” (libro-intervista, con ricco Album fotografico a colori), Roma, 2018. Orbene il nuovo volume – come ci dice chiaramente il titolo (“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa, Reggio Calabria, 2021) – analizza chiaramente e dettagliatamente la scrittura poetica di Maffìa, a partire dalle primissime raccolte fino alle più recenti. Anche questo nuovo lavoro monografico è molto limpido, chiaro, illuminante dei procedimenti poetici del poeta calabrese, che giustamente viene considerato il più grande poeta italiano del secondo Novecento. Sul poeta, sullo scrittore Maffìa esiste una sconfinata bibliografia, e della sua poesia come pure della sua narrativa si sono occupati innumerevoli critici e poeti, italiani e stranieri. Ora Onofrio, guardando esclusivamente ai testi, affrontati in un “corpo a corpo” spregiudicato e attento, senza mai sorvolare o svicolare nel vago, sa darci delle pagine di Maffìa calzanti e convincenti analisi. Così il lettore si trova davanti a un discorso critico-ermeneutico non difficile e astruso ma sempre comprensibile, limpido, scorrevole, che mette appunto chi legge nelle condizioni di capire e apprezzare i vari esiti poetici di Maffìa, conseguiti raccolta dopo raccolta. La scrittura critica di Onofrio è incisiva, sa cogliere la sostanza poetica dei testi analizzati, o meglio della scrittura di Maffìa, e dimostra con questo libro come il poeta di Roseto Capo Spulico (alto Jonio cosentino, ma da anni Maffia vive e lavora a Roma) è un “grande poeta”. Onofrio riesce benissimo nelle sue analisi e si riconosce in Maffìa, lo ammette egli stesso: “Mi riconosco in lui per questa sua passione totale e torrenziale che lo rende in grado di aderire alla propria interiorità, scrivendo in modo sempre autentico e sincero, senza ricorrere a mezzucci, schermi o infingimenti” (p. 10). Anche chi scrive queste note conosce bene l’uomo e il poeta Maffìa, come pure Onofrio, scrittore ed esegeta di grande talento che, prediligendo una lingua e uno stile sempre scorrevoli, riesce ad appassionare chi lo legge.
Amici, dunque, Maffìa e Onofrio. Ancora Onofrio scrive: “Gli incontri che la vita ci riserva sembrano fortuiti, in realtà non lo sono: noi chiediamo in silenzio e l’invisibile ci risponde sotto forma di “caso”. Avevamo dunque, ne sono sicuro, il destino di incontrarci e di essere amici (malgrado la differenza d’età di 25 anni): le nature simili si richiamano lungo il cammino. Abbiamo entrambi un’indole intemperante, libera, selvaggia. Siamo allergici al potere che non discenda dal merito […]. Ci disgusta quel retaggio di “feudalesimo” che ancora aleggia negli ambienti letterari, intricati di gerarchie simboliche e aprioristiche, di regole non scritte, di trafile umilianti da sostenere” (p. 10). Ho voluto abbondare con la citazione, con questa citazione, perché ci permette di capire l’uomo e quindi il poeta Maffìa ma pure il critico e scrittore Onofrio. Non bisogna però pensare che è un libro amicale, bensì è un lavoro che con la massima chiarezza – lo ribadisco – e con rigoroso metodo critico spiega ed evidenzia gli elementi caratterizzanti la personalità umana e artistica del poeta calabro-romano. Tutto sommato ci troviamo davanti a una guida preziosa e utile per entrare nel mondo poetico di Maffìa. Per esempio, in una “Nota” posposta alla riedizione a quarant’anni di distanza de “Il leone non mangia l’erba” con cui esordisce nel lontano 1974 (raccolta introdotta da Aldo Palazzeschi), si legge: “La poesia l’ho vissuta, lo ripeto spesso, e la vivo come una religione, una fede assoluta. La poesia come vita, la vita come poesia ed è ovvio che mi sento spesso come un pesce fuor d’acqua perché i miei valori sono spirituali e non venali […] Intanto frequentavo i salotti romani trascinato da Dario Bellezza, quello di Elsa De Giorgi, di Enzo Siciliano, di Barbara Alberti. Stavo sempre in disparte, sconosciuto ai più, silenzioso, attento, analizzavo gesti e parole e mi pareva d’essere tra selvaggi che si contendono una coscia della preda sventrata. Sentivo d’essere allora d’altra razza rispetto a molti di loro: postulanti, leccapiedi, cavalier serventi […] no, la letteratura per me era altro, era la tensione verso la bellezza, l’infinito, lo svelamento dell’invisibile, come aveva scritto Rilke” (p. 15). Maffìa ha lavorato e lavora assi bene nella poesia, nella narrativa, nella critica letteraria, e così facendo ha ottenuto e ottiene notevoli esiti artistici ben analizzati da Onofrio. Egli per esempio sottolinea che una delle costanti della poesia maffiana è “l’impossibilità di derogare da un approccio di sincerità assoluta alla vita e alla scrittura, che ne è diretta – anche quando non immediata – emanazione. Maffìa va dritto al bersaglio perché segue senza fronzoli e ammennicoli la via primaria della conoscenza, quella del cuore”.
