In evidenza

15 aprile 2023: “La rivolta del corpo”, di Lina Raus, alla “Sala Lepanto” di Marino (RM). Alcune foto della serata

Pubblicità

“Il roseto sul bunker”, di Italia Vitiello Izzo. Lettura critica

cop_il_rosetosulbunker_piatto

Il romanzo “Il roseto sul bunker” (Europa Edizioni, 2022, pp. 198, Euro 14,90) configura un rapporto di continuità con le precedenti opere narrative di Italia Vitiello Izzo. Lo spettacolo della gente, l’eterna faccenda delle esistenze in gioco, i temi universali. Insomma, la scrittrice e biologa di origine salernitana pare costantemente appassionata alla scrittura del tempo, ovvero il tentativo quasi impossibile di ricostruire gli anni, i giorni, le ore e i minuti volati via per sempre, non prima di annodare le trame e lasciare le tracce da cui è formato il patrimonio storico che sostanzia la nostra identità; quindi, nella fattispecie, la ricognizione del Novecento in Italia, in particolare dagli anni della seconda guerra mondiale al boom economico attraverso le vicende esemplari di personaggi comuni “pedinati” nella loro evoluzione quotidiana. Occorre sempre distinguere tra un vero poetico, basato sulla rielaborazione dell’esperienza e sulla libertà dell’immaginazione (tesa al verosimile); e un vero storico, basato su fatti e documenti di pubblico dominio, che è il traliccio su cui l’autrice annoda le trame della sua scrittura. Da una parte la Storia con l’iniziale maiuscola; dall’altra le “storie” come gocce d’acqua che, unite nell’amalgama del tempo, compongono il mare. Ma sono proprio le storie ricostruite e immaginate dagli scrittori a restituirci il sapore autentico della grande Storia! Nei romanzi, così, troviamo atmosfere, aspetti e particolari su cui la storiografia ufficiale non può e non vuole soffermarsi. Per capire e “sentire” lo spirito del tempo che intride di unicità ogni epoca storica occorre anche e soprattutto leggere le opere narrative che di essa si nutrono, sostanziando le proprie intime ragioni. 

La narrativa vuole “edificare universi” (è il titolo della collana che ha accolto il romanzo) restituendo il lievito del vissuto, la sua inafferrabile sostanza di complessità. Lo scrittore di storie intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’esperienza ri-vissuta. La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: tutto è cadùco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che spetta alla storiografia o alla narrativa di impianto storico manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Il tempo viene sottratto all’oblio, cioè ricostruito e ripensato sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i narratori e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare. Scrive Vincenzo Cerami: «Nessun linguaggio è in grado di restituire nella sua complessità ed interezza il sistema di segni che forma l’immaginario umano. I linguaggi artistici, tentando di riprodurlo, creano una sorta di mitologia del reale, nella quale vanno a specchiarsi le cose segrete e rimosse del vivere». Naturalmente lo scrittore mette insieme tutto: impasta ciò che ha vissuto, o visto, o ascoltato con ciò che immagina, fantastica, sogna. In un romanzo la realtà viene oltrepassata, selezionata, modificata, in una parola: creativamente trasfigurata. La narrazione è come l’armadio che si descrive a p. 14, con «una serie di cassetti, cassettini e porticine segrete, in cui spesso Graziella [così come Italia, la nostra autrice, quando narra – NdR] andava a curiosare alla ricerca di qualche oggetto, di qualche documento, che svelasse qualcosa di sorprendente». Tale natura prismatica delle cose ben si attaglia a quella profonda delle persone e delle loro esistenze in continua evoluzione.

