




Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.
I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.
C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».
Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.
Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.
Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.
È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.
C’è il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.
Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.
Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.
Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?
Sabino Caronia
Ideale viatico per la lettura di questo bellissimo patchwork di “percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei” (L’ultimo sorriso di Beatrice, EdiLet, 2020, pp. 272, Euro 17), scritti e raccolti da Sabino Caronia, potrebbe essere il «magistero di Leopardi, la sua parabola» che, come scrive Stefano Verdino, «consuma una disabitazione del mondo» realizzando «il suo senso drammatico della trasformazione, tra “vicissitudine e forma”, estrema naturalezza ed estrema coscienza critica, in vista di un indicibile traguardo metafisico». La Weltanschauung che presiede ai saggi di alta critica letteraria sapientemente assemblati nel volume, scaturisce da una frattura originaria. «Tutte le corde, sotto il plettro, si ruppero» canta un desolato D’Annunzio giovanile. L’Armonia dei tempi mitici si è spezzata per sempre, e con essa si sono disperse e dissolte le Grandi Narrazioni. La Verità non più data o rivelata come un dono da raccogliere, a guisa di perla dentro la conchiglia, ma demandata alla ricerca di ogni singolo individuo, escluso per sempre dalla pienezza di quella ancestrale contiguità. Lo snodo fondamentale del libro è, infatti, il rapporto tra verità e letteratura. Il problema della verità è quanto mai attuale, come sta drammaticamente mostrando il caos mediatico e cognitivo ingenerato dalla pandemia, in un mondo che la globalizzazione digitalizzata aveva già da decenni reso assai complesso e per molti versi incomprensibile. Come nota Cesare Cavalleri, il problema «non è conoscere le notizie, soprattutto quello che conta oggi è avere un filtro, dei setacci per orientarsi nel mare magnum dei fatti e delle informazioni». Che cos’è la verità? chiede Pilato a Cristo. E Cristo non risponde. Lo scrittore risponde con le opere, se intende il proprio operato come adempimento di una “vocazione religiosa” sia pure esercitata in ambito laico. Infatti, scrive Caronia, «si sarebbe tentati di rispondere» che la verità è la letteratura. Ma allora la letteratura è chiamata a farsi, e ad essere, verità. L’arte, in chiave metafisica e teologica, è verità per se stessa poiché tende di sua natura a superare i limiti, a rompere gli schemi, a rappresentare l’infinito e l’eterno. Se la verità è bellezza, la bellezza è anche – a sua volta – verità. Con le parole di Franz Kafka («La poesia è sempre e soltanto una spedizione in cerca della verità») e di Guillame Apollinaire («I poeti non sono soltanto gli uomini del bello ma anche e soprattutto gli uomini del vero»), vien fatto di rievocare il mito degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. A tal proposito, giova anche ricordare la doppia versione del mito di Orfeo, quale incantatore di fiere o, d’altro canto, ribelle sabotatore e annunciatore dello spirito tragico. Engaño y desengaño, ovvero: incanto (addormentare la coscienza vellicandola con cose dolci) e disincanto (pungere la coscienza per svegliarla e spingerla al cambiamento). Si potrebbero distinguere intere generazioni di artisti, assegnandoli a ciascuna delle due chiavi estetiche fondamentali. Tra le quali si barcamena il critico letterario, con il suo “triste mestiere” che, come nota Giacomo Debenedetti (sua la definizione), viene «scambiato per un servizio pubblico: peggio ancora, per un servizio privato ad uso della vanità di chi scrive e del tornaconto di chi pubblica», quando invece il critico «scrive per sé, per servire alla propria verità».
