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11 maggio 2023: esce “Ricordi futuri”, il nuovo libro di Marco Onofrio

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“Il roseto sul bunker”, di Italia Vitiello Izzo. Lettura critica

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Il romanzo “Il roseto sul bunker” (Europa Edizioni, 2022, pp. 198, Euro 14,90) configura un rapporto di continuità con le precedenti opere narrative di Italia Vitiello Izzo. Lo spettacolo della gente, l’eterna faccenda delle esistenze in gioco, i temi universali. Insomma, la scrittrice e biologa di origine salernitana pare costantemente appassionata alla scrittura del tempo, ovvero il tentativo quasi impossibile di ricostruire gli anni, i giorni, le ore e i minuti volati via per sempre, non prima di annodare le trame e lasciare le tracce da cui è formato il patrimonio storico che sostanzia la nostra identità; quindi, nella fattispecie, la ricognizione del Novecento in Italia, in particolare dagli anni della seconda guerra mondiale al boom economico attraverso le vicende esemplari di personaggi comuni “pedinati” nella loro evoluzione quotidiana. Occorre sempre distinguere tra un vero poetico, basato sulla rielaborazione dell’esperienza e sulla libertà dell’immaginazione (tesa al verosimile); e un vero storico, basato su fatti e documenti di pubblico dominio, che è il traliccio su cui l’autrice annoda le trame della sua scrittura. Da una parte la Storia con l’iniziale maiuscola; dall’altra le “storie” come gocce d’acqua che, unite nell’amalgama del tempo, compongono il mare. Ma sono proprio le storie ricostruite e immaginate dagli scrittori a restituirci il sapore autentico della grande Storia! Nei romanzi, così, troviamo atmosfere, aspetti e particolari su cui la storiografia ufficiale non può e non vuole soffermarsi. Per capire e “sentire” lo spirito del tempo che intride di unicità ogni epoca storica occorre anche e soprattutto leggere le opere narrative che di essa si nutrono, sostanziando le proprie intime ragioni. 

La narrativa vuole “edificare universi” (è il titolo della collana che ha accolto il romanzo) restituendo il lievito del vissuto, la sua inafferrabile sostanza di complessità. Lo scrittore di storie intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’esperienza ri-vissuta. La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: tutto è cadùco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che spetta alla storiografia o alla narrativa di impianto storico manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Il tempo viene sottratto all’oblio, cioè ricostruito e ripensato sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i narratori e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare. Scrive Vincenzo Cerami: «Nessun linguaggio è in grado di restituire nella sua complessità ed interezza il sistema di segni che forma l’immaginario umano. I linguaggi artistici, tentando di riprodurlo, creano una sorta di mitologia del reale, nella quale vanno a specchiarsi le cose segrete e rimosse del vivere». Naturalmente lo scrittore mette insieme tutto: impasta ciò che ha vissuto, o visto, o ascoltato con ciò che immagina, fantastica, sogna. In un romanzo la realtà viene oltrepassata, selezionata, modificata, in una parola: creativamente trasfigurata. La narrazione è come l’armadio che si descrive a p. 14, con «una serie di cassetti, cassettini e porticine segrete, in cui spesso Graziella [così come Italia, la nostra autrice, quando narra – NdR] andava a curiosare alla ricerca di qualche oggetto, di qualche documento, che svelasse qualcosa di sorprendente». Tale natura prismatica delle cose ben si attaglia a quella profonda delle persone e delle loro esistenze in continua evoluzione.

Italia Vitiello Izzo libera dalla polvere questi “italian graffiti” attraverso le storie di numerosi personaggi, soprattutto femminili, seguiti nelle loro vicende di resilienza distese nell’arco di periodi storici difficili o tragici come quelli da cui parte il romanzo, nel settembre 1943. Giorni terribili di bombardamenti (la scrittrice ci fa sentire nelle ossa «l’urlo della sirena che lacera il silenzio»), giorni di corse precipitose nei rifugi, di razionamenti, penuria, miseria, malattie, disperazione. Una condizione di estrema precarietà che abbiamo riattivato nella nostra coscienza con la pandemia, e ora con la guerra in corso. La dimensione corale che emerge dalla “scena” di queste storie, seguite e sviluppate in parallelo, non è mai anonima, ma originale e diversa in ogni voce: tutti i personaggi hanno la loro nota peculiare, la loro impronta distintiva che li fa emergere dalla folla e dalla nebbia del tempo. E appunto in parallelo ci sono gli eventi della grande Storia, citati “a latere” delle storie come motori nascosti o cause segrete delle vicissitudini individuali. E quindi, per esempio, l’armistizio di Cassibile del 3 settembre ’43, o le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre ’43). Si riflette soprattutto sul destino dei ragazzi di quegli anni, costretti a sbocciare e dissipare il fiore della loro giovinezza in un periodo di guerra. Poi il 1947, la vita che risorge dalle ceneri tra le immense macerie materiali e morali della guerra, con lo strascico infinito di ferite visibili e soprattutto invisibili (paure, angosce, traumi irrisolvibili, ossessioni). Il primo ritorno alla vita “normale” partorisce una visione un po’ più rosea del futuro e la speranza di un mondo migliore. E arrivano gli anni ’50, l’età dell’oro: «Un mondo stava cambiando ai loro occhi, ma intravvedevano ancora incerto il futuro». Ecco le festicciole e i balli in casa, le nuove istanze di «posizionamento sociale», l’accentuarsi dei contrasti tra città evolute e province arretrate, e la comparsa dei primi televisori con la fruizione comunitaria nei bar e nei circoli, raramente privata dato il costo elevato degli apparecchi. E infine gli anni ’60, con il boom economico che trasforma velocemente l’Italia da Paese agricolo a Paese industriale su base capitalistica e consumistica. Di quel periodo contraddittorio, ma felice e ricco di speranza, Italia Vitiello Izzo ci fa sentire l’energia come materia vitale, un misto di immaginazione creatrice, possibilità “aperta” di proiettarsi nel futuro e capacità di imporre la propria impronta sul corso delle cose. Il cambiamento non elimina, ovviamente, le sacche di arretratezza. Per esempio in questo tratto: «Nel mezzogiorno, permangono tradizioni familiari che tardano ad estinguersi. Le donne sono ancora in condizioni di totale subordinazione. L’uomo invece può godere di tutte le libertà». Ed ecco, ancora, le tracce della grande Storia: la “nuova frontiera” di John Kennedy per un «equilibrio tra le super potenze, non fondato più sulla sopraffazione, ma sulla democrazia e sui diritti civili». E il contatto visivo con un suo passaggio italiano: «Era il 2 luglio del 1963 e Mergellina trovò una folla in tripudio che agitava bandierine italiane e americane; il presidente Kennedy sfilava tra due ali di folla a bordo della Lincoln nera decappottabile e veniva accolto da un incontenibile entusiasmo popolare. Era abbronzato e in abito azzurro scuro». Un sogno mondiale che sarebbe tragicamente finito dopo qualche mese, il 22 novembre, con l’assassinio del presidente americano a Dallas. Ma i semi avrebbero dato i loro frutti, i nuovi scenari prefigurati dal progresso, dall’emancipazione di popoli e costumi. Ecco i movimenti giovanili, la contestazione globale, il femminismo, ecc.

Le cronache familiari sviluppate in questo libro accolgono una tessitura del quotidiano fatta di azioni minime, di pensieri che attraversano gli istanti, di cibi cucinati e mangiati, di confidenze, piccoli segreti, speranze, sogni, progetti, fantasticherie, trasfigurazioni infantili, palpiti, false promesse, delusioni… Su tutto aleggia un quid di inafferrabile struggimento, una sorta di “sunt lacrimae rerum” di virgiliana memoria, poiché il tempo – scultore delle cose e grande divoratore delle stesse – ha il «potere di cambiare nel profondo le persone» e allora «si trattava di mantenere in vita qualcosa di molto prezioso che sembrava spegnersi» resistendo alla realtà ma anche imparando ad accettarla, nuda e cruda, in tutta la sua dolce ferocia rivelatrice. Il tema dei temi è l’amore, l’eterna dimora del mondo: una casa fragile che va continuamente costruita e ricostruita, e noi siamo le pietre vive di questa costruzione. «L’amore, gli amori» scrive Italia Vitiello Izzo, costituiscono «l’essenza della vita; tutti gli amori, quelli veri, quelli traditi, quelli finiti». Lo snodo simbolico fondamentale è proprio il contrasto tra eros e thanatos, amore e morte, e quindi tra civiltà e barbarie nella misura in cui “amore” significa etimologicamente a-mors, cioè morte preceduta, negata e contenuta dall’alfa privativa, quindi: “senza morte”. Non a caso la guerra è l’opposto assoluto dell’amore, in quanto apoteosi dell’odio e della morte. La morte in verità non viene esorcizzata in questo libro: c’è ad esempio la malattia e la morte di Virginia e di Agnese; c’è la morte di Pietro, il padre di Celestina; c’è la morte per parto di Graziella… ma c’è anche la maternità felice di Vittoria; c’è il sospirato matrimonio di Celestina, c’è la sua prossima maternità che dissipa ombre, nostalgie e rimpianti («tutto cancellato grazie al potere della vita che portava in grembo»)… e insomma la Vita, sì, l’indomita volontà di vivere che trionfa su ogni tragedia, su ogni disperazione.

Di qui, la visione emblematica che dà il titolo al romanzo: «Quattro anni dopo, là dove una volta vi era stato il bunker, un’aiuola, delineata da mattoncini, racchiudeva un roseto variegato di tanti colori. (…) Il bunker era stato riempito e ricoperto di terriccio e sopra vi erano state interrate le piantine». La speranza del futuro è affidata a quelle tenere piantine da annaffiare e far crescere. Vorremmo che ogni bunker del mondo – e troppi ce ne sono! – fosse coperto da un roseto, ma sappiamo che non sarà possibile finché qualcuno continuerà a trarre vantaggi e profitti dalle guerre. E tuttavia, a questa potente immagine di vita possiamo ancorare il nostro contributo alla civiltà contro il pericolo sempre incombente della barbarie, oltre che il nostro sacrosanto desiderio di pace e felicità, tanto più sentito negli anni complicati che stiamo affrontando.    

     Marco Onofrio

“Pier Paolo Pasolini e il cinema”

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Magia, realismo, tragedia: sono questi i pilastri del cinema di Pasolini, e girano intorno al gorgo del “sacro”, nella doppia accezione di angelico e demoniaco, come vitalismo mitologico e oscuro fondamento sadomasochistico dell’amore. Il “sacro” è il guscio che vela e insieme svela il nucleo fondamentale della sua vis creativa: la morte. Tutta la sua Opera non è altro che un interminabile discorso sul problema della morte, sul lavoro del cordoglio, sull’elaborazione del lutto, sulla necessità di opporre strumenti culturali e simbolici alla sua ineluttabile irreversibilità. Pasolini ha un bisogno disperato e quasi doloroso di sincerità, che obbedisce alla pulsione vitalistica con cui vorrebbe non solo contrapporre alle fauci della morte una traccia durevole, ma anche scardinare le convenzioni ipocrite della borghesia e liberarsi dall’ombra del peccato. Se la società moderna è basata sulla menzogna, l’unica possibile felicità è tornare alle sorgenti sacre dell’essere, e quindi immergersi nella realtà pagana in cui – come gli antichi – vivono i sottoproletari: eros panico, forza fisica, gioia semplice di vivere. La capacità di danzare sul mondo con leggerezza, come farà Ninetto Davoli nei suoi film. È il paradiso perduto del Friuli che ha vissuto nell’infanzia e che poi ricerca a Roma, prima, e in Africa e Asia, poi. Ama e ricorda con nostalgia il mondo in cui è nato e cresciuto, il mondo contadino e artigiano preindustriale: ingenuità, candore, integrità, purezza, umiltà, lo “splendore” negli occhi della gente. Afferma Pasolini: “Detesto il mondo moderno, l’industrializzazione e le riforme. L’unica cosa che può contestare globalmente la realtà attuale è il passato”. Ecco la sua spinta regressiva (“Io sono una forza del passato…”) verso il modello antropologico dell’Italia contadina, certamente almeno in parte idealizzata alla luce mitica dei ricordi infantili. Il consumismo, secondo lui, è un fascismo peggiore di quello storico, che era totalitario ma non totalizzante.