Italia Vitiello Izzo libera dalla polvere questi “italian graffiti” attraverso le storie di numerosi personaggi, soprattutto femminili, seguiti nelle loro vicende di resilienza distese nell’arco di periodi storici difficili o tragici come quelli da cui parte il romanzo, nel settembre 1943. Giorni terribili di bombardamenti (la scrittrice ci fa sentire nelle ossa «l’urlo della sirena che lacera il silenzio»), giorni di corse precipitose nei rifugi, di razionamenti, penuria, miseria, malattie, disperazione. Una condizione di estrema precarietà che abbiamo riattivato nella nostra coscienza con la pandemia, e ora con la guerra in corso. La dimensione corale che emerge dalla “scena” di queste storie, seguite e sviluppate in parallelo, non è mai anonima, ma originale e diversa in ogni voce: tutti i personaggi hanno la loro nota peculiare, la loro impronta distintiva che li fa emergere dalla folla e dalla nebbia del tempo. E appunto in parallelo ci sono gli eventi della grande Storia, citati “a latere” delle storie come motori nascosti o cause segrete delle vicissitudini individuali. E quindi, per esempio, l’armistizio di Cassibile del 3 settembre ’43, o le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre ’43). Si riflette soprattutto sul destino dei ragazzi di quegli anni, costretti a sbocciare e dissipare il fiore della loro giovinezza in un periodo di guerra. Poi il 1947, la vita che risorge dalle ceneri tra le immense macerie materiali e morali della guerra, con lo strascico infinito di ferite visibili e soprattutto invisibili (paure, angosce, traumi irrisolvibili, ossessioni). Il primo ritorno alla vita “normale” partorisce una visione un po’ più rosea del futuro e la speranza di un mondo migliore. E arrivano gli anni ’50, l’età dell’oro: «Un mondo stava cambiando ai loro occhi, ma intravvedevano ancora incerto il futuro». Ecco le festicciole e i balli in casa, le nuove istanze di «posizionamento sociale», l’accentuarsi dei contrasti tra città evolute e province arretrate, e la comparsa dei primi televisori con la fruizione comunitaria nei bar e nei circoli, raramente privata dato il costo elevato degli apparecchi. E infine gli anni ’60, con il boom economico che trasforma velocemente l’Italia da Paese agricolo a Paese industriale su base capitalistica e consumistica. Di quel periodo contraddittorio, ma felice e ricco di speranza, Italia Vitiello Izzo ci fa sentire l’energia come materia vitale, un misto di immaginazione creatrice, possibilità “aperta” di proiettarsi nel futuro e capacità di imporre la propria impronta sul corso delle cose. Il cambiamento non elimina, ovviamente, le sacche di arretratezza. Per esempio in questo tratto: «Nel mezzogiorno, permangono tradizioni familiari che tardano ad estinguersi. Le donne sono ancora in condizioni di totale subordinazione. L’uomo invece può godere di tutte le libertà». Ed ecco, ancora, le tracce della grande Storia: la “nuova frontiera” di John Kennedy per un «equilibrio tra le super potenze, non fondato più sulla sopraffazione, ma sulla democrazia e sui diritti civili». E il contatto visivo con un suo passaggio italiano: «Era il 2 luglio del 1963 e Mergellina trovò una folla in tripudio che agitava bandierine italiane e americane; il presidente Kennedy sfilava tra due ali di folla a bordo della Lincoln nera decappottabile e veniva accolto da un incontenibile entusiasmo popolare. Era abbronzato e in abito azzurro scuro». Un sogno mondiale che sarebbe tragicamente finito dopo qualche mese, il 22 novembre, con l’assassinio del presidente americano a Dallas. Ma i semi avrebbero dato i loro frutti, i nuovi scenari prefigurati dal progresso, dall’emancipazione di popoli e costumi. Ecco i movimenti giovanili, la contestazione globale, il femminismo, ecc.

Le cronache familiari sviluppate in questo libro accolgono una tessitura del quotidiano fatta di azioni minime, di pensieri che attraversano gli istanti, di cibi cucinati e mangiati, di confidenze, piccoli segreti, speranze, sogni, progetti, fantasticherie, trasfigurazioni infantili, palpiti, false promesse, delusioni… Su tutto aleggia un quid di inafferrabile struggimento, una sorta di “sunt lacrimae rerum” di virgiliana memoria, poiché il tempo – scultore delle cose e grande divoratore delle stesse – ha il «potere di cambiare nel profondo le persone» e allora «si trattava di mantenere in vita qualcosa di molto prezioso che sembrava spegnersi» resistendo alla realtà ma anche imparando ad accettarla, nuda e cruda, in tutta la sua dolce ferocia rivelatrice. Il tema dei temi è l’amore, l’eterna dimora del mondo: una casa fragile che va continuamente costruita e ricostruita, e noi siamo le pietre vive di questa costruzione. «L’amore, gli amori» scrive Italia Vitiello Izzo, costituiscono «l’essenza della vita; tutti gli amori, quelli veri, quelli traditi, quelli finiti». Lo snodo simbolico fondamentale è proprio il contrasto tra eros e thanatos, amore e morte, e quindi tra civiltà e barbarie nella misura in cui “amore” significa etimologicamente a-mors, cioè morte preceduta, negata e contenuta dall’alfa privativa, quindi: “senza morte”. Non a caso la guerra è l’opposto assoluto dell’amore, in quanto apoteosi dell’odio e della morte. La morte in verità non viene esorcizzata in questo libro: c’è ad esempio la malattia e la morte di Virginia e di Agnese; c’è la morte di Pietro, il padre di Celestina; c’è la morte per parto di Graziella… ma c’è anche la maternità felice di Vittoria; c’è il sospirato matrimonio di Celestina, c’è la sua prossima maternità che dissipa ombre, nostalgie e rimpianti («tutto cancellato grazie al potere della vita che portava in grembo»)… e insomma la Vita, sì, l’indomita volontà di vivere che trionfa su ogni tragedia, su ogni disperazione.