L’avventura intellettuale incarnata in questo libro può essere idealmente rappresentata dal seguente passo del romanzo Il Quinto Evangelio (1975), di Mario Pomilio, citato con altri intendimenti da Caronia a proposito dei libri di Stanislao Nievo: «Scopre soprattutto che in ogni epoca ci sono stati altri uomini, santi, eretici, ribelli, credenti e non credenti, che al pari di lui hanno speso la vita nella medesima ricerca. Attraverso le loro biografie ne vede riemergere le attese, le illusioni, l’evangelismo, le passioni, i dissensi, talora i drammi. E lui stesso, a contatto di tutto ciò, si trasforma: la sua ricerca, da filologica che era, diventa a poco a poco una ricerca religiosa, la sua avventura, da puramente scientifica, diventa un’avventura spirituale». È proprio così che accade al Caronia scrittore, specie nelle vesti di serio studioso e raffinato critico letterario, quale egli è. La fedeltà alla vita e alla sua eterna, complessa, inafferrabile polifonia. Come Salvatore Quasimodo: dalla “poetica della parola” alle “parole della vita”. «L’essenza della poesia», riconosce Caronia, «non esiste se non in quanto si cala nell’esistenza». Ecco dunque il suo metodo critico-biografico dove la pagina, come la vita, è appunto una polifonia che sintetizza echi da ogni tempo e luogo, con citazioni puntuali, appropriate e sempre “chirurgiche” (la prima qualità del critico è nella capacità di selezione). Tutto risulta utile, in teoria, all’analisi che si va costruendo man mano sulla pagina, con implicazione totale dell’uomo e del saggista: naturalmente i testi, consultati sempre di prima mano, e poi le biografie, i carteggi, le rassegne bibliografiche, i contesti storici, filosofici, scientifici, i mitologemi, i portati antropologici, i contenuti psicanalitici, ecc. Dall’insieme scaturisce un confronto assai fruttuoso di voci messe in dialogo. Un incontro costruttivo di esistenze, a cominciare dalla propria. La critica come autologia e scansione autobiografica: servirsi dei libri e degli autori come “specchi” per capire meglio se stessi e raggiungere la propria verità. Ecco spiegato perché Caronia entra in scena direttamente, facendosi deuteragonista delle cose di cui racconta e ragiona, mettendosi in gioco senza filtri. Si leggano, qui di seguito, alcuni esempi:
«Ricordo il mio primo incontro con Bassani, avvenuto il 7 aprile 1983 nell’Aula Magna del Convitto Nazionale, alla presenza del preside e degli alunni dell’Istituto magistrale Isabella d’Este di Tivoli.»;
«Sbarcato da un volo della British Airway all’aereoporto di Heathrow mi sto dirigendo verso la città in taxi ed osservo e a proposito della misura architettonica di quelle basse costruzioni come di un villaggio ai margini di un bosco mi vien fatto di richiamare le considerazioni dell’autore del Gattopardo in una sua lettera da Londra, datata 5 luglio 1927»;
«Ogni estate in bicicletta, da Terracina, percorro la vecchia Appia sulle orme di Paolo di Tarso, e, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla, arrivo a Fossanova e mi fermo proprio davanti alla chiesa di Santa Maria. Entro.»;
«Sappiamo che nel 1272 Tommaso è a Firenze in Santa Maria Novella dove Dante con ogni probabilità lo vede. Proprio la visione notturna di Santa Maria Novella, una sera, alla stazione di Firenze, di ritorno dall’ospedale di Pistoia dove, dopo l’ictus, era stato ricoverato mio padre, si collega per me alla figura di san Tommaso».
Un incrocio di ricordi, sguardi e prospettive che produce la scrittura in tessitura di umane presenze, riaffermando il valore umanistico della letteratura come vita, come esperienza continuamente verificabile, come palpito caldo di autentica conoscenza. Dalla parte dell’incanto gioca soprattutto l’esplorazione del Mito, tipica peraltro della scrittura (anche narrativa) di Caronia. Per esempio la nostalgia dannunziana dell’estate nella sua fase morente («E un’ansia repentina il cor m’assalse / per l’appressar dell’umido equinozio / che offusca l’oro delle piagge salse» – “La sabbia del tempo”, Alcyone) che corrisponde al rimpianto dell’Ellade perduta (l’uomo moderno depauperato della divina armonia), e quindi all’eco immemoriale di un’infanzia eterna, fuori dal tempo. Anche Quasimodo, scrive Nicola Cimmino, sogna talvolta «un mondo felice nel quale rifugiarsi fatto di dolci ricordi, di miti stagioni, di cieli profondi, di paesaggi infiniti, sogno che talora la vita rafforza con l’intensità del vissuto e il fulgore dell’amore». E così anche Luigi Santucci, quando rievoca l’inebriante profumo dei tigli che segnava, a giugno, la chiusura delle scuole e l’inizio della «cara estate delle vacanze». Prefigurazione di un substrato più profondo, dove si annida la nostalgia del paradiso prenatale, il regressus ad uterum verso l’impossibile rinascita, la strada interrotta che conduce al preformale, l’inconscio, la fluidità ancestrale del liquido amniotico. Ecco D’Annunzio, Luzi, Tomasi