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“L’ingegnere del silenzio”, letto da Paolo Carlucci

C’è, nel cuore poetico dell’opera di Marco Onofrio, un pensiero cosmico che si frange in costellazioni di domande e stupori lirici nottilucenti. L’autore, come un filosofo delle origini, un presocratico, indagatore della natura, sente l’imperativo di una ricerca di sé e del mondo idealmente rappresentato in geometrie oniriche: ne è una prova eloquente, ad esempio, la lirica, “I fasti del silenzio”:

Ecco: il mondo ora è perfetto / rotondo, fulgido, maturo / frutto d’oro che io ho fatto mio / pomo che all’interno mi possiede, / svela generoso i suoi reami / i fasti del silenzio e dei misteri; / chiuso fra le braccia e le mie mani / il petto che sussulta di emozioni / sono io – mi riconosco?

Infine, in chiusa, la poesia prorompe poi un vitalismo danzante e classico di rinascita, nell’orologio dell’eterno ritorno del Tempo:

Gaia di pienezza è la mia vita: / per questo, sempre ne rinasco / e come fui domani sarò ieri.

Scrigno aforistico, ma affascinato dall’ancestrale numinoso della poesia, è davvero una prova di ingegneria del silenzio, allora, tutta la versificazione di Onofrio. Opera dopo opera, l’autore secerne modernamente domande radicali. Ma immette in questo cielo, macerie espressionistiche, bagliori d’indignazione e acri della palude dell’oggi. La terra esala miasmi che pongono graffianti domande all’ordine; e al cosmo, Onofrio lancia… quasar di versi. La poesia è anche quella “Radio amore” che racconta gioia e dolore dell’essere, nella musica atonale del tempo.

I “topoi” classici di cui Onofrio è imbevuto, si riequilibrano appunto con vertigini di stupore profondo, con la dolcezza misteriosa e sensuale dell’amore. Il richiamo all’eros tumultuoso, il pagano sacro riso dei sensi spumosi di vita e ardenti quanto più rapiti da una “brevis lux”, è un “kerigma” tipico dei classici, greci e latini. Nel nostro, che abilmente rovescia un noto verso di Sbarbaro, recupera all’inizio di “Antebe. Romanzo d’amore in versi” (la silloge è del 2007) il dionisiaco e il fremito totale della vita. Allora pare che il metafisico prenda voce e forma nella “religio” amorosa del desiderio.

Ah, miracolo di carne da godere! / Enigma di languido abbandono. / Dedalo fantastico di sensi. // Ho deciso e giuro veramente: / oggi voglio nascere alla vita, / respirando sui tuoi pomi color luna / l’odore che tu hai meraviglioso….

Il testo offre vari esempi di climax erotico di potente efficacia e così si dà sapore di natura all’atto amoroso:

Profuma il miele dentro la fessura / dove cuoci il pane della vita: / e il dolce companatico sei tu

Da questa sensualità, che è ingegneria di vita e d’esistenza, nasce un universo d’emozioni. Una biologia del desiderio che si fa sempre conoscenza e meditazione, compone gran parte della produzione letteraria e poetica di Marco Onofrio, che ha raccolto in questa Antologia (“L’ingegnere del silenzio”, Pace Edizioni 2023, pp. 342, Euro 18) oltre vent’anni di scrittura in versi. La Prefazione di Plinio Perilli esprime bene la ricchezza e la complessità del dono poetico di un pensiero ricco di aforismi filosofici: ma nell’ombra della mente il poeta è radicato di desiderio.

Marco Onofrio, si configura quindi nel mondo poetico attuale, certo un contemporaneo e realista; nel solco però di una feconda, stellata luce della tradizione antica che, da modelli aulici, come Catullo e Lucrezio, arriva al paganesimo vitalistico di un d’Annunzio alcyonio, fino ad esiti di espressionismo linguistico pasoliniano, e aperto, oggi, a suggestioni massmediali. Poeta d’indignazione civile è Marco, nel suo poemetto “Emporium”, come pure in altre corrive ironie amare, come in “Disfunzioni” ed altri versi civili, feroci nel linguaggio vibrante di espressionismi gergali e immagini corrotte del mondo d’oggi. Un altro lacerto classico! Petronio il suo “Satyricon” e le rivisitazioni di Pasolini riaffiorano, in un codice linguistico a specchio dalla romanità neo-marginale del “coatto”, a scene di ragazze in minigonna e altre agnizioni del tempo romano in cui trova posto una vera cloaca d’umanità… Ma, per dirla appunto con l’autore, oltre la maceria c’è l’antidoto di un “azzurro esiguo”, torna la felicità pensosa del viaggio, il cielo degli affetti familiari, i versi struggenti e onirici sulla morte del padre… I momenti della nascita e della morte, si incontrano in questa galassia memoriale che apre versi di forte impatto e sentimento perché immersi nel cielo della vita.

L’opera di Onofrio quindi ha formalmente radici complesse con esiti pluristilistici. Un cosmo emozionale di parole accese a ricordi familiari, a lirismi di natura; ma si anima anche d’una terrestrità che si fa spesso occhio, mano. Il “logos” del cuore irrompe potente nella natura. Il corpo, l’eros si fa onda vagamente dannunziana, nella metafisica algida di stelle lontane… Marco Onofrio si sente poeta dell’anatomia del vuoto. E germina poesia, appunto, da quel silenzio siderale in cui cercare con le sirene del cielo, le stelle, nuovi dialoghi, ispirazioni esistenziali di una densa e radiosa luce lirica. Troviamo dunque in questa Antologia poderosa, un appello senza fine al cielo; sì, ma per leggere alfabeti di luce, serve il disincanto della storia, il rischio di un cammino nel linguaggio che muta. Nel silenzio e oltre, la poesia diviene allora l’autobiografia di una generazione. Ma nasce anche un’ingegneria ultrametafisica che si apre all’infinito delle stelle e lampeggia versi…  

Vieni, cielo lampo dell’arcano
Trascendi dall’interno originale!

O nella bellissima sintesi poetica del nostro che è “A una cefeide”, e che riportiamo integralmente a conclusione della lettura dell’opera dell’autore romano, sempre in pensosa ricerca di rinascite di sé:

Cercavo quella luce dentro me / graffio di perla sul velluto nero / del suo fuoco – fontana / lontana di meraviglie / tra le polveri splendenti / dell’aurora – / due ore ho parlato a una cefeide / confidandole il mio sogno / e il mio segreto: / liberi / indomiti / impronunciabili. // Galleggiava ai bordi della notte: / cadde in pochi attimi / portando via con sé / sogno e segreto / dentro i precipizi / del silenzio. // Tornerà tra mille anni, forse:/ di me, allora, polvere neppure / ma lei, più fedele della morte / manterrà il segreto intatto / e porterà dal cielo / il sogno finalmente realizzato.

Paolo Carlucci

Note critiche di Sabino Caronia su “Specchio doppio”

 

Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.

I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.

C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».

Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.

Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.

Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.

È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.

C’è  il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.

Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.

Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non  a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.

Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?

                                                                                    Sabino Caronia

“L’ultimo sorriso di Beatrice. Percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei”, di Sabino Caronia. Lettura critica

