Lina Raus incarna il prototipo dell’operatore umanistico che, coniugando arte e scienza nella comune matrice psicanalitica, si fa scrittore per elaborare dal vissuto, proprio e altrui, la narrazione interna ed esterna della nostra epoca. I suoi romanzi ispezionano le connessioni che annodano o sciolgono la psicologia dei gruppi sociali in tessuto comunitario, articolando i campi di forze e i rapporti in macro-sintesi attraverso cui, successivamente, la cronaca si cristallizza in storia. È un discorso indirettamente civile: la penna affonda la sua lama nella crisi, perscrutandone l’anatomia, l’estensione, i confini, le ferite, le suture, le putrefazioni, le possibilità di cicatrizzazione.
La scrittura di Lina Raus non persegue finalità precipuamente estetiche – l’arte per l’arte esula dai suoi interessi – ma assolve a un compito gnoseologico e terapeutico, di chiarificazione interiore e benessere sociale. Storie tragiche di dolore, certo, ma anche di guarigione, di rinascita, di emancipazione. La psicoterapeuta e scrittrice originaria di Minturno ha sempre provato un “bisogno particolare di essere vicina ai più deboli, ai sofferenti, ai bisognosi”, forse perché lei per prima ha conosciuto la sofferenza “a causa della guerra, delle malattie, e soprattutto della spiccata sensibilità” che la portava a soffrire anche per cose che le altre bambine non avrebbero neppure notato. La scrittura è un modo efficace per proiettare il dolore fuori di sé, oggettivandolo in una sintesi conoscitiva e come spurgandolo nella bile nera dell’inchiostro. È uno strumento di “ecologia della mente” che mette in contatto e in equilibrio i due emisferi, consentendo a chi scrive e a chi legge di ricomporre le fratture tra soggetto e oggetto, mente e corpo, spirito e materia, io e altro, conscio e inconscio, silenzio e suono, presenza e assenza, menzogna e verità.
L’obiettivo è comprendere e riprogettare continuamente se stessi, attingere al profondo, attivare le potenzialità latenti – contattare insomma il mistero del proprio essere, vivo benché sepolto dalle alienanti sovrastrutture del mondo contemporaneo e quasi consunto dalle ipnotiche strettoie percettive imposte, sin dall’infanzia, per mezzo delle nuove tecnologie di massa. La luce erompe attraverso le crepe delle zone d’ombra dove si annida maggiore l’inquietudine. Ora la “trilogia” inaugurata nel 2012, come l’ho definita in un mio saggio monografico, diventa tetralogia con il romanzo La rivolta del corpo (EdiLet 2021, pp. 148, Euro 14), pubblicato in piena crisi pandemica. Una nuova sintesi logomitica di sentimento e ragione, eloquenza e cura dell’anima, libertà creatrice e disciplina di autocontrollo, grazie a cui Lina Raus continua a convocare e convogliare temi e sentimenti universali – quanto mai validi e attuali, nella loro eternità – come il disagio psichico, la nevrosi, l’identità di genere, il pregiudizio sessuale, la famiglia, l’amore, l’amicizia, l’abbandono, il lutto, l’angoscia, la solitudine, ecc. La narrativa si fa carico delle risposte antropologiche fondamentali agli eventi e ai traumi dell’esistenza, e manifesta la dicibilità delle cose come se l’unità umanistica dei saperi non fosse stata ancora frantumata dall’età moderna e postmoderna, incarnando il “bisogno di una scienza della religione e dell’arte, di una religione dell’arte e della scienza, di un’arte della scienza e della religione”, cioè di una circolazione fluida e osmotica tra le pulsioni conoscitive basilari dell’uomo tout court.