di Lampedusa, Santucci, e anche Aldo Moro (cui Caronia ha dedicato uno splendido romanzo), qui ricordato per la sua caratteristica “sindrome da scirocco”: «Abbiamo davanti agli occhi le foto di Moro nella “prigione del popolo”, quella espressione di stanchezza e di noia con un baluginare di ironia, quella piega dolceamara sul labbro, al margine sinistro della bocca, quello sguardo in cui era possibile leggere i segni di un male antico come gli uomini della sua terra. Era la sindrome da scirocco, la sensazione di una violenta e gratuita fuoruscita dalla monade, di un trapasso improvviso da una condizione di immobilità, la nostalgia di un tempo stabile, di una impossibile regressione, quella tentazione del grembo materno e della morte che rimanda al trauma originario, al trauma della nascita». Laggiù, in fondo a quella «luce di un ricordo lontano» (Corrado Alvaro), c’è la freschezza viva della matria, la patria perduta di terra e mare, dove vige – nella coincidenza orfica degli opposti – la dimensione panica della natura. È la mente estatica, la felice condizione di immersione nel grembo del mondo (culla e insieme tomba, questo è il mare) che Mario Luzi cattura in una similitudine indimenticabile: «come pesci in un’acqua luminosa». È il sentimento oceanico a cui Freud accenna ne “Il disagio della civiltà” e che, estratto dal contesto originario, può richiamare il naufragio cristiano nell’oceano sconfinato di Dio: sia nel rapimento dell’estasi, sia negli attimi estremi del trapasso. Quello intrauterino è uno «stato di grazia, uno stato estetico. Il feto, nel seno materno, nuota e danza nel liquido amniotico come una piccola foca, al ritmo del suo piccolo cuore e della musica cantilenante della voce materna, di cui gli giunge come una lontana, rassicurante vibrazione. In principio è la musica e la danza. Poi verrà la visione, l’immagine e la forma, di cui il seno materno resta un modello perfetto. E con la conoscenza avrà inizio il desiderio. Il desiderio desiderante, il desiderio originario, senza scopo e senza oggetto, scoprirà quindi a poco a poco la realtà del proprio desidero. Ma quella musica, quella danza lo perseguiterà per sempre, come un paradiso perduto».
Dalla parte del disincanto gioca la tensione conoscitiva alla verità. Ecco la linea narrativa Silone-Sciascia. L’umanesimo socialista e l’umanesimo cristiano chiamati a dialogare, ricercando insieme una possibilità di accordo sul terreno comune della coscienza critica e della dignità dell’uomo. Pietro Spina, il protagonista del romanzo di Silone “Vino e pane”, segna «la riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale moderna» per una «fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica». Insomma, «Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce», e la sua sofferenza «continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia». Viene anche evocata la differenza che Santucci segna tra il “così è” del regno di Dio e il “come se” del regno dell’uomo: «… il così è è il regno di Dio, la sua paterna prepotenza, il come se è il regno dell’uomo, la sua risorsa, la sua furbizia napoletana. Bisogna che lo freghiamo scombinando le sue regole; è la Sacra Scrittura a insegnarcelo: “Quelli che hanno moglie come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che possiedono come se non possedessero”…». Ecco quindi il tema-cardine della pace, strettamente legato a quelli della giustizia e della verità. Ma il libro è ricchissimo di prospettive che si aprono l’un l’altra lo scenario. Fra gli altri temi che emergono: la “teologia della tenerezza”; lo stupore, l’inesauribile meraviglia per tutto ciò che esiste; la scoperta dello straordinario nell’ordinario, da cui l’amore per le “piccole cose” che poi piccole non sono (come ad esempio le “cose belle” per Aldo Moro: «non erano altro che lunghi giorni sulla spiaggia a Terracina, notti in cui solo lui sapeva calmare i timori della figlia prediletta, e piccole avventure fatte di brevi scappatelle di padre e figlia insieme a prendere un gelato o un paio d’ore al cinema», sicché per qualche tempo, durante la prigionia, «aveva fantasticato di poter essere di nuovo a Terracina al ritorno della bella stagione, di camminare ancora sulla spiaggia con Luca e dare uno strattone a lui e al suo gommoncino»); le rondini per Mario Luzi (lo affascinavano come accordo esaltante di libertà e necessità, che nell’uomo invece sono in rapporto drammatico: vanno dove vogliono entro l’ordine loro assegnato dalla natura, che è quello di volare, e volare in quel modo); il tempo dell’anima, che è l’eternità; la bellezza in fuga (la grazia e il mistero sono sempre sul punto di scomparire, come scrive Cristina Campo, ma questo rende la percezione delle cose ancora più preziosa e struggente); la speranza, l’attesa di un “supplemento di rivelazione” che ci sveli finalmente ciò che non riusciamo a vedere con i nostri poveri occhi mortali, ecc.