Vediamo ora più da vicino come è fatto il libro. Comincia con pagine che nell’insieme, grazie a uno sguardo a 360° sull’intera produzione poetica di Maffìa (esclusa quella dialettale), danno vita a una “Sintesi analitica”; seguono poi “Letture e approfondimenti”; “La Calabria della cultura e della vita”; “Antologia” (99 poesie selezionate da 33 libri); “Apparati bio-bibliografici”, a cura di Franco Perri; “Epistolario” e infine “Bibliografia minima”. Onofrio ci offre così una puntuale sintesi dell’opera poetica di Maffìa, e tra le altre cose sottolinea appunto che la poesia del poeta di Roseto Capo Spulico non è mai esposta “al rischio sterile dell’arzigogolo, mai banalmente e riduttivamente minimalista […] è una poesia che – nella sua semplice e sempre palpabile concretezza – dispiega a pieno regime le gigantesche potenzialità della lirica, quando è autentica espansione dell’“uomo vitruviano” negli spazi visibili e invisibili del cosmo” (p. 33). Da condividere l’affermazione di Onofrio che quando si legge la poesia di Maffìa si avvertono “le vibrazioni magiche e naturalistiche di Telesio, Bruno, Campanella, Marullo Tarcaniota, ma mi viene spesso in mente la luce del pensiero plotiniano: l’Uno come principio immobile del molteplice in cui e attraverso cui si irradia, in guisa di sole, negli esseri del mondo” (p. 37). Ogni poesia coincide con le parole dell’essere: per tale motivo “la scrittura si infila ovunque” e raggiunge “luoghi impensabili”, “lontananze assurde / che solo la poesia / millimetrando acciuffa” e tende a dire “tutto nel minimo dettaglio”. La poesia di Maffia, come ancora viene opportunamente notato da Onofrio, possiede pure le note “esacerbate e violente dell’invettiva (contro l’omologazione globalizzata delle città anonime, la crisi umanistica del pianeta, le società tecnocratiche, la “pornocrazia dell’insignificanza”, la decadenza dell’Italia contemporanea, ecc.) che può anche virare sul registro apocalittico, in forma di profezia” (p. 47):
presto la terra sarà una filastrocca
raccontata da nani
nelle piazze americane,
con accompagnamento di pantomime
e spari che mirano al cuore dei passanti
per tenere vivo
il ricordo del disastro…
Altre volte la scrittura diventa allusiva e musicale come nell’arabesco, “dove la parola dice delle cose senza nominarle, e quindi va al di là di se stessa, oltre la comune denotazione, per accedere a una sorta di “intermondo” sospeso tra il piano fisico e quello spirituale, liberando il senso umano dalla contingenza del principium individuationis e connotandosi come “pura lucentezza di suoni di colori di immagini di sogno” (p. 50). Assai pertinenti pure le pagine dedicate al surrealismo di Maffìa: “Basta un’immagine a innescare il processo associativo, a scatenare la “parata” […] “un piccolo insetto / che stride in armonia / con l’aeroplano che passa” […] e “all’improvviso la sfilata /dei ricordi, i nodi inestricabili / che danno il capogiro, ordinano / una sequenza arbitraria / di vicende estranee”… ed ecco, per esempio, “la potenza del particolare che si impone, come “il lampo d’una mutandina / bianca tra le cosce abbronzate” della ragazza che poi ha sposato” (p. 73). In “Letture e approfondimenti” sono analizzate in ordine cronologico 20 tra le varie sillogi poetiche apparse nel corso del tempo, a principiare da “Il leone non mangia l’erba” del ‘74, come già detto, fino a “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” del 2020.
Ma chi è veramente Dante Maffìa? In sintesi si può affermare, con Onofrio, che è “un uomo e un artista insaziabile di vita e di bellezza”, e ancora che “è soprattutto l’interprete di una Calabria che finalmente, senza nulla rinnegare del suo passato, si avvia a una svolta etica, a un rinnovamento totale del suo cammino”. Alla città di Reggio Calabria il poeta mediterraneo dedica le sue attenzioni; Reggio “signora / dei due mari” che si accende all’alba e racconta “antiche storie” sotto l’egida attenta dei Bronzi. Il poeta “trasfigura ciò che vede e, oltrepassando nella Fata Morgana che aleggia e palpita sullo Stretto la “sacra effigie del viaggio infinito”, riconnette la città di oggi alle origini del mondo, dell’essere, del tempo” (p. 190). Segue poi una corposa antologia delle poesie estrapolate dalle varie raccolte, e poi ancora la bibliografia delle opere di Maffìa e della critica, la folta e qualificata critica su di esse. Esiste su Maffìa – lo accennavo prima – una vastissima bibliografia. Molte sue opere sono tradotte in lingue straniere, come pure in diversi atenei italiani sono state discusse tesi sulla sua sterminata produzione. Ancora va segnalato l’epistolario, qui antologizzato con minima parte di esso. Maffìa fin da ragazzo ha avuto una fitta corrispondenza con grandi autori della letteratura italiana e internazionale, tra cui Borges, Amado, Pasolini, Calvino, Primo Levi, per fare soltanto qualche nome. Il libro di Onofrio si accomoda con disinvoltura fra tanti contributi di prestigio, da cui riceve il “benvenuto” per la freschezza e l’acuta intelligenza dello sguardo. Ogni grande poeta ha bisogno di un critico capace di realizzare una osmosi creativa tra la filologia, l’interpretazione e lo spirito profondo della parola. È un connubio che questa potente narrazione monografica, bella anche perché ha essa stessa il respiro di un “poema”, realizza compiutamente; tanto che Maffìa trova in Onofrio, per certi versi, il suo critico ideale.
Carmine Chiodo
“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Anila Dahriu

Nell’avere tra le mani il saggio monografico “L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa” (Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2021, pp. 298, Euro 16), di Marco Onofrio, mi sono immediatamente domandata perché egli non avesse dedicato tanta fatica a un poeta che sta dentro il potere editoriale, invece che a Maffìa che il potere lo ha sempre avversato. Una scommessa? Un moto di ribellione, o che cosa? Poi, leggendo, ho capito: un atto di giustizia, un coraggioso atto di giustizia che non ha minimamente pensato al proprio tornaconto e che irriterà più d’una persona perché va a scomodare gli altarini dei poeti laureati, si diceva così un tempo, e li mette in imbarazzo. Perché Maffìa non ha mai aderito alle consorterie, pur avendo avuto dimestichezza con quasi tutti i poeti del Novecento fino ai nostri giorni. Insomma, Marco Onofrio si è esposto per gridare la grandezza poetica di Maffìa, in modo che il potere si renda conto che siamo dinanzi a un fenomeno vero e proprio, dinanzi a un poeta che in maniera costante, profonda e passionale ha dedicato tutta la vita alla lettura e alla scrittura.