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Ideale viatico per la lettura di questo bellissimo patchwork di “percorsi letterari da D’Annunzio ai contemporanei” (L’ultimo sorriso di Beatrice, EdiLet, 2020, pp. 272, Euro 17), scritti e raccolti da Sabino Caronia, potrebbe essere il «magistero di Leopardi, la sua parabola» che, come scrive Stefano Verdino, «consuma una disabitazione del mondo» realizzando «il suo senso drammatico della trasformazione, tra “vicissitudine e forma”, estrema naturalezza ed estrema coscienza critica, in vista di un indicibile traguardo metafisico». La Weltanschauung che presiede ai saggi di alta critica letteraria sapientemente assemblati nel volume, scaturisce da una frattura originaria. «Tutte le corde, sotto il plettro, si ruppero» canta un desolato D’Annunzio giovanile. L’Armonia dei tempi mitici si è spezzata per sempre, e con essa si sono disperse e dissolte le Grandi Narrazioni. La Verità non più data o rivelata come un dono da raccogliere, a guisa di perla dentro la conchiglia, ma demandata alla ricerca di ogni singolo individuo, escluso per sempre dalla pienezza di quella ancestrale contiguità. Lo snodo fondamentale del libro è, infatti, il rapporto tra verità e letteratura. Il problema della verità è quanto mai attuale, come sta drammaticamente mostrando il caos mediatico e cognitivo ingenerato dalla pandemia, in un mondo che la globalizzazione digitalizzata aveva già da decenni reso assai complesso e per molti versi incomprensibile. Come nota Cesare Cavalleri, il problema «non è conoscere le notizie, soprattutto quello che conta oggi è avere un filtro, dei setacci per orientarsi nel mare magnum dei fatti e delle informazioni». Che cos’è la verità? chiede Pilato a Cristo. E Cristo non risponde. Lo scrittore risponde con le opere, se intende il proprio operato come adempimento di una “vocazione religiosa” sia pure esercitata in ambito laico. Infatti, scrive Caronia, «si sarebbe tentati di rispondere» che la verità è la letteratura. Ma allora la letteratura è chiamata a farsi, e ad essere, verità. L’arte, in chiave metafisica e teologica, è verità per se stessa poiché tende di sua natura a superare i limiti, a rompere gli schemi, a rappresentare l’infinito e l’eterno. Se la verità è bellezza, la bellezza è anche – a sua volta – verità. Con le parole di Franz Kafka («La poesia è sempre e soltanto una spedizione in cerca della verità») e di Guillame Apollinaire («I poeti non sono soltanto gli uomini del bello ma anche e soprattutto gli uomini del vero»), vien fatto di rievocare il mito degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. A tal proposito, giova anche ricordare la doppia versione del mito di Orfeo, quale incantatore di fiere o, d’altro canto, ribelle sabotatore e annunciatore dello spirito tragico. Engaño y desengaño, ovvero: incanto (addormentare la coscienza vellicandola con cose dolci) e disincanto (pungere la coscienza per svegliarla e spingerla al cambiamento). Si potrebbero distinguere intere generazioni di artisti, assegnandoli a ciascuna delle due chiavi estetiche fondamentali. Tra le quali si barcamena il critico letterario, con il suo “triste mestiere” che, come nota Giacomo Debenedetti (sua la definizione), viene «scambiato per un servizio pubblico: peggio ancora, per un servizio privato ad uso della vanità di chi scrive e del tornaconto di chi pubblica», quando invece il critico «scrive per sé, per servire alla propria verità».

L’avventura intellettuale incarnata in questo libro può essere idealmente rappresentata dal seguente passo del romanzo Il Quinto Evangelio (1975), di Mario Pomilio, citato con altri intendimenti da Caronia a proposito dei libri di Stanislao Nievo: «Scopre soprattutto che in ogni epoca ci sono stati altri uomini, santi, eretici, ribelli, credenti e non credenti, che al pari di lui hanno speso la vita nella medesima ricerca. Attraverso le loro biografie ne vede riemergere le attese, le illusioni, l’evangelismo, le passioni, i dissensi, talora i drammi. E lui stesso, a contatto di tutto ciò, si trasforma: la sua ricerca, da filologica che era, diventa a poco a poco una ricerca religiosa, la sua avventura, da puramente scientifica, diventa un’avventura spirituale». È proprio così che accade al Caronia scrittore, specie nelle vesti di serio studioso e raffinato critico letterario, quale egli è. La fedeltà alla vita e alla sua eterna, complessa, inafferrabile polifonia. Come Salvatore Quasimodo: dalla “poetica della parola” alle “parole della vita”. «L’essenza della poesia», riconosce Caronia, «non esiste se non in quanto si cala nell’esistenza». Ecco dunque il suo metodo critico-biografico dove la pagina, come la vita, è appunto una polifonia che sintetizza echi da ogni tempo e luogo, con citazioni puntuali, appropriate e sempre “chirurgiche” (la prima qualità del critico è nella capacità di selezione). Tutto risulta utile, in teoria, all’analisi che si va costruendo man mano sulla pagina, con implicazione totale dell’uomo e del saggista: naturalmente i testi, consultati sempre di prima mano, e poi le biografie, i carteggi, le rassegne bibliografiche, i contesti storici, filosofici, scientifici, i mitologemi, i portati antropologici, i contenuti psicanalitici, ecc. Dall’insieme scaturisce un confronto assai fruttuoso di voci messe in dialogo. Un incontro costruttivo di esistenze, a cominciare dalla propria. La critica come autologia e scansione autobiografica: servirsi dei libri e degli autori come “specchi” per capire meglio se stessi e raggiungere la propria verità. Ecco spiegato perché Caronia entra in scena direttamente, facendosi deuteragonista delle cose di cui racconta e ragiona, mettendosi in gioco senza filtri. Si leggano, qui di seguito, alcuni esempi: 

«Ricordo il mio primo incontro con Bassani, avvenuto il 7 aprile 1983 nell’Aula Magna del Convitto Nazionale, alla presenza del preside e degli alunni dell’Istituto magistrale Isabella d’Este di Tivoli.»;

«Sbarcato da un volo della British Airway all’aereoporto di Heathrow mi sto dirigendo verso la città in taxi ed osservo e a proposito della misura architettonica di quelle basse costruzioni come di un villaggio ai margini di un bosco mi vien fatto di richiamare le considerazioni dell’autore del Gattopardo in una sua lettera da Londra, datata 5 luglio 1927»;

«Ogni estate in bicicletta, da Terracina, percorro la vecchia Appia sulle orme di Paolo di Tarso, e, costeggiando l’Amaseno, il fiume legato alla memoria della vergine Camilla, arrivo a Fossanova e mi fermo proprio davanti alla chiesa di Santa Maria. Entro.»;

«Sappiamo che nel 1272 Tommaso è a Firenze in Santa Maria Novella dove Dante con ogni probabilità lo vede. Proprio la visione notturna di Santa Maria Novella, una sera, alla stazione di Firenze, di ritorno dall’ospedale di Pistoia dove, dopo l’ictus, era stato ricoverato mio padre, si collega per me alla figura di san Tommaso».

Un incrocio di ricordi, sguardi e prospettive che produce la scrittura in tessitura di umane presenze, riaffermando il valore umanistico della letteratura come vita, come esperienza continuamente verificabile, come palpito caldo di autentica conoscenza. Dalla parte dell’incanto gioca soprattutto l’esplorazione del Mito, tipica peraltro della scrittura (anche narrativa) di Caronia. Per esempio la nostalgia dannunziana dell’estate nella sua fase morente («E un’ansia repentina il cor m’assalse / per l’appressar dell’umido equinozio / che offusca l’oro delle piagge salse» – “La sabbia del tempo”, Alcyone) che corrisponde al rimpianto dell’Ellade perduta (l’uomo moderno depauperato della divina armonia), e quindi all’eco immemoriale di un’infanzia eterna, fuori dal tempo. Anche Quasimodo, scrive Nicola Cimmino, sogna talvolta «un mondo felice nel quale rifugiarsi fatto di dolci ricordi, di miti stagioni, di cieli profondi, di paesaggi infiniti, sogno che talora la vita rafforza con l’intensità del vissuto e il fulgore dell’amore». E così anche Luigi Santucci, quando rievoca l’inebriante profumo dei tigli che segnava, a giugno, la chiusura delle scuole e l’inizio della «cara estate delle vacanze». Prefigurazione di un substrato più profondo, dove si annida la nostalgia del paradiso prenatale, il regressus ad uterum verso l’impossibile rinascita, la strada interrotta che conduce al preformale, l’inconscio, la fluidità ancestrale del liquido amniotico. Ecco D’Annunzio, Luzi, Tomasi di Lampedusa, Santucci, e anche Aldo Moro (cui Caronia ha dedicato uno splendido romanzo), qui ricordato per la sua caratteristica “sindrome da scirocco”: «Abbiamo davanti agli occhi le foto di Moro nella “prigione del popolo”, quella espressione di stanchezza e di noia con un baluginare di ironia, quella piega dolceamara sul labbro, al margine sinistro della bocca, quello sguardo in cui era possibile leggere i segni di un male antico come gli uomini della sua terra. Era la sindrome da scirocco, la sensazione di una violenta e gratuita fuoruscita dalla monade, di un trapasso improvviso da una condizione di immobilità, la nostalgia di un tempo stabile, di una impossibile regressione, quella tentazione del grembo materno e della morte che rimanda al trauma originario, al trauma della nascita». Laggiù, in fondo a quella «luce di un ricordo lontano» (Corrado Alvaro), c’è la freschezza viva della matria, la patria perduta di terra e mare, dove vige – nella coincidenza orfica degli opposti – la dimensione panica della natura. È la mente estatica, la felice condizione di immersione nel grembo del mondo (culla e insieme tomba, questo è il mare) che Mario Luzi cattura in una similitudine indimenticabile: «come pesci in un’acqua luminosa». È il sentimento oceanico a cui Freud accenna ne “Il disagio della civiltà” e che, estratto dal contesto originario, può richiamare il naufragio cristiano nell’oceano sconfinato di Dio: sia nel rapimento dell’estasi, sia negli attimi estremi del trapasso. Quello intrauterino è uno «stato di grazia, uno stato estetico. Il feto, nel seno materno, nuota e danza nel liquido amniotico come una piccola foca, al ritmo del suo piccolo cuore e della musica cantilenante della voce materna, di cui gli giunge come una lontana, rassicurante vibrazione. In principio è la musica e la danza. Poi verrà la visione, l’immagine e la forma, di cui il seno materno resta un modello perfetto. E con la conoscenza avrà inizio il desiderio. Il desiderio desiderante, il desiderio originario, senza scopo e senza oggetto, scoprirà quindi a poco a poco la realtà del proprio desidero. Ma quella musica, quella danza lo perseguiterà per sempre, come un paradiso perduto».
Dalla parte del disincanto gioca la tensione conoscitiva alla verità. Ecco la linea narrativa Silone-Sciascia. L’umanesimo socialista e l’umanesimo cristiano chiamati a dialogare, ricercando insieme una possibilità di accordo sul terreno comune della coscienza critica e della dignità dell’uomo. Pietro Spina, il protagonista del romanzo di Silone “Vino e pane”, segna «la riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale moderna» per una «fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica». Insomma, «Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce», e la sua sofferenza «continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia». Viene anche evocata la differenza che Santucci segna tra il “così è” del regno di Dio e il “come se” del regno dell’uomo: «… il così è è il regno di Dio, la sua paterna prepotenza, il come se è il regno dell’uomo, la sua risorsa, la sua furbizia napoletana. Bisogna che lo freghiamo scombinando le sue regole; è la Sacra Scrittura a insegnarcelo: “Quelli che hanno moglie come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che possiedono come se non possedessero”…». Ecco quindi il tema-cardine della pace, strettamente legato a quelli della giustizia e della verità. Ma il libro è ricchissimo di prospettive che si aprono l’un l’altra lo scenario. Fra gli altri temi che emergono: la “teologia della tenerezza”; lo stupore, l’inesauribile meraviglia per tutto ciò che esiste; la scoperta dello straordinario nell’ordinario, da cui l’amore per le “piccole cose” che poi piccole non sono (come ad esempio le “cose belle” per Aldo Moro: «non erano altro che lunghi giorni sulla spiaggia a Terracina, notti in cui solo lui sapeva calmare i timori della figlia prediletta, e piccole avventure fatte di brevi scappatelle di padre e figlia insieme a prendere un gelato o un paio d’ore al cinema», sicché per qualche tempo, durante la prigionia, «aveva fantasticato di poter essere di nuovo a Terracina al ritorno della bella stagione, di camminare ancora sulla spiaggia con Luca e dare uno strattone a lui e al suo gommoncino»); le rondini per Mario Luzi (lo affascinavano come accordo esaltante di libertà e necessità, che nell’uomo invece sono in rapporto drammatico: vanno dove vogliono entro l’ordine loro assegnato dalla natura, che è quello di volare, e volare in quel modo); il tempo dell’anima, che è l’eternità; la bellezza in fuga (la grazia e il mistero sono sempre sul punto di scomparire, come scrive Cristina Campo, ma questo rende la percezione delle cose ancora più preziosa e struggente); la speranza, l’attesa di un “supplemento di rivelazione” che ci sveli finalmente ciò che non riusciamo a vedere con i nostri poveri occhi mortali, ecc.