Il libro, che ha anche il merito di riproporre all’attenzione autori validi e ingiustamente dimenticati, come appunto la Campo, Elio Fiore, Margherita Guidacci e Biagia Marniti, si articola in due sezioni, di dodici saggi ciascuna. Per la poesia il titolo scelto è “La ferita dell’essere”, che è un verso di Luzi, a significare il trauma che ci ha estromesso dalla contiguità con il mondo delle origini, ma anche la letteratura come risarcimento di uno scacco patito: quello stesso di nascere, oppure qualcosa che accade o purtroppo non accade nel corso dell’esistenza (per esempio la Commedia come compensazione dell’amore negato a Dante da Beatrice: lo slancio infinito verso la bellezza, del resto, ha tutte le caratteristiche di una pulsione inibita alla meta, Orfeo docet, ma si pensi anche al titolo del libro, allo struggente “ultimo sorriso” che segna il commiato eterno di Beatrice – Paradiso, 31, vv. 91-93: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana» – intorno a cui si intrattiene a riflettere Jorge Luis Borges e, sulle sue tracce, Caronia nel saggio conclusivo ed eponimo della raccolta). Per la narrativa il titolo è “Un atomo di verità”, tratto da una lettera di Moro a Riccardo Misasi: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e sarò perdente». Altro mondo, altra Italia. E riflessioni universali senza fine che il libro ci aiuta a recuperare, liberando «il senso vertiginoso, insondabile e metastorico della dimensione spirituale dell’uomo» (il «senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo») e riportando al centro del villaggio globale, ora purtroppo anche pandemico, la maestà della vita coi valori perenni, ormai obsoleti in questa società che guarda ottusamente solo all’utile immediato – da cui la celebre distinzione che Moro faceva tra “politico” e “statista”. «La perdita del sentimento del sacro, la scomparsa dell’uomo, l’eliminazione del “centro” della vita, come amava dire lo stesso Testori, e le parallele conseguenze, la sottomissione alla mentalità dominante, la moralità della vita pubblica, la schizofrenia caratterizzante i rapporti interpersonali», ecc. Scriveva Robert Musil: «L’uomo non c’è più, ne rimangono soltanto i sintomi». Ma sono sintomi nonostante tutto grandiosi e confortanti, aggiungo io, se la cultura è ancora in grado di generare libri straordinari come questo, grazie a cui Sabino Caronia si consacra ad autentico maestro della letteratura contemporanea, e non solo.
Marco Onofrio
Caro Marco, non meravigliarti, c’è sempre una prima volta, ed ecco una recensione in forma di epistola.
Caro, caro Marco, non t’aspettare elogi, sarai subissato da quelli che non appaiono nel tuo libro Novecento e oltre. Letteratura italiana di ieri e di oggi (EdiLet, 2020, pp. 416, Euro 23), che non sono esclusi, semplicemente non sono stati ancora studiati, forse non lo saranno mai o lo saranno presto, ma la canea si scatenerà e finiranno addirittura col mettere in giro la voce che non è possibile che una sola persona possa avere prodotto e continuare a produrre romanzi, poesia e saggistica in questa quantità e con la qualità che ti appartiene. C’è sicuramente il trucco, hai dei negretti al tuo comando che ti scrivono le opere. E se si fermeranno a questa diceria ti sarà andata anche bene, perché la canea in genere ha mentalità mafiosa e non va oltre il proprio cortile, riconosce solo gli adepti, le ballerine scritturate.