L’Italia, all’alba degli anni ’60, passa troppo rapidamente da Paese sottosviluppato a sviluppato, e perde la propria identità. Come recita Ugo Tognazzi in “Porcile” (1969), da quel momento “non ci sarà più traccia di cultura umanistica e gli uomini non avranno più problemi di coscienza”. Conterà solo il denaro, tra accumulo e consumo, cioè (come scrive Pasolini in “Petrolio”) “il peccato dell’arricchire, del possedere, dell’avanzare, del raggiungere: tutte cose che si fanno tragicamente sempre contro la propria coscienza e contro la libertà altrui”. In altre parole: il progresso borghese della civiltà tecnologica e tecnocratica garantita dal neocapitalismo. L’omologazione colonizza le coscienze di tutti, anche dei sottoproletari che aspirano a diventare borghesi: non a caso i media irradiano l’edonismo “di massa”. Questo non solo travia la naiveté degli umili, snaturandoli per sempre, ma produce il genocidio delle culture autoctone, determinando una mutazione antropologica dei popoli. Pasolini, da intellettuale “no global” ante litteram, sviluppa il suo discorso – anche cinematografico – nella dialettica tra spinta progressista (dove incardina la sua vocazione pedagogica, e quindi l’impostazione marxista del suo “comunismo sentimentale”: si pensi al docu-film “La rabbia”, 1963) e nostalgia regressiva (dove convoglia le pulsioni irrazionali della poesia decadente). Il cristianesimo in generale e il problema della morte in particolare possono mediare questi due versanti. Pasolini gioca la sua opera tra Storia e Mito, cioè demitizzazione da una parte e destorificazione dell’altra, con tutte le possibilità di coesistenza, se non di intreccio e contaminazione. Ha uno sguardo razionale e storicistico nell’interpretare il mondo e farne cadere gli idoli; idoli che d’altra parte adora, perché è forte in lui la componente mitica e irrazionale.

Quindi il rapporto tra Storia e Mito. Pasolini scrive per ricercare il senso profondo della realtà. Nell’avventura di questa ricerca giunge sempre al problema ultimo, al “muro della terra” di dantesca e caproniana memoria: l’“altro” irreducibile che è nel mistero del mondo. Lì si esce dalla storia unilineare dell’Occidente, e la ragione finalmente tace: è il nòcciolo non demistificabile. Pasolini è affascinato dai sottoproletari perché nella loro innocenza barbarica essi possiedono il mistero del mondo, anzi sono quel mistero, lo vivono in modo naturale, autentico e felice. Per questo sono “benedetti da Dio”. Ecco la loro umiltà ascetica, analoga alle società protocristiane, e dunque la loro inconsapevole carica rivoluzionaria. I borghesi invece hanno ucciso il sacro con la superbia e l’arroganza del loro edonismo: sono morti dentro e vivono un’esistenza inautentica tra le sbarre invisibili delle loro prigioni dorate.

L’ansia di verità che informa il messianismo ontologico di Pasolini lo porta a non accontentarsi della scrittura tradizionale: a un certo punto la parola non gli basta più. Ecco il cinema come stadio finale del realismo simbolico, strumento per demolire l’ultimo diaframma tra natura e linguaggio. Già nei libri la parola voleva coincidere con la cosa: ora l’immagine è la cosa, la esprime in modo più diretto ed eloquente. Lo stile vuole essere la vita: catturare tutta la vita nella sua immediatezza. Del cinema di Pasolini restano celebri i piani-sequenza che gli consentono di riavvicinare il cinema alla vita, facendone “linguaggio della realtà”. Nelle sue “Osservazioni sul piano-sequenza” (raccolte in “Empirismo eretico”) egli ragiona sul fatto che “il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire (un infinito piano-sequenza soggettivo che finisce con la fine della nostra vita)”.

Scriverà in una poesia del ‘71, “Res sunt nomina”:

C’è al mondo una macchina che non per nulla si chiama da presa.
Essa è il “Mangiarealtà”, o l’“Occhio-Bocca”, come volete.
Non si limita a guardare Joaquim con suo padre e sua madre nella Favela.
Lo guarda e lo riproduce.
Lo parla per mezzo di lui stesso e dei suoi genitori.

L’obiettivo cinematografico è il “siero della verità”, cioè lo strumento per tirare fuori l’essenza nascosta delle cose, alle quali aderisce direttamente poiché rappresenta la realtà attraverso la realtà stessa. Il cinema amplifica e approfondisce il potere ontologico della poesia come rivelazione. C’è unità profonda tra il Pasolini regista e poeta: il cinema gli consente di diventare, per così dire, “bilingue”. Infatti si parlerà, per i film di Pasolini, di “cinema di poesia”. Cinema di poesia significa cinema denudato, ridotto all’osso, essenziale; significa lettura critica della realtà e possibilità di ricavarne simboli di grande potenza evocativa, in contrapposizione al cinema di “consumo” e di intrattenimento, che addormenta le coscienze; significa infine afflato religioso, mistero, irrazionalità, importanza dei silenzi (che conducono fuori dalla dimensione storica della parola convenzionale) e dei dialoghi muti attraverso l’intensità degli occhi e degli sguardi.

Pasolini entra nel mondo del cinema grazie a Federico Fellini. I due si conoscono di persona nel 1957. Ricorda Fellini: “L’appuntamento era al bar Canova, a piazza del Popolo. Lo vidi arrivare e mi sembrò subito molto simpatico con quella sua faccetta impolverata, da muratorello, una faccetta da proletario, da peso gallo, da pugile di borgata. Accettò la proposta di collaborazione con entusiasmo, una qualità che me lo rese subito familiare. Era un uomo generoso, immediato. (…) aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta (…) e una sorta di dolcezza ferita, un fascino misterioso e segreto”. Il temperamento di Pasolini è infatti malinconico: lo circonda sempre una “bolla di vetro” dove si chiude – in silenzio – per proteggersi dal mondo. Deve appunto riempire questo vuoto con la sua disperata vitalità, il bisogno insaziabile di esperienza (mosso da una trascinante curiosità per ogni cosa) che traduce con l’assillo indemoniato dell’eros anonimo, la fame dei corpi e il richiamo dei vagabondaggi notturni. Cooptato da Fellini, a cui mostra i “gironi infernali” della Roma maledetta, le borgate, i luoghi delle “storie scellerate”, Pasolini sviluppa con Sergio Citti i dialoghi romaneschi per “Le notti di Cabiria” (1957). Ma il vero battesimo cinematografico è sul set de “La dolce vita” (1960), dove viene convocato come consulente e sceneggiatore non accreditato. Lì, immerso nella “bella confusione” del set felliniano, capisce la potenza simbolica e anche provocatoria del mezzo cinematografico. E acquisisce subito le tecniche per sprigionare il suo talento: “Quando ho girato Accattone” ricorderà anni dopo “era la prima volta che toccavo una m.d.p. (…) Mi diverto molto, è un gioco meraviglioso (…) In un quarto d’ora si impara tutto”. Davvero sorprendenti e straordinari i risultati ottenuti fin da subito, partendo da zero, anche nella capacità di guidare attori professionisti e non professionisti, traendone il meglio e perfino ciò che non sanno di avere.

Nel cinema Pasolini trova la sua idea di linguaggio del mito e del sacro, ossia in grado di rappresentare ciò che vi è di “ontologicamente poetico” nel reale. Il cinema può cogliere la sacralità fondamentale che emerge dai fenomeni, giungendo dunque al “mistero ontologico” delle cose.

“Tutto è santo”: il discorso mitopoietico del centauro Chirone (Laurent Terzieff)

Grazie al cinema il suo sguardo raggiunge il gorgo dove si annida il “problema della morte”, che è ineludibile per lui. Al contrario di come recita Orson Welles ne “La ricotta” quando dice: “Come marxista [la morte] è un fatto che non prendo in considerazione”. In realtà a Pasolini il materialismo storico non basta. Ma neppure il cristianesimo. Roma, anzi, lo scristianizza, lo “scafa”, lo libera dal senso torturante del peccato, emancipa la sua omosessualità. Nelle borgate vige un paganesimo stoico-epicureo: “il sesso, non la religione; l’onore, non la morale”. Pasolini rifiuta il cattolicesimo perché è la religione dei borghesi. L’ortodossia cattolica de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), benché splendido e intensissimo film, rappresenta un opportunistico “concordato” con la Chiesa del Concilio Vaticano II, tramite la “Pro Civitate Christiana” di Assisi: Pasolini ha bisogno di “riabilitarsi” dopo i processi per oscenità, blasfemia e vilipendio della religione, ottenendo margini di libertà futura.   

La morte ricorre continuamente nei film di Pasolini – spesso violenta e/o imposta per esecuzione, quasi sempre sacrificale (sul modello cristico) o addirittura cannibalistica (in “Porcile”) – perché lui la avverte “necessaria” per la conoscenza autentica, sia in chi muore e sia in chi resta. Finché siamo vivi, cioè fluidi e in divenire, nessuno potrà conoscerci davvero poiché manchiamo di senso definitivo: invece, come riflette Pasolini, “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”. Viene in mente il “complesso della mummia” di André Bazin, cioè il tentativo di vincere la morte grazie a un calco fotografico o cinematografico dell’apparente, prima che svanisca. L’imbalsamazione degli egizi, la Sacra Sindone, le foto dei defunti. Il cinema per Pasolini è un viaggio verso la morte, cioè di avvicinamento alla verità. Come l’itinerario di Accattone (Sergio Citti) attraverso la polvere e il fango della borgata: sfida la morte tuffandosi per scommessa nel Tevere; si auto-seppellisce nella sabbia del fiume; sogna il proprio funerale; e infine muore fracassandosi con la motocicletta contro un camion, inseguito dalle guardie dopo un furto. Anche quello di Ettore (Ettore Garofolo) in “Mamma Roma” (1962) è un itinerario cristico, fatale e necessario: muore legato su un letto di contenzione, in una indimenticabile scena “pittorica” ispirata a Mantegna, Masaccio e Caravaggio. Stracci (Mario Cipriani), protagonista del cortometraggio “La ricotta” (1963), interpreta il ladrone in un set cinematografico caotico e profano: in una pausa delle riprese mangia così tanta ricotta che muore davvero, per indigestione, sulla croce. In “Uccellacci e uccellini” (1966) la morte tocca al corvo, che rappresenta l’ideologia marxista: viene ucciso e mangiato da Totò e Ninetto.

Dopo il 1966 Pasolini sembra nutrire una sfiducia definitiva nella ragione e nella politica, e allora sfoga il disinganno nel mito e nell’irrazionale. Ecco gli inferi mediterranei del mito greco, esplorati in film che grondano morte: direttamente con “Edipo re” (1967) e “Medea” (1969); indirettamente con “Appunti per un’Orestiade africana” (1970). Il visitatore divino di “Teorema” (1968) fa irrompere il sacro – cioè il Caos primigenio e incalcolabile – nella vita di una famiglia borghese che invece si fonda sul calcolo materialistico: il risultato è che tutti impazziscono, l’invito a trasformarsi li dispera e li distrugge. Il sacro resta precluso ai borghesi, ma è immediato e positivo negli umili: la serva Emilia (Laura Betti) è l’unica ad accogliere il dono, diventa santa e fa miracoli. Anche il giovane borghese Julian di “Porcile” entra in catalessi e sembra un Cristo in croce dinanzi alla perturbante opzione del conoscersi, che per qualche tempo lo mette in crisi. Ma l’universo del potere e del consumo è così “orrendo” che l’innocenza, come in Edipo, torna ad essere colpa: “gli innocenti saranno condannati perché non hanno più il diritto di esserlo”, e così Riccetto (Ninetto Davoli) muore fulminato da Dio alla fine di Via Nazionale, attraversata bighellonando a partire da Piazza Esedra, nel cortometraggio “La sequenza del fiore di carta” (1969).

Il problema della morte impronta persino il dittico tragicomico dei cortometraggi “La terra vista dalla luna” (1967) e “Che cosa sono le nuvole?” (1968). La morte non è una lacerazione definitiva (infatti “essere morti o essere vivi è la stessa cosa”) se Assurdina Caì (Silvana Mangano) vive a casa anche dopo morta. In “Che cosa sono le nuvole?” la morte segna addirittura un miglioramento di stato. Le marionette vive, per conoscere la realtà, devono prima “morire” e uscire dal teatrino delle illusioni, sottraendosi al dominio del burattinaio. Quando il mondezzaio Domenico Modugno viene a prenderli e li carica sul camion, Totò e Ninetto inizialmente gridano per la paura, e sono spasimi che assomigliano a vagiti: stanno per rinascere a nuova vita. Gettati nella discarica, scoprono finalmente la “straziante meravigliosa bellezza del creato”. Totò, che così pronuncia la sua ultima battuta nella storia del cinema, si abbandona sospirando a tale bellezza, come Accattone che morendo dice “Mo’ sto bene”.