Il lavoro di Onofrio è scientifico al massimo grado, perché non si serve di formule e di giudizi predisposti, confezionati e frutto di dottrine imposte; egli si fa guidare dalle poesie, dalla bellezza e dalla profondità delle poesie, e solo quando ne viene coinvolto si esprime, mettendo in evidenza come il poeta abbia saputo penetrare nella polpa delle cose, nel magma dell’invisibile (per fare riferimento a uno dei poeti che Maffìa ha più amato e stimato, Mario Luzi). Si tratta di un saggio che andrebbe portato ad esempio soprattutto ai giovani critici, che dovrebbero liberarsi dalle catene ideologiche e affrontare le opere per quelle che sono e soltanto dopo organizzare un discorso e una tesi. Ma la lealtà della lettura non è più di moda: adesso basta annusare i libri e scriverne, tanto uno vale l’altro. Se così fosse, però, non assisteremmo alle celebrazioni dantesche per i settecento anni della sua morte. Faremmo celebrare una Messa, tutt’al più, e la faccenda finirebbe lì. Invece Dante Alighieri è pane quotidiano delle nostre giornate, le ha riempite non solo col suo linguaggio, ma anche con la sua sensibilità, sapendo cogliere le pieghe di molte situazioni e rivelandoci ciò che si nasconde oltre i gesti e le parole stesse.
Sulla scia del suo omonimo si muove Dante Maffìa e lo fa – Onofrio lo spiega e ce lo fa intendere pienamente – con la disinvoltura di chi fa parte della sfera celeste e ne comprende il ritmo e le finalità. La semplicità di Maffìa a volte è sconcertante, ma proprio per questo coglie nel segno, svela, rivela, innesta il vuoto al pieno e rivitalizza il senso dei rapporti, il senso dei sentimenti e le visioni verso la realizzazione di un qualcosa che prima o poi ci darà la certezza di essere veramente umani. Credo che Onofrio abbia saputo centrare i suoi discorsi con assoluta obiettività perché non aveva i paraocchi ideologici e l’adesione a nessuna massoneria. Non so se gliela faranno passare liscia, so che comunque era doveroso: ho letto molto di Maffìa, mettere in evidenza la grandezza di un uomo che dalla follia all’emigrazione, all’amore, alla dissolvenza, ecc. ha scritto versi indimenticabili, versi che resteranno a testimoniare quanto sia necessario essere presenti a se stessi e al mondo: Maffìa è grande poeta; Onofrio grande critico poeta.
Anila Dahriu
“L’officina del mondo” su Prima Pagina News (22 novembre 2021)

“Come dentro un sogno”, uscito nel 2014 per le belle edizioni Città del Sole di Reggio Calabria, si leggeva come il “romanzo dei romanzi di Dante Maffìa” dato che consentiva al lettore di appassionarsi alla narrativa dello scrittore calabrese, più volte candidato al Nobel. Ora, 7 anni dopo, “L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, in uscita questi giorni sempre per Città del Sole. Il volume, di quasi trecento pagine, rappresenta una sorta di “poesia delle poesie” di Maffìa, grazie a cui ci si addentra nel cuore del suo immenso mondo creativo e nei meccanismi segreti della sua poliedrica scrittura.
Marco Onofrio, il cinquantenne saggista romano, assai noto per una produzione critica di primissimo livello (avendo dedicato volumi monografici ad autori storici come Ungaretti, Campana, Caproni, ed essendosi occupato di alcuni tra i più meritevoli contemporanei), ha dalla sua il vantaggio di essere egli stesso un buon poeta: possiede quindi uno sguardo congeniale all’interpretazione della straordinaria Opera in versi di Dante Maffìa, qui definito come «il più grande poeta italiano del secondo Novecento». Attenzione però, niente proclami encomiastici: che Maffìa sia un grande poeta lo testimoniano i ragionamenti estetici del saggio, oltre che i versi ampiamente citati; non le formule vuote o le prese di posizione aprioristiche. Onofrio è uno dei pochi critici letterari che legge davvero ciò di cui parla: egli frequenta i testi di prima mano e li affronta senza riserve pregiudiziali, in una sorta di «erotico e salvifico corpo a corpo» che riesce a portare alla luce i livelli profondi della scrittura, svelando prospettive insolite e sorprendenti agli stessi autori. Lascia cioè che sia la poesia a “dimostrare” le affermazioni critiche, e non viceversa. La critica della poesia diventa narrazione ed esperienza della stessa, modo per viverla “da dentro”: semplicità piena di significato, non fumisterie di “paroloni” e inutili tecnicismi. Ecco perché il volume, pur poderoso e forbito, si legge tutto d’un fiato dalla prima all’ultima pagina.
La sezione iniziale è una “sintesi analitica” che apre la possibilità di un viaggio avventuroso entro e oltre i paesaggi evocati dalla lirica di Maffìa, con i lieviti sempre intrisi di vita della sua «celeste e carnale terrestrità». La seconda parte è costituita dagli “affondo”, cioè dalle letture critiche di 20 opere poetiche, tra cui capolavori come “La biblioteca di Alessandria”, “Lo specchio della mente”, “Al macero dell’invisibile” e “IO. Poema totale della dissolvenza”, dall’esordio de “Il leone non mangia l’erba” (1974), che ebbe l’avallo «affettuoso e partecipe» di Aldo Palazzeschi, al recente ed esplosivo “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” (2020). Segue poi una stupenda antologia di ben 99 poesie, che – pescando da 33 volumi, 3 composizioni ciascuno – offre una delle più efficaci proposte di lettura per rivivere l’evoluzione tutta del percorso analizzato. Completa il volume la sezione degli “apparati”, a cura di Francesco Perri, miniera preziosissima di notizie utili a ricostruire la scansione cronologica della carriera poetica di Maffìa (libri, premi, cittadinanze onorarie, convegni, epistolario, giudizi critici, voci bibliografiche, ecc.).
Insomma, un saggio imprescindibile per chiunque voglia felicemente immergersi negli oceani creativi di questo gigante ancora in gran parte nascosto – una sorta di vulcano sottomarino – che risponde al nome di Dante Maffìa. E complimenti a Marco Onofrio per la sua ennesima prova di bravura.