Di qui, la visione emblematica che dà il titolo al romanzo: «Quattro anni dopo, là dove una volta vi era stato il bunker, un’aiuola, delineata da mattoncini, racchiudeva un roseto variegato di tanti colori. (…) Il bunker era stato riempito e ricoperto di terriccio e sopra vi erano state interrate le piantine». La speranza del futuro è affidata a quelle tenere piantine da annaffiare e far crescere. Vorremmo che ogni bunker del mondo – e troppi ce ne sono! – fosse coperto da un roseto, ma sappiamo che non sarà possibile finché qualcuno continuerà a trarre vantaggi e profitti dalle guerre. E tuttavia, a questa potente immagine di vita possiamo ancorare il nostro contributo alla civiltà contro il pericolo sempre incombente della barbarie, oltre che il nostro sacrosanto desiderio di pace e felicità, tanto più sentito negli anni complicati che stiamo affrontando.    

     Marco Onofrio

“Asciugami gli occhi”, di Roberto Pallocca. Lettura critica

Bello ed estremamente ricco di significati, il nuovo romanzo di Roberto Pallocca (Asciugami gli occhi, Lurago d’Erba – Como, Il Ciliegio edizioni, 2021, pp. 176, Euro 12). Il protagonista del libro, Paolo Magri – questo l’antefatto – viene investito da un’auto mentre attraversa la strada. Batte violentemente la testa, riporta un grave trauma cranico che lo costringe a 12 giorni di coma; poi si riprende, ma il suo cervello non è più lo stesso.

Ecco quindi, anzitutto, la potenza schiacciante della realtà, la pazzesca concatenazione del divenire, la precisa costruzione del destino da cui non ci si ripara, e difatti “i giorni qualsiasi non esistono”: tutto può cambiare per sempre da un momento all’altro. “Sarebbe bastato un misero dettaglio” così comincia il romanzo. Anche il ritardo di un gesto nella maledetta sequenza di quei minuti, e a Paolo non sarebbe accaduto nulla. Ma il senno di poi è inutile, il rewind è impossibile perché la vita prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione. La vita che ci capita, al di là di ciò che vogliamo e per cui lottiamo, giorno dopo giorno. Che poi “Quale vita?” si chiede Anna, la moglie di Paolo: “Quale vita? E perché una e non un’altra?”

Pallocca è italianissimo, ma quando scrive ha un’anima portoghese che si manifesta nella capacità di sentire l’esistenza e analizzarne le molteplici sfumature, nel sentimento oceanico del tempo, nella sensibilità poetica per le sfumature. Penso naturalmente a Pessoa e Saramago, ma anche a un giovane (suo coetaneo) come Pedro Chagas Freitas. La narrativa di Pallocca, come ho più volte notato, non è mai “pura” ma tende al saggio, alla riflessione filosofica, all’aforisma. C’è un poeta nascosto tra le pieghe del narratore – finora in 6 libri pubblicati è stato sempre così: un poeta a cui non interessa soltanto “intrattenere“ e “raccontare una storia”, ma chiarire dall’interno l’esistenza. Il suo tipico tema dei “momenti performanti” (quelli che decidono il futuro degli anni a venire) qui evolve nella complessità dei “bivi” che poi in realtà sono “veri e propri crocevia. Dove s’intersecano chissà quante strade. E tu non sai mai che fare, perché le mete non sono mai indicate”. E così, fra tante strade, qual è quella giusta? Impossibile saperlo, anche quando si è più o meno sicuri.

Paolo Magri, dopo l’incidente, ha passato 10 anni di “diversità”, “lontano da se stesso”, “più distratto, infinitamente più calmo”, ostaggio di una strana apatia sospesa che gli ha consentito di vedere le cose in modo diverso da prima. Vive di contributo statale e tutte le mattine prende i mezzi pubblici per incontrarsi, al centro di Roma, dalle parti di Campo de’ fiori, col suo “alter ego” Giovannino, un omone di cui è diventato amico e con cui passa ore a parlare dell’universo-mondo, seduti entrambi al tavolino di un bar, di fronte ai soliti succhi di frutta. Da quel tavolino Paolo osserva il mondo che scorre intorno, un turbine lento fatto di passanti frettolosi, di scene estemporanee, di canzoni che danno alla radio. E il suo sguardo annega nella precisione lucida e chirurgica dei particolari, ad esempio quando descrive la pioggia ed insegue i suoi effetti sulla città:

L’acqua si aggrappa alle grondaie con una forza incredibile, e riga i vetri delle finestre, gocciola dalle persiane aperte, forma rigagnoli impazziti che seguono la lieve discesa della strada. È buttata via da tergicristalli impazziti, e cola dai cappotti dei passanti, rimbalza lungo i marciapiedi, finisce dove lo sguardo non può più seguirla. I sampietrini più alti spuntano come isole di atolli inesplorati, i più bassi sono sommersi come tante piccole atlantidi dimenticate. 

