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“Santa Maria delle Mole: i Sogni di un compleanno al Bibliopop – 11 febbraio 2023”. Cronaca della serata su Paconline.it, a cura di Maurizio Aversa

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Record di presenze al Bibliopop: oltre 50 partecipanti e sedie aggiunte per far accomodare tutti, ma qualche ritardatario ha dovuto assistere in piedi! Una serata memorabile di poesia, musica, rap: emozioni e riflessioni di alto profilo, viepiù nobilitate dallo scopo benefico che Marco Onofrio ha immaginato e realizzato per festeggiare il proprio compleanno con la performance de “La cenere dei Sogni”, già trionfalmente presentata alla Sala Lepanto di Palazzo Colonna, a Marino, il 4 agosto di due anni fa.

“La cenere dei Sogni” è un recital musicale tratto dall’opera di Onofrio che, tra i suoi 40 libri, ha riscosso finora il successo più evidente, ovvero il “poemetto di civile indignazione” dal titolo emblematico “Emporium”: emblematico nel senso di una denuncia vibrante e lucida del “profitto a tutti i costi” che ispira e informa quasi tutte le decisioni dell’economia contemporanea, anche in ambiti dove non dovrebbe avere neppure udienza. «L’indignazione» afferma Onofrio «nasce dal senso palpabile delle ingiustizie e delle sperequazioni che stanno consumando i margini del futuro, avvitando il pianeta in una crisi ecologica senza precedenti dovuta principalmente al fatto che il 10% della popolazione detiene e consuma il 90% della ricchezza totale. Il mondo-pattumiera (di macerie anche morali, oltre che di scorie fisiche) celebra il suo trionfo nella società tecnocratica che, senza parer di nulla, ci hanno edificato intorno da qualche decennio. Una società pensata e costruita appannaggio delle élites, gestita da un esercito di burocrati asserviti al potere dell’ingiustizia, subita dalla stragrande maggioranza dei popoli. Una società dove si viene valutati e gratificati per quello che si ha e si consuma, piuttosto che per quello che si è e si pensa. Infatti il potere non gradisce esseri autocoscienti e spiriti critici, ma automi ipnotizzati eterodiretti, dalle risposte automatiche agli stimoli indotti». Invece Onofrio vuole scuotere e svegliare le persone, spingendole al riscatto, alla ribellione. Detesta a tal punto le storture del mondo d’oggi da demolirle e analizzarle anche nel suo prossimo libro, di imminente pubblicazione, una raccolta di saggi storici, politici e sociali dal titolo, anch’esso emblematico, “Ricordi futuri”.

Per tornare alla bella serata dell’11 febbraio, la recitazione del poemetto, dopo le brevi introduzioni del presidente di Bibliopop, Sergio Santinelli, e della giornalista ed editrice Mariarita Pocino, scivolava fluida come un fiume incalzante di parole intercalate – con efficace contrappunto – dalle canzoni di Valerio Mattei, in arte Saman, coautore dell’omonimo CD “La cenere dei Sogni”, nonché da alcune musiche strumentali composte dallo stesso Onofrio e – per l’occasione – da quattro pezzi del rapper marinese Fra’ Sorrentino. I tre artisti si integravano magnificamente sulla scena, rappresentando in sintesi storica e culturale altrettante risposte generazionali (Onofrio è del ’71; Mattei del 1980; Fra’ Sorrentino addirittura del 2002!) allo stesso disagio condiviso, mentre sullo sfondo venivano proiettate dieci immagini in sequenza, a commento ulteriore dei diversi momenti dello spettacolo. Concluso il quale, dopo il lungo applauso dei presenti, la serata si è trasformata nella festa che già era, in effetti, però con toni più allegri e scanzonati. La festa di compleanno, appunto, di Marco Onofrio. Tolte le sedie e apparecchiati i tavoli, si è proceduto così alle degustazione del rinfresco offerto dal festeggiato, con pizza, porchetta, dolciumi e stuzzichini vari, fino all’apoteosi di una gustosissima matriciana, preparata da Santinelli, e della torta rituale, con l’immancabile “Tanti auguri a te” intonato da tutti. Valerio Mattei ha continuato a intrattenere i presenti, chitarra acustica e voce, suonando raffiche di canzoni dal repertorio americano, napoletano e romano. Insomma, un clima di gioia e amicizia sincera, all’insegna della fraternità nella cultura che è già tipica di Bibliopop.