Il libro, che ha anche il merito di riproporre all’attenzione autori validi e ingiustamente dimenticati, come appunto la Campo, Elio Fiore, Margherita Guidacci e Biagia Marniti, si articola in due sezioni, di dodici saggi ciascuna. Per la poesia il titolo scelto è “La ferita dell’essere”, che è un verso di Luzi, a significare il trauma che ci ha estromesso dalla contiguità con il mondo delle origini, ma anche la letteratura come risarcimento di uno scacco patito: quello stesso di nascere, oppure qualcosa che accade o purtroppo non accade nel corso dell’esistenza (per esempio la Commedia come compensazione dell’amore negato a Dante da Beatrice: lo slancio infinito verso la bellezza, del resto, ha tutte le caratteristiche di una pulsione inibita alla meta, Orfeo docet, ma si pensi anche al titolo del libro, allo struggente “ultimo sorriso” che segna il commiato eterno di Beatrice – Paradiso, 31, vv. 91-93: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana» – intorno a cui si intrattiene a riflettere Jorge Luis Borges e, sulle sue tracce, Caronia nel saggio conclusivo ed eponimo della raccolta). Per la narrativa il titolo è “Un atomo di verità”, tratto da una lettera di Moro a Riccardo Misasi: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e sarò perdente». Altro mondo, altra Italia. E riflessioni universali senza fine che il libro ci aiuta a recuperare, liberando «il senso vertiginoso, insondabile e metastorico della dimensione spirituale dell’uomo» (il «senso del mistero, del limite della conoscenza umana, il presentimento di un’immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo») e riportando al centro del villaggio globale, ora purtroppo anche pandemico, la maestà della vita coi valori perenni, ormai obsoleti in questa società che guarda ottusamente solo all’utile immediato – da cui la celebre distinzione che Moro faceva tra “politico” e “statista”. «La perdita del sentimento del sacro, la scomparsa dell’uomo, l’eliminazione del “centro” della vita, come amava dire lo stesso Testori, e le parallele conseguenze, la sottomissione alla mentalità dominante, la moralità della vita pubblica, la schizofrenia caratterizzante i rapporti interpersonali», ecc. Scriveva Robert Musil: «L’uomo non c’è più, ne rimangono soltanto i sintomi». Ma sono sintomi nonostante tutto grandiosi e confortanti, aggiungo io, se la cultura è ancora in grado di generare libri straordinari come questo, grazie a cui Sabino Caronia si consacra ad autentico maestro della letteratura contemporanea, e non solo.

Marco Onofrio

“Novecento e oltre” recensito da Gianni Maritati su “Leggere:tutti” (dicembre 2020)

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Torniamo alla letteratura. Marco Onofrio ha raccolto nel volume Novecento e oltre ben 50 saggi critici dedicati ad importanti autori italiani del secolo scorso. Troviamo molti classici come Calvino, Campana, D’Annunzio, Luzi, ma anche molte firme poco note al grande pubblico o addirittura dimenticate, che meritano invece apprezzamento. Agganciato ad una visione europea dell’estetica novecentesca, l’autore dedica poi una speciale attenzione agli autori viventi, facendoci riscoprire la passione della critica militante e la sua inesauribile curiosità per il nuovo che porta il novecento “oltre”. Fra questi autori ricordiamo Dante Maffia, Paolo Di Paolo, Luciano Luisi.

Gianni Maritati

L’estetica di Benedetto Croce. Capisaldi e svolgimenti

ARCHIVIO - CROCE - croce (Agenzia: corbis)  (NomeArchivio: U98186u2.JPG)

L’inizio del “secolo breve” per la cultura italiana è segnato dalla fondazione dell’estetica di Benedetto Croce, autore delle “Tesi di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale” che il giovane e instancabile studioso sviluppa in una memoria letta all’Accademia pontaniana di Napoli (1900), poi ampliata e raccolta in volume nel 1902. L’Estetica rappresenta il primo stadio del suo sistema filosofico in costruzione, che nasce dall’esigenza di oltrepassare le strettoie del determinismo positivistico per cogliere l’unità dello spirito umano – considerato nella sua sfuggente e irriducibile complessità – attraverso lo studio di alcune esperienze costitutive, ravvisabili in quattro momenti “eterni”: estetico, logico, morale, economico, ovvero il bello, il vero, il bene, l’utile. Ripercorriamo la genesi di questa acquisizione, grazie a cui Croce conquisterà e manterrà per decenni una posizione di assoluta preminenza.