“La facitrice”, di Ilda Tripodi. Lettura critica

La seconda silloge poetica di Ilda Tripodi (La facitrice, Soveria Mannelli, Iride-Rubbettino, 2021, pp. 112, Euro 12) regala alla curiosità dei lettori – già instradati dal convincente esordio de L’anima gioca (2007) – un libro multanime, potente, ricco di sfaccettature, in dialogo con l’Esistenza, tra Natura e Cultura annodate entro e oltre la cornice universale della Storia. Talento confermato, dunque, ma c’è di più: Ilda Tripodi mostra già di essere matura per diventare una delle voci più autorevoli della nuova poesia italiana. Fin dalla prima lettura del libro si impongono alcune parole-chiave, a configurare un quadrante energetico che magnetizza e irradia significati: coscienza, conoscenza, libertà, verità. E al centro – equidistante – c’è la Grazia, che sostanzialmente è la capacità di saper capitare, di aderire al Mistero che si nasconde per scaturire nel miracolo della sua imprevedibile rivelazione. La Poesia, come l’Amore, è il luogo della verità che si rivela; e infatti sia l’Amore che la Poesia non tollerano di subire violenza. I poeti sono innamorati del mondo e, come gli innamorati, “vedono vicino le cose lontane”. Da questa predisposizione di dolce abbandono nasce il dono: sciogliere le resistenze, come quando si nuota, e affidarsi all’onda della vita. Proprio dalla disponibilità a bagnarsi e “sporcarsi” di vita, lasciandosi impigliare dalla rete plurisensoriale del frangente, è possibile avvertire la potenza della creazione che incalza, e così “io dimentico / la parola che volevo dire”. Il Sogno, infatti, è più forte e originario della metrica, cioè delle capacità ordinatrici della ragione umana. Dinanzi all’alterità perturbante del Mistero, il pensiero è solo una carretta del mare che imbarca “acqua acqua acqua”.
La parola poetica è lievito del mondo, poiché lo estende, lo approfondisce, gli consente di ricrearsi e respirare meglio. “I poeti hanno il nome delle cose che cantano”, e infatti diventano ciò che vedono e dicono. Sono facitori: terminali estremi e supremi della Creazione cosmica. Un po’ allievi e un po’ maestri: obbediscono e impongono. Le parole “sintetizzano / lo sforzo di restare immutati”, cioè di resistere al tempo che tutto divora. Ma più si approfondisce il Mistero e più le parole sono tremendamente inefficaci. Nota opportunamente Corrado Calabrò in Postfazione: «anche quando attinge un esito che per il prosatore sarebbe accettabile, il poeta rimane intimamente insoddisfatto perché sente, “sa”, di non essere riuscito a far percepire il flash di bellezza da lui intravisto con la stessa intensità, la stessa forza rivelatrice che l’hanno abbagliato. Non riesce, il poeta, a “rinominare”, vale a dire a rigenerare nell’impressività primigenia, le cose del creato, quelle visibili e quelle invisibili, le pulsioni profonde di quell’altro io sconosciuto che è dentro ognuno di noi e che anela a dare un segno della sua presenza». Scrive a tal proposito Dante Maffìa: “Il lievito delle parole / fa crescere il mondo, io però non trovo / che frasi fatte / e t’inseguo maldestro”. E l’altro Dante, in una terzina del I canto del Paradiso: “Vero è che come forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion de l’arte / perch’a risponder la matera è sorda” (vv. 127-129).
La centratura delle forze che abita il “grembo del tempo” vede la purezza dell’origine accompagnarsi con la zavorra della “solfa”, cioè la trita e grigia ripetizione che fa, del tempo, storia di sempre, ed è per questo che “bisogna ricominciare tutto / daccapo”. Scrive Ilda Tripodi: “Parole. / Parole nelle parole. / Cerco di liberarmi dalle parole. / (…) Restituitemi il silenzio. / Il silenzio era mio nonno. / (…) Lui pregava muto”. Il silenzio contiene tutte le parole e sta alla loro imperfezione come il sole alle “ombre riflesse” delle cose reali. Dalla totalità del silenzio irradiano gli archetipi di cui ciò che vediamo con gli occhi di carne è soltanto pallida copia. Certo, il mito della caverna, e un platonismo (fin dalle prime due composizioni del libro) che la dice lunga sulla vocazione metafisica dell’autrice, talora anche come dichiarazione di ricerca teologica: “Tutto in tutti. / L’eccedenza d’amore è la mia fede. / Ti cerco Dio / ma soprattutto ti penso”. La Poesia favorisce il “transito agli assoluti” che punta gli “elementi persistenti” del Mistero a cui dare la caccia, per stanarlo dai segreti dedali dove si nasconde. Ma forse si scioglierà spontaneamente quando le due Morgane dello Stretto “s’addormenteranno / faccia a faccia / con le mani condivise e giunte”. Allora emergeranno le infinite stratificazioni del mare, i suoi tesori sommersi, i suoi “immensi depositi di sale”.
Ilda Tripodi ha, appunto, questa sua tipica poetica degli strati: “ad ogni strato / corrisponde un passaggio” attraverso cui il divenire compone e scompone figure. Guardando il mondo dall’osservatorio privilegiato di Reggio Calabria, in uno scenario di spettacolare bellezza dove lo stupore delle Origini abita ancora “presso giganti e montagne”, può recuperare una dimensione mitica e aurorale che, sintetizzando echi biblici ma anche greco antichi, le fa scrivere a un certo punto: “In principio era il verbo, / il verbo era presso la bocca dell’infinito / e il verbo era la bocca dell’infinito”, cioè la parola-abisso, la parola-vuoto che dice l’immensità dell’Àpeiron di Anassimandro. Anche se, forse, il Sud “è un trapianto di memoria / non riuscito” che rende ormai inattingibile l’armonia perduta, è innegabile il bagaglio di cultura classica che anima organicamente questa Poesia, non solo sul piano dei contenuti ma anche per lo stile formulare fatto di riprese, ripetizioni, cadenze epiche e gnomiche dove si percepiscono le sterminate letture assimilate in carne, sangue, respiro – attraverso le stratificazioni che soggiacciono alla pagina. Antigone. Medusa. Odisseo. Ci si chiede ad esempio: Itaca o il mare aperto? Entrambi, sussurra la probabile risposta, perché riemergono puntuali dalla conquista del termine reciproco: quando si è in mare aperto, si ha nostalgia di Itaca; quando si torna a Itaca, si ha di nuovo nostalgia del mare. La parola mediterranea (che appunto “sta in mezzo alla terra”) dopo la traversata di Odisseo è destinata all’erranza perenne: “tocca porto / ma prende di continuo il largo” anche se la poesia resta, con Paul Celan, una sorta di ritorno a casa, un modo di riprendere se stessi.