Onofrio è stato particolarmente contento non solo per la riuscita dello spettacolo e i successivi festeggiamenti, ma anche perché – come da suo espresso desiderio – è riuscito a raccogliere una discreta sommetta per aiutare una famiglia del territorio in gravi difficoltà, e a tale scopo aveva esposto una scelta di titoli dalla sua produzione letteraria, che quasi tutti i presenti hanno acquistato con offerta libera. Grazie Marco, Bibliopop ti ammira, ti augura e si augura mille di queste serate!       

(a cura di Maurizio Aversa)

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“I cinque pilastri della stoltezza”, di Aldo Onorati. Lettura critica

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Con questo brillante e piacevole saggio (“I cinque pilastri della stoltezza”, Roma, Armando, 2003, pp. 125, Euro 12), Aldo Onorati – rovesciando un celebre titolo di Lawrence d’Arabia, “I sette pilastri della saggezza” (1922) – invita a riflettere sulla consistenza e la portanza strutturale del nostro edificio cognitivo: la Weltanshauung che plasma la cultura occidentale di cui siamo eredi e, insieme, parte attiva. Una cultura che, dopo Platone, si afferma e caratterizza come uso del sapere a vantaggio dell’uomo e a scapito del mondo circostante: attività manipolatrice che si incunea nella natura per trasformarla, antropizzarla, civilizzarla, rendendo man mano più sensibile il divario fra i “tempi storici” e i “tempi biologici” di cui parla l’ecologo Enzo Tiezzi in un libro fondamentale. La storia stessa nasce come distacco del tempo dell’uomo dal grande grembo del tempo della natura: una frattura che F. Nietzsche anelava a ricucire in ripristinata unità mediante lo “spirito dionisiaco”: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco», cito da “La nascita della tragedia” (1872), «non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente».

Il cammino della civiltà occidentale è infatti configurabile come un continuo e progressivo distacco dalla “physis”, e quindi dalla percezione stessa della natura primigenia e indistinta. L’homo sapiens sapiens, in cerca di terre sempre nuove da esplorare e colonizzare, si è armato di una sorta di corazza culturale, astratta e artificiosa, che lo rende estraneo e, per così dire, “indigesto” al grosso del mondo animale. Tra i molti miti dall’uomo elaborati, da brandire come torce o spade lungo il cammino senza fine verso Utòpia, c’è sicuramente quello più pericoloso, una sorta di dono ancipite – come il fuoco rubato da Prometeo, che riscalda, sì, ma che se sfugge al controllo può anche ridurre in cenere: il progresso.

Il progresso ha finito per diventare surrogato del dio che abbiamo perduto lungo la strada del nostro non trovarci più di casa a questo mondo, smarriti a nostra volta tra la nostalgia del “non più” e l’angoscia del “non ancora”. Scortato da una schiera di sentinelle mitiche, quali la Ragione, l’Intelligenza, la Civiltà (altrettanti squilli di tromba che il sapientissimo uomo, invischiato nel suo soliloquio, utilizza per autoincensarsi, per rimuovere la cattiva coscienza e per neutralizzare gli inquietanti segnali che, malgrado tutto, continua a mandargli da dentro la belva primordiale), nonché giustificato dal profitto economico (che non a caso viene elevato a sistema e promosso al rango di “etica” dal momento in cui, col Protestantesimo, viene meno il ruolo del sacerdote come intermediario tra al di qua e al di là), il progresso assurge a orizzonte e focus della scena, e, abbracciando la pretesa di auto-fondarsi come unica via praticabile, senza più interlocutori, libera tutto il suo potenziale distruttivo. La cultura e la “civilizzazione” tipiche della modernità si sono poste dunque a servizio di questo mito di conquista e colonizzazione eurocentrica, in un grandioso progetto che si risolve e accende nel progresso, laddove comincia e finisce la “grande corsa” dell’uomo occidentale. Che poi alle tentazioni eurocentriche siano subentrati i connotati informi di un mondo globalizzato “all’americana”, coi relativi squilibri, non cambia la sostanza delle cose: l’uomo continua noncurante a utilizzare il pianeta a mo’ di pattumiera, mentre il pianeta gli muore sotto i piedi minacciando di ucciderlo a sua volta.