Le numerose e dottissime ricerche d’archivio – soprattutto sulla storia napoletana – con cui Croce nutre la sua volontà di conoscenza enciclopedica, fugando temporaneamente le ombre di una angoscia esistenziale che lo perseguita dalla tragedia del terremoto di Casamicciola (1883) in cui ha perso i genitori e la sorella, e da cui è uscito vivo per miracolo, lo spingono a impulsi di “involontario filosofante” in virtù dei quali comincia timidamente ad affrontare questioni di etica ed estetica. L’erudizione fine a sé stessa, difatti, non può bastare ad appagarlo. Allora sente la necessità di aggiungere alla conoscenza del fatto culturale la sua coscienza. E si chiede: cos’è l’attività storiografica? Altrimenti detto: perché si studia la storia? La storiografia viene inizialmente “ridotta sotto il concetto generale dell’arte” (1893), cioè portata entro la sfera della conoscenza individuale, per cui si traduce in riflessione storiografica, e poi anche in storia della teoria storiografica. Questi passaggi risultano fondamentali per l’isolamento successivo del problema estetico, che avviene ne “La critica letteraria” (1894). Nel frattempo Croce rilegge De Sanctis, da cui estrae la nozione di “forma” e la interpreta kantianamente come “sintesi a priori”. L’arte va precisandosi come distinta dalla storia, poiché anteriore a ogni giudizio. L’arte rientra nella sfera conoscitiva come intuizione, ma è un’intuizione pura, dotata di inizialità assoluta, anteriore quindi alla percezione (che è già “giudizio”). Essendo del tutto iniziale, l’arte non è “intuizione + espressione” ma “intuizione = espressione”, per cui contenuto e forma coincidono in unità indissolubile, e solo la loro unità può qualificarsi come “artistica”. Non è del resto concepibile un’intuizione senza espressione. È intuizione in quanto già estrinsecata, almeno nella mente. In realtà non si conoscono altro che intuizioni espresse: un pensiero non è tale se non in quanto formulato a parole. Se a una poesia, per esempio, si tolgono metro, ritmo e parole, non ne resta nulla: con la forma svanisce anche il contenuto, e viceversa. Ciò accade perché l’arte è fatta di linguaggio, e il linguaggio per Croce non è strumento di comunicazione che si adegua dall’esterno a una realtà che lo precede, ma creazione poetica della realtà. Il linguaggio è “anteriore” come l’intuizione: coincide col pensiero stesso. Ecco perché Croce parla di estetica come “linguistica generale”. Il linguaggio è più vicino alla poesia che alla logica; per questo non c’è nessun abisso tra il linguaggio quotidiano e quello poetico: l’uomo comune può parlare come il poeta, e il poeta esserlo pur parlando come l’uomo comune. La vera bellezza, anzi, non è mai “ornata” o carica di orpelli, bensì sempre naturale e appropriata, spoglia di elementi estrinseci, cioè: vestita e risplendente di sé medesima. Coincide con l’espressione completa e compiuta della sua intuizione.
Riassume mirabilmente Giulio Ferroni:

L’arte è “intuizione” fantastica che si dà immediatamente come “espressione”: è modo tutto individuale e circostanziato, in cui il linguaggio si manifesta in una purezza estranea a ogni funzione comunicativa. La prospettiva di Croce mira qui a vedere nell’arte (e in primo luogo nella poesia) una forma assoluta, un modo di creazione precedente allo sviluppo della razionalità, libero dai condizionamenti della realtà e della storia: nell’arte vengono a identificarsi individualità, espressione, intuizione, linguaggio, rappresentazione. Nel definire questa forza primigenia, Croce procede con un vero e proprio estremismo teorico, riducendo e negando il valore di tutti gli aspetti concreti, tecnici, storici, pratici dell’arte; la sua teoria giudica essenziale solo la forza interna e originaria da cui l’arte scaturisce e finisce per ritenere irrilevante il suo stesso tradursi in manifestazioni concrete, in forme tecniche specifiche .

L’esperienza estetica rappresenta vichianamente la prima forma del rapporto dello spirito con il mondo, il livello più originario della conoscenza. È dalle radici aurorali del pensiero e del linguaggio che emerge l’intuizione pura (o lirica) della visione artistica, che è perfetta incarnazione di uno stato d’animo e sua immediata espressione, rappresenta cioè un sentimento che splende tutto e solo per quella visione, giacché ne costituisce l’intrinseco principio vitale, l’alito che la rende autentica, il principio-motore che la spinge a manifestarsi. Croce insomma rivendica il carattere alogico dell’arte, per separarla dalle dottrine concettualistiche che tendono a spiegarla volta a volta come filosofia, religione, morale, scienza, matematica, storia, etc. L’autonomia dell’arte la distingue per ciò stesso da un atto utilitario o edonistico, o dalla conoscenza concettuale (il giudizio viene dopo), o – tanto più – dalle abominevoli tendenze didascaliche che le impongono di contenere un “messaggio”, e indirizzare al bene, correggere i costumi, contribuire alla crescita civile, etc. L’unica morale cui deve obbedire l’artista è quella dell’arte stessa, che va considerata come una missione ed esercitata come un sacerdozio. L’estetica crociana implica anche la negazione della pluralità delle arti, dei generi e degli stili. Ogni opera d’arte è una “creatura” viva, unica e incomparabile come l’intuizione in cui si è espressa. La legge dell’opera non è quella del genere in cui si può estrinsecamente collocare, ma quella che vige nella sua propria individualità. Il numero delle intuizioni esprimibili è potenzialmente infinito e impossibile da ridurre in un casellario di generi o classi. Esiste un solo genere: l’arte stessa, che è arte o non lo è, e se lo è contempla una quantità innumerevole di opere, ciascuna originale, irripetibile, intraducibile (Croce infatti sostiene che la traduzione di un libro non è mai sostitutiva dell’originale).

Nel 1903 l’inesauribile “Leviatano dello scibile” (come lo definì il Labriola) dà vita a “La Critica”, la rivista culturale dove avvengono le prime applicazioni della sua estetica, con i saggi poi confluiti in “Letteratura della nuova Italia” (1914-15). La volgarizzazione e la semplificazione del pensiero crociano, conseguenti al rapido successo ottenuto dalle sue idee, portano al cosiddetto “crocianesimo” degli epigoni, caratterizzato da un dogmatismo più accentuato ed estremo dello stesso iniziatore. Croce non manca di ironizzare sull’avulsione della sua estetica dal sistema della Filosofia dello Spirito, e sulla sua applicazione isolata e meccanicistica: non si tratta di un “metodo” estraibile dal contesto che lo ha generato. Inoltre il dogmatismo, nonché improprio, pregiudica a priori l’efficacia e la ricezione degli svolgimenti ulteriori. L’estremismo teorico degli inizi, infatti, si scioglie nelle successive aperture, con cui Croce acquisisce nozioni nuove come ad esempio la liricità (nella conferenza tenuta ad Heidelberg nel 1908, dal titolo “L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte”) e la cosmicità (nel saggio “Il carattere di totalità dell’esperienza estetica”, 1918) che riaffermano la realtà come unità spirituale dove nulla si perde e tutto è eterno ricorso ed eterno possesso, e l’arte come sintesi totale dell’esperienza umana, eco e compendio dell’uomo intero nel circolo infinito dello spirito. Al problema della storicità, incompatibile con la sua estetica idealistica, concede qualche cedimento tardivo, alla metà degli anni ’30, allorché – pur continuando a negare la possibilità di una storia della poesia – ammette la legittimità di una storia della “letteratura”, intendendo con essa tutto quel sistema di tecniche, convenzioni e istituzioni “al di qua” delle atemporali, ineffabili, folgoranti “intuizioni pure” che permeano e muovono l’espressione poetica. Al netto delle sue innegabili suggestioni, l’estetica crociana difetta proprio di storicismo (volutamente aliena com’è dalla genesi concreta dei testi, dai dati biografici e geo-storici, dai condizionamenti ideologici, dalla destinazione e dalla ricezione sociale della cultura, e viceversa tutta finalizzata al giudizio di valore, cioè alla distinzione censoria tra “poesia” e “non poesia”), e ciò la rende intrinsecamente classicistica, dunque poco attuale e difficilmente adattabile alla tumultuosa e disarmonica complessità del mondo contemporaneo. Tanto più che già lo era, per molti versi, ai tempi di Croce, allorché egli si dimostrava costituzionalmente inadatto a comprendere gli autori della “nuova Italia”, rei di aver turbato la “sanità” carducciana con la degenerazione morale della “malattia” decadente; da cui i giudizi fortemente limitativi, fra gli altri, su d’Annunzio (definito “dilettante di sensazioni”) e Pascoli (tacciato di velleitarismo e denigrato finanche all’insolenza).