“Chi sono io, e come sono?” si chiede la protagonista de La rivolta del corpo, Sara Effe, e vi risuona (come non percepirlo?) lo “γνῶθι σεαυτόν” dell’Apollo delfico. Ecco la scrittura come strumento di conoscenza ed auto-terapia di “un dolore che gli altri, sconosciuti che lo leggeranno, ti aiuteranno a scaricare portando via ciascuno la sua piccola parte di angoscia”. Sara Effe è il tipico personaggio di Lina Raus: una vittima del “disagio della civiltà” concretizzatosi, per lei come per molti, in una famiglia retrograda e repressiva che ne ha segnato l’infanzia e, quindi, il proseguo dell’esistenza. Depressione bipolare, nevrosi, coazione a contare oggetti e situazioni, insoddisfazione, ricerca infinita, atavica mancanza di fiducia, incapacità di chiedere, paura di dare fastidio, solitudine, sensazione di “non essere mai capita”, di sentirsi sempre “sbagliata” e di avere o essere sempre qualcosa di mancante, ecc. l’hanno indotta a un percorso psicanalitico. Ma il romanzo comincia nel modo più atroce: Sara Effe ha scoperto di avere un cancro al rene e deve operarsi. La sua corazza difensiva rivela improvvisamente l’intrinseca vulnerabilità: “Sembro forte perché ho una volontà di ferro? È vero, sembro una kamikaze, ma faccio conto solo sulle mie forze: non ho mai potuto o saputo contare su nessun altro. Faccio fatica ad ammetterlo ancora oggi, ma è lì la prova della mia solitudine in continua ricerca: corro, sempre corro, per inseguire qualcosa di molto importante che mi sfugge. Mi sento come una farfalla che gira intorno ad una lampada accesa, allucinata dalla incandescenza della luce, senza sapere che quella potrebbe essere causa della sua morte”.
Lina Raus ci fa vivere l’angoscia della notte prima dell’intervento, la paura della morte, il salto nel buio. Poi l’anestesia, l’operazione, il risveglio. Sara Effe intrappolata fra tubi e tubicini di flebo, ma soprattutto in un labirinto psicotico dato dal terribile anagramma di “cosa”, “caos” e “caso” tra cui si sente sballottata come un guscio di noce in mezzo a una tempesta. La “cosa” è il male, l’intruso da estirpare con devastante violazione del corpo, e ovviamente anche della psiche. La malattia ha però qualcosa di prezioso: rende straordinaria la cosiddetta “normalità”, fa cioè in modo che venga percepita straordinaria, come in realtà è, malgrado l’abitudine ci impedisca di viverla nella sua vera natura. Il responso dell’esame istologico è confortante: per Sara Effe rappresenta una rinascita, un “nuovo inizio”. Sa da sempre che le piace l’inizio delle cose, e allora giura a se stessa che il grande scoglio superato non potrà mancare di imporle un’esistenza programmata su basi nuove. Avere un’affettività sana e imparare finalmente a vivere, cioè a difendere la gioia, a godere senza rimorsi o rimpianti le tante cose belle che ci sono.
Una delle domande implicite che emerge dal libro è: siamo un corpo o semplicemente lo abbiamo? L’esperienza spirituale ci rivela di continuo che siamo anime incarnate, cioè intrappolate in una forma carnale che ci consente di esperire la materia, ma d’altro canto non risponde a pensieri e desideri così alti come quelli che ci abitano nel profondo. Ecco la sofferenza di una vita! Da qui il bisogno potente e originario di spezzare le catene invisibili: combattere la paura, i pregiudizi, le ipocrisie, riscattando la sofferenza nella libertà. Tutto il romanzo raccoglie questo grande slancio della coscienza per la conoscenza, e viceversa, verso l’ignota pace interiore, altrimenti definibile armonia. “Ma l’armonia non può essere intorno a noi, se prima non è dentro di noi”, leggiamo a un certo punto della storia. Ecco il lavoro su se stessi, l’autoanalisi, la ricerca delle cause prime: le ragioni intime della sofferenza. “Tutto mi riporta sempre alla mia infanzia”, riflette Sara Effe. Ha subìto una educazione rigida e piena di tabù. “I miei erano la causa del mio male… Spesso non mi sentivo trattata come una persona ma come una cosa… Non ricordo carezze, abbracci, sorrisi, considerazione”, ma solo nervosismo, urla e scatti di rabbia. Un clima inquisitorio di sospetto e di peccato che non le ha consentito un rapporto equilibrato e positivo con la natura delle opere e dei giorni. Era la “figlia della colpa” solo perché concepita prima del matrimonio! Si immagini già da questo il livello di arretratezza mentale e culturale che ha scolpito la purezza del suo diamante originario…
La repressione infantile e adolescenziale le ha procurato un “caratteraccio” indomabile e ribelle, intriso di rabbia pur nella tristezza e nella solitudine. Ma la repressione produce ribellione e desiderio di trasgressione: “è legge di natura che dove c’è l’oppressione nasce l’opposizione”. La psicanalisi prima e la malattia poi le hanno consentito di sentirsi paralizzata nelle contraddizioni: un passo avanti e due indietro, preda di forze ambivalenti. “Sono sempre stata in contraddizione: la parte di me che voleva uscire per manifestarsi rimaneva poi bloccata nell’ombra”. Ecco la paura di alzare la testa e tenere la schiena dritta per affrontare di petto i problemi, e la fretta nel vivere le situazioni favorevoli, come in apnea: l’incapacità di prendersi il tempo necessario per godere del bello e del buono, le volte rare e preziose in cui sono disponibili. E ancora: le resistenze, gli escamotages, i nascondigli infiniti per impedire di conoscersi veramente. Meglio non alzare la pietra, meglio non scoprire i vermi brulicanti che nasconde!