La scrittura de La facitrice entra in risonanza con il naturalismo aitiologico e ilozoico dei filosofi presocratici, e quello panteistico dei rinascimentali – tra cui i calabresi Pitagora, Telesio, Campanella. Lo sguardo di Ilda Tripodi penetra così profondamente nell’essenza dei fenomeni da estrarne la “storia latente” e leggi universali come: “Caos furtivo / Cosmos dissimula” dove il soggetto del verbo può essere sia il Caos e sia il Cosmos, con lettura ambivalente. È il Caos che nasconde il Cosmo (cioè l’ordine armonico) o viceversa? Di entrambi abbiamo contezza, poiché sottoposti al destino della dissolvenza che regola le cose terrene: inutile illudersi o negare le “scomparse” continue, la verità è che tutto si scioglie nella consunzione e “il domani / viene sempre troppo presto”. Anche i cieli sono “irreplicabili”, ma a pensarci bene ogni singolo istante è unico e irripetibile, non tornerà mai più. “Tutto ciò che so / me lo ha insegnato il vento” ammette la poetessa. Per questo l’uomo è “stanco di morire” e dire addio. La poesia è una voce che vuole e anzi deve rispondere al grido che sale dal silenzio della Natura e della Storia, esplorando l’oblio dei loro drammi sepolti.
C’è un punto di snodo tra la vocazione metafisica e quella etica-civile discretamente sottesa anche alle poesie di chiara impronta filosofica, ed è la citazione dal primo stasimo dell’Antigone di Sofocle: il celebre “Pollà ta deinà”. Molte le cose straordinarie (ma anche: terribili, potenti, inquietanti), eppure niente più dell’uomo. La realtà è straordinaria (terribile, potente, inquietante) sia nell’ottica della perennità – il Mistero, il Mito, la divinità – sia in quella della storia, ed entrambe le dimensioni sono espresse dall’indecifrabile silenzio: “La parola ha sbandito i segni / e il desiderio di interpretare il silenzio. / Questo è il dramma della storia” . Molte delle poesie di Ilda Tripodi nascono da uno sconcerto per il mondo contemporaneo, un disincanto che la porta ad avere sfiducia nel futuro (“non credo più / nei nuovi raccolti”), fino a scrivere: “Ho perso la fede / nelle cose più ovvie”. Da sempre, sì, “gli uomini sono forbici / che cercano la carta. // Gli uomini sono forbici / che trovano il sasso”, ma oggi più che mai “ci hanno sottratto la ragione / ci hanno privato delle ragioni”. Non abbiamo più l’asse fondante dei valori, per cui “la verità / è una fatica” mai così ardua – come stiamo drammaticamente sperimentando con la pandemia. La speranza vorrebbe trovare un punto fermo, una “pietra serena” per “provare a ricominciare / insieme a tutti voi”, scrive Ilda Tripodi, ma “dove posso incontrarvi / se non esistono più luoghi / se vi ritrovate in spazi / che non esistono”, come i nonluoghi teorizzati da Marc Augé?
Dunque la poesia è anche “una linea che lascia apparire / tutto il nero sottostante”, cioè gli errori e gli orrori che incistano nei sepolcri imbiancati di ipocrisia, laddove – malgrado millenni di lotte civili – l’uomo continua a estinguere “l’uomo / con la forza dell’uomo”. È, ancora e sempre, il “mondo offeso” di cui scriveva Elio Vittorini, il mondo dove impera il sistema perverso che oltraggia la dignità e la libertà delle persone, e dove se “l’offeso” è “diverso / sta ancora fuori dalle cose”: non viene neanche percepito come tale.
La magia della parola poetica di Ilda Tripodi è la potenza sorgiva che le consente di accendere e spegnere “frammenti di senso” sia nel dialogo con l’anima, fluente a mo’ di risacca che “ad ogni suo ritorno / chiede chi sei”; sia nel dialogo con gli abissi della storia e della civiltà. E di affrontarli come le facce complementari di un unico discorso, quello stesso che ci dà luce e ci rende umani. Anche nell’esigenza umanistica, oggi sempre più urgente, di tornare ad esserlo.
Marco Onofrio
“La parola esclusa”, di Giuseppe Bova. Lettura critica
La poesia di Giuseppe Bova nasce dal bisogno umanissimo di inseguire il Mito ai bordi della sua stessa eternità, facendone echeggiare i riverberi, i riflessi antichi e suggestivi, nella narrazione archetipa dell’esperienza: «Vorrei raccontare» – scrive in limine al libro La parola esclusa (Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2003) – «come ho scoperto il mare». Non solo il mare d’acqua salsa che dialoga con gli oceani del mondo, ma anche ovviamente il mare del tempo, dell’amore, della vita. E appunto ai bordi di questa dimensione nascosta ma eternamente presente, deputata a custodire i lacci del mistero a cui siamo e ci troviamo incardinati, si dirama una duplice visione del mondo: quella che si attiene alla natura, abbandonandovisi con dolcezza e commozione; e quella che viceversa cerca di trascendere la natura, resistendole per catturarne l’ultimo segreto. Da una parte l’anima, fluida e femminile; dall’altra lo spirito, tagliente e maschile: a determinare la maggiore o minore fiducia nella dicibilità dell’esperienza, e la consapevolezza che la parola è comunque esclusa dalla verità, non può mai raggiungerla in quanto “parola”, nel limite umano del suo essere relativo (quella parola), poiché la verità appartiene all’assoluto del silenzio che racchiude e origina tutte le parole possibili. Ma è la verità stessa che esclude la parola, per consentire all’uomo la ricerca senza fine attraverso cui intuirla ai confini dello sguardo, oltre l’orizzonte. Scrive Bova: «una risposta è sempre da venire. / Domani sarà ancora un’altra tappa / e andremo sempre avanti per capire», giacché il «mistero dei secoli» è sepolto «sul fondo» del mare, e «il fondo non si tocca / con la mano».