Marco Onofrio
(da Novecento e oltre, EdiLet 2020)

“Il dannunziano”, racconto inedito (2002)

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Riemergo all’improvviso dall’abbiocco, a uno sbalzo del treno che si ferma. Dove siamo? C’è il cartello azzurro, là fuori, proprio all’altezza del finestrino, e recita: SULMONA. Ho un mal di testa feroce e la bocca impastata. Devo aver dormito molto, la testa ciondoloni al poggiacapo… spero solo di non aver russato. Che poi forse – di che mi preoccupo? – neanche mi avrebbero sentito, i compagni di viaggio. Lo scompartimento, infatti, è animato da una bella discussione. Chiacchiere da treno, si sa, ma orientate sul “profondo”, l’“impegnato”. Siamo in cinque, me compreso. Tiene banco un esile e soave signorino in completo grigio-azzurro, con gli occhialetti da prete in seminario. La sua vocina petulante di zanzara. Il suo modo cavilloso di affrontare le questioni più minute, di analizzar le cose, di vagliare e sezionare ulteriormente. L’eloquio affettato e forzoso. Si compiace di spaccare il capello. La grazia ingessata, la fredda innaturale gentilezza. Si dichiara, e in parte si dimostra, “dannunziano” – infatti, non a caso, è di Pescara. Ha estratto, chissà da quanto, un suo smilzo libercolo di poesie, stampato in proprio, e deve averne già lette parecchie, nei modi e nei tempi opportuni: forse per meglio avvalorare le proprie tesi, e dare maggior sfoggio di sé, della propria eloquentissima persona (e, insomma, parliamoci chiaro: anche per far colpo sulla ragazza belloccia che sta qui, al sedile numero 15, e lo ascolta assente, o assorta, misteriosa, senza emettere parola, se non – quando interpellata – rari e strascicati monosillabi).
L’arrivo a Sulmona gli ha porto il destro per “deliziarci” con alcune dotte citazioni del poeta latino Ovidio, che di qui era originario: tratte dalle Heroides e – mentre guarda di sottecchi la belloccia – dall’Ars amatoria (il lumacone!). La vecchietta del 18, col collarino di pizzo e il collo rugoso da tartaruga, chiosa la flautata recitazione (ovviamente in latino) con un applauso e un “Evviva” di circostanza – ipocrita! –; quindi, sorridente, offre a tutti, da un involto ricamato, sciolto per l’occasione, alcuni confetti di Sulmona, noti in tutto il mondo per la bontà, bianchi e rosa, a forma di cuore. Accetto, ringrazio e – goloso come sono – me ne sgranocchio tre. Basterebbe, per finirla in bellezza… Macché! Tosto rincipia a trillare, il cardellino, mentre ancora mastica i confetti (verrebbe da dirgli: “Ma zitto e mangia”)… Imperterrito, assiduo, martellante. Forse è anche per questo che la vecchietta, disperata come gli altri, ha tirato fuori il bell’involto: per tenergli occupata la bocca! Ma se è così, beh, gli offriamo il pranzo e pure la merenda…
È filologo, è retorico. Rende tutto frusto e anticato. Invecchia ciò che tocca: come re Mida l’oro. Sentitelo! Ha virato il discorso sulla morte! Ma che c’entra? Sicuramente gli serve – ancora una volta – per fare sfoggio di cultura, per uscirsene con qualche citazione… Ma lo vuoi capire che la donzella qui di fronte non ci sta? Con te, almeno: ché invece a me mi vede eccome – già da un po’ ci scambiamo sguardi d’intesa, ammiccanti nei tuoi confronti, a dirci che sei un tipo bizzarro, a prenderci di te (insomma: ti stiamo usando per imbastire il filo, bigongo che non sei altro…) È inutile che insisti: lascia stare! Macché: continua e continua e continua…
Eccola, la citazione, puntuale molto più del treno (che intanto ha ripreso il viaggio): Heidegger, e il concetto di “vivere per la morte”. Sostiene, il signorino, che muore solo chi desidera la morte, chi l’accetta a livello metafisico: che se uno muore è perché in realtà l’ha voluto lui, sebbene in modo profondissimo e inconsapevole. La morte non tocca chi non la chiama, perché ancora non è pronto, perché ancora ha molto da fare sulla terra… «Beh… ma allora chi muore giovane?» azzarda la vecchietta, interpretando il pensiero comune. «Veda» dice il signorino, eludendo affatto una risposta «lo scopo della vita è… (pausa ad effetto solenne) è quello di raggiungere quel grado di maturità tale… (altra pausa) per cui non bisogna dire non sono ancora pronto, debbo prepararmi… (altra pausa) La vita si realizza, diventa se stessa nel suo pieno compimento, quando la morte è pari all’uomo: o meglio quando noi le siamo pari, le diamo del tu, la guardiamo a testa alta». La vecchietta annuisce in silenzio, con sorriso artificiale e imbarazzato. Tutti lo assecondano come un matto, anche se nessuno sa che dire. E lui, con tono melodrammatico (ma la voce gli salta, gli esce male, da eunuco): «Si vive per imparare a morire».
Oh, la grande frase! Agli atti della Storia, signori: ci ha svelato il senso della vita!

“Ma che dici, baggiano” penso tra me e me “… Ma non è forse che si vive per vivere, per non dover morire? E che l’imparare, semmai, riguarda il vivere, questo vivere benedetto, piuttosto che il morire?”.
Devo aver pensato ad alta voce (e dalle labbra l’ombra di un qual suono), poiché tutti poi mi guardano sorpresi.
Prego? mi soffia il signorino deglutendo.
«… Scusi» comincio «… non vorrei sembrarle scortese…»
La belloccia mi guarda piacevolmente incuriosita, e questo mi dà carica.
«Dica, dica» fa lui, illuminandosi di nuovo entusiasmo, «sono molto interessato alle opinioni altrui su questo tema, di cruciale importanza e stupendo fascino filosofico… dica, dica…»
«No, ecco… volevo farle notare…»
«Dica, dica… Sono certo che il suo pensiero saprà nutrirmi di spunti interessanti, sino a farmi raggiungere livelli sempre più elevati di contezza, circa la… dica, dica…»
«Sa, non è per contrariare, ma…»
Intanto, «Con permesso, con permesso…», i nostri compagni di viaggio, chi accampando una scusa e chi nient’altro che un sorriso, cominciano a telare, alla chetichella.
E lui, noncurante: «Dica, dica… non credo più nulla, al mondo, che al patto interno e puro delle menti, di due persone intelligenti, le quali fan tesoro di cultura, di bella civiltà, nell’avanzare l’altro in dolce misurata umanità… dica, dica…»
La belloccia non ce la fa più a reprimersi, e scappa per non ridergli in faccia. Siamo rimasti soli, infine: io e lui. S’illumina di fulgore, brucia. Quasi non aspettasse altro.
«Dica, dica…»
Io, un po’ contrariato: «… Ecco, appunto, se mi lascia dire…»
Ma mi accorgo che comincia a guardar fisso, a parlare come un automa. Allora taccio per averne conferma. Infatti, dopo qualche istante…
«Dica, dica… è sempre stato il mio forte, la facoltà d’ascolto, nella virtù dell’altro… e invece qui mi sento – non bene – com’uomo burattino in alto mar… dica, dica…»
Allora arretro, spaventato, guardandomi intorno: che mi soccorra il vuoto, il circostante.
«Dica, dica… Vaneggiamenti poetici? Ah… Ma sa che non capisco… perché io son così… Un giorno si stupì… pur anco la mammina… Di certo era mattina… quando dal cuor partì… lo stimolo sincero… l’amore quello vero… dica, dica…»
Io basito, in silenzio. Dev’essere la crisi di una strana malattia.
«Dica, dica… che adesso non so più… che cosa mai inventare… per farla innamorare… avvegna ch’io volessi… gittarle due parole… baciarla sulla bocca e poi morire… dica, dica…»
Basta. Così, un po’ per reazione incondizionata, un po’ perché stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e… PEM… gli assesto un manrovescio con i fiocchi, da farlo rivoltare. Si schiaccia contro lo schienale del sedile, gli occhiali di traverso, muto, la bocca aperta e la testa all’indietro. Sento che gorgoglia qualche suono, colando di bava filante. Poi si spegne, decresce a vista d’occhio… si sgonfia, come un pupazzo di gomma, un salvagente…
Orrore. Mistero. Follia.
Prima che scompaia, prima che si sciolga interamente, di medusa al sole, faccio in tempo a sgattaiolare dallo scompartimento e inoltrarmi nel corridoio (con la speranza, non ancora sopita, di agganciar daccapo la belloccia), proprio mentre il treno infila l’ennesima galleria del viaggio verso Roma, come un sigaro in bocca alla montagna.

