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“Amen”, di Chiara Mutti. Lettura critica

Leggendo “Amen”, il nuovo, suggestivo libro di Chiara Mutti, vien fatto di estrarre dalla robusta tessitura dei “racconti”, sospesi tra diario senza date, espresso in terza persona, e poema lirico di frammenti in prosa, dall’impatto poetico-musicale piuttosto che narrativo, una sorta di identikit della protagonista fittizia, Giulia, in cui l’autrice, decidendo per sé un ruolo apparentemente neutro di “io narrante”, sembra con ben altra evidenza sostanziale riconoscersi e riversarsi, in guisa di “alter ego”. Starà poi al lettore comprendere e decidere quanto di Giulia appartenga a Chiara, o viceversa. Quanto cioè Chiara Mutti abbia avuto bisogno di uno “schermo” esterno – come la visiera con cui l’operaio si protegge gli occhi dall’incandescenza della saldatura – per maneggiare e, appunto, saldare i frammenti di un passato traumatico che le brucia dentro, malgrado i decenni trascorsi.

Regge, la finzione di Giulia? È un personaggio credibile, dotato di vita autonoma? Oppure è una mera funzione narrativa, ricavata semplicemente trasformando l’io nella “terzietà” di una prospettiva equidistante, almeno in teoria, tra l’io e il tu, cioè tra lo sguardo interiore e quello esterno proveniente dal lettore? Secondo me la risposta è “sì” per entrambi i corni del quesito: vale sia come finzione realistica, o almeno verosimile, e sia come trasposizione strumentale di contenuti privati che, anche grazie all’espediente narrativo, si pongono e si porgono in senso universale. È un problema di “sospensione dell’incredulità”: sta al lettore credere in Giulia, o vederci Chiara in trasparenza. In un caso o nell’altro emerge il temperamento, forte e fragile al contempo, di una donna fieramente anticonformista, e intendo l’anticonformismo autentico, non quello esibito, per darsi un tono, dai conformisti. Un mix di autonomia, libertà, orgoglio, dignità, volontà di bastare a se stessa. Un retrogusto antico di femminismo anni ’70 dove però gli slogan programmatici e le frasi fatte si sono ormai stemperati nella dolce maturità dell’esperienza e, perché no, in una prima forma di “saggezza”. Una infanzia difficile ha costretto Giulia a farsi da madre e padre, ad essere figlia di se stessa, ma anche a farsi compagnia come “unica amica dei giochi”. Aveva ed ha tuttora una sensibilità diversa: suonava fin da piccola “un’altra musica”, sventolava “una bandiera tutta sua”. Ha uno spirto guerrier ch’entro le rugge: un’anima barricadera che la spinge alla ribellione fin dalle cose più semplici, plasmando la sua volontà di uscire dal “bozzolo rassicurante” delle abitudini, dalla narcosi del tran-tran quotidiano. Ma specialmente una integrità morale che la costringe a non piegarsi, a non arrendersi mai: è persuasa che “la pace non fa saldi” e non può esistere senza giustizia. I vecchi ideali di un mondo che nel frattempo sembra cambiato di secoli, e non in meglio, sono agganciati ai contrappesi di un “disincanto” che è nutrito anzitutto di sano realismo: il coraggio di non raccontarsi favole e non cedere alle facili illusioni – forse per troppe delusioni subite.

Per Giulia la realtà è un baratro immenso e vuoto, come il “buco in fondo all’anima” dove cerca sempre la sua voce; il dolore è buio che illumina, svelando inganni e ipocrisie; l’esistenza è un desolato magazzino di depositi (scorie ricordi traumi ferite squallori): “migliaia di immagini… Non tutte comprensibili, ma ognuna sembra racchiudere una importanza vitale” – così scrive Chiara. Il fatto è che l’artista, quando lo è davvero, è “abitato” da visioni inconsumabili che nelle opere cerca di circumnavigare, comprendere, esorcizzare: le insegue per tutta la vita. Sono i miti personali: le scene che continuano sempre ad accadere, per esempio dopo l’ultima lite col padre “la porta sbattuta così violentemente da continuare a sentirne le vibrazioni per tutto il resto dei suoi giorni”. Essere artisti è un crisma che unisce benedizione e dannazione; il rovescio della medaglia che il dono comporta è il disagio esistenziale, cioè la difficoltà di adattarsi al mondo, alla comune socialità, alla comunicazione banale e insincera che domina i rapporti umani. Ecco quel tipico stato di sospensione e impaccio: la sensazione costante di “aver rimandato qualcosa di molto importante” o di essere “sempre in ritardo di qualche minuto sulla vita”.