Nella cultura ebraica la parola è centrale rispetto alla cosa, anzi: la parola è la cosa, dal momento che Dio crea il mondo parlando (e Bova scrive «Il suono / avrà sostanza di Creato»). Nella cultura greca, invece, la cosa (cioè la φύσις, ovvero la natura) è centrale rispetto alla parola: “sema” significa “segno” ma anche “tomba”, cioè presenza vicaria di un’assenza, testimonianza imperfetta di ciò che esiste e dunque esclusione dalla pienezza del vivente. La parola come mondo e/o come suo imperfetto riflesso. Bova dà udienza a entrambe le concezioni, incarnandole nelle due pulsioni fondamentali della sua poesia, magistralmente lumeggiate da Antonio Piromalli in prefazione: trascendenza e terrestrità. La trascendenza nasce dal sentirsi esclusi e distonici, la terrestrità dal sentirsi inclusi e sintonici. E Bova le vive con reciproco scambio di attributi, per cui la trascendenza ha sempre accenti di concretezza e la terrestrità non manca mai di essere a suo modo spirituale. C’è un momento in cui le due pulsioni sono percepite in parallelo, sia pure in prevalenza della prima:
Sfuggire alla terra che mi attira
toccare le cime alte del pensiero.
Se da un lato, così, il poeta obbedisce allo slancio metafisico, cioè all’«urgenza di sapere / di toccare / di sfondare la porta del mistero», dall’altro estende la sua coscienza creaturale, centrata sulla forza di gravità, per riconoscersi fibra dell’universo nella misura in cui armonizzato, osmotico, uno con tutte le cose: «La roccia si spacca / ed è il mio sangue che sgorga». Può dunque affermare: «Sono / un albero / che vive sul dirupo / che vede su ogni fondo / la sua fine». Come salvarsi dall’abisso? Allungando le radici. «Stringersi / le mani / sulla terra / per trovare / le parole / d’amore. / Questo è / il segreto / di ogni nostro / resistere / alla morte». Un patto d’amore e resilienza di leopardiana memoria: allearsi e far fronte comune per rubare terreno alla morte, il «resistere estremo / sulla barricata». Le parole lasciano filtrare, come crepe su un muro, le trame della luce perduta, e riescono a recuperarla anche dopo che ha smesso di splendere.
Il mondo, purtroppo, è abitato da «anime nere» che trafficano «parole inutili» senza contezza né rispetto della potenza mitica e storica di cui ogni parola, creando la realtà, si fa intima portatrice. La poesia, ai loro antipodi, è una via di purificazione e chiarificazione («Quello che non capivo ora si fa più vero») grazie alla quale ci si cava «dallo sbattere quotidiano» e dai suoi velenosi frastuoni («a volte mi ritiro in una stanza / a cercare il silenzio»): uno «specchio / d’aria pulita» dove si disvela il «contatto estremo», cioè l’essenza ultima delle cose e del proprio rapporto col mondo: «Leggo carte che scavano cortecce / e vanno fino al cuore di ogni tronco». Occorre l’«ostinato credere» con cui il poeta oltrepassa, usando gli occhi dell’anima, la propria finitezza per tentare di amare «con la pelle di Dio» la Luce della «tremenda oscurità», ossia il Mistero da cui tutto emerge e in cui tutto viene, da ultimo, inghiottito. L’atto poetico, riecheggiando il non omnis moriar di Orazio, è anche uno strumento di ribellione al pensiero «d’esser stato / un decimiliardesimo di occhi / sul corpo inavvertito della terra», una minuscola e risibile «formica tra i mille camminamenti». La poesia ha questo potere perché è una potenza originaria e incontrollabile, un «fiume di corrente seminale»:
Questa è la poesia.
Un fiume di parole
per seminare i sogni.
Ma non si ordina alla parola poetica, altrimenti muore «appena nata». È la parola, anzi, che ordina e “ditta dentro” al poeta, pesando in volo la sua luce: «trascinata è l’idea / che il sangue irrora / per vie d’inquietudini». Non un gioco di prestigio, dunque, ma un mandato di rivelazione. La parola è la chiave che apre lo spazio della sacralità. Senza questo fiato caldo essa «si accorcia»: «suonatore e strumento / vanno insieme». Il poeta, dunque, suona ed è contemporaneamente suonato dal proprio strumento. Il suo sguardo coglie «lo spunto di un’origine / liberato da ogni costruzione», ovvero l’energia orgonica pura, anteriore alle forme dell’intelletto: è lì che si apre lo «slargo d’infinito». E quindi i semi delle cose: della notte, della pietra, del vento, della pioggia, del mare, etc. come granelli setacciati «già luminosi / e privi di ogni scoria». La parola si confronta con l’infinito degli elementi che la rendono «piccola», «esclusa» e «imprigionata», ma proprio per questo capace di afferrare le coscienze e spingerle in alto, sopravvivendo anche a chi muore o viene ucciso nei patiboli. La parola non può essere fermata perché, quando autentica, è incisa nell’ordine cosmico-ciclico del divenire e sale dalle origini del mondo, producendosi come evento creativo che traduce in scrittura «quanto non è scritto»; altrimenti è spenta, è «corpo morto».
Comunque giunta
la mia parola chiude
un grande cerchio
ed io sono materia
di ogni avvolgimento
all’origine degli occhi
nel fulcro della trave.
Così accade quanto non è scritto
e ciò che non riflette
è corpo morto.