Marco Onofrio
(racconto inedito, 2002)

“Novecento e oltre” su “Il Caffè dei Castelli romani” del 4 giugno 2020

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Il periodo di quarantena non ha rallentato la vulcanica officina letteraria di Marco Onofrio, che ha anzi approfittato del forzato “riposo” per scrivere nuove opere e portarne a termine altre. Così, appena riaperte le tipografie, ecco la sua ennesima raccolta di saggi: “Novecento e oltre. Letteratura italiana di ieri e di oggi” (EdiLet). Il faro al tramonto riprodotto nell’immagine della bellissima copertina la dice lunga sullo spartiacque tra due secoli che Onofrio si propone di esplorare. A vent’anni dall’inizio del nuovo millennio c’è ormai la necessaria distanza critica sia per fare un bilancio del secolo scorso, sia per evidenziare i fermenti che ne stanno portando “oltre” l’eredità e l’essenza. Il libro consta di 50 saggi critici, con addentellati europei, che configurano «una vasta e potente analisi del Novecento letterario italiano, e di alcune tra le più significative opere contemporanee». Ad una prima parte di “Preliminari” estetici, dove fra l’altro si parla di un mostro sacro come Benedetto Croce, segue una seconda di “Letture” focalizzata su alcune opere fondamentali, da ”Alcyone” di d’Annunzio a “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, da “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti al “Pasticciaccio” di Carlo Emilio Gadda, da “Gli egoisti” di Bonaventura Tecchi a “La vita agra” di Luciano Bianciardi – ma si parla anche di Pascoli, Campana, Luzi, Calvino, Patti, Tomasi di Lampedusa, Ungaretti, Caproni, Pasolini, etc. Segue un “Intermezzo” dedicato ad autori meno noti o dimenticati (Pitigrilli, Malaparte, Manganelli, Fiorentino, Bajocco, Seccareccia, Dolores Prato), meritevoli di scoperta o riscoperta per la qualità oggettiva della loro scrittura e il valore emblematico delle loro opere. L’ultima parte, “Contemporanei”, procede alla lettura di 14 libri usciti dopo il 2000, soprattutto romanzi, e annovera anche tre autori legati al territorio dei Castelli Romani: Aldo Onorati, con “La speranza e la tenebra”; Paolo Di Paolo, con “Una storia quasi solo d’amore”; Lina Raus, con “Nostra signora Solitudine”. Il libro di Onofrio sarà utile di sicuro agli studenti, ma anche a chi desidera conoscere e approfondire la società italiana del secolo scorso, fino ai giorni nostri, attraverso i suggestivi riflessi della letteratura. E non spaventino le 416 pagine del volume: “Novecento e oltre” si legge tutto d’un fiato, come un romanzo, perché Onofrio è un eccellente saggista divulgatore e sa appassionare come pochi alla materia di cui scrive, proprio perché sincera e viva è anzitutto la sua passione.

M. S.

 

Dante Maffìa su “Novecento e oltre”. Recensione in forma di epistola

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Caro Marco, non meravigliarti, c’è sempre una prima volta, ed ecco una recensione in forma di epistola.
Caro, caro Marco, non t’aspettare elogi, sarai subissato da quelli che non appaiono nel tuo libro Novecento e oltre. Letteratura italiana di ieri e di oggi (EdiLet, 2020, pp. 416, Euro 23), che non sono esclusi, semplicemente non sono stati ancora studiati, forse non lo saranno mai o lo saranno presto, ma la canea si scatenerà e finiranno addirittura col mettere in giro la voce che non è possibile che una sola persona possa avere prodotto e continuare a produrre romanzi, poesia e saggistica in questa quantità e con la qualità che ti appartiene. C’è sicuramente il trucco, hai dei negretti al tuo comando che ti scrivono le opere. E se si fermeranno a questa diceria ti sarà andata anche bene, perché la canea in genere ha mentalità mafiosa e non va oltre il proprio cortile, riconosce solo gli adepti, le ballerine scritturate.

Hai avuto, dopo avere dato alle stampe altri dodici volumi di saggistica (dico dodici! tra cui le monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti e Giorgio Caproni), il coraggio di scrivere un libro di oltre quattrocento pagine in cui ragioni (voce del verbo ragionare e dopo avere fatte le letture, sia chiaro), nella prima parte, di quelli che hai chiamato “Preliminari”, cioè parli di Benedetto Croce, di Lessing, di Omero, delle tecnologie linguistiche, per passare alla seconda parte, cioè alle “Letture”, tutte puntuali! Ma davvero sei stato capace di ripercorrere un itinerario così denso, interessante e scelto con cura? Davvero hai avuto modo di leggere Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, il Futurismo, Mario Luzi, Calvino, Gadda, Tecchi, Bianciardi, Patti, Ottieri, Pasolini e Fellini? E poi le “Scoperte” e le “Riscoperte”, andando a pescare in Malaparte, in Manganelli, in Zavattini, in Dino Segre, in Luigi Fiorentino. Sei pazzo? Dovresti imparare che se alcuni autori vengono messi da parte, dimenticati, spesso cancellati, c’è una ragione del Potere, quale che sia, che ha interesse a mettere a tacere quegli scrittori, quei libri. Sei pazzo, come vuoi che il potere ti assecondi e ti batta le mani, ti faccia i complimenti? Le riscoperte si fanno per ragioni politiche, mica per ragioni estetiche o di merito. In letteratura il merito non conta più, ti prego, non dimenticarlo.

I guai grossi comunque li hai combinati nell’occuparti dei “Contemporanei”: Raffaello Utzeri, Sabino Caronia, Paolo Di Paolo, Lina Raus, Paolo Corradini, Francesco Sisinni…Temo che sarai sfidato a duello e se non accadrà, non tornare mai solo a casa a tarda notte, rischi la vita. No, non dire che sono pessimista, perché ho fatto una decina di telefonate oggi pomeriggio dicendo che avevo tra le mani “Novecento e oltre” e la sola domanda che mi è stata fatta, prima ancora che io dicessi della mia gioia di leggere pagine così profonde, criticamente limpide, frutto di letture vere e ponderate, è stata “Ma io ci sono?”. Ho sentito all’altro capo del telefono parole aspre, che non ti ripeto, e la cosa che mi ha fatto e mi fa ridere è che ognuna di queste persone ha perentoriamente detto, quasi con le medesime parole: “Ma come? Un libro sul Novecento non ha senso senza la mia presenza, è sicuramente un aborto”.

Ora, se gli aborti sono creature così ricche, agili e affascinanti come il tuo “Novecento” ben vengano per la felicità dei lettori che sono realmente interessati ai libri belli, che contano, che sanno dare la dimensione del futuro, della bellezza intesa come strumento per rigenerare il senso della vita. Posso dirti comunque che alcune di queste pagine non solo le ho lette, ma anche rilette, perché mi hanno portato a stagioni dei miei studi che mi hanno visto frugare e appassionarmi ai testi di Giuseppe Antonio Borgese, di Emilio Cecchi, di Giuseppe De Robertis, di Enrico Falqui, di Pietro Pancrazi, di Donato Valli, di Giovanni Titta Rosa, di Giacinto Spagnoletti, di Luigi Reina, per fare appena qualche nome, e che mi hanno insegnato a saper entrare con attenzione e passione nelle pagine degli scrittori perché li avevano realmente letti. Come hai fatto tu. Che poi si debba essere sempre d’accordo con quel che hai affermato è altra faccenda, perché nelle letture c’entrano anche il gusto, la formazione, la sensibilità.

Questo tuo “Novecento” potrà essere prezioso per gli studenti e per i professori, anche perché sono illuminanti le affermazioni fatte sulle questioni metodologiche, che non si fermano alle enunciazioni, alla teoria, ma danno esempi probanti sempre tratti direttamente dai testi. Per quel che vale la mia testimonianza ti do atto che hai scritto un libro necessario, importante per entrare a testa alta nel mondo dei libri che, me lo insegni, sono creature straordinarie se saputi trattare con umanità, con intelligenza e con eleganza. Ma torno a ricordarti che, proprio perché hai dimostrato di essere bravo, troverai sul tuo sentiero veleni d’ogni genere. Perché non sei stato un mediocre menestrello che spampina sentenze, e di cani e porci dice “è il più grande scrittore del secolo”. Avresti avuto battimani a non finire.

Hai voluto essere bravo? Peggio per te. Non dimenticare di rincasare presto ogni sera.

Dante Maffìa

Esce “Roma raccontata da venti scrittori italiani del ‘900”, a cura di Marco Onofrio

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Con ampia introduzione critica dello stesso curatore, il volume seleziona e raccoglie brani emblematici del rapporto con Roma che noti autori del Novecento italiano sviluppano in alcune delle loro opere più significative. Un percorso alla scoperta di Roma attraverso lo sguardo degli scrittori.

Elenco degli autori antologizzati: 

Sibilla Aleramo, Gabriele d’Annunzio, Alba De Céspedes, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda, Carlo Levi, Giorgio Manganelli, Elsa Morante, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Ercole Patti, Luigi Pirandello, Dolores Prato, Enzo Siciliano, Mario Soldati, Bonaventura Tecchi, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Vigolo.

 

 

 

 

 

“Casa di morti”, di Francesca Farina. Lettura critica

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Francesca Farina ha scritto un romanzo torrenziale e bellissimo (Casa di morti, Bertoni Editore, 2018, pp. 484, Euro 18), dove le cose si traducono in parole e le parole sono così forti, evocative, palpitanti di energia poetica, da trasformarsi in “cose” più reali e vere delle cose stesse. Ci troviamo dinanzi a un’opera a forma di “Mondo”, che procede con mano sicura e vista lungimirante nella ricostruzione antropologica, eziologica e filologica di una cultura, quella della Sardegna pastorale dell’entroterra nuorese, tanto profondamente da portarsi alle radici della Storia, sarda e non solo, esplorando il “silenzio di una lunga eternità” auscultata con strumenti di grande captazione, “come inseguendo una città perduta”.