La parola per Giulia è il surrogato di “un’altra via di comunicazione” che segue “strade impervie e misteriose”, “percorsi siderali” entro cui “chissà dove si perde e chissà quando poi si ritrova”. Le è connaturale il mutismo, cioè il silenzio che, come il bianco i colori, contiene tutte le parole. È, per così dire, taciturna anche quando parla: preferisce parlare con gli occhi o completare le parole con gli sguardi. Di conseguenza, Chiara scrive di lei per sottrazione: ma questo, anziché attenuarla, amplifica la forza della parola così come, proprio quando si vuol far piano, i gradini di una scala di legno scricchiolano più del normale o del necessario… Il rapporto sofferto e combattuto che anche Chiara intrattiene con l’imprecisione riduttiva della parola trova un compromesso accettabile nella parola scritta, che (al pari della fotografia) “salva” le cose estraendole dal flusso del tempo, ed esime dall’obbligo della presenza perché continua a parlare anche quando chi ha scritto non c’è, o non c’è più. La scrittura viene onorata e praticata come rito ancestrale di sprofondamento nelle umane radici, attraverso una dinamica biunivoca dal particolare all’universale e viceversa. È una “terrazza aperta sulla notte e sui segreti del cielo” dove hanno modo di svelarsi e apparire, come i punti luminosi di una figura archetipa che riemerge dai canali aperti dell’immaginazione, i significati profondi e originari dell’esistenza. Da qui, la concentrazione tipicamente “poetica” di questa prosa, orchestrata sulle potenzialità di una scrittura tesa, tagliente e lucida come l’aria dell’inverno. Vale, per la Chiara Mutti prosatrice, il monito di Lalla Romano: stringere un libro intero nella pagina, la pagina in una frase, la frase dentro la parola.

Se intendiamo “poesia” anzitutto come “intensità” dello sguardo, dimensione dello spirito e stato della mente, “Amen” è un libro di poesia trafugato in pagine di prosa che dalla dissimulazione del focus traggono motivi di efficacia più sottile e, proprio per questo, ancora più incisiva. Anche per la sfuggevolezza del senso, che obbliga talvolta a tornare indietro per ripetere la lettura: ed è tutt’altro che un difetto, penso ai “Canti Orfici” di Dino Campana, a “Biografia a Ebe” di Mario Luzi, ai libri di Carmelo Bene… La dimensione poetica veicola naturalmente una tonalità melanconica, di inquietudine struggente e di atroce nostalgia (soprattutto di ciò che non è stato). Lo scrittore turco Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006, ha notato in un suo libro di preziose riflessioni sull’arte del racconto, dal titolo “La valigia di mio padre”, che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Sono ferite che non cicatrizzano mai completamente, e infatti il poeta è un essere scorticato, come ci ricorda Rainer Maria Rilke.

Analizziamo lo sguardo melanconico di Giulia: da un lato il miraggio fugace della felicità nell’“urgenza di volersi e di sentirsi eternamente vivi”; dall’altro il grido disperato delle cose inghiottite dal vuoto, la fine irredimibile che incombe e lo strazio sottile del pianto universale (sunt lacrimae rerum), per esempio il grido gioioso e grottesco che alla fine, espressionisticamente, coincide con quello stesso del cosmo, dal cielo “colmo di stelle”. A fronte della ineludibile realtà tragica, ecco il colophon da Montaigne, dedicato all’attrazione per gli inizi: «La nascita di tutte le cose è debole e tenera; e quindi dovremmo avere i nostri occhi dediti agli inizi». L’impatto di questa debole tenerezza si traduce e si declina in forza come slancio retroattivo e regressivo, ricerca dell’origine dei giorni: il tempo perduto da ritrovare e il mistero sconosciuto che palpita al centro del conosciuto “ordinario”, anche come improvvisa rivelazione. Ed ecco, subito, il secondo colophon, da Pasolini: «Quando si scrive senza pensare di rivelare un segreto, cioè sinceramente, ci si accorge di rivelare un segreto che non si sapeva di avere». La crisi è sempre opportunità di un nuovo inizio, a patto di esercitare la tanto decantata “resilienza” che però in “Amen” non è la parola oggi tanto di moda, ma la forza autentica di sormontare gli ostacoli (nella fattispecie di Giulia abbracciano ad arco filiere di traumi dovuti a disgregazione familiare, miseria, fame, collegio, esclusione, solitudine, e in una sola parola riassuntiva: disamore), cioè la prodigiosa capacità di estrarre armonia dal caos più nero e doloroso di una vita non proprio fortunata.