La presenza e la sostanza delle cose: mai essere assuefazione di forma vuota, imitazione di voce originale, ripetizione del sentito dire. «Non sarò mai pane / senza essere lievito». La poesia sgorga dalla vita che la nutre e che la impasta: «Non scrivere parola non sentita» ammonisce Bova, ricordandolo anche a se stesso. Il poeta che parla in questo libro lo fa da una condizione di maturità ulissiaca, di inquietudine nella tenebra e nello smarrimento: la sua anima è «alla deriva» ed egli si sente «barca sul mare avvolta dalla notte», ovvero «barca già in disarmo» come «dopo tanta odissea / un corpo inanimato sulla riva». Non solo la polvere bruciata durante i viaggi, ma anche quella «incombusta» delle occasioni mancate, della vita non vissuta. L’incompiutezza ci è connaturale poiché siamo incatenati al principium individuationis, per cui in realtà «siamo dove non siamo». Questo produce e procura un senso vertiginoso di dispersione: «Sono nel gorgo anch’io / portato da correnti disperate / su ondate ascendenti e discendenti», quelle stesse che lo fanno risalire proprio attraverso il punto più basso e buio, dove sente il tempo che demolisce e divora, e la morte come un ingranaggio interno al meccanismo della vita. La memoria profonda si dissolve, qualcosa resta sempre «indecifrato» fino a che «tutto rimane muto / disconoscenza / vuoto» inghiottito da irredimibile oblio. Bova rappresenta la morte come una bambola «regina / in tutti i mondi» che si fa percepire in déjà vu, come appunto «l’impressione di un’immagine già vista» poiché «siamo sempre vissuti / e sempre morti» attraverso i tempi della nostra vita.
Il poeta non edulcora, non seleziona per convenienza, ma ha il coraggio di affrontare integralmente il dolore: «poetare è una ferita sempre aperta / perché toccare il cielo con un dito / è scavare il cuore di ogni angoscia». L’identificazione con la vittima sacrificale lo porta a visualizzare il «costato trafitto» di San Sebastiano: basta guardarlo per sentire Dio «come una lancia». E tuttavia il dolore non ci esime dal dovere di «legare la vita / dentro a un sogno» e, malgrado tutto, non smettere mai di farlo. Il poeta obbedisce alla vita e alla sua volontà insaziabile: egli sta «nel seme che rinnova» e non ha fame né sete «se non di nascite / e porte spalancate / ai grandi abbracci». Il dolore, la sofferenza e il caos attraversati nutrono anzi il desiderio di gioia e positività: «rimuovere il disagio» fugando le ombre e le angosce per trovare «un’altra strada», giacché – scrive il poeta con due versi sentenziosi e memorabili – «il tempo è troppo breve / per essere tristi». Ci sarà infatti «una fontana dove bere / senza più la paura di morire» dissetando «l’anima assetata». Occorre ritrovare sempre la condizione della bellezza dentro il proprio sguardo: «la gioventù del cuore / quel sorriso che spalanca girasoli». Il segreto è proprio il cuore.
Così è la vita:
due rette in parallelo per la gioia
percorse all’incontrario
se ad azionare lo scambio del binario
non è il cuore.
Il sacrificio nel dolore non deve mai bagnare le polveri all’agonismo, al fuoco della vita, alla capacità di risollevarsi dopo le tempeste e di meravigliarsi («stupisco al solo esistere di forma»), vedendo le cose come nel primo mattino del creato. Ecco lo sguardo commosso e “miracoloso” che in ogni albero vede un giardino e nell’unione di un uomo e una donna «tutto il mondo». Uno sguardo che è anche frutto di amore, nella vigile attesa di segnali («Raccolgo come l’occhio di Colombo / i piccoli detriti di altri mondi») e nell’attenzione alle cose invisibili, alle delicate sfumature dell’impercettibile («Sono il solitario origliere / di ciò che dorme»). È come se Bova avesse dinanzi due strade per scalare la montagna del Mistero: una più breve ma più ardua, a parete verticale, della trascendenza metafisica; l’altra meno ripida ma più lunga, a tornanti concentrici, della coincidenza naturale. Nel primo caso la parola è uno «scandaglio» che scava la «caverna dei silenzi» per tradurre in segno, dell’essere, l’indicibile “barriera semantica” (per citare Dante Maffìa) e il segreto principio animatore: «Sono la donna che ha generato i figli. / Creo lo spazio infinito e lì mi annego». Nel secondo caso la parola deve sciogliersi nella natura e acquisire la voce stessa delle cose: essere «liquido sciacquio» ed «eco di musiche nel cuore».
Quando
come l’acqua sarà la mia lingua
ed io nel corpo al canarino
sviterò la mia gola
per non essere parola senza vita
(oh volo d’amore che traffica tra i rami
più lontani e refrattari)
tu parlerai con me da uomo a uomo
(…).
Solo nell’acqua
può schiarire il verso
nel lento gocciolare
è l’oscuro mio processo.
E quindi, anche la bellezza purificatrice del mare, che «è una chiesa / coi suoi fedeli interpreti. / Mai parola è uscita / di una qualche confessione. / Il mare è il mare». E ancora: il mistero del divenire, «lo strano mutare degli avvenimenti», la circolarità dei fenomeni per cui «ogni approdo è un inizio». Entrambe le strade portano a un passo dalla rivelazione, laddove la “porta” potrebbe aprirsi. Giungere «al cuore del principio»: è lì che, recandosi idealmente, il poeta scrive «pagine di un mare sconosciuto / immaginando l’altrove», l’inesauribile varietà del mondo, gli «occhi sconosciuti di ogni approdo». La poesia de La parola esclusa è una finestra aperta tra l’io del poeta e il sé del cielo, tanto che egli chiede di essere chiamato non «per nome» ma in prospettiva eterna, «per l’infinito», cioè nella sua verità di essere cosmico. E così, allo stesso modo, è una finestra aperta tra la sensibilità di Giuseppe Bova e lo sterminato firmamento della poesia mondiale, dai classici antichi ai maggiori contemporanei, di cui il poeta reggino assorbe e rielabora creativamente l’aurea eredità. Egli si sente chiamato dalla voce «che viene da un braccio di cielo», ma il suo sgabello è «insicuro» e non «così alto / da vedere l’oltre», e allora ristagna in un limbo di conoscenza: «Aspettare è ristagno / e le braccia vanno aperte sulle rive / quando ancora le speranze sono vive». Ma, forse, ciò che più gli interessa è mantenersi puro e selvaggio «come il monte oscuro / che conserva il segreto del principio» anche quando il mattino è di là da venire.