Lo snodo tematico fondamentale del libro è il rapporto dialettico tra il “patrimonio incommensurabile” della Memoria, di cui l’autrice si autoproclama devota “vestale”, e il tremendo inghiottitoio dell’Oblio, cioè il “vento della dimenticanza” che soffia l’orrore della verità, oltre il velo delle illusioni squarciato dalle “unghie di un tempo distruggitore e feroce”, per cui il tumulto dei giorni (persone, vicende, cose) è destinato inesorabilmente a incenerirsi, a diventare polvere, ombra, silenzio. La Storia è una “macina” che schiaccia i suoi nati “come semi di grano”: l’esistenza degli uomini passa come “sabbia attraverso un crivello” senza lasciare tracce se non c’è chi, come lo scrittore, spende tanto ammirevole impegno per darle significato, voce, parola. Alla forza “invisibile e potente” della Storia si contrappone la disperata resistenza del Borgo, con la sua “immobile trama” scolpita dentro il cuore dei millenni.

Francesca Farina parte dalle origini mitiche (dal Sardus Pater alla stirpe eroica degli Iliensi) per poi chiamare in causa gli invasori, spesso persecutori del popolo sardo (Fenici, Punici, Romani, Bizantini, Saraceni), fino alle soglie della modernità, quando i Piemontesi chiamano a combattere le truppe dei coscritti isolani, come l’antenato impegnato in Crimea nel lungo assedio di Sebastopoli o, qualche anno più tardi, nella battaglia di Palestro. E costui, come tutti gli altri, “non sa bene cosa stia facendo, perché porta quello zaino di venti chili” che lo ha strappato, per decisione altrui, alla vita agreste del Borgo. L’insensatezza della guerra, certo, ma anche l’orrore della carneficina: spaventose mutilazioni, squarci sanguinanti, petti dilaniati, capi mozzati e ovunque terribile fetore di putrefazione: il campo verde di grano trasformato entro poche ore in campo di morte. L’autrice ci fa percepire la tensione insostenibile dei soldati “vedendo cadere i compagni e scansando la morte ogni momento”. E poi, su tutto sovrastante, il Caso-tiranno con le sue circostanze imponderabili: “chi si crede al sicuro in seconda linea è stanato come una lepre, mentre colui che presta il fianco alle pallottole è risparmiato da una misteriosa coincidenza di fatti”.

La forza del passato, dunque, con la sua potenza schiacciante: poiché il presente e il futuro sono inesistenti per quella cultura dove “il passato era presente e futuro insieme, era la Storia”. Ecco pazientemente ricostruito il tessuto organico e sociale di una terra plasmata dalle “dita dei secoli” e abitata da “spiriti indomabili”, dove alla tracotanza dei maggiorenti (come la stirpe mitica dei Barones) si contrappone la fierezza di pastori e contadini dalla tempra forte e selvaggia, dotati di qualità “leonine”, virtù “ferine” e “smisurato orgoglio”. Vivono, sopravvivono anzi, sempre sull’orlo dell’abisso: l’incognita della natura in perenne agguato (alluvioni, siccità, epidemie) li costringe a “mordere la vita coi denti” per consumare stentatamente il “pane di dolore”, l’“acqua di sangue” e il “latte di morte”.

La società chiusa, crudele e implacabile rende il Borgo un “paese dell’eterno lutto” dove regna il silenzio dei millenni, un silenzio “forte, sonoro, abbagliante”, sempre prossimo a una rivelazione. La pagina a questo punto traluce della dimensione ancestrale che sostanzia l’anima autentica della Sardegna, coi Nuraghes maestosi e inquietanti “simili a giganti muti e fermi”, e le figure ieratiche degli indigeni dai volti che “parevano scolpiti nel granito delle montagne” e le usanze ataviche protette dai vincoli sacri del sortilegio, e le donne “simili a bibliche eroine” con la loro attitudine millenaria “ereditata dalle ave più lontane” che avevano la stessa posa anche centomila anni addietro… Prima del traumatico arrivo della modernità che ha bruscamente accelerato la Storia, la continuità del mondo procedeva intatta e ininterrotta: i tempi erano sostanzialmente uguali a quelli dei secoli precedenti. Il rapporto coi fenomeni era contrassegnato da una forma di animismo primordiale che spingeva ad “adorare le querce e le fonti” sgorganti dai pozzi della dea Acqua (ad esempio il pozzo sacro di Santa Cristina). Nei tempi più remoti, infatti, “tutto era sacro per gli uomini, la terra, i fili d’erba, la pioggia, l’acqua e la neve”. Incessantemente si invocavano gli dei che “sembravano essere dappertutto, perfino nella corbella del cibo, nel pane e nel sale”. Il silenzio impenetrabile delle case era affollato da strane “presenze” di cui parlavano gli scricchiolii, le travi di legno impegnate da inquietanti e invisibili passaggi: per le scale transitavano di continuo le anime dei trapassati, i morti si aggiravano per le stanze e sorvegliavano i gesti dei vivi. I vivi e i morti erano uniti indissolubilmente, per cui non si contavano le “visite” dall’universo parallelo dell’altra dimensione, e “la paura di un incontro era pari al desiderio dell’incontro stesso”. Brividi di repulsione e attrazione connaturali all’eterna crosta della humana conditio. Così scrive Francesca Farina: “Che cosa tremenda, questa, che ogni giorno poteva essere l’ultimo e perfino ogni ora, ed ogni attimo potevano essere gli ultimi! E che cosa c’era, dopo? Perché era così inevitabile e pauroso quel passo? Perché era tanto tenacemente radicato in ogni creatura vivente l’istinto di morte? E perché tutti ne avevano desiderio ed orrore?” Il silenzio era dunque carico di presagi, e il buio nascondeva presenze sovrannaturali. La soffitta e il fòndaco, da questo punto di vista, erano i luoghi più misteriosi e paurosi della casa. La consuetudine con la morte “rientrava nella vita normalmente”. I morti preannunciavano gli eventi, quasi sempre luttuosi, attraverso un sogno, il verso di un rapace o un qualsiasi segno manifestantesi tra le pieghe più ordinarie del quotidiano.

La società era repressiva, i divieti soffocanti, il Borgo occhiuto come un Argo preposto a sorvegliare incessantemente per spegnere sul nascere il libero sviluppo delle energie. Ogni singola Casa, come la cella dell’unico alveare, era “luogo di oblio, di dolore e di morte”: tenebrosa, opprimente, con le camere perennemente chiuse, abitate da un silenzio luttuoso, così profondo “da far male” come presagendo una sciagura. La vita era dominata da un dolore primario che nasceva dalla negazione assoluta del piacere e della vita stessa. L’amore era parola inconcepibile e impronunziabile, “quasi una bestemmia”. L’educazione barbara dei fanciulli li teneva per “oggetti, piuttosto che per soggetti pensanti (…) ad essi tutto veniva negato, perfino lo sguardo, la parola, nonché il cibo, il vestiario: ogni cosa era ridotta a poco, all’essenziale”. Un unico vestito doveva bastare per anni, ma soprattutto non c’era spazio per i sentimenti: venivano negati e condannati, “l’unico valore approvato era il silenzio”. Sguardi, carezze e baci erano “sepolti in bare di granito” e tali “mancati gesti” e “tenerezze non date” generavano una “supplica perenne negli occhi”, una “spaventosa immotivata tristezza” e l’incapacità di manifestare sentimenti: chi non ha avuto mai amore, mai potrà darne. Dopo una simile amarissima infanzia, lo “straniamento, la disperazione, la nevrosi emergevano inesorabili”. Ecco ad esempio Juanne Maccus, il matto del villaggio, con gli occhi e i modi da cane, così bisognoso di amore e di riconoscimento da dimostrare “folle fedeltà a chiunque gli mostrasse un poco di attenzione”. Infatti, precisa Francesca Farina, “le violenze subite dai bambini di quelle ferali case di morti avrebbero fatto un nido di terrore nelle più intime fibre del loro essere”.