La triste risultanza delle osservazioni quotidiane è che sono tutti presi dalla “rincorsa al niente”, “tutti infelici. Tutti già morti, forse”. Qui ha modo di emergere una potente radiografia dell’uomo contemporaneo, ad esempio questa:

Vedo gente sudata rincorrere i propri desideri finti, che qualcun altro ha deciso per loro, e star male se non possono permettersi la settimana bianca, la Sardegna, la Station Wagon. E indebitarsi fino al collo per pagare lo svago, che è un’incongruenza per definizione. Vedo alla tv persone accoltellarsi per una squadra di calcio, innamorarsi solo se l’altro le corteggia in un certo modo, tradirsi, perdonarsi, giocare, uccidersi. Sento continuamente dire: “Non ho tempo”.

Ebbene, “cosa ce ne facciamo di una vita così distante dai nostri sogni?” Perché i sogni sono splendidi? si chiede e ci chiede Paolo. Perché “nei sogni sei sincero. Nella realtà no, non sempre, solo a metà”. Stiamo male perché passiamo gran parte del tempo a fingere per essere accettati, a dare ragione agli altri, ad assecondare l’ipocrisia del mondo. Da tutti i dialoghi monologanti con Giovannino emerge il macro-tema del libro: la felicità. Che non dovrebbe essere, come purtroppo è, una battaglia all’ultimo sangue con il destino, ma una “dote” per ciascuno di noi.   

Paolo pensa cose “strane” che in realtà “sono normali” o almeno dovrebbero. Ma forse, in un mondo amorfo di automi, lo strano è proprio che Paolo pensi. Il suo cervello ha smesso di funzionare come prima, ora passeggia nei pensieri. Sente profondamente il tempo, fatto di sogni e di ricordi, di foto che contengono il futuro. E si chiede: “perché non possiamo scegliere cosa ricordare e cosa no?” E avverte la differenza tra assenza e mancanza. E riflette sull’impredicibilità delle “ultime volte”. E nota l’essere, sì, ma anche il non essere, anche ciò che non accade:

Mi chiedo dove vanno a finire i gesti d’affetto che tratteniamo, quelli che non facciamo per viltà o per imbarazzo, gli abbracci frenati, i baci che restano ad appassirci sulle labbra, le carezze che si asciugano sulle mani, e i sorrisi che non segnano il viso. 

Paolo crede di avere una figlia che in realtà non ha. E immagina inoltre di lasciare Anna per fuggire con Giada, una ragazza che pare gli abbia spedito una lettera d’amore. Decide di aprire un blog e comincia a scrivere le sue esperienze. Emerge insomma dall’oblio, comincia a fare i conti con ciò che sa, vuole, desidera, sogna. Invertire rotta: “iniziare a vivere come vorremmo. Da adesso”. Poi – ed ecco il passaggio fondamentale – una mattina prima di uscire incrocia “la sua immagine allo specchio” e, come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila (L. Pirandello), “si accorge anche di una ruga piccolissima, alla base dell’occhio sinistro”. Da quel momento cambia davvero tutto. Sappiamo da Jacques Lacan, il grande psicanalista francese, che lo specchio è un elemento dissociativo funzionale alla costruzione psichica del soggetto: guardarsi allo specchio significa riconoscersi ma anche “essere un altro”, vedersi fuori dall’interno: ah, dunque io sono quello! E viceversa (da fuori a dentro): quello, dunque, sono io! Paolo ci torna poche ore dopo, davanti allo specchio, per guardarsi gli occhi e vederli “dentro. Dietro”. Ecco la sua reazione: “Mi sono perso. Lo stesso specchio che stamattina mi spaventava, mi ha chiamato per nome. E ho compreso che il vero dramma dell’uomo non è invecchiare, ma (…) guardarsi gli occhi e non trovarsi più”. E così improvvisamente Paolo avverte un “bisogno incredibile di esistere”, un “bisogno di ricordi nuovi”. Si sente “più vivo, più acceso”: comincia a trattare la vita normalmente, come conferma ad Anna il medico che lo segue. Eppure, prima di cedere alla normalizzazione, Paolo rivendica per un attimo la sua “diversità”: “Lasciatemi alla mia ‘follia’, vivete nella vostra genuina buona salute”. 

L’itinerario si conclude fatalmente “col pazzo che torna normale e si tiene la sua donna”. Giada eclissa nell’oblio, Paolo si fa di nuovo bastare la vita che ha. “Oggi Paolo è normale”. Infatti si alza la mattina più stanco della sera precedente. “Ha voglia di fare un sacco di cose e tempo per non fare niente. Ha desideri da vendere e nostalgie da regalare. Si porta dietro un senso di insoddisfazione come un trolley”. Torna ad essere, come tutti, malato di tempo. Infatti non ne ha più “per gli hobby. Il tempo che gli lascia il lavoro deve usarlo per riposare”. È rientrato nella gabbia, a inseguire la ruota del criceto. Fa carriera in una grande azienda, miete successi. Così può scrivere sul blog: “Oggi mi sono completamente ripreso, sto bene. Sono felice, sai. Felice come dice chiunque. (…) tu mi credi, vero?”.