Ma ecco la crisi come opportunità. Sara Effe capisce grazie alla malattia che “non ne può più di controllarsi”, schiacciata dal peso del Superio che le hanno imposto i suoi fin da quando era bambina per negarle il “principio di piacere” con proibizioni e punizioni di ogni tipo. E capisce anche le cause della malattia stessa come somatizzazione del malessere psicologico, cioè come rivolta del corpo trascurato e mai amato abbastanza. “Il corpo sopporta tutto, ma non per sempre. Il corpo, a un certo punto, si ribella; sembra che voglia vendicare tutto ciò che la mente ha sofferto senza cedere”. Ecco la malattia! Sara Effe ha vissuto per decenni la “sindrome della spugna”, assorbendo ingiustizie e sofferenze da cui non è riuscita a depurarsi: non a caso il cancro le è venuto a un rene! La scienza ha ampiamente dimostrato la connessione tra ambiente psicofisico e risposta immunitaria delle cellule: segnalo a tal proposito, fra gli altri, un bel libro di Bruce Lipton, “La Biologia delle Credenze”. Pensiero e stato d’animo influenzano il DNA e la salute delle cellule: depressione, insoddisfazione permanente o un grande dolore (come accadde al povero Enzo Tortora, dopo l’abominio giudiziario) possono portarle ad impazzire, innescando malattie gravi come il tumore. Il vero nutrimento della nostra vita – come afferma Massimo Recalcati in un colophon apposto dall’autrice alla Seconda Parte del romanzo – è il “desiderio”: nutre più del cibo! Senza l’entusiasmo del desiderio, cioè “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, tutto è destinato a cadere, a chiudersi, a incenerirsi.
Grazie al cancro sconfitto, Sara Effe evolve a un livello superiore di coscienza. Impara a non farsi più condizionare dalle voci interiorizzate della famiglia d’origine. Impara ad amarsi, finalmente, per lasciarsi finalmente amare. Impara a “osare vivere” e “osare nascere” ogni giorno. Impara a smettere di sopportare e resistere senza tregua, rinunciando al fine della irraggiungibile perfezione per accettare infine il mezzo della nostra condizione umana così com’è, “imperfetta e provvisoria”. La malattia ha fatto nuove tutte le cose: il “tempo regalato”, cioè strappato alle unghie della morte, impone d’ora in poi il sano godimento d’ogni singolo istante, con la “sua gioia per rimettere in equilibrio il corpo con la mente”. Il libro si offre dunque come “testimonianza di dolore” dall’effetto catartico e liberatorio: veicolo di guarigione e invito al riscatto dal disagio che la vita e il mondo ci infliggono, per fare del bene a noi stessi e, di conseguenza, alle persone che abbiamo intorno e che non di rado contribuiscono a farci stare male. Un libro piacevole da leggere, con le sue gioconde e ironiche digressioni, e anche utile da riflettere per capire che noi non siamo la nostra eventuale malattia, ma tutto ciò che essa indica con urgenza, invitandoci a salvaguardia del bene, della vita, in una parola: dell’amore. Appunto questo ci urla da dentro la malattia: che la morte è l’opposto dell’amore, e che dunque per vivere è indispensabile amare, il più possibile e il prima possibile, perché già domani potrebbe non bastare o essere troppo tardi.
Marco Onofrio