I sardi, così, emergono dalle pagine come un popolo “triste ed austero” divorato da un “tetro rovello di morte e di dolore, di lutto incessante”. E il “dolore di esistere” come una “malattia sopportata senza mai farsene avvedere”. Una vita di “lavoro inenarrabile e di stenti, di divieti, di odio e di massacro”: fame, fatica, dolore, disperazione, miseria, solitudine, emarginazione. Il romanzo, perciò, è come un “arazzo variegato” mirabilmente ordito da Francesca Farina, “instancabile tessitrice” delle proprie origini, ovvero “racconto ininterrotto” (novella Sherazade) per sopravvivere al tempo e farlo sopravvivere, ma anche come restituzione del maltolto ai “vinti” e loro postumo riscatto per le ingiustizie patite dalla Storia. Da questa fonda oscurità sorgeva poi, con l’istruzione obbligatoria, la “luce della scrittura”. Ma a scuola c’era un “maestro indimenticabile, che insegnava picchiando e urlando senza posa, terrorizzando gli alunni che nulla apprendevano se non la paura”. Naturalmente, dati i tempi di cui si parla, è quasi superfluo accennare alla inveterata subordinazione femminile (sin da fanciulle erano “sepolte vive” nel “carcere della Casa”, chiuse nelle stanze, assoggettate al “capestro della famiglia” e legate alla “ferrea catena stretta intorno al focolare”), da cui osavano emergere le donne-tigre dal temperamento ribelle, spesso tempestose e devastatrici come Erinni, e poi, forse, le donne liquide, le dee d’acqua, calme in apparenza ma bruciate dal fuoco di un “furore frenetico”. Anche se, a dire il vero, la Sardegna si distingueva da altre terre per una stabile tendenza al matriarcato, derivante dalla necessità delle donne di governare casa e prole durante i periodi di assenza – anche mesi – degli uomini, impegnati nella pastorizia. E così gli guardi erano offuscati da una “millenaria abiezione” ma talvolta, per contrasto, invasi dalla “straordinaria forza vitale” che li faceva resistere al male, al dolore, all’insensatezza, con le pupille accese da una “folle speranza, una forza oscura e segreta, la vita insomma”.

Poi ecco, con l’arrivo distruttivo della modernità, la fine di un mondo, sepolto dalle colate di asfalto e cemento, e ingannato dalla falsa felicità della chimica: “tutto, ad un tratto, divenne di plastica, perfino le sedie, i mobili, i soprammobili, le rose, le statue, i vestiti” (di nylon terribilmente infiammabile) e insomma tanti oggetti scadenti e inutili che annunciavano l’effimera civiltà del consumismo. Con la conseguente e progressiva devastazione della natura: alberi abbattuti, siepi divelte, sorgenti prosciugate, sentieri cancellati, raganelle scomparse, al posto dei “miti orti paesani” i “pretenziosi giardini” dei borghesi neocapitalisti, etc.

Ma la Sardegna autentica vive per sempre nel sangue, nella “radice del cervello”, nel “fiocco dell’anima”. La panoramica d’assieme si precisa ulteriormente con gli “affondo” della seconda parte, dedicata ai ritratti di figure della Famiglia, come le tre indimenticabili zie Enne, Nenne e Memme, quest’ultima specialmente, la “Tigre ircana” simile a Medea “ma incorruttibile, Medusa e Maga ammaliatrice” e quasi sempre “urlante e rabbiosa”, con un “diavolo per capello”. Luoghi, oggetti e volti, sepolti nella memoria, restano “come sedimentati nel fondo della coscienza, quasi fatti coscienza essi stessi”. Il “mal di Sardegna”, che ben conosce anche il turista quando abbandona l’isola, colma gli occhi e il cuore di nostalgia della terra edenica intravista fra gli scenari di quella reale: una specie di amore struggente, quasi desiderio carnale, di quelle piante, quelle rocce, quelle creature. Il paesaggio esterno si traduce in paesaggio interiore: “di ogni albero” leggiamo “portava nel sangue la visione fremente, instillatavi da un milione di anni, dacché un essere tanto simile e tanto diverso, ignoto a lui, ma fratello, aveva colto per primo quei fruttici, quelle bacche”. È la continua coscienza di essere, ciascuno di noi, l’anello di una catena infinita – e dunque il senso vivo della Storia di cui siamo parte e che di noi si compone – a conferire alla scrittura di Francesca Farina la sua tipica, particolare e universale profondità, per cui dietro le parole si avverte “un universo intero, di stelle e di abissi”, mentre la linea esteriore corrisponde “a una linea interiore (…) a volte sinuosa e spiraliforme, sfrecciante e sfuggente”.

Nel mondo e nel “modo” epistemico di questo romanzo ogni cosa ha un nome e, viceversa, ogni nome “è” una cosa (nomina sunt res, diceva Giustiniano). In quella Sardegna “ogni collina, ogni sentiero, ogni roccia portava, come le persone, un nome” e quindi la scrittura cerca idealmente di dare udienza e voce ad “ogni macchia, ogni arbusto, ogni foglia e ciascun fiore screziato”, “evocando la estrema ricchezza della natura”, nella sua inesauribile fenomenologia, e “osservando come il più acuto e sottile entomologo ogni insetto, ogni sepalo, ogni bacca, ogni goccia di rugiada”. L’autrice è talvolta presa dal demone dell’enumerazione, come quando descrive i gioielli tradizionali delle donne sarde o nomina, nello spazio di mezza pagina, oltre 30 tipi di piante diverse, anche quelle “dai nomi poco usati” (per citare Montale) come l’iperico, l’ononis, il colchico e l’euforbia. È una scrittura che sa unire le matrici opposte di Verga (la concretezza icastica di una parola che è pietra e carne) e D’Annunzio (la musica della prosodia) in pagine di grande equilibrio compositivo ed efficacia lirica, come nel passo seguente: “il mistero del futuro era grande e indefinito come quello della luna che, sporgendosi da una foresta di nubi, guardava con occhi cupi nel fondo dell’universo”.

La composizione poietica in prosa di “Casa di morti” riporta in auge la questione pluri-millenaria della Mimesis, che per Platone (X libro della “Repubblica”) è mendace in quando copia della copia della verità. Per Dante il realismo cosiddetto “figurale” annunzia e manifesta la realtà vera, quella trascendente. Quello di Francesca Farina è un realismo simbolico e fenomenologico, che vuole definire senza finire, cioè senza limitare la ricchezza dell’esistente negli schemi riduzionistici dove “non cape”, per inseguire l’irraggiungibile e inconcepibile realtà delle cose così come sono, evocando – quasi oltre le parole – quel “linguaggio privo di mediazione” a cui Hofmannsthal dedica, all’inizio del ‘900, la sua “Lettera di Lord Chandos”: la bellezza si rivela alla mente e “in ogni piega del cuore” come “perfezione di forme”, “beata opulenza di colori”, “memoria indelebile per i giorni venturi, ricchezza inesauribile, gioia perenne”.

Nelle opere la critica stilistica tende a esaminare anche la struttura dello spazio letterario. Ad esempio la “Divina Commedia” predilige lo spazio verticale, adeguato alla visione trascendente e medievale di Dante; l’“Orlando Furioso” lo spazio orizzontale, adeguato alla visione laica e rinascimentale dell’Ariosto; la “Gerusalemme liberata” mescola allo spazio verticale del cristianesimo quello orizzontale del paganesimo, etc. Qui lo spazio è, piuttosto, circolare, giacché asseconda la ruota del tempo e la dinamica ciclica delle incessanti trasformazioni. Non a caso le due parti di cui il libro si compone sono intitolate “Nel cerchio delle colline” e “Nel cerchio della famiglia”, e gli stessi personaggi emblematici della narrazione (come le tre zie) sono come magneti attorno a cui ruotano i satelliti degli altri, in una coralità che incide a propria volta la sua spirale dentro il cerchio misterioso della vita.

“Casa di morti” è un romanzo straordinario, non solo a livello storico e antropologico, ma anche a livello ontologico, di scrittura del mondo, di presa della realtà ad ogni livello della materia. La sua scrittura ricchissima e multisensoriale ripristina la dicibilità totale dell’esperienza, e dunque la perduta centralità umanistica come cardine e misura delle cose, ma con un senso “postmoderno” di apertura universale, di nuova umiltà e devozione all’essere. Ma è soprattutto il tema della Memoria a rendere il libro degno della massima attenzione. La scrittura come esorcismo dell’oblio e arca di salvezza delle cose, altrimenti destinate a scomparire. “Di ogni cosa, alberi e visi, mani e foglie, parole e fruscii del vento, tutto si portarono via gli anni”, così è scritto nell’ultima pagina; e tutto il ponderoso e poderoso romanzo che si è letto fino a quel momento non è altro, in definitiva, che il tentativo – riuscito – di opporre una misura di resistenza umana a questa sparizione.

Il libro è importante, da ultimo, anche per la sua magnifica inattualità, che lo pone in controtendenza alle mode letterarie oggi imperanti, stabilizzate sul “mordi e fuggi” di un facile e preconfezionato “intrattenimento”. Un punto fermo da cui muovere per riportare la narrativa italiana ai fasti dell’arte che un tempo, neanche troppo lontano, usavamo chiamare “Letteratura”.

Marco Onofrio