La morte è liberazione e rivelazione, perché ci mette per sempre di fronte al sacro, al suo mistero tremendo e affascinante. Il problema della morte sembra attenuarsi nella cosiddetta “trilogia della vita” (“Il Decameron”, 1971; “I racconti di Canterbury”, 1972; “Il fiore delle Mille e una notte”, 1974) dove il sesso, vissuto in modo vitalistico, libero e gioioso, diventa equivalente dell’esperienza sacra. Ma è l’ultima fiammata prima della cenere di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), dove un ritualismo sadomasochistico e funereo sconsacra definitivamente il campo con l’allegoria della mercificazione dei corpi attuata dal potere. A quel punto viene meno anche la possibilità di un sistema “duale” di coesistenza tra i poli psichici e culturali del mondo barbarico e del mondo tecnologico, che Pasolini aveva vagheggiato ragionando, in “Appunti per un’Orestiade africana”, sulla trasformazione ateniese delle Erinni in Eumenidi: “ci sono solo opposizioni inconciliabili” osserva con orrore negli ultimi mesi del ’75. È proprio questo insuperabile muro contro muro ad averne decretato l’omicidio politico in cui e per cui venne massacrato all’idroscalo di Ostia, nella notte tra i santi e i morti di quell’anno.    

Marco Onofrio

Riflessioni sul carcere (non) “rieducativo”

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Il film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), di Nanni Loy, con Alberto Sordi magnifico protagonista, mi procura ogni volta che lo vedo un senso vivo e straziante di angoscia, rabbia, indignazione. Anche perché il pensiero corre subito alla scandalosa detenzione (1983-1985) del povero Enzo Tortora, completamente estraneo ai fatti di camorra che gli vennero imputati, di cui il film rappresenta (col senno di poi) una specie di inquietante presagio. E, attraverso Tortora, il pensiero raggiunge tutti gli innocenti che scontano ingiustamente una pena e a cui è stata distrutta l’esistenza. Chissà quanti ce ne sono! E ripeto tra me, con sicura convinzione: “mille volte meglio un assassino libero che un innocente in galera”. Il film di Loy e il “caso Tortora” dimostrano che l’abominio giudiziario è una spada di Damocle sospesa sul capo di ognuno di noi: può accadere a chiunque, da un momento all’altro, di ritrovarsi coinvolto per errore in loschi affari, accusato per omonimia, vendetta, diffamazione, o designato a capro espiatorio (come accadde a Pino Pelosi, condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini) quale anello debole di una storia molto più grande del singolo individuo, dove i veri colpevoli sono tutelati dal potere.

Guai a restare intrappolati nei pachidermici ingranaggi della macchina giudiziaria: il rischio di venirne schiacciati è altissimo. Le leggi sono spesso ingiuste, le procedure lente, i disguidi, le omissioni e gli insabbiamenti all’ordine del giorno. È una macchina che, quando parte per la sua inerzia, sembra difficilmente governabile: non la guida infatti Dike, con la bellezza della sua forza ideale, ma Anànke, con la sua implacabile determinazione, cioè la ragion di stato che non guarda in faccia nessuno e ha il volto osceno della storia, oltre che la voce stridula della burocrazia. Non è solo la limitazione della libertà a prostrare i detenuti, ma anche il peso di questa violenza silenziosa che muove le spire stritolanti della legge, e la riprovazione sociale che, fin dallo stato di fermo, ricade sul “colpevole”, vero o presunto che sia. Anche l’ombra di un sospetto e la gente, per non compromettersi, gli farà il vuoto intorno: ecco perché basta pochissimo a rovinare la vita di una persona.

Eppure nell’articolo 27 della Costituzione c’è scritto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E poi, quand’anche condannato, egli è un soggetto da guadagnare al consesso civile con opportuna opera di reinserimento. Lo stesso articolo recita fra l’altro che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma allora perché i carceri sono agli antipodi della rieducazione? Inferni di sovraffollamento; di violenze esercitate in segreto dalle guardie carcerarie sui detenuti e tra gli stessi detenuti, per gerarchie interne e vendette collaterali; di infinite umiliazioni quotidiane. Non siamo più ai tempi di Oscar Wilde, quando scriveva – reduce dalla detenzione per sodomia e volgare indecenza – La ballata del carcere di Reading (1898):

A prison wall was round us both,
Two outcast men we were:
The world had thrust us from its heart,
And God from out His care:
And the iron gin that waits for Sin
Had caught us in its snare.

(Il muro della prigione ci circondava,
noi non eravamo che reietti:
il mondo ci ha cacciato dal suo cuore,
e Dio dalla Sua carità:
e la trappola di ferro che attende il Peccato
ci aveva catturati nella sua rete).

E ancora:

We were as men who through a fen
Of filthy darkness grope:
We did not dare to breathe a prayer,
Or to give our anguish scope:
Something was dead in each of us,
And what was dead was Hope.


(Sembravamo uomini che annaspano
in una palude tristemente oscura:
non osavamo sussurrare una preghiera
o dare sfogo alla nostra angoscia:
qualcosa era morto dentro di noi,
e ad esser morta era la Speranza).

Sono trascorsi oltre cento anni, ma lo stato pietoso dei carceri non sembra cambiato granché. La detenzione produce, anziché rieducarlo, il peggioramento dell’individuo e il regresso di almeno un grado della sua moralità: perciò, se entra onesto, esce delinquente; se entra delinquente, esce criminale; se entra criminale, esce mostro. In carcere si sta troppo male e si impara a delinquere, o a delinquere “meglio”. C’è una specie di rinunzia “a priori” nel tentativo di rieducazione: i detenuti sono lasciati in balia di se stessi, a insegnare l’un l’altro, e non certo l’onestà ma le tecniche professionali di delinquenza. Questa “scuola di perfezionamento al contrario” fa sì che ogni volta che un recidivo torna in carcere per scontare una nuova pena, lo Stato civile ratifichi una ulteriore sconfitta nella propria capacità di rieducazione penitenziaria.

Ora, alcune domande sorgono spontanee: che cosa impedisce, in concreto, la costruzione di nuovi carceri o, almeno, il miglioramento di quelli esistenti? Quale interesse c’è a renderli o mantenerli fatiscenti e invivibili? Perché si preferisce piuttosto svuotarli dall’eccesso di detenuti con periodici indulti, che liberano per le pubbliche vie delinquenti pericolosi, tutt’altro che redenti o pentiti? Perché non si ricorda che la pena del detenuto è già la sottrazione della sua libertà fondamentale (pena terribile, se solo ci si ferma a riflettere), e che dunque non c’è bisogno di aggiungere sadicamente un surplus di sofferenza legato alle condizioni in cui quella libertà esigua e residua dovrà essere vissuta? Qualcuno potrebbe ironizzare facendo notare che le persone cosiddette libere, in realtà libere non sono, e che allora c’è bisogno di distinguerle ulteriormente dai detenuti attraverso un inasprimento punitivo dell’esperienza carceraria; ma io risponderei che non è il caso di ironizzare, perché c’è una differenza enorme e reale tra la libertà di chi sta fuori e quella di chi sta dentro, come ben sa chiunque in carcere ci sia stato davvero, anche un solo giorno. La “punizione” deve coincidere con la “pena” da scontare, che a sua volta prevede solo la sottrazione della libertà, non anche la trasformazione dell’esistenza quotidiana in un inferno. Dove sta scritto che questo debba accadere? E ancora: perché in Italia si parla sempre di stadi inadeguati da ricostruire, e non si invoca la stessa necessità per i carceri? D’accordo, il calcio come valvola di sfogo per tenere buono il popolo-bue; ma, sulla scorta dei decenni, qualcosa si potrebbe fare anche per i detenuti, che forse vengono trascurati dalla politica perché hanno accesso limitatissimo al diritto di voto (1 su 10 può esercitarlo), e soprattutto perché sono consumatori di serie C, forzatamente esclusi dal libero flusso delle merci e degli acquisti (per esempio dalle “liturgie” familiari nei centri commerciali) che tanto importa ai governi e alle istituzioni. I politici potrebbero interessarsi di come sopravvivono i detenuti solo se avessero realmente a cuore, come peraltro giurano, il bene comune e il miglioramento della società: ecco perché fingono di interessarsi.  

I carceri dovrebbero essere rimodellati in “case circondariali di esperienza” dove utilizzare in chiave evolutiva le vicende di chi ha sbagliato, come fattori di crescita umana. Consentire e incoraggiare un dialogo costante dei detenuti con il resto della comunità. Farli sentire importanti invitando ciascuno di loro a raccontare la propria storia e ascoltandola con sincera attenzione, offrendo persino l’opportunità di scriverci un libro con la supervisione di un editor, e poi di pubblicarlo a quattro mani. Farli vivere in luoghi per l’appunto vivibili, cioè spaziosi e accoglienti, seppure sobri e razionali, dove sciogliere la tenebra dell’uomo in luce umanistica di redenzione. Luce e aria, anzitutto, per curare le ferite interiori e sociali che li hanno portati a delinquere. Non un progetto utopistico di parole vuote, ma qualcosa di concretamente realizzabile mettendo a frutto la cultura, e quindi organizzando proficuamente la settimana dei detenuti con un calendario fitto di incontri, di scambi, di lezioni, di gare. Il detenuto sconterà la sua pena studiando, imparando nozioni e mestieri, liberando energie nello sport. Affiancato e assistito da una equipe di umanisti a 360°, psicologi, pedagogisti, insegnanti, musicisti, scrittori, artigiani, cuochi, allenatori, ecc., sui quali naturalmente investire risorse statali che, altrettanto naturalmente, risulteranno di sicuro irreperibili non per penuria di fondi, ma perché manca la reale volontà di risolvere il problema. I detenuti vivono in condizioni penose? E lasciamoli marcire! Del resto, sono o non sono la feccia della società? Hanno o non hanno commesso crimini? Così, il comune benpensante nelle chiacchiere da bar. Così, il politico comune nei suoi veri pensieri. Però poi si lamentano (o tempora, o mores) che la società è trista e malata. Ma allora perché continuare a parlare ipocritamente di “rieducazione del condannato”? Perché non cancellare l’articolo della Costituzione? Che cosa si fa, in concreto, per ottemperarvi? Quanti laureati in Lettere, ad esempio, potrebbero trovare impiego nei carceri per tirare fuori il meglio dai detenuti e innescare in loro un “circolo virtuoso” con cui disinnescare quello vizioso che li spinge a peggiorare? Quanto potrebbero invece migliorare, e con loro l’intera società, se fossero incentivati (anche per fini di buona condotta e relativo sconto di pena) a personalizzare un “piano educativo di riabilitazione” tra le molteplici proposte offerte dall’istituto penitenziario? Se il detenuto, una volta scontata la pena, torna a delinquere, siamo sicuri che è solo perché delinquente incallito, o non anche e soprattutto perché la società non ha saputo né voluto riaccoglierlo come meritava? Quante “recidive” verrebbero meno se il detenuto si sentisse davvero apprezzato e valorizzato come persona umana, durante l’esperienza carceraria? E se poi si smettesse di trattarlo come detenuto a vita, ergastolano “de facto”, anche dopo che ha saldato il debito con la legge e la società?

Proprio l’ingiustizia di questa macchia indelebile, e il cerchio conseguente di gelo e sospetto che continua ad aleggiare intorno al detenuto tornato libero cittadino, sono a mio dire perniciosi nel debilitare ulteriormente la sua fragile psiche e scoraggiare tutti i “buoni propositi” con cui vorrebbe e potrebbe diventare un cittadino onesto come gli altri. Lo scoraggiamento è premessa di caduta e ricaduta: non credere più in se stessi e in un possibile futuro, porta qualsiasi uomo (non solo l’ex detenuto) a buttarsi via, in un processo irreversibile di autodistruzione. I detenuti vanno nutriti di speranza in carcere, e poi concretamente reintegrati quanto tornano liberi. Non li si lasci allo sbaraglio: ci dev’essere un lavoro che li attende all’uscita dal carcere, e un assistente sociale che li seguirà nei primi mesi. Ai migliori di loro, a quelli cioè che si sono più distinti nel percorso evolutivo di riabilitazione, affiderei ad esempio la tutela di un monumento o di un bene culturale, con funzioni di custodia e di guida turistica per visitatori e/o comitive. Non per buonismo pietoso di facciata, oggi tanto in voga, ma per meriti acquisiti nel dimostrarsi degni di quella funzione e nel voler contribuire sinceramente al miglioramento della società. Chi meglio di un ex detenuto risorto dai propri peccati ha la credibilità e i titoli per farlo?         