Non gli crediamo, no, e intanto ci chiediamo qual è il confine tra “normalità” e “follia”. Qual è la normalità? Qual è la salute? E se la salute pubblicamente riconosciuta è in realtà malata, la cosiddetta “malattia” è forse la salute? “Penso” e “mi chiedo”: per 10 anni Paolo non ha fatto altro, e forse, agli occhi degli altri, è stato “malato” soltanto di questo. Se, come si legge a un certo punto, “l’oblio è importante come la memoria”, è “il vuoto che le consente di funzionare”, allora Paolo durante quei 10 anni passati nel vuoto a percepire la totalità strana e meravigliosa della vita era in realtà guarito dalla malattia che distrugge le persone cosiddette “normali”, vuote pur con tutta la loro inutile pienezza. Non sono stati anni perduti perché “il tempo non si perde mai quando si è vissuto come si desiderava”. Sembrava anestetizzato, ma era sveglio come non mai; ora che invece si è svegliato, è di nuovo sotto anestesia. Si resta senza fiato quando alla fine del libro si scopre chi era, anzi chi non era, Giovannino; e tuttavia non è difficile credere che – oscillando fra le tre prospettive che scandiscono i capitoli del romanzo (“fuori”, “dentro” “accanto”) – Paolo sia stato più autenticamente felice allora di adesso, dopo che ha scelto l’accanto finale, ma forse non definitivo, entro cui tornare ad essere l’ingranaggio di un meccanismo spietato, superiore alla vita di ciascuno di noi. Ma è proprio nel divario incolmabile tra “essere” e “non essere”, già dilemma amletico, che la scrittura (quella fittizia di Paolo Magri così come quella reale di Roberto Pallocca) può scoccare la sua scintilla di rivelazione. Come in uno specchio dove perdersi un po’ per riconoscersi come siamo, o vorremmo o potremmo diventare, nonostante tutto.      

Marco Onofrio

Ottiero Ottieri, “I divini mondani”. Lettura critica

rampolli 2
Cast del programma TV “Riccanza 3” (2018)

C’è un sottile fil rouge che lega – pur attraverso epoche e circostanze diverse – la satira degli aristocratici incarnata ne I divini mondani (1968), di Ottiero Ottieri, al grande modello del “giovin signore” di Giuseppe Parini (1763); richiamando com’è ovvio echi novecenteschi, dalla dissacrazione anticonformistica e antiborghese di Aldo Palazzeschi (Il codice di Perelà, 1911) e di Carlo Emilio Gadda (La cognizione del dolore, 1963 – pubblicato in frammenti sin dal 1938), alla disinvolta immersione nei vezzi nazionali e internazionali dei giovani rampanti, elettrizzati dal clima del “boom” in Fratelli d’Italia (1963), di Alberto Arbasino. Il racconto di Ottieri è in realtà un pamphlet satirico sulla mondanità di cabotaggio internazionale, “animata” (si fa per dire) dalla noiosa e annoiata ripetizione di situazioni e scene in cui i dominatori della cronaca rosa conducono stancamente la loro brillantissima ma insulsa esistenza. Una sarabanda caricaturale di particolari (cose e persone) intercambiabili, che inseguono la loro reiterata distensione senza stacchi, come note di un’unica, monocorde sinfonia, tra “gruppi”, cocktails, cacce, gare di tiro al piattello, viaggi transoceanici e ricevimenti continui presso i salotti delle famiglie-bene. «Non c’è trama,» notava Vittorio Spinazzola all’uscita del libro «solo un succedersi di cocktails, pranzi in piedi, pranzi seduti, pranzi in piedi seduti, defilès, “cacciate” al fagiano o al cinghiale e tanti tanti brancicamenti con donne. Non ci sono protagonisti o meglio sono tutti interscambiabili». C’è per la verità un personaggio che risalta sugli altri, spesso citati e descritti solo di sfuggita, ma anche lui è un simulacro vuoto, una specie di ologramma utile a “funzione narrativa”, per condensare le voci e cucire i frammenti dispersi, catturandoli nel magma dello sguardo, cioè nella scrittura. È Orazio, un fabbricante di bidet, anzi: il «re del bidet». Imprenditore sì, ma ama (o crede di amare) l’arte, tanto che vorrebbe «porre sul fondo dei bidet il ritratto di Rodolfo Valentino a occhi spalancati», per la gioia delle donne; oppure in alternativa, per quella degli uomini, la Venere di Cranach. «Il fatto è» continua Spinazzola «che in questo mondo fasullo non possono esserci vere individualità perché ogni persona, pur liberissima di sé, è in realtà schiava di un codice di comportamento (…). Così il racconto assume l’andamento di un balletto sincopato, eseguito da maschere senza volto e senza interiora». Proprio così: un balletto meccanico di “marionette sociali” che, con approccio più ilare e disinvolto, ma non per questo meno corrosivo, ricordano i “manichini ossibuchivori” di Gadda, impietosamente ridicolizzati nei “restaurants” frequentati dalla borghesia fascista, in una Milano travestita per l’occasione da Sud America (l’immaginario Maradagàl) nella già citata Cognizione. Anche il linguaggio di queste marionette è schiavo della serialità gergale che le ingessa e le imprigiona in una melassa di nonsenso e banalità, perfettamente in linea con la “fuffa” delle loro forme vuote. Eccone un saggio particolarmente compulsivo e reiterato, al limite dell’idiozia:

«Pronto». «Ci vediamo al Bum Bum». «Prima andiamo a bere una cosa al cocktail dei Lanza». «Al pranzo dei Crispi». «Al cocktail dei Lanza». «Ci vediamo tutti al Bum Bum». «Al Bum Bum». «Al cocktail dei Lanza». «Pronto». «Che cosa fai stasera?» «Ci vediamo tutti al Bum Bum». «Che cosa fai stasera?»

Lo snobismo cosmopolita impone l’utilizzo continuo di parole inglesi e francesi: sexy, social, image, esprit, allure, etc. Ci sono “categorie” predeterminate per ogni discorso, e anche quelle hanno confini fragilissimi che le rendono variabili e intercambiabili: «spesso il social non è sexy e il sexy non è social. Si intende che ciò che è augurabile è il social sexy e il sexy social». Ottieri lavora di spada e fioretto pur di deridere i colloqui fatui e insensati dei personaggi, utilizzando tutti gli espedienti possibili per fare in modo che il lettore, perdendo il filo della logica, possa a un certo punto chiedersi: che diamine stanno dicendo? Ecco dunque il montaggio incongruente dei pensieri, volutamente appiccicati senza ordine logico. Ad esempio:

L’intelligenza di Alì Khan è acutissima. È sontuoso e ha il senso del business; non si può più fare lo shopping a Parigi. Preferisco Zurigo.

L’insipienza delle loro forme vuote contagia anche il quanto di erotia (per citare ancora Gadda) che circola come un pulviscolo ossidante fra le pagine del libro:

Correvano sui centonovanta, la sera tardi, nella Bizzarrini di Orazio verso Roma. «Ti sei divertita?» Hata rispose: «Sì». «La prossima volta devi tirare anche tu». «No». Egli tolse una mano dal volante e le carezzò una gamba, prima sul ginocchio, poi sotto la minigonna. Hata strinse le cosce imprigionando quella mano e allungandosi all’indietro nel basso sedile concavo della Bizzarrini.

Il modus percipiendi imperante nel libro determina una visione distorta, frantumata e schizomorfa della realtà, che si innesta su un fondo liquido, fluido, “alcolico” e blasé, cioè indifferente di sentimenti futili e brillante chiacchiericcio. Ma, come i “manichini ossibuchivori” di Gadda, anche questi pretenziosi e sfarfallanti cialtroni attraversano momenti di apparente gravità, di retorica “dannunziana” solennità: «Pietro rimaneva in silenzio, teso a uno scopo indicibile». I “divini mondani” coltivano una visione esclusiva e oligarchica della società, e mostrano una spiccata tendenza a teorizzare (blaterando senza tema di smentita le loro arbitrarie semplificazioni). Ecco un paio di esempi: «Bisogna assimilare nella mente» esclamò Orazio «che esistono solo i pochi. Questi pochi sono i migliori»; «Le leve sono in mano al management. E il management comanda lo State, che si illude». Ogni rappresentante di questa classe privilegiata è, ça va sans dire, un essere straordinario, dotato di virtù eccezionali. Qui, poi, sembra di udire qualche eco del “Gastone” di Ettore Petrolini: «Nessuno sport» disse Orazio disteso, parlando verso il soffitto con voce di striscio «mi è sconosciuto. Batto il crawl come mi produco nel drive. Sono perfettamente ginnastico. Sapete che non mi fermo al massaggio, forma passiva di mettersi in forma. Ma lo sport da me preferito è sempre il social climbing». Questi indolenti arrampicatori sociali passano dunque di festa in festa e bevono continuamente champagne. Sono sempre in giro per il mondo, senza limiti di distanze e viaggi (possiedono aerei ed elicotteri personali).

«Orazzino, dove fai colazione domani?» «A Parigi, dal nostro brillantissimo Harry». «Ci sono anch’io, sono felice, vieni a prendermi, voliamo insieme». «Nel pomeriggio dà una battuta». «Ma io riparto subito, Orazio. Non vieni domani sera alla cena dei Del Doge a Venezia?»

(…)

«Pronto» disse Orazio. «La principessa è tornata?» Ascoltò. «Ma è riandata di nuovo a Giacarta?»