Marco Onofrio
18 novembre 2019: Luca Priori intervista Marco Onofrio su “Anatomia del vuoto” (ilmamilio.it)
Marco Onofrio ha pubblicato a Milano, con le edizioni La Vita Felice, il suo nuovo libro di poesie: “Anatomia del vuoto”. Neanche il tempo di presentarlo e già subito un exploit: l’opera è finalista al prestigioso Premio “Rhegium Julii” di Reggio Calabria, sezione poesia edita. L’ennesimo riconoscimento di uno scrittore che è ormai vanto della nostra regione, e non solo. Lo abbiamo incontrato a Marino, dove vive con moglie e figlia.
Marco, sei nato a Roma nel 1971 ma vivi da diversi anni a Marino. Ti senti più romano o marinese?
Entrambe le cose, e per molti versi sono identità complementari. A Marino vivo dal 2006; prima stavo a Grottaferrata dove mi sono trasferito, salendo da Roma, nell’ormai lontano 1988. Ho dunque passato più tempo della mia vita ai Castelli che a Roma. Ai Castelli ho scritto tutti i miei libri, ed è indubbio che qualcosa della loro atmosfera sia stato determinante nell’ispirarmi le pagine che ho pubblicato, a partire dal 1993. I Castelli hanno liberato e nutrito la mia creatività. Mi sento romano e, diciamo così, marinese-castellano “di adozione”.
Come nasce “Anatomia del vuoto”?
È un libro a cui ho lavorato per almeno quindici anni, attraverso molte stesure e innumerevoli revisioni. Credo sia la mia opera poetica più intensa e impegnativa, tutta incentrata sul tema cardine del vuoto e sul tentativo di definirlo, rappresentandolo in senso metafisico. Il vuoto non solo come materia connettiva del cosmo, fino agli estremi limiti delle sue incommensurabili distanze, ma anche come “condicio sine qua non” della umana significazione, ovvero del processo che ci consente di riempirlo con le “vicende” che ci rappresentano, a partire dalle esperienze fondamentali della nostra vita, l’amore, la solitudine, il dolore, la morte.
Discorsi alti e difficili, per palati fini…
Detto così, sembrerebbe: è la poesia stessa, come genere letterario, che punta ad esprimere le cose grandi, cioè le verità nascoste al di sotto dell’apparenza. Anche per questo, forse, ha così pochi lettori: pochi ma buoni. Ho sempre apprezzato le potenzialità di svelamento metafisico che le competono, anzitutto come intensità dello sguardo e della parola. La poesia secondo me deve rendere visibile l’invisibile, cioè darci uno specchio in cui venga riflessa la realtà autentica che sta oltre gli inganni del quotidiano. È uno strumento fondamentale di comprensione del mondo. Ed è proprio la volontà “ostinata e contraria” di capire il mondo, cioè il mistero della vita e della storia, a nutrire da decenni il mio percorso di ricerca.
Che cosa c’è di nuovo rispetto alle opere precedenti?
La precisazione dello scavo. E una semplificazione dello sguardo mai così attenta e piena di significati, tutta concentrata in direzione dell’essenza. È una poesia che finalmente brucia le scorie della letteratura e che cerca di coincidere con la voce stessa della vita.
Questo è il tuo tredicesimo libro di poesia e il trentaduesimo di sempre. Perché scrivi così tanto?
Perché ho molte cose da dire, e la vita è troppo breve per dirle tutte. Scrivere per me è vivere, anzi: “scrivivere”.
Un conto scrivere, un conto pubblicare…
Solo pubblicato un libro appartiene al mondo, cioè alla gente che lo legge e può farsene trasformare. Il numero delle pubblicazioni dipende dal fatto che scrivo su più tavoli, occupandomi in contemporanea di poesia, critica letteraria e narrativa.
Ti senti più poeta, più critico letterario o più narratore?
Ho uno sguardo da poeta, che tende a trasfigurare il particolare in senso universale. Questa visione analitica e al contempo globale mi porta ad essere, come dicono, un buon critico letterario. Il narratore è sottomesso alle briglie del poeta, nel senso che mi interessa approfondire i dettagli in una luce fantastica e visionaria, piuttosto che raccontare storie: infatti prediligo il racconto breve al romanzo tradizionale. Anche se la prosa mi fa sentire infinitamente più libero del verso: ed è da questa intima contraddizione che nasce la spinta propulsiva della mia scrittura…
Insomma, dai l’impressione di un fiume in piena: un libro segue l’altro e la tua officina creativa sforna opere a ripetizione.
In realtà ogni libro esce coi tempi suoi, come scegliendo autonomamente le strade che lo portano ad esser pubblicato. Ma devo dire che il meglio, forse, è ancora inedito: ci sono opere già finite che ritengo importanti e che attendono la loro opportunità.
Ma così dedichi poco tempo alla promozione…
Lo so. Ci sono autori che presentano lo stesso libro per anni. Io dopo la terza-quarta presentazione comincio a vergognarmi di ripetere le stesse cose. Sono più concentrato sul versante della produzione, mi diverte di più.
Ehm, dicci la verità: non è che per caso sta per uscire un nuovo libro? Malgrado “Anatomia del vuoto” sia stato pubblicato da appena un mese?
Ehm, sì. È un libro di critica letteraria, sulla narrativa di Lina Raus: una scrittrice psicoterapeuta che vive e lavora, fra l’altro, a Grottaferrata. Il libro uscirà in tempo per la prossima Fiera “Più libri più liberi”, dove sarà esposto in anteprima.
Lo sospettavo…
Ed è appunto con questa “anteprima” che salutiamo l’instancabile scrittore di Marino, dandogli appuntamento a breve per gli sviluppi ulteriori del suo percorso.
(a cura di Luca Priori)