Marco Onofrio

Italia, crocevia di popoli

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L’identità civile di un Paese – ovvero il patrimonio stesso della sua vicenda storica, delle sue manifestazioni caratteristiche, delle sue istituzioni culturali – è inevitabilmente condizionata dalla conformazione geografica del territorio racchiuso entro i suoi confini. I confini, a loro volta, si conformano al vario evolversi degli accadimenti storici e politici. Non sempre, peraltro, i confini geografici corrispondono a quelli segnatamente politici. Nel caso dell’Italia, tale corrispondenza è connotata da una necessità – starei per dire vocazione – assolutamente naturale, considerando il mare che ne avvolge e bagna gli oltre 8000 km di coste, e le catene montuose che ne cingono, a mo’ di corona, le estremità settentrionali. Inoltre, la stessa caratteristica forma a stivale fa del nostro Paese un’entità geografica particolarmente definita e riconoscibile (anche ad altitudini satellitari). Il linguaggio silenzioso del suo “corpo” fisico dice: “sono una terra di incontri e scambi, un ponte naturale tra i popoli”. La penisola si protende in tutta la sua lunghezza verso il cuore assolato del Mediterraneo, mettendo in comunicazione spazio-temporale mondi fra loro diversissimi come quelli dell’Europa continentale e del Nordafrica. Ma è soprattutto la posizione centrale nel mondo mediterraneo che, da sempre, ne fa un crocevia obbligato. Non solo tra Nord e Sud, ma anche tra Oriente e Occidente d’Europa: a segnare lo spartiacque, il punto di separazione (e quindi anche di contatto) fra queste stesse definizioni geografiche, storiche e culturali. Per capire quanto, basterebbe guardare indietro, alla storia che rende il nostro Paese, non a caso e a dispetto della sua non strabiliante estensione geografica, ricchissimo di “passaggi” e testimonianze, detentore, com’è, del 70% del patrimonio artistico e culturale censito ad oggi nel mondo. Si pensi per esempio ai Greci che, colonizzandone le coste meridionali (quella che venne poi chiamata “Magna Grecia”), vedevano nell’Italia una sorta di “America” ante litteram, di nuova frontiera occidentale: uno spazio di libera espansione.

Ma è solo con l’Impero ecumenico e mediterraneo creato dai Romani che l’Italia poté rivelare appieno la propria organica vocazione internazionale, il proprio respiro multietnico. L’Impero apportò innegabili benefici a tutti i popoli “romanizzati”, concedendo loro la “pax romana”, promuovendo una maggior regolarità e giustizia nell’amministrazione della cosa pubblica, garantendo leggi più sicure, agevolando la fioritura delle città, permettendo alle attività economiche di espandersi in un unico organismo di straordinaria ampiezza, insomma: inquadrando in compagine unitaria tutti i Paesi del Mediterraneo. Era un crogiolo di genti, culture e lingue che dialogavano, legate da una coesistenza non sempre pacifica, ma comunque effettiva. 

Per diversi secoli Roma riuscì a far convivere mondi eterogenei sotto le insegne dell’aquila imperiale. Poi, con l’indebolimento del potere centrale, accentuato da una progressiva e sempre più sensibile differenziazione tra Oriente e Occidente, il puzzle cominciò a disgregarsi, a perdere tasselli. La differenza tra le due zone dell’Impero, anche quando non ancora ratificata a livello giuridico, prendeva corpo anzitutto dal punto di vista economico e politico: sicché, mentre in Occidente i traffici ristagnavano e la gente impoveriva, sommersa da tasse sempre più esose, in Oriente perdurava il controllo di province ricche come Egitto e Siria, mediante cui avevano luogo gli scambi col mondo mesopotamico e con la valle dell’Indo; e mentre in Occidente il potere civile era ormai alla mercé dei comandanti dell’esercito (spesso di origine barbarica), in un avvicendarsi caotico che spesso rasentava l’anarchia, in Oriente l’imperatore manteneva ancora saldo il controllo dell’amministrazione e solida la propria autonomia dinanzi ai vertici del corpo militare. Tale superiorità dell’Oriente venne di fatto riconosciuta allorché, nel 330 d.C., Costantino decise di trasferire la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio, ribattezzata in suo onore Costantinopoli. La ratifica avvenne con l’assegnazione, da parte di Teodosio, dell’Occidente e dell’Oriente rispettivamente ai figli Onorio e Arcadio (394 d.C.). L’Impero d’Occidente, sconvolto da una situazione caotica e minato gravemente nelle sue strutture, non poté resistere a lungo alla pressione sempre più incontenibile dei Barbari. Roma finì con l’essere saccheggiata (dai Visigoti di Alarico, nel 410 d.C., e dai Vandali di Genserico, nel 455 d.C.), mentre l’Impero d’Occidente si avviava convulsamente alla caduta, che si materializzò, infine, allorché Romolo Augustolo fu deposto dal barbaro Odoacre (476 d.C.). L’Impero d’Oriente, invece, forte di una cultura scaturita dalla sintesi della tradizione ellenistica e della civiltà romana, poté sopravvivere alla marea delle invasioni barbariche e, mantenendo intatto il suo splendore, esercitare ancora per molti secoli (fino al 1453) la sua importante funzione storica. La cultura orientale, peraltro, già da secoli aveva improntato di sé il mondo romano, ad esempio con il fascino dei riti misterici, con la diffusione del Cristianesimo (poi religione di Stato), e con il fastoso modello teocratico, adottato da parecchi imperatori.

A valutare quanto l’Italia sia stata fin da tempi antichi ponte e crocevia tra Oriente e Occidente, basterebbe esaminare la storia e le vestigia di città come Ravenna (dove Onorio trasferì, nel 402 d.C., la capitale dell’Impero) o come Venezia e, in genere, delle coste bagnate dall’Adriatico (vero e proprio “cuscinetto” tra due mondi), dirimpetto alla sponda levantina. Sempre da Oriente giungevano i pirati saraceni, per compiere le loro scorrerie lungo le guardinghe coste italiane; mentre in direzione opposta si mossero i Crociati per la conquista della Terra santa, e i viaggiatori come Marco Polo, per la scoperta di nuovi mondi.  L’Italia è piena delle tracce dei popoli passati sul suo territorio, avvicendandosi – secolo dopo secolo – al dominio delle sue genti. Terra di conquista e di guerre, sì, ma anche di incontri, dialoghi, viaggi (fu meta immancabile del Grand Tour). Senza scomodare Roma, sistema vivente di tutte le sue innumerevoli rovine, basti pensare ai mille volti che connotano una città significativa come Palermo: fenicia per le origini, greca per il nome, romana per i mosaici di Villa Bonanno, araba per alcune chiese eredi delle moschee, sveva per le tombe degli Hohenstaufen, francese per i monumenti angioini e borbonici, spagnola per le architetture memori dei tre secoli di governo vicereale… In una sola parola: “italiana”. Già, perché è proprio dell’Italia, ovvero congeniale alla sua natura profonda, alla sua storia, questo essere crogiolo e memoria di civiltà eterogenee, attrattevi dal diverso favore delle circostanze e dall’inevitabilità, per così dire, della sua posizione geografica. L’unità d’Italia (1861) sovrappose una vernice di coesione politica all’estrema frammentazione storica del nostro territorio, che, nel suo sviluppo, aveva proceduto per “sacche” autonome e spesso incomunicabili, da regione a regione e, spesso, da zona a zona. Anche se la scolarizzazione diffusa e la prepotente invasività dei media tendono a omologare il costume nazionale (in senso europeo ed occidentale globalizzato), eliminando le differenze più vistose e macroscopiche, un siciliano e un piemontese, ad esempio, sono ancora oggi molto diversi, quanto a mentalità, cultura, modo di intendere la vita. Esiste tuttavia una comune e condivisa “identità italiana”: un quid che nasce dalla nostra stessa storia, e che ci rende “popolo” (nazionale di calcio e lingua a parte). 

Proprio per questa vocazione mediterranea e multietnica – che fa degli Italiani, tra le altre cose, un popolo di “navigatori” – il nostro Paese è in grado di porsi e proporsi come mediatore di incontri, come risolutore di controversie internazionali, come operatore di pace. È nel DNA storico dell’Italia tale imprinting umanistico: l’apertura ai principi democratici del dialogo, dell’accoglienza, della tolleranza, che rendono il nostro Paese quanto mai atto ad agevolare l’incontro e lo scambio osmotico fra popoli e culture anche profondamente diversi. Ed è in grado di farlo senza perdere nulla della propria identità culturale: proprio perché è questa l’identità culturale in cui gli Italiani possono meglio riconoscersi, la civiltà congeniale alla loro natura. Pertanto, risultano estranee all’ethos italico più autentico – oltre che speciose e pretestuose – le manifestazioni di xenofobia, intolleranza razziale ed esasperato nazionalismo che spesso accompagnano il pur delicato processo di integrazione, conseguente ai flussi migratori di cui è oggetto fra gli altri il nostro Paese, ormai da decenni, da parte di cittadini extracomunitari in cerca di lavoro e di fortuna. Non c’è dubbio che le dinamiche di accoglienza dei migranti – ancorché incondizionate dal punto di vista umanitario, specie nel primo soccorso, tanto più che l’Italia ha salde radici cristiane – dovrebbero essere regolamentate in ragione delle effettive possibilità di integrazione nel nostro tessuto economico e sociale, anche in sinergia con gli altri membri dell’Unione Europea, i quali dal canto loro non possono demandare all’Italia, solo perché protesa nel Mediterraneo, tutto l’onere di sostenere l’impatto del fenomeno migratorio, anche e soprattutto dopo le doverose e sacrosante pratiche di “prima accoglienza”. Ciò per un duplice ordine di motivi fondamentali: 1) sulla migrazione umana non deve speculare nessuno, né le mafie, né i politici, né le ONG, né gli imprenditori disposti allo sfruttamento; 2) i migranti non lasciano i loro Paesi di origine, affrontando il mare a rischio della vita, per poi continuare a fare i profughi, emarginati e disadattati, anche nel cosiddetto “primo mondo”, o diventare mano d’opera a basso costo, o essere cooptati dalla criminalità e ritrovarsi a delinquere.

Una cosa è certa: se l’Africa fosse degli africani, se cioè non fosse stata depredata negli ultimi secoli dall’Europa e dal suo rapace imperialismo, oggi sarebbe forse (e toglierei forse) il primo continente del pianeta, il più ricco e autonomo, e milioni di persone non avrebbero bisogno disperato di migrare; accadrebbe, semmai, il contrario. Ricordiamoci di quando eravamo noi, pezzenti e malnutriti, a migrare nelle Americhe e negli altri Paesi europei!         

Marco Onofrio        

“La Biblioteca di Alessandria”, di Dante Maffìa. Lettura critica (anteprima del saggio “L’officina del mondo”, di prossima pubblicazione)

È l’indiscusso capolavoro tra i capolavori poetici di Maffìa, la sua opera più breve, distillata, assoluta. La verità storica di un fatto accaduto nell’antichità (l’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto) che segnò la tragedia della cultura classica e la fine irrecuperabile di tanti testi, rivive 20 secoli dopo nella ricostruzione immaginaria ma verosimile di un poeta contemporaneo, appunto Maffìa, che coglie con intuizione geniale l’opportunità di innestarvi retrospettivamente l’essenza del futuro rifiorito e maturato dopo quella catastrofe. Prova ne sia, ad esempio, il “modello Spoon River” adottato (come già ne Lo specchio della mente) per entrare direttamente in medias res – senza veli retorici o inutili giri di parole – attraverso quattordici “confessioni” postume, sotto forma di testimonianze in prima persona da parte di scrittori immaginari che persero nel rogo le proprie opere. I nomi fittizi e intercambiabili hanno la stessa valenza del milite ignoto: rappresentano tutti la stessa figura simbolica fondamentale, sono tutti lo stesso “scrittore” (una sorta di macro-autore collettivo) al di là delle possibili differenze originarie. E questo passato immenso, filtrato alla luce del suo futuro – via via, fino al nostro presente – è indicativo di come Maffìa consideri le epoche tutte contemporanee e reciprocamente inscritte, come cerchi concentrici in perenne dialogo; al punto che ogni attimo contiene il passato che lo precede e, simultaneamente, il futuro che lo seguirà. Ecco perché la sua poesia tende al «canto perenne, che insegue la memoria e sfida la morte e l’oblio», come scrive magnificamente Mario Specchio in Prefazione.  