Quali sono i falsi miti con cui l’homo sapiens sapiens ha puntellato il suo progetto di conquista del pianeta?
Eccoli:

1) che l’intelligenza sia prerogativa (esclusivamente) umana;
2) che l’uomo sia l’unico essere vivente dotato di razionalità (la dea Ragione);

3) che solo l’uomo abbia l’anima;
4) che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza di Dio;
5) che l’uomo sia il re del creato.

Questi i cinque pilastri della presunta “saggezza” individuati, attraverso la natura e la storia dell’uomo, come radice maligna della sua vocazione autodistruttiva. Onorati si diverte con riso amaro a rovesciarli, uno ad uno. Li smonta, dunque, e ne smaschera la fallacia con la forza della sua humanitas, cioè di una cultura nutrita di buon senso ed equilibrio, e non antagonistica, bensì accordata alla natura, in armonia con il Logos della vita, la legge interna delle cose. Non è un caso che a farlo sia un figlio e un testimone diretto della civiltà contadina, ormai fagocitata dai mostri del progresso: Onorati ha nel sangue il plasma di quella cultura che, lungi da ogni “oltracotanza”, aveva un senso naturale e pratico della realtà e, pur contemplando l’uomo come agente trasformatore della natura, faceva sì che la Terra potesse ancora tollerarlo come accidente sostenibile, nella misura in cui ingranaggio funzionale degli ecosistemi, e non come aberrazione o variabile impazzita. L’uomo un tempo sapeva per istinto quale fosse il suo posto all’interno della natura: aveva il senso naturale del limite, del posto a lui assegnato, oltre cui è pericoloso spingersi. Aldo Onorati è semplicemente uno che, a differenza di tanti suoi colleghi scrittori (ai quali la corona da re non basta neppure), ha il coraggio di affermare che “il re è nudo” poiché vestito di fumo e di nulla; e poi, non pago, cerca anche di scuoterlo, di urlargli in faccia per svegliarlo dal torpore. Ma l’uomo procede per forza d’inerzia, come un sonnambulo o un condannato, incontro a un destino che sta facendo di tutto per trasformare in fato. La società di massa, vero e proprio teatro dove il progresso, come nel ballo “Excelsior” d’inizio ’900, celebra e immola i propri trionfi, ha scisso e parcellizzato l’individuo, sia al di fuori sia all’interno: ciascuno di noi è una monade schizofrenica dentro un insieme di solitudini. Ogni individuo è un Io senza Noi. Abbiamo perso quell’identità collettiva di valori e di appartenenza che caratterizzava la civiltà preindustriale come una ben più umana e accogliente “comunità”. Una comunità è una società dove ciò che accade a uno riguarda tutti. Proprio perché non si sente più membro di una comunità, l’uomo oggi crede di potersi permettere la suprema idiozia di ridere mentre la nave di cui egli stesso è passeggero affonda: come il pazzo che, a chi gli domanda il motivo di quel riso, risponde: “Tanto la nave non è mia”. Né poi la generica appartenenza all’umanità è vissuta come reale “vincolo comunitario”: abbiamo ancora bisogno dei confini, dei campanilismi (se non ci sono, ne creiamo di sempre nuovi), e obbediamo inconsciamente al concetto, ormai superato, di “nazione sovrana”. L’umanità sta perpetrando il più assurdo ed efferato dei delitti: stiamo tradendo i nostri discendenti, impedendo loro di avere un futuro. Le conseguenze del nostro vivere “civilizzato”, infatti, non sono immediate. Peraltro il pianeta, avviluppato dal nostro gorgo e disturbato dalla nostra invadenza, sta assorbendo la frenesia convulsa dei tempi che gli imponiamo ogni giorno di più, snaturandolo e privandolo dei suoi delicati equilibri, per cui «quello che non è accaduto in millenni, oggi accade in decenni».