Grazie al processo alchemico attivato nel corpo della rigenerazione creativa e poetica che Chiara opera in nome e a favore di Giulia, la musica del pensiero e l’intensità del cuore articolano il centro unitario da cui irradiano le suggestioni del libro: la pulsione che muove e commuove la scrittura verso un indefinibile “oltre” umanamente alto, qualcosa di diverso e più profondo, da cui procede il riscatto “postumo” delle energie negative prodotte, anche dopo molto tempo, dagli eventi. Chiara riesce ad estrarre la radice del mondo nella vita di Giulia, e la radice della vita di Giulia in mezzo ai fili molteplici del mondo. Non è dato sapere quanto travaso personale immetta nell’opera di trasduzione, ma è certo che nell’osmosi consente a Giulia di vedere il fondo delle cose attraverso la loro dolorosa opacità. Un fondo che spesso si rivela doppio, tanto che parla esplicitamente di “dicotomia d’immagine” a cavallo tra onirico e reale. Ma che cos’è reale? La realtà stessa è forse sogno? O il sogno è realtà? Una delle rivelazioni offerte dal percorso è che le cose più “normali” sono, a ben vedere, quelle più oscure e misteriose: come nel racconto di atmosfera kafkiana dal titolo “Il faro”. Realismo e simbolismo sono in effetti le due cifre estetiche in cui vanno a collocarsi le due forze motrici del libro, una centripeta (la paura) l’altra centrifuga (il desiderio): la paura tende al realismo, il desiderio al simbolismo, ovviamente con tutto l’arco delle gradazioni intermedie e degli impasti reciproci. Il grande dono offerto alla fine del percorso è la catarsi, che consente uno stadio di possibile guarigione e liberazione dal dolore, secondo il principio che tutti i grandi medici furono dei grandi malati, e ogni malato, se guarisce, può guarire a sua volta gli altri. Amen significa allora fare i conti col passato: perdonare e soprattutto perdonarsi per buttare giù la diga che opponiamo allo scorrere eterno delle cose, e che in realtà “non è altro che la nostra paura di vivere”. E allora imparare anche ad arrendersi, accettare che la vita faccia il suo corso malgrado noi, i nostri limiti, i nostri sforzi disperati di resistere e sperare.

Voglio concludere queste note evidenziando una straordinaria e forse non casuale assonanza tra il racconto “Pietra” e il pasoliniano “Teorema” (1968), film e romanzo. Leggiamo dal racconto di “Amen”: “La figura di sua madre si stagliava nitida contro il sole, stava rigida, inginocchiata come in un antico rito di adorazione, statua pagana nel mezzo dei prati brulli di fine estate”. La madre di Giulia, Giulia stessa e suo fratello maggiore sono usciti a passeggio per i prati del Tiburtino, dietro gli squallidi palazzoni, all’altezza del civico 613. La madre dei due bambini è malata di mente, preda di fissazioni mistiche e manie di persecuzione. Si pensa subito all’Emilia di “Teorema”, nel film interpretata da Laura Betti. Leggo passim dal romanzo di Pasolini: «Emilia (…) si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole. (…) piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia. (…) I due bambini (…) sono sul prato davanti alla casa (…). Infagottati nei loro vestiti da contadini a modo, già quasi simili ai borghesi, raccolgono le ortiche in silenzio, diligentemente. Solo la bambina, ogni tanto, si lamenta un po’ perché le ortiche la pungono. Il pentolino lo tiene in mano il maschio. (…) E intorno, quasi vertiginosi per quel loro verde, si stendono i prati (…). Emilia immobile (…) È davanti a lei che i due bambini si recano. A debita distanza, si fermano, e, coi gesti dell’abitudine (…) depongono il pentolino di coccio pieno di ortiche. (…) Emilia, assorta altrove, con gli occhi foschi che non guardano nulla, mangia a lente cucchiaiate il cibo verde della sua scandalosa penitenza».