Tutto ormai è compiuto: gli scrittori parlano dall’eternità, ricordando un fatto che nessuno – neanche una divinità – potrebbe cancellare e far sì che non sia accaduto. L’incendio è metafora della barbarie sempre incombente nella civiltà, ovvero della furia devastatrice che può scatenarsi ogni momento nella vita e nella storia, minacciando «l’uomo e la sua sopravvivenza» (Specchio). L’ammonimento continuo da un lato eleva la cultura come baluardo da opporre al caos; dall’altro incita la cultura a imparare dalla natura e – in ultima analisi – a risolversi in essa, così come fa Maffìa nelle sue pagine dolenti ma limpide e immediate, senza perdersi negli acquitrini dell’erudizione (di cui, dato il tema, c’era il rischio concreto). Infatti, come dice a un certo punto Lemmonio Minasica, «saranno eliminate, non avere dubbi, / soltanto le opere prive di vita, le altre / saranno il perenne fluire / della vita nelle parole». 

Un potentissimo versante simbolico dell’opera è quello relativo alla dissolvenza, all’imbuto del tempo che fa della storia universale una vicenda infinita di sparizioni, ablazioni, rimescolamenti, «città sparite» che «cadute nell’ombra s’impastano / a nuvole» dentro l’inarrestabile metamorfosi del mondo. Ecco la pietra tombale del silenzio, la protervia dell’orrore, la «libidine del Nulla e dell’Assenza», la tenebra dopo gli squarci di luce e la «crapula del Niente». Che cosa resta di tante voci, di tante storie, di tante civiltà? Sparisce tutto? Sembra di sì: «La Storia è finita nei tombini delle stelle, / non ha più bocca e ventre». L’inceneritore cosmico in cui l’Essere si auto-fagocita per rinascere e riprodursi, continuamente nuovo, non smette neanche un attimo di funzionare. L’emorragia è perenne, qualunque voce viene divorata dal silenzio: «il suono avvampa rapinoso e scende / nel mare sinuoso del non detto. / Un giorno tutti saremo nel non detto / esile orma d’un pensiero spento». Eppure quel «fiume straripante d’immagini e d’idee» che fu l’esistenza vissuta e perduta può ricomporsi, come in un «sordo borbottare» negli «avanzi dei ricordi» che ognuno degli scrittori, per così dire convocati in scena, può testimoniare dal proprio punto di vista. Per esempio nel “Controcanto” che anticipa le 14 apparizioni:

Nel cuore del giorno s’aprì un diluviare
di fiamme e scardinò le porte. In un lampo
morirono tutti, custodi e lettori,
carbonizzati i topi, i lepismi ed i ragni
.

Oppure Casibulo Deondenes (il terzo della sequenza):

Il fuggi fuggi. Chi usciva coi tomi
veniva fiondato da una freccia e cadeva
sulla soglia. Quanti morti coi rotoli in mano
avvolti dall’odore della pergamena.
Il rosso crepitare impestò l’aria
per giorni e giorni
.

O Zacosio Bifrantos (il quarto), che rivive tutto come allora:

Vedo. Io vedo. Le fiamme gridano
sbavando senza ritegno fino all’ultimo piano
.

O Remunero Stagistocos (il sesto):

L’acqua
arrivò troppo tardi, non ci fu scampo
(…).

La costante che accomuna queste voci è il rimpianto eterno per le opere perdute (il dramma sarebbe stato meno atroce dopo l’invenzione della stampa e la riproducibilità tecnica dei testi), di cui «ancora / nel fondo dei mari le sirene piangono», e quindi il tentativo disperato di riscrivere le pagine a memoria, che portò anche ad esiti fatali:

Per mesi ho poi tentato
di tornare a scrivere, alla fine ho deciso: una dose
di cianuro
. (Animosos Cautelo)

O comunque irreversibili:

Io invece
sono morto ebete a forza di tentare
di riscrivere ogni opera capitolo per capitolo
. (Efrito Cacasipulos)

Un’altra costante è la consapevolezza della scrittura come unica ragione di vita:

Senza i miei libri
niente aveva più senso
. (Animosos Cautelo)

E ancora:

Non ero mai esistito. Senza i miei libri
ero niente
. (Casibulo Deondenes)

La biblioteca divorata dal fuoco non allude soltanto alla fine dell’umanesimo, sempre possibile come rischio e realmente sperimentata da noi contemporanei, così come dagli antichi che vi assistettero e ne subirono le conseguenze («Da quel giorno il trionfo dello zero! / (…) distrutta ogni patria, / ogni pensiero, distrutte le pietre miliari»), ma è anche simbolo profondo della cultura assorbita da Maffìa (migliaia di libri letti, studiati, vissuti e fatti carne) per estrarne un lievito di naturalezza così illuminante da far sembrare la scrittura un “evento” della vita che si compie. Non a caso, identificandosi con gli scrittori che vissero quella tragedia e con ciò che provarono e vengono a raccontare, Maffìa può affidare alle loro parole alcune confessioni indirette (e forse involontarie) di poetica, particolarmente rivelatrici del suo universo creativo ed umano:

(…) ero riuscito a scandagliare / le ragioni del possibile e avevo saputo / sulle tracce dei padri innestare il futuro. / Ogni mio verso un grido degli dei / che amplificava la vita e allontanava la morte. / (…) nei miei versi cresceva l’infinito.

Storie / che mi nascevano da dentro, / mi tendevano agguati o gridavano / tenerezza e volevano diventare / specchio del mondo, anima che vive.  

Nei miei libri era la sintesi del senso, / il seme della crescita che apre / albe infinite.

Per decenni infaticabilmente, ricercando, / scrivendo e riscrivendo, distillando carte / infinitamente, scavando nel passato, / dentro di me, arrivando a scalfire il segreto / dell’eternità e del mistero / (…) Io distrassi molte cose dalla morte / (…).

Sono cose che dicono i vari scrittori, ma in realtà le dice Maffìa: anzitutto a se stesso. Chiedersi dove le fiamme hanno portato le parole che erano scritte sulle pergamene equivale a chiedersi «quali segreti / si nascondono nel guado delle stelle». Gli scrittori e i loro ricordi, che Maffìa resuscita dall’oblio, son diventati parte dell’eternità, anzi: si sono mescolati al mondo, sono «anima del vento che non si ferma mai, / sostanza d’azzurro, linfa delle piante». Questo perché “Giubilo della rinascita perenne” potrebbe essere il titolo di tutti i suoi titoli; e «si riparte, si riparte sempre» il logos della forza universale, il motto stesso della Fenice che risorge dalle ceneri, dopo il grande fuoco. Il sogno dell’uomo è interminabile, si autoalimenta e si rafforza con le sue cadute e le sue momentanee sconfitte: «Non finirà la promessa della renovatio». E allora i libri di Alessandria, così come miliardi d’altre cose, non sono andati perduti ma appartengono alla memoria del mondo: «sono custoditi / nel mio cuore che li rubò a una stella» perché in realtà

Non si perde mai nulla.  

Marco Onofrio
(dal saggio inedito L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa,
di prossima pubblicazione)

 

“Azzurro esiguo” letto da Francesca Farina (sul blog “Poetarum Silva”, 25 maggio 2021)

Azzurro esiguo cop-2

https://poetarumsilva.com/2021/05/25/marco-onofrio-azzurro-esiguo/

Fin dal titolo, come ha giustamente notato Dante Maffia nella prefazione alle poesie di Marco Onofrio, questa silloge si contraddistingue per l’assoluta originalità del dettato, tanto da suscitare, con l’evidente ossimoro che recita Azzurro esiguo, sconcerto e meraviglia nello stesso momento, sconcerto a causa dell’apparente inconciliabilità dei termini, in quanto ben difficilmente si può dare un “azzurro”, se inteso come cielo, che sia “esiguo”, ovvero modesto, scarso (ma il perché sarà spiegato, come in un plot a soluzione, nella poesia in chiusura del volume), essendo caratteristica precipua della volta celeste quella di essere immensa, ossia incommensurabile per definizione; e meraviglia per l’audace accostamento dei due termini. Si impone al lettore, e dunque al critico, l’urgenza di un immediato ripensamento del dato scientifico, oltreché visivo, universalmente assodato, e si sottopone a verifica una verità provata e inconfutata.
  Eppure il poeta dall’occhio acuminato, dalla vista dei sensi, oltreché dei sentimenti, più aguzza di qualsiasi altra creatura, riesce a distinguere cose che raramente si notano, e così avviene anche nelle sue poesie, le quali si snodano lungo le fitte pagine del libro, dove, quasi percorrendo una scala tonale, ovvero una vertiginosa ascesa verso l’abisso dell’universo e del cuore, l’autore insegue, tappa dopo tappa, e vorremmo dire gradino dopo gradino, le sue verità, il senso profondo dell’esistenza umana. Già dall’incipit Onofrio si interroga sull’essenza del suono, che è vita, ricostruendo le primordiali sensazioni che il corpo percepisce, ancora prima della nascita, emozioni espresse in sintagmi che registrano lo stupore di fronte all’assoluto mistero della creazione, e si procede quindi con l’incessante ricerca del montaliano “varco”, il quale pone la finitezza materiale dell’uomo a contatto e a contrasto con l’infinitezza immateriale dell’eterno.
  Siamo appena alla seconda lirica, ma ci appare netto il carattere filosofico dell’indagine poetica perché emergono decisamente le domande basilari, a partire dalla perenne analisi della “verità più vera” che provoca tristezza e disperazione, rendendoci persuasi dell’assoluto che permea ogni esistenza, ossia la morte, la quale non può che generare la voragine che è in noi. Il mistero dell’insondabile tutto opprime irrimediabilmente l’anima, costringendo l’essere umano ad interrogarsi sul significato delle “scritture incomprensibili”, che nel fondo del cosmo scorrono come su uno sterminato schermo, diremmo, senza lasciarsi decifrare, mentre la Storia trasforma assiduamente i luoghi, gli eventi, le creature, e mentre il tempo si fa eternità incalcolabile e incancellabile. Quale essere inafferrabile e incomprensibile decide ogni più minuzioso aspetto del reale? L’incessante quesito non ottiene risposta, forse da un milione di anni, benché da un milione di anni, probabilmente, l’uomo non cessi di rivolgerlo a se stesso e ai suoi sodali, nel vano tentativo di trovare una ragione nel caos inconoscibile del mondo, dove perfino “l’eco di una goccia” riesce a scardinare, impercettibilmente ma inesorabilmente, l’ordine della Natura, l’apparente rigidità del suolo sottoposto al gelo invernale, generando il rigoglio primaverile e una gioia esuberante nelle vene del poeta, quando “l’aria squillante di sole / mi piove dentro l’anima / e mi cura”, secondo un suo passo altamente ispirato, e l’amore invade le sue fibre più intime.
  Egli non smette dunque di interrogarsi, volgendosi “grato” all’incommensurabile bellezza del pianeta, non pago di studiarne gli aspetti più affascinanti, il cielo, il sole, il mare, il tempo, il silenzio, fino ad approdare a un testo fatto quasi da aforismi, distici in realtà, quei “9 passi” che scandiscono, come un ritmo sonoro e immediato (ma sappiamo quanto occorra meditare per pervenire a certe illuminazioni sensoriali e intellettive) la pagina, arricchendola di significati e costringendoci a fermarci e a riflettere insieme all’autore.
  La lirica intitolata “Respira” sembra rispondere all’esigenza assoluta che, in tempi di pandemia, sebbene scritta assai prima che esplodesse la peste mondiale che ci devasta, ha travolto l’intera specie umana, quella di poter sopravvivere oltre la malattia, la nuova tabe che sta deturpando tutte le nazioni della Terra, mentre l’ossigeno pare essere la sostanza più rara e più essenziale, e allora il poeta celebra “l’amore sconfinato della vita” in versi che sono sintagmi misteriosissimi, colmi di una conoscenza ancestrale, esaltando la poesia come grande consolatrice e la bellezza come “balsamo sublime”, sottraendoci al vuoto che ci minaccia da ogni parte, decretando la grandezza del pensiero che si oppone al nulla, rifugiandosi al tempo stesso nella felicità delle piccole cose, grande verità sapienziale che sovente non sappiamo cogliere, glorificando infine l’incommensurabile vastità dell’amore tra uomo e donna.
   La narrazione, estremamente precisa e nello stesso momento intuitiva, del rapporto tra due esseri che si uniscono inscindibilmente nel corpo e nell’anima, ci fa precipitare nell’estasi del piacere più ineffabile che sia dato alle creature e ci rende consapevoli, benché quasi obnubilati, di fronte a tanto incanto. I magnifici e fondamentali temi che assediano da sempre l’umanità tornano a tormentare la mente e il cuore di Onofrio, come in “Trascendenza” o in “Rivelazioni” dove lo smarrimento si fa quasi tangibile, come anche nella commemorazione, tutt’altro che retorica, della madre, indescrivibile ma eterno quid, cuore di ogni cuore, organo pulsante che si compenetra con gli elementi della Natura in un unicum preziosissimo e inscindibile. Al tempo stesso notiamo la singolarità di brani di prosa poetica, come quello intitolato “Stella verdognola”, dove ancora e ancora, incessantemente, il poeta canta l’inafferrabilità pressoché divina dell’essenza dell’uomo, della vita, del creato, anelando in modo struggente a penetrarne il senso, quindi desublimandosi nelle “Ombre” che occultano la conoscenza, poiché l’oscurità cieca dell’intelletto appare quale “verità insensata”.
  La consolazione del mare, del tramonto, delle nuvole, in uno scenario marino davvero pittorico come un dipinto di Hopper, l’artista che seppe ritrarre il silenzio del mondo, ci riconduce alla straziante bellezza di un paesaggio mediterraneo, con la perfetta descrizione di un istante di pura meraviglia, di estatica attesa. L’autore confessa inesorabilmente un amore lacerante nei confronti dell’elemento marino, quasi fosse una divinità fatta d’acqua, da adorare e a cui rendere perenne gratitudine, benedicendola, nella lirica ad esso intitolata, così come scioglie un peana assiduo e appassionato in lode al piacere, che rende vivida e lucente ogni cosa; o come osserva i gabbiani, tema spesso abusato e banalizzato in poesia, dei quali pare conoscere ogni movimento, ogni sguardo, perfino ogni pensiero (e non si dubita qui che il poeta ritenga i gabbiani capaci di pensiero); ovvero l’invisibile grillo, piccolo, oscuro, nascosto insetto, la cui morte dilania l’animo sensibilissimo del poeta…
   Ma innumerevoli appaiono gli argomenti che Onofrio sa portare avanti sulla sua pagina instancabile, le stagioni che declinano e immalinconiscono, il sesso che è “attimo divino”, la gioia del crepuscolo animato da incredibili coloriture, anche nella delusione di un tradimento, l’insondabilità delle parole, “lacerazioni oniriche”, “strappi dal tessuto primordiale”, una città “metafisica” come Matera, la passione travolgente per il gioco del calcio, mentre finanche le mani “agili come bestie” rappresentano un ennesimo quid su cui indagare, e così il viso dell’autore su cui si legge tutto, l’eternità sempre inconoscibile e sempre perturbante, lo stesso Napoleone dagli “occhi invisibili”, le nuvole che paiono “giardini immobili in attesa”, la vita stessa, dura come una donna assiduamente corteggiata, ogni elemento dell’esistenza insomma appena allietato dal miracolo dell’alba estiva, in cui si fa largo “l’azzurro esiguo /  dentro l’universo tutto nero”, simbolo inequivocabile di suprema speranza, dolcissimo presagio di felicità futura, a conclusione di questo profluvio incandescente di versi, dentro i quali si insinua una frastornante malinconia, muovendosi ineludibile lungo ogni pagina, sebbene nello scintillio dei sintagmi più felici.
 Davvero notevole, dunque, questa silloge di Onofrio, che certamente deriva da vasta sapienza, meditata consapevolezza delle proprie capacità, acuminata raffinatezza e maturità delle proprie doti di autore.