L’unica salvezza è riposta nell’ethos di una “morale cosmica” da acquisire con urgenza apocalittica: ognuno dovrebbe comportarsi come se il futuro di tutta l’umanità dipendesse da lui, da ogni singola scelta, dai gesti quotidiani. Agli scrittori è demandato il compito di costruire la “memoria del futuro”: non sterili cassandre o apocalittici profeti, ma attenti stimolatori delle coscienze e umili ricercatori della verità. È quanto si impegna a fare Onorati in questo libro che è insieme un grido d’allarme ecologico e una risposta filosofica al problema dell’esistenza. Opera che nasce da un bisogno di chiarificazione e ricapitolazione nei confronti anzitutto dell’uomo, inteso come «indecifrabile errore della natura» dove «ogni vizio capitale, ogni inganno, ogni limite, ogni obbrobrio risiedono (…) insieme a un misterioso congegno geniale e apparentemente libero che fanno di lui una meraviglia e insieme un mostro del creato mondo».

Onorati è mosso da una sincera ansia di verità. Egli avverte che questa in particolare è l’epoca dei simulacri, dei falsi miti: un’epoca di cecità, nel profluvio insipiente delle immagini; di solitudine e incomunicabilità, nel trionfo apparente della comunicazione; di stoltezza mascherata da sapienza. Infatti è più che possibile, anzi è probabile, che la verità si trovi altrove dai “luoghi comuni” deputati ad accoglierla: non può bastare, a colui che cerca il vero, l’inganno della forma. Per questo il sottotitolo del saggio è “considerazioni di un immorale”: Onorati è cosciente che il suo è un pensiero “ex lege”, che attraversa e oltrepassa il muro delle convenzioni, ponendosi liberamente “al di là del bene e del male”. Ecco allora che, scattando queste cinque fotografie all’uomo (come nota Bruno Benelli in Prefazione), il suo obiettivo penetra nell’essenza che la forma delle cose nasconde, alla ricerca del loro senso autentico. Il pensiero s’incunea nelle pieghe della realtà e si appunta alle sconnessioni dell’intelligenza, sempre affilando la sua lama sul «dubbio fecondo e l’umiltà salvifica» (così Onorati li definisce) – il che, fra l’altro, gli consente di evitare posizioni manichee, e lo rende immune da tentazioni facilmente censorie o moralistiche. Onorati sa benissimo, e lo scrive, che le cose sono molto più complesse di come appaiono, che «bene e male, menzogna e verità» sono mescolati e spesso indiscernibili nell’uomo: che ad esempio lo stesso progresso, che tanti squilibri procura, ha per altri versi recato innegabili e ormai irrinunziabili benefici alla qualità della nostra vita.

La Vita, infine, è il nucleo essenziale del saggio: un “miracolo” di cui Onorati si dichiara stupefatto ammiratore; la forza che tutto domina, infinitamente superiore alla tronfia ragione umana. Con questo libro egli leva una sorta di grande preghiera laica: un inno di lode in cui ama la natura fino alla commozione e celebra la vita nelle sue infinite, prodigiose manifestazioni. Allora forse la verità essenziale che Onorati cerca, fra tanti rumori di sottofondo, è la legge stessa del Logos, ovvero quella che nel libro è definita «necessità strutturale insita nella legge dell’esistenza»; ciò stesso che rende la vita una «unità inscindibile» e un caos pieno di armonia. La sola legge alla quale l’intelligenza umana, per ritrovare la sua giusta misura, dovrebbe affidarsi (con buona pace dei tanti “sapienti” oggi conclamati e pubblicamente riconosciuti) poiché, come scriveva Francesco Bacone, è soltanto obbedendole che l’uomo comanda la natura.

Marco Onofrio