Credono di essere «quelli che ridono più sulla terra» anche se in realtà hanno poco di cui divertirsi, prostrati come sono da un permanente «fumo di noia», il tipico spleen decadente degli uomini di mondo. L’unica loro «grave preoccupazione» è «come spendere tutto il denaro», e questo li rende nullafacenti perdigiorno che vivono solo per uscire la sera, tutte le sere, e frequentare club esclusivi. Passano ore al telefono per invitarsi ai ricevimenti. Parlano spessissimo di astrologia, a cui danno un’importanza spropositata. Non sopportano le banalità ordinarie del quotidiano, la prosa del vivere, il grigiore delle masse: si sentono «superiori alle abitudini del mondo, alle code». Si ergono «sopra il mediocre livello della gente comune» con i loro colli lunghi, aristocratici, razziali. Anche i nomi peregrini ed esotici delle donne dimostrano che si tratta di altra cosa, di altra vita: Aldobrandina, Selvaggia, Rezzonica, Diamante, Annette, Violante, Hata, Mildred. E ancora (anche come imponenza proterva del suono, nomi più cognomi): Giada Anguissola d’Altor, oppure Maria Teresa Tranquilli Liberati, etc. Tutto in loro dice che non sopportano «il ritmo banale». Il lavoro è cosa che non li riguarda, per filosofia, non solo per mancanza di necessità:

Io odio qualsiasi lavoro. Se lavoro divento pazzo. Se lavoro perdo il mondo. Non adoro che la bellezza, il gioco.

La loro esistenza e la loro cultura sono fatte di allucinanti «forme assolute staccate dal loro eventuale impiego». Orazio è «straordinariamente snob» anche nel suo membro virile, infatti esso «non produce il suo sprint che con la nata bene». Fanno talvolta i conti con il vuoto che devono continuamente esorcizzare, la «duna dell’irrealtà», ma in genere abitano con apparente disinvoltura una dimensione fluida del vivere, basata su una tesi di fondo: «frequentare ogni possibilità e non concentrarsi su una sola». Dice a un certo punto Pamela:

Mi ricordo sempre che un maestro a scuola mi ha insegnato che una foresta si può guardare in due modi: fissando un albero da vicino e allora non si vede che quel solo albero, al posto della foresta. Oppure guardare da lontano, allora la foresta è composta da migliaia di alberi, uno non se ne può scegliere. (…) Per noi la possibilità è migliore della realtà.

E infine:

«È questo» insiste Pamela «il simbolo della nostra vita. Rimbalzare sempre, non andare mai in fondo».

Ottieri è magistrale nel riprenderli dal vivo, infilandosi nei meccanismi dei loro sguardi e nelle dinamiche dei loro “pensieri” a mo’ di etologo, anzi di entomologo al microscopio: «da presso, come ingranditi attraverso una lente». L’autore non commenta e non aggiunge nulla di suo, se non la sana ferocia con cui affonda il coltello nella rappresentazione parodistica. Ma la sua presa di posizione è già in questa ferocia e nel grottesco che ne consegue, per cui la riprovazione morale risulta implicita al discorso: l’esosa tracotanza di chi non sa come spendere il denaro ha il necessario contraltare nello scandalo di chi non riesce nemmeno a sopravvivere. In tal senso I divini mondani è opera di impegno assolutamente complementare ai libri in cui Ottieri affronta e analizza il mondo delle fabbriche e delle lotte operaie, per i quali è meglio conosciuto al vasto pubblico.

Marco Onofrio

“L’incontro di Telgte”, di Günter Grass. Lettura critica

grass

Il romanzo L’incontro di Telgte (1979), di Günter Grass, comincia con una frase emblematica: «Ieri sarà quel che domani è stato». La storia, cioè, è sottoposta a un fluire irresistibile di eventi concatenati, che trasforma in “ieri” ogni “domani”. Grass capovolge questo univoco scorrere attribuendo il futuro al passato, o viceversa; per questo pone a soglia del libro la “cifra” storica incarnata nella sua stessa operazione narrativa: di un recente “ieri” (il 1947) fa un tempo remoto, affidandolo alle ricorrenze – eterne, e forse immutabili – della vicenda umana. Nella Germania sconvolta dalla catastrofe bellica, due giovani scrittori, Hans Werner Richter e Alfred Andersch, fondano a Monaco, nel 1946, la rivista “Der Ruf” (cioè “Il grido di richiamo”). La rivista viene presto bloccata dal governo militare americano, ma fa in tempo a proclamarsi organo della generazione dei reduci (da cui il romanzo cosiddetto “lemurico”, che rappresenta lo smarrimento e la disperazione dei prigionieri di guerra, traumatizzati da ciò che hanno visto e vissuto) e di chiunque creda in un’Europa socialista unita, sotto la guida di équipes intellettuali. Nel settembre del 1947 nasce intorno a Richter il “Gruppo 47”.

Ne L’incontro di Telgte Grass trasferisce l’esperienza (ormai trentennale) del “Gruppo 47” nella Germania del 1647, altrettanto provata dalla guerra dei Trent’anni. A Telgte si radunano i principali letterati del Barocco tedesco, in un fittizio incontro di fondazione che anticipa di tre secoli quello effettivo. Grass legge la storia in senso anti-hegeliano, come costante riprodursi delle medesime occasioni: gli esiti sono volta a volta diversi solo perché tutto è caos dominato dal caso, al di là dei patetici, disperati tentativi che l’uomo attua per imporre la misura di un “ordine”, che la forza stessa delle cose inesorabilmente scompone e poi dissolve, come i castelli di sabbia in riva al mare. Anche la mancata fondazione seicentesca del “Gruppo 47” è dovuta al caso, sotto forma di enigmatico incendio che distrugge la locanda della riunione e il manifesto politico tanto faticosamente stilato dai letterati. L’occasione perduta verrà appunto afferrata tre secoli dopo.

Ci sono almeno un paio di analogie profonde tra i due momenti storici indirettamente posti in parallelo (l’uno in controluce dell’altro): a) disunita è la Germania del 1647 (quando, sotto l’occupazione delle armate straniere, si prepara – con l’imminente pace di Westfalia – ad essere spezzettata in decine di principati autonomi) e disunita è la Germania del 1947 (quando dalle 4 zone di occupazione interalleata sta per scaturire l’irreparabile divisione in BDR e DDR, contro cui si oppongono invano, sulla rivista “Der Ruf”, Richter e soci); b) svilita è la lingua tedesca nel 1647 (i letterati barocchi ne lamentano l’imbarbarimento, dovuto all’invasione straniera) e svilita è la lingua tedesca nel 1947 (Wolfgang Weyrauch propone il “Kahlschlag”, cioè il “taglio del bosco”, per estirpare retorica e barbarie naziste). L’incontro a Telgte è un’occasione a un tempo culturale e politica: occorre contrapporre alla “Germania delle armi” la “Germania della cultura”, di coloro che custodiscono «l’ultimo legame rimasto»: la lingua-madre tedesca. Grass considera la Germania anzitutto un “concetto letterario”: «In ciascuno dei due Stati tedeschi è ormai rintracciabile una sola cosa unitariamente tedesca, che non si attiene ai confini: la letteratura». Da qui la sua proposta per una Fondazione Culturale Nazionale, con sede a Berlino, per abolire almeno in un punto l’avversario di tutte le culture: il muro. La Germania si può anche dividere; la cultura tedesca no.

L’incontro di Telgte mette in questione il rapporto sempre controverso tra intellettuali e potere, alla luce di una coscienza etica che impone loro di non restare indifferenti a quanto riguarda l’uomo, la storia, la società. Scrive Grass: «In fin dei conti s’erano radunati per questo. Bisognava farsi ascoltare. Se non reggimenti, potevano almeno mobilitare parole». Ma la ragione politica non ascolta le ragioni della cultura: «(…) ai poeti mancava ogni potere, salvo quello di metter giù parole giuste, sebbene inutili». Anche gli scrittori convenuti a Telgte sanno già, ancor prima di scriverlo, che il loro manifesto politico resterà lettera morta: tuttavia lo scrivono. «Perché allora rimanevano riuniti? (…) Anche per strappare all’impotenza un sommesso eppure». Gli scrittori, per Grass, sono i soggetti responsabili del processo di riforma civile e democratica della società. Spetta proprio a loro, infatti, la palma della dissidenza, e dell’opposizione a tutte le forme di potere totalitario – sia pure travestito da democrazia. Come nell’incontro del 1647, alle riunioni del “Gruppo 47” si leggono testi ancora inediti: l’autore, chiamato alla ribalta, legge i suoi testi e poi ascolta, senza diritto di replica, le critiche dell’assemblea. Il leader degli scrittori seicenteschi è Simon Dach; quello del “Gruppo 47” Hans Werner Richter, al cui 75° compleanno è dedicato L’incontro di Telgte. Grass si “nasconde” probabilmente dietro Grimmelshausen, grande narratore picaresco, al quale – fra tutti – può essere utilmente accostato per la scrittura ancorata al corpo e ai bisogni materiali; il cibo, infatti, ricorre in tutto il romanzo, servito nei convivi succulenti che, alternandosi alle dispute letterarie, uniscono il sapere al sapore entro un gustoso florilegio di consonanze.

Che cosa si portano a casa, i convenuti a Telgte, malgrado l’impotenza dinanzi alla storia e alla realtà? Quasi nulla; anzi no: un potere incomparabile e irriducibile. La certezza che lo spirito invisibile della scrittura, nessuno avrebbe mai potuto fermarlo o dominarlo: il pensiero umano non ha limiti. «D’ora in avanti ciascuno poteva sentirsi meno isolato. E chi a casa sua sentisse incombere l’oppressione del luogo ristretto, il prodursi di nuove sofferenze, l’inganno del falso splendore, la scomparsa della patria, costui doveva ricordarsi (…) di Telgte, dove il linguaggio aveva loro promesso vastità, ceduto splendore, sostituito la patria e dato un nome a ogni male di questo mondo. Nessun principe poteva uguagliarli. Il loro potere non era comperabile. E se si fosse voluto lapidarli, seppellirli sotto l’odio, dal pietrame sarebbe ancora sporta la mano con la penna».

Marco Onofrio