Francesca Farina




“Nei giorni per versi”, di Anna Maria Curci. Lettura critica

curci

“Nei giorni per versi” (Arcipelago Itaca Edizioni, 2019, pp. 108, Euro 13.50), di Anna Maria Curci, è un libro delizioso e sorprendente, fin dal titolo ancipite; un libro soprattutto necessario, che incuriosisce per vie sottili con la misura del suo respiro e poi coinvolge, entro e oltre i limiti che si dà per realizzarsi, con la potenza sommersa delle energie che smuove. Molte delle centosettantatre quartine di endecasillabi che vi sono raccolte sono “ordigni atomici” dall’apparenza innocua, malgrado cioè siano calati nell’habitus convenzionale del “diario di viaggio”, inteso il viaggio come percorso «di ricerca ed esistenza, di stupore e disappunto» (parole introduttive della stessa autrice) articolato nei giorni “per versi” – attraverso cioè lo strumento conoscitivo della poesia – ma anche nella poesia stessa, esplorata e utilizzata in un momento storico particolare, traviato appunto da giorni “perversi” come quelli che stiamo ultimamente vivendo. Anna Maria Curci dice cose potentissime e terribili con il sorriso sulle labbra, un sorriso che a ben vedere è “fratturato” dalla consapevolezza e dalla pena. Gli occhi sono «dilaniati» dall’orrore e obbligati alla visione delle cose vere, nel loro volto più autentico. Il paradiso è perduto, il disincanto ne ha chiuso le porte per tramutarsi in presupposizione stessa del pensiero:

Mai più conoscerai l’amore immenso,
la gratuità sublime dell’idiota.

L’inerzia apparente delle congiunture non impedisce all’udito sopracuto della poetessa di avvertire, dentro il grigio rumore dei fatti insignificanti, lo strazio che dirompe l’emergenza (nel doppio senso di avviso e di emersione):

Lo so che questo è il tempo dell’attesa,
ma sento sempre urlare la sirena.
Non è nel gorgo d’acque favolose,
è l’allarme perpetuo e ignorato.


Ed è ignorato perché anzitutto a molti fa comodo che lo sia, ma anche perché la maggior parte delle intelligenze è obnubilata, e assuefatta a una sorta di narcosi collettiva che impedisce loro di percepirlo. Il mondo è «sinistrato» da una infinità di squilibri reciprocamente collegati che lo sta rendendo sempre più ostile e problematico. Il centro dove potrebbe insistere un equilibrio è oggi più che mai «traballante»: ogni giorno accade impunemente la «sincronizzazione del nefando», cioè la complicità delle infamie che regge il sacco ai ladri della nostra umanità. Stiamo infatti tentando di sopravvivere a un’epoca post-umana che – malgrado gli appelli a un presunto “nuovo umanesimo”, lanciati a vuoto da più parti – ha ormai liquidato i valori fondanti della cultura e della civiltà. Il tempo è triturato e scansionato dalla nevrosi centrifuga delle metropoli tecnocratiche globalizzate. Che fine ha fatto il tempo giusto e “centrato” in cui respirava, con i suoi ritmi ancora organici, l’uomo del ’900?

Quel tempo regalato in sospensione
furono i viaggi in treno a rivelarlo.
Rapidi, littorine e scartamento
ridotto per riflettere e sostare.

Tanto da arrivare a chiedersi l’origine prima del danno, la stortura originaria che ci ha portato – tradimento dopo tradimento – a questa condizione di asfissia, per soffocamento progressivo:

Quand’è che principiammo a destinare
la fragranza del pane a chi latrava,
quand’è che dismettemmo madre e padre
che chiamammo sorgente il cherosene?

L’onestà brechtiana con cui la poetessa, germanista e raffinata traduttrice, affila l’«arma bianca» della sua penna per sviscerare, «sull’orlo tra missione e sabotaggio», il cuore più profondo delle questioni e, seminando inquietudine, sobillare al risveglio e alla rivolta, evoca per converso il destino degli ideali in un contesto di «voci inquadrate e ammansite» dove non è più «il tempo del bastian contrario». Dov’è ora il «cartoccio» di speranza colmo di «baldanze» e «pie intenzioni» alla luce delle quali il futuro sembrava una «bottega di sogni a cielo aperto»? Dove sono gli entusiasmi e gli entusiasti? Chi crede davvero che il mondo possa ancora cambiare? Siamo «come quegli impettiti soldatini / spezzati dentro e fuori sorridenti»: tutti postulanti «pratiche inevase» e ottenebrati in un appannamento da cui, se ne usciremo, «sarà per sdilinquirci» in «remote elegie rassicuranti». Sdegno e ribellione, quando poi residualmente emersi o formulati, vengono poi subito normalizzati dal «sofisma / finto-bonario minimizzatore / a silenziare», tipico del conformismo dominante, e a quel punto il gioco è fatto. Proprio per questo Anna Maria Curci vuole che «sia ciascuno persona di pace, / non in pace», e che gli occhi tornino a splendere di una luce non ingenua ma consapevole, e quindi capace di incanto benché generata dal disincanto: «luce che sa del buio e dell’orrore, / mantello di serena irrequietezza». D’altra parte veniamo al mondo «lacerando» il buio caldo del sacco amniotico per aprirci al trauma della luce, dell’aria e del tempo; così, all’improvviso, uno squarcio nel “muro della terra”, di dantesca e caproniana memoria, potrebbe aprirci gli occhi e, rivelandoci la verità, farci nascere di nuovo, o nascere davvero. Tutto è confuso, caotico, ambiguo. Le segnaletiche di ieri non valgono più, devono essere continuamente aggiornate per inseguire una realtà che evolve in modo sempre più rapido e inafferrabile.

L’erba è cresciuta sopra gli ideali
(va’ a separare, adesso, la sterpaglia).
Non sai se è soffocata o rigogliosa,
se è sovversivo o prono il fiore giallo.

L’unica opzione percorribile è «resistere ogni giorno»; l’unica speranza è che i signori del male organizzato sottovalutino, com’è nelle corde della loro oltracotanza, la «forza del mite» quand’anche non tradotta in ira, cioè il lavorio paziente e quotidiano per scalfire i muri della prigione. È necessario sentirsi, come si è, dalla parte del giusto, e dunque illudersi di avere, ancora e sempre, «verità e bellezza» e soprattutto speranza da opporre allo squallore dei carnefici, con cui stringere il nodo delle loro pregiatissime cravatte fino a soffocarli. Per questo resta importantissimo l’esempio dei poeti capaci di esercitare ad ogni costo il dissenso e di conservare la mossa spiazzante del cavallo, «il salto a lato, la disobbedienza». Non, perciò, dei sempre più frequenti poeti narcisisti a caccia di applausi, che assumono pose e da cui la poesia, abusata e consumata, può salvarsi continuando a praticare la sua “cura”; come ad esempio certe poetesse…

Le lupe travestite da vestali
schiamazzano l’amore per la musa.
Opponi studio e pazienza, tu lisa
palandrana da troppi rivoltata.

I problemi grandi, anzi immensi, sono due: da un lato la storia, ovvero la socialità; dall’altro la natura, ovvero l’esistenza. Sono entrambi irrisolvibili, per definizione e per, come non bastasse, sopraggiunte complicanze estemporanee. La storia partorisce sequenze innumerevoli di menzogne, poiché è la manifestazione quantitativa e qualitativa della socialità che ingabbia e determina il percorso umano sulla Terra. Socialità è sinonimo di intrigo e di inganno. Un coacervo putrido di «circo-stanze» in cui si aggirano tragicomici pagliacci per soffiare nelle orecchie maldicenze tra «creduli» a loro volta maligni, vogliosi e ansiosi  di credere, e quindi «baruffe bassotte flatulente», «codici tribali affantoccianti», e ancora ipocrisie, cannibalismo affettivo, vampirismo psicologico, «maniere e manierismi» per malcelate intenzioni, «solipsismi in posa da autoscatto» (i cosiddetti “selfies”), e ovunque il rumore di fondo di quel «chiacchiericcio» insulso ma dannosissimo che purtroppo conosciamo molto bene. La natura d’altro canto è spietata perché soggetta a inderogabili leggi evolutive e all’imperio tirannico del tempo, con la sua «carta vetrata che sfalda ogni giorno» per cui l’esistenza è fatta da «rovine di frammenti» e «vestigia ammonticchiate» dove, talvolta, può splendere qualche epifania (gli «scarti», difatti, approntano «festoni a intermittenza») mentre la «dignità volteggia con cartacce». Quella di Anna Maria Curci è, per auto-definizione consapevole di poetica, «l’arte dei brandelli», cioè la vocazione etica a lavorare con le «frattaglie», raccogliere le «spoglie abbandonate», aggirarsi tra «piaghe» e «macerie» per abbracciare l’«intangibile» e puntellare le crepe dal crollo imminente che le allarga. La condizione umana è di per sé risibile, vana e ingannatrice:

Nell’interludio tra le glaciazioni
s’inorgoglisce l’uomo, si fa centro.
Pesce rosso nella boccia di vetro
e invece e a malapena se ne avvede.