Torniamo ora a “Pietra”. I due bambini si tengono un po’ distanti dalla madre “inginocchiata, le mani giunte, lo sguardo fisso verso il sole”, poiché temono che sopraggiunga qualcuno a cui dover dare spiegazioni. Così accade: “A un tratto spuntò come dal nulla un uomo magro, alto ed elegante, il soprabito scuro svolazzante nell’aria quasi autunnale”. L’uomo si ferma, ipnotizzato dalla visione, e poi chiede ai due bambini se conoscono quella donna. I due bambini rinnegano la madre: alto è il rischio d’essere affidati ai servizi sociali, e perciò divisi. “Dopo minuti che sembrarono interminabili l’ospite indesiderato andò via, con il suo agile passo lungo, tornando a voltarsi e a guardare di quando in quando; loro fecero finta di giocare, fino a che fu sparito all’orizzonte”. Ora, considerando che da quelle parti – all’altezza di Casal Bruciato, nei pressi degli stabilimenti cinematografici della De Paolis – era praticamente di casa, ho il fondato sospetto che l’uomo dall’“agile passo lungo” fosse nientemeno che Pier Paolo Pasolini, e che abbia guardato avidamente quella scena strana, tragica e a suo modo ieratica per appuntarla mentalmente e poi riversarla (mutatis mutandis, per esempio trasformando i prati del Tiburtino nelle campagne della pianura padana) all’interno del film “Teorema” e del conseguente romanzo, dando così vita al personaggio della mistica Emilia. È da escludere una suggestione al contrario, poiché Chiara Mutti quando scrisse “Pietra” non aveva ancora letto né visto “Teorema”, e d’altra parte ha narrato un episodio, a quanto pare, realmente accaduto. Sarebbe peraltro da verificare la coincidenza temporale tra l’episodio stesso e “Teorema”, sempre tenendo conto che il multiforme ingegno pasoliniano aveva tempi rapidissimi di metabolizzazione, sintesi eidetica e scrittura. Insomma, era davvero Pasolini? Non lo sapremo mai, però a me piace credere di sì, e che in cambio della scena, così misteriosamente carica di simboli e significati, egli abbia trasmesso in dono a Giulia, quel giorno lontano nella polvere assolata della periferia romana, lo stigma e la dannazione della poesia autentica; e che di conseguenza Chiara Mutti li abbia ereditati, per Giulia, per sé e per noi tutti.

Marco Onofrio

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“Morte del padre”, nel primo anniversario della morte di mio padre Aurelio

Mio padre Aurelio in casa di riposo, nel 2018
Mio padre in casa di riposo, 2018


MORTE DEL PADRE

Serve la tua foto per la tomba
che guarda dai colli verso Roma,
tua patria
dopo la Calabria che ti nacque.
Serve l’emblema,
la cifra riassuntiva d’una storia.

Eri un uomo comune
un ferroviere,
lo dico con l’orgoglio
con cui lo disse Quasimodo
di suo padre,
eri di quell’Italia
che oggi non c’è più.

“Benemerito della rotaia”
ti nominarono
prima d’andare in pensione,
per la tua esemplare
dedizione.


Scartabello amaramente
gli album di famiglia.
Nei cassetti trovo soltanto disordine,
mentre i ricordi s’affannano
fino a smemorarmi;
ho dimenticato
che cosa sto cercando.
Non riesco a non pensare alle parole
del primario.


Sta male. La saturazione va scendendo.
Lo abbiamo attaccato all’ossigeno.
Si nutre con la flebo. Speriamo
di riprenderlo, peggiora
purtroppo d’ora in ora.


Una luce torbida