Hai avuto, dopo avere dato alle stampe altri dodici volumi di saggistica (dico dodici! tra cui le monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti e Giorgio Caproni), il coraggio di scrivere un libro di oltre quattrocento pagine in cui ragioni (voce del verbo ragionare e dopo avere fatte le letture, sia chiaro), nella prima parte, di quelli che hai chiamato “Preliminari”, cioè parli di Benedetto Croce, di Lessing, di Omero, delle tecnologie linguistiche, per passare alla seconda parte, cioè alle “Letture”, tutte puntuali! Ma davvero sei stato capace di ripercorrere un itinerario così denso, interessante e scelto con cura? Davvero hai avuto modo di leggere Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, il Futurismo, Mario Luzi, Calvino, Gadda, Tecchi, Bianciardi, Patti, Ottieri, Pasolini e Fellini? E poi le “Scoperte” e le “Riscoperte”, andando a pescare in Malaparte, in Manganelli, in Zavattini, in Dino Segre, in Luigi Fiorentino. Sei pazzo? Dovresti imparare che se alcuni autori vengono messi da parte, dimenticati, spesso cancellati, c’è una ragione del Potere, quale che sia, che ha interesse a mettere a tacere quegli scrittori, quei libri. Sei pazzo, come vuoi che il potere ti assecondi e ti batta le mani, ti faccia i complimenti? Le riscoperte si fanno per ragioni politiche, mica per ragioni estetiche o di merito. In letteratura il merito non conta più, ti prego, non dimenticarlo.
I guai grossi comunque li hai combinati nell’occuparti dei “Contemporanei”: Raffaello Utzeri, Sabino Caronia, Paolo Di Paolo, Lina Raus, Paolo Corradini, Francesco Sisinni…Temo che sarai sfidato a duello e se non accadrà, non tornare mai solo a casa a tarda notte, rischi la vita. No, non dire che sono pessimista, perché ho fatto una decina di telefonate oggi pomeriggio dicendo che avevo tra le mani “Novecento e oltre” e la sola domanda che mi è stata fatta, prima ancora che io dicessi della mia gioia di leggere pagine così profonde, criticamente limpide, frutto di letture vere e ponderate, è stata “Ma io ci sono?”. Ho sentito all’altro capo del telefono parole aspre, che non ti ripeto, e la cosa che mi ha fatto e mi fa ridere è che ognuna di queste persone ha perentoriamente detto, quasi con le medesime parole: “Ma come? Un libro sul Novecento non ha senso senza la mia presenza, è sicuramente un aborto”.
Ora, se gli aborti sono creature così ricche, agili e affascinanti come il tuo “Novecento” ben vengano per la felicità dei lettori che sono realmente interessati ai libri belli, che contano, che sanno dare la dimensione del futuro, della bellezza intesa come strumento per rigenerare il senso della vita. Posso dirti comunque che alcune di queste pagine non solo le ho lette, ma anche rilette, perché mi hanno portato a stagioni dei miei studi che mi hanno visto frugare e appassionarmi ai testi di Giuseppe Antonio Borgese, di Emilio Cecchi, di Giuseppe De Robertis, di Enrico Falqui, di Pietro Pancrazi, di Donato Valli, di Giovanni Titta Rosa, di Giacinto Spagnoletti, di Luigi Reina, per fare appena qualche nome, e che mi hanno insegnato a saper entrare con attenzione e passione nelle pagine degli scrittori perché li avevano realmente letti. Come hai fatto tu. Che poi si debba essere sempre d’accordo con quel che hai affermato è altra faccenda, perché nelle letture c’entrano anche il gusto, la formazione, la sensibilità.
Questo tuo “Novecento” potrà essere prezioso per gli studenti e per i professori, anche perché sono illuminanti le affermazioni fatte sulle questioni metodologiche, che non si fermano alle enunciazioni, alla teoria, ma danno esempi probanti sempre tratti direttamente dai testi. Per quel che vale la mia testimonianza ti do atto che hai scritto un libro necessario, importante per entrare a testa alta nel mondo dei libri che, me lo insegni, sono creature straordinarie se saputi trattare con umanità, con intelligenza e con eleganza. Ma torno a ricordarti che, proprio perché hai dimostrato di essere bravo, troverai sul tuo sentiero veleni d’ogni genere. Perché non sei stato un mediocre menestrello che spampina sentenze, e di cani e porci dice “è il più grande scrittore del secolo”. Avresti avuto battimani a non finire.
Hai voluto essere bravo? Peggio per te. Non dimenticare di rincasare presto ogni sera.
Dante Maffìa