E ancora:

Canticchiare con le gambe conserte,
mettere i saldi per non stare soli
indaffararsi con stridio di specchi.
La pietra sa che ci prendiamo in giro.

Non siamo affatto il centro dell’universo, né la misura delle cose che ci sfuggono e delle quali restiamo in balia, a guisa di naufraghi; sensazione mirabilmente espressa dalla straordinaria metafora epistemica incarnata nella quartina CXII:

Non un’isola, nemmeno una boa,
solo un turacciolo usato e disperso,
gettato a caso ad assorbire sabbia
che si rotola goffo in cerca d’acqua.

Il mistero che soggiace all’intrico dei segni e all’ambiguo confliggere dei casi resta più che mai inconoscibile e «a noi precluso», anzi: si affaccia soltanto «per essere incompreso», come sa bene Orfeo, «il reduce dall’eterna penombra»:

Quando accediamo, gli occhi dilaniati,
alla stanza che ripara il mistero,
è già tutto perduto. (…)

Ciò, tuttavia, non esime l’uomo, e anzitutto il poeta, dal dovere di ricerca e conoscenza, dato che camminano «allacciate, una pensosa, / l’altra poppante intrepida o vecchina / sdentata, la ricerca e l’esistenza». È una «lama di dentro» che spinge a risalire «il corso dei nomi» per decifrare e sciogliere gli enigmi, ed è anche un modo di cercare «rifugio dall’orrore» che si annida nel vuoto dell’universo, dove appunto la verità ama nascondersi come la bellezza quando «gioca a nascondino». La verità non si raggiunge e non si costruisce a forza di «proclami» o di «trionfi» (e infatti questi sono “mottetti” privi di sentenze) ma umilmente, con pazienza di attitudine e abnegazione, soprattutto come dono spontaneo della natura stessa, allorché «le frontiere diventano ponti» e allora «si allarga breccia», «lo squarcio all’improvviso rivelato» per cui il «deserto ostile e familiare» che brucia nella “terra desolata” svela, tra «l’opaco e il brillante», tutte le «gradazioni minute» della ricchezza che normalmente cela. Ogni tentativo di conoscere il mistero, o di resistere alla forza del mondo, è destinato a scacco, a fallimento, a inanità. La forma che estraiamo dalla vita è «fragilissima», pur quando «tenace», e il baluardo provvisoriamente elevato crolla sotto i colpi di un’erosione continua e costante, come un castello di sabbia in riva al mare. «Appronti con fervore il fortilizio, / scavi fossati, piombi fenditure» per poi scoprirti «tenente Drogo dei refusi» che presidia una «fortezza smantellata». Il cammino della conoscenza è punteggiato di false cime («si profila e si sgretola la meta»), fino a quando capisci che

Non puoi vuotare il mare col secchiello,
neanche il tentativo può salvarti, (…)

Il problema della forma rispetto alla vita, cioè della sua resistenza agli eventi critici che la consumano e infine la aprono e la dissolvono, è uno degli snodi tematici più importanti del libro. Tanto da improntare la struttura chiusa e al tempo stesso aperta di queste quartine, come cuciture che schiudono «spazi estesi e contorni inaspettati» componendo una specie di “romanza” non solo, come si è visto, del desolante scenario contemporaneo, ma anche della terra senza luogo e senza tempo dove suona l’«antico adagio dello smarrimento». Strumento affascinante la quartina, da Omar Khayam a Eugenio Montale (“Mottetti”) ad Anna Maria Curci, poiché chiude l’universo in una forma che, data la brevità dello slancio, costringe la poesia ad essere precisa e determinata, e insieme a cercare lo scarto del nuovo e il respiro aperto dell’infinito.

Decostruzione e ricomposizione, come per la tela di Penelope: è il metodo creativo messo in atto dall’autrice in questo libro, come si capisce anche dalla caratteristiche della sua voce poetica e, nella fattispecie, della sua scrittura. È una voce «claudicante» che accoglie lo sgambetto delle «vocine» divergenti, quelle che contrastano il bordone. Sa che la parola non è mai innocua, è una compagna fedele e rabbiosa che può fungere da paracadute e, soprattutto, da piccone demolitore. Smontare, spezzettare e poi ricomporre il mondo – è questa l’impronta caratteristica – articolando la dinamica ondivaga di una scrittura “contro”, che procede appunto in controtempo e cerca il controcanto «terza o quinta sotto» per fare il contropelo, cioè scuotere, svegliare e fustigare. Ha bisogno per questo della dissonanza, che già appartiene alla natura stessa delle cose (dal punto di vista dell’uomo contemporaneo); tanto che può dire, pur utilizzando la “musica” degli endecasillabi, variati nelle diverse accentuazioni toniche e ritmiche: «Io non ti ho mai incontrata, melodia».

È una poesia ispida e ruvida, talvolta anche petrosa, benché provvista delle sue dolcezze e di una certa particolare grazia naturale. Cammina in modo sghembo tra buche, sobbalzi, pensieri, visioni che emergono “a schiaffo” dalle associazioni eidetiche e cognitive, ma soprattutto non è mai in cerca di facili consolazioni: quand’anche giungesse ad una trasfigurazione, sarebbe «maculata» di ombre e di esperienza. L’unica vera distensione affettiva si ha quando le epifanie della memoria involontaria liberano, come lampi, i ricordi dell’infanzia, e quindi il gioco della campana e del nascondino, le serpi nella marana, il tranvetto della Stefer, i versi a memoria («infeconda tortura» scolastica), il rapimento di Aldo Moro appreso ai banchi del liceo, ecc. Anna Maria Curci usa il setaccio analitico ma conosce anche «l’ingordigia del lupo» e l’arte beata del consumo, della dissipazione, tanto da potersi definire «metà e metà, formica e poi cicala, / un ibrido che ascolta, stipa e canta». Tuttavia, per concludere, il migliore autoritratto poetico è offerto dalla quartina CXXII, in cui sembra riassumersi tutto l’arco evolutivo del libro e il suo profondo significato storico e umano:

In volo su mottetti e ditirambi,
simbolo, segno, grido, invocazione,
scava un pertugio, accedi alla speranza,
tra cielo e terra parla al sottosuolo.

 Marco Onofrio 

“Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani” (2ª ed.), di Maria Pia Santangeli. Lettura critica

santangeli

Sono finalmente crollati, come muri pericolanti, i silenzi della Storia sulla vita quotidiana. Prova ulteriore ne è “Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani”, di Maria Pia Santangeli (scrittrice originaria della Toscana ma da anni residente e operante a Rocca di Papa), recentemente uscito in seconda edizione per i tipi di Edilazio. È ormai acquisita alla ricerca storica contemporanea la consapevolezza che un’eventuale penuria o assenza di documenti non significhi, con ciò stesso, assenza di storia. Anche perché – è noto – i documenti della Grande Storia sono spesso monumenti (ovvero prodotti intenzionati e/o falsificati): la vita quotidiana, così, non solo non è assenza di storia, ma di essa costituisce e può rappresentare addirittura l’essenza. Altrimenti detto: la storia siamo noi. “Non si sa nulla della vera storia degli uomini” scrive Céline nel Voyage au bout de la nuit: una frase che la Santangeli riporta, non a caso, in epigrafe al libro. Così, nel sentire e sapere che “quando un giorno finisce non esiste più” (I. B. Singer: altra epigrafe), viene spontaneo chiedersi quale minuta realtà esistenziale abbia segnato, sostanziato e attraversato il passaggio terreno delle generazioni. Se ogni uomo è un mondo dentro il mondo, mentre il silenzio inghiotte il suono della voce; se nell’oblio sfumano i pensieri, insieme a tutto il resto: quali sentimenti e sogni hanno acceso il suo cuore? Quali dilemmi ne hanno reso le notti insonni? Quali dolori lo hanno trafitto? Quali immagini si sono impresse sulle sue pupille? Quali parole hanno preso il volo come farfalle dalle sue labbra? La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: ogni istante il mondo muore, crolla, dilegua, entra nell’invisibile. Tutto è caduco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che, secondo il filosofo tedesco Wilhem Dilthey, spetta alla storiografia manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Lo scrittore di storia intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’Erlebnis, l’esperienza ri-vissuta. Compito dello storico è sottrarre il tempo all’oblio, ricostruendolo e ripensandolo sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i poeti e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare.

Scorrendo su tali coordinate epistemologiche e metodologiche si muove il libro, accuratissimo, della Santangeli. Lei stessa dichiara programmaticamente, all’inizio del libro, l’intenzione di «raccontare le giornate di lavoro di boscaioli, mulattieri, carbonai, di donne che scorzavano nel tentativo di non lasciarli nell’ombra». La grande Storia si trova spesso costretta ad ignorare, per limiti di campo, le “piccole storie”: «eppure un’accetta dal manico consumato conserva l’odore della vita», è satura di vita vissuta. Questo libro è splendido anche per l’autenticità umana che veicola, come valore aggiunto, alla verità storica dei documenti; ed è autentico perché nasce da una forte urgenza espressiva, quella di uomini e donne che «non hanno fatto altro che brontolare» dentro l’autrice, chiamata a dar loro un corpo di parole, a farli risuscitare dalla pagina, pur nella consapevolezza di poter restituire solo «frammenti dell’infinita molteplicità della vita, della sua misteriosa complessità». Un viaggio nel tempo, dunque, vissuto e attraversato su più piani contemporanei. Ci sono almeno tre prospettive diacroniche che la Santangeli indaga, da par suo: il piano quotidiano (la giornata di lavoro dall’alba al tramonto); quello stagionale (da novembre alla primavera); quello epocale (sino alla fine di quel mondo, cancellato dalla trasformazione tecnologica e dal diffuso benessere economico). Marchigiani (soprattutto di Sarnano) e cappadociani (cioè abruzzesi) davano vita a una migrazione stagionale che lasciava spopolati i paesi d’origine: si trasferivano nei boschi del Lazio, per avere sei mesi di lavoro assicurato. I proprietari dei boschi convocavano i “capoccia” boscaioli: ciascuno, trovato l’accordo economico, procedeva all’ingaggio di uomini per formare la “propria” compagnia. C’era quindi la fase di preparazione: si arrotavano le accette e si ingrassavano gli scarponi con la sugna. Poi, il giorno e il luogo dell’appuntamento. La marcia di avvicinamento al bosco. Il silenzio profondo e vasto. Ciascuno immerso nei propri pensieri. L’arrivo. L’alba. Cominciava il picchiare delle accette, i colpi sordi che si accavallavano. La giornata lavorativa era divisa in tre parti e segnata da due pause: quella per la colazione (intorno alle 9) e quella per la “merenda” (verso le 13.30). La giornata finiva all’imbrunire. Nelle baracche fumose si respirava l’amaro della lontananza e della nostalgia. Ci si risvegliava l’indomani, al canto del gallo.  

Di questo mondo l’autrice si impegna a darci ogni dettaglio (sia corposo grumo di esistenza, sia piuma di labile riflesso), con un “dono” totale di presenza, richiamo, enumerazione, acciocché nulla resti escluso dal tocco vivificante della sua penna, guidata da un non comune afflato di passione e ispirazione poetica, che accendono il rigore scientifico della ricerca e, nel perseguimento della verità, i frutti di una limpida onestà intellettuale. Scrivere storia è un po’ come saldare il “debito” con l’esistenza di ogni uomo che, in quanto tale, rivendica memoria. Ed ecco allora, passati in rassegna (puntualmente descritti e approfonditi, uno ad uno), i diversi mestieri del bosco: facciatori, segatori, scorzine, manicari, forcinari, fascettari, spinaroli, rogaroli, carbonai… Ed ecco, ancora, i canti di lavoro. Scopriamo così che quella gente cantava di tutto: dalle canzoni trasmesse in radio agli antichi canti popolari d’amore e morte, con gli epiloghi quasi sempre dolorosi. La melodia si confondeva col respiro, col sangue, col ritmo cardiaco: «era un tempo in cui la rima e il canto vivevano dentro la vita di ciascuno». E il canto era corale perché esisteva un patrimonio condiviso di storie: Pia dei Tolomei, la Sepolta viva, Genoveffa di Brabante, i Reali di Francia, i Paladini, il Guerrin Meschino, ma anche brani spesso lunghissimi (recitati a memoria) dalla Divina Commedia, dall’Orlando Furioso, dalla Gerusalemme Liberata. Le letture e i racconti eleggevano il proprio scenario ideale nelle veglie d’inverno accanto al focolare. C’era un gusto dell’ascolto diverso da oggi: più ingenuo e integro, non “saturo”. Le parole del narratore cadevano direttamente nell’anima: «gli occhi degli ascoltatori vedevano tutto, proprio tutto, al di là della parete di tavole». I poeti frequentavano le osterie – molti dei quali a braccio, da cui la tradizione dei “contrasti” (in rime cantate e improvvisate). La vita, insomma, camminava in modo semplice, obbedendo a ritmi precisi, antichi, tramandati intatti dal passato. Il tempo storico del lavoro si conformava al tempo biologico, operando organicamente, collaborando coi processi naturali. A livello umano, non c’era spazio che non fosse la solidarietà della fatica comune: «giornate piene di lavoro, di fatica, e le sere di fumo e di storie». L’esistenza quotidiana si componeva intorno a un fulcro stabile di valori, di punti cardinali: l’orgoglio di essere utili alla famiglia, il desiderio intenso di faticare, il piacere limpido e profondo del lavoro fatto a regola d’arte. E poi finalmente, giorno dopo giorno, ecco l’arrivo della dolce primavera, col sospirato conguaglio finale (“lu staiu”) e il ritorno a casa.

“Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani” è un libro di grande importanza storica e di squisita fattura letteraria. Si giova infatti di una scrittura “prensile”: vivida, acuta, multisensoriale. Un magnete che la Santangeli passa sulle cose per carpirne l’anima, l’essenza, il cuore profondo: suoni, odori, voci, parole, pensieri, sentimenti, usi e costumi di un mondo che non esiste più. Particolarmente gustose le descrizioni del cibo: il «caldo saporoso odore di minestra», il rituale quotidiano della polenta, il pane che scrocchiava sotto i denti. Poca materia e, conseguentemente, molta anima, molta luce d’uomo. Il vero poetico ritaglia le proprie zone di trasparenza in mirabili squarci di lirismo, ai margini stessi del vero storico (i documenti e le preziose testimonianze orali) su cui basa la propria fondatezza. Un affresco storico e umano che ci ricorda e dimostra come – nel portare alla luce l’onnipresenza umile e solenne della vita – la storia possa anche farsi opera d’arte, e lo scrittore di storia (ma questo va ascritto a merito di Maria Pia Santangeli) essere poeta.

Marco Onofrio

“La saggezza degli ubriachi”, di Stefano Vitale. Lettura critica

È raro trovare, specie nel panorama letterario contemporaneo, una dimostrazione così centrata e consapevole di poesia pensante, come quella che intride le pagine de La saggezza degli ubriachi (La Vita Felice Edizioni, 2017, pp. 92, Euro 13), di Stefano Vitale. L’autore torinese trascende i dati della cronaca – dalle cui occasioni, peraltro, gli capita di muovere – mentre guarda all’uomo sub specie aeternitatis, cioè alla universalità spaziotemporale della humana conditio: e questo gli consente, per istinto e per assunto, di postulare ancora la validità e la dicibilità del “noi” con cui sfonda la soggettività auto-centrica dell’io, dal momento che «siamo figli di un destino comune». La potentissima tessitura esistenziale che permea le composizioni di questo libro realizza e traduce l’“incessante e necessitante indagine” di cui parla Alfredo Rienzi in Prefazione: sull’essere, cioè sul tempo, gli altri, l’immagine di noi, i limiti, i confini, i condizionamenti, la necessità di fingere di «essere normali» per farsi accettare e meglio tutelare gli abissi della propria identità; ma anche su come la ragione percepisce e organizza la cosiddetta “realtà,” imponendole un dominio «patetico» giacché invece «dentro e fuori tutto è buio / buio pesto», e tra noi e il mondo rimane una «chiusura stagna».

È una poesia che esplora i sentieri del Dasein heideggeriano mettendo in opera una martellante e insistita ricerca di senso, aprendosi cioè senza ripari alla consapevolezza, autentica quanto più feroce e rigorosa. La ricerca di senso ci è connaturale nella misura in cui siamo animali supercoscienti, e per ciò stesso braccati dall’incomprensibile. Interrogando l’essere interroghiamo noi stessi, e viceversa. Vitale accoglie i limiti negativi della finitezza come “deiezione” dell’essere “gettati” nel mondo («noi qui, / cose tra le cose / posate per caso sulla tavola del tempo») in un «esilio obbligato» che diventa «regno dell’attesa» dove appunto si attraversano anni ed anni ad aspettare, spesso inutilmente, un «segnale dal futuro». Esistiamo nella cecità opaca dello stare a fronte, dentro i limiti di un corpo che, a differenza degli altri, non riusciamo a vedere da fuori: “Io sono e non mi vedo” è la cifra emblematica della nostra realtà percepita, sempre parziale e ingannevole. Trascorriamo la vita sostanzialmente estranei al nostro mistero, senza sapere come e perché «questo sangue scuro / (…) intanto macina nelle nostre vene / e agita le nostre sere». Il «notturno continente che tutti ci racchiude» non è soltanto la notte che succede a ogni tramonto, ma lo sconfinato e irrisolvibile enigma nel quale ci ritroviamo immersi. Il Vuoto domina sovrano, è ciò da cui veniamo e in cui finiamo per tornare: come scrive Adam Zagajewski, citato da Vitale in uno dei colophon interni, “vi sono / più oceani che terraferma. Più ombra / che forma”. Sintetizzando il sugo di migliaia di esperienze, la scrittura porta alla luce alcune pregnanti definizioni del vivere che è merito dell’autore porgere senza la presunzione apodittica delle “sentenze”, ma con la sobria naturalezza delle constatazioni. Così accade, per esempio, allorché Vitale, “correggendo” Shakespeare quattro secoli dopo, nota che «siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli». La finestra di tempo da cui siamo racchiusi ci rende intrappolati «nell’astuzia della Storia» che massacra le generazioni; tanto più oggi, ridotti come siamo a «schiavi / di una Storia / di cui si sono perse / ormai le chiavi».

Il poeta è molto abile nel far sentire il tritume della quotidianità inautentica: scrive di «grigio presente dei minuti pesanti», di «tempo andato a male», di «noia», di «pastoia», di «deserto d’ombre d’inutili ore». Ma vivere significa andare oltre, «oltre il dolore / oltre una porta chiusa per sempre», poiché appunto c’è una «luce instancabile che spinge / oltre le umiliazioni». Il gesto di oltre-passare implica una presa in carico della negatività da cui si vorrebbe risorgere, che viceversa ingigantisce quanto più rimossa. Traguardare lo spiraglio di una possibile liberazione significa dunque muoversi «verso il fondo» esercitando l’attitudine di «archeologi di noi stessi» in cerca dei «fossili della speranza». Occorre trovare, però, l’anello che non tiene: infilarsi nel varco, deragliare, usare il «pensiero sbilenco» nella «torsione dell’attimo sgrammaticato». Ecco la “saggezza degli ubriachi” che, nell’ebbrezza alcolica, escono dai vincoli normativi per restituirsi al mondo immediato degli istinti, alla presenza pura dell’esistente, alla natura originaria delle cose.

La poesia di Stefano Vitale certifica lo scacco definitivo della ragione raziocinante, quella stessa che – annodando i nostri pensieri e portandoli al sistematico fallimento – dimostra di per sé come «la forza del ragionamento / è poca cosa». La Verità di conseguenza, se vogliamo ancora scriverla con l’iniziale maiuscola, è solo «presunta», così come la «precisione» è soltanto illusoria. Inseguiamo la perfezione abbarbicati alla cima dell’imperfezione, da cui «tutto ci sfugge». Gli specchi non sono «cristallini» ma «inevitabilmente» deformati. Le diverse realtà in gioco all’interno di ogni porzione di mondo sono prismi caleidoscopici con milioni di facce in mutamento, come le nuvole, «miraggio d’immagini, specchio della nostra mente». È possibile perciò avanzare non più che congetture, cosa che ci rende «eterni dilettanti della vita», controfigure di noi stessi, «fragili figure di sabbia / sul confine della memoria». Quest’ultima esercita un peso che può contrastare l’itinerarium mentis ad veritatem e certamente la sua innocenza salvifica, tanto che «un vuoto di memoria / talvolta, salva la vita». Anche la parola costituisce, per certi versi, un intralcio alla verità; ma d’altra parte è uno strumento simbolico privilegiato e insostituibile per tentare di avvicinarla. La parola cerca di colmare il divario tra la cosa e la conoscenza, ma della cosa rappresentata non riesce a cogliere l’essenza. Ci si avvicina di più, invece, nel «silenzio / dei nostri pensieri nascosti e veri», quelli che parlano in noi una lingua straniera ma insieme arcanamente familiare: «Un vortice di pensieri / senza padrone / cadenza straniera / memoria d’altra storia?»

Come si arriva, dunque, al cuore misterioso della vita? Andando «oltre il confine del cortile» e il «crocevia del tempo», poiché «il Vero sta nell’oltrepassare, / nel dettaglio dove si nasconde al primo sguardo / il nostro Esserci». Come in una sorta di epoché fenomenologica, occorre anticipare l’agguato delle abitudini, la conferma dei meccanismi percettivi, l’edificio di strutture razionali che ci scherma dalla purezza dell’essere.

Ridurre il campo visivo
alla coda dell’occhio
per meglio vedere ciò che resta nascosto
allo sguardo troppo sicuro.

Il che significa anche abdicare all’oltracotanza dell’uomo saccente e accentratore, che conquista/devasta il mondo. Occorre affidarsi a un altro tipo di ragione, ontologica e paritaria, modulata cioè dal punto di vista delle cose. La via per evitare le «trappole» del razionalismo? Silenzio e «mente immobile»:

Contro l’ingarbugliarsi delle cose
vince la mente immobile.

E quindi, «diventare muro, insetto, foglia» placando l’ansia di combattere e contrapporsi per imporre un “dominio” che la distesa dei secoli e il silenzio nero del cosmo rendono risibile, oltre che esiziale. Ecco la «lezione dei fiori»:

La lezione dei fiori
è nel loro essere fiori, e questo basta,
mondo che rinasce
nella pura insolvenza del vivere.

Davanti ai nostri occhi si spalanca l’oceano della Vita, che ammiriamo ma «non possiamo afferrare». La natura è «incomprensibile e chiarissima» al contempo, e per intenderla «non servono i libri che abbiamo letto / perché non sempre comprendono / la lingua delle cose». Oscilliamo costantemente tra le «ombre / di un delirio di purezza» e il «lucido buio», cioè tra il mistero che si vela e che si svela. Le cose ci guardano dall’eternità, con “occhio calmo e molto chiaro” come i ciottoli di Herbert, che non si lasciano “addomesticare”. Vitale cerca dunque di stanare le cose dalla loro autonomia, dal loro sonno immemoriale, dal loro segreto intangibile. Cerca di conseguenza una parola nuova, diversa, piena, in grado di coincidere con la cosa denotata.

Tirar fuori dalla selva del tempo
una parola certa e precisa
che ci rassomigli una volta per tutte
per dare un senso
al silenzioso scrutarsi delle cose.

Coglie le “scene” fenomeniche del mondo ma tende in realtà a ciò che precede la ragione delle parole convenzionali, la «necessità» e l’«automatismo creaturale», cioè il rapporto geniale che regge le cose dall’interno e le tiene fra loro unite, dentro l’intelligenza dei fatti e degli eventi. Raccoglie via via, così, «i sogni delle piante», il «sordo salmo del silenzio», «l’alfabeto muto / dei tetti», la sera che «mi parla di sé / e non capisco», l’aria che «respira se stessa», ecc.      

La poesia si slarga ad accogliere il colore stesso del vuoto e la forma sconfinata del silenzio («parole invisibili / su una lavagna trasparente»), masticando le «perfette costellazioni di niente / nella nera calma che inonda il mondo». Ci si può arrivare, forse, anche affondando nel «grembo della lingua» per cercarne le balenanti rivelazioni («gli istanti illuminati») che splendono dalla “miniera della mente” come «oro inatteso». Ma il traliccio estetico da cui è sorretto il movimento della scrittura resta comunque quello che porta dal contingente all’universale, dalla storia alla natura, dal fisico al metafisico, dal rumore al silenzio, dalla sostanza all’essenza. È ancora possibile il “canto”, questa «piccola ostinata intima luce / che riposa nel tabernacolo / delle nostre viscere»? Sì, sembra rispondere Vitale con tutto il libro, malgrado l’inafferrabilità della forma, la complessità estrema del mondo, la terra ormai desolata e il «sopravvenuto disincanto»:

e niente più rassomiglia
in questo dilagare di riflessi
se non quest’assenza
di noi a noi stessi
perduti nello specchio infranto del suono
del sopravvenuto disincanto.

Marco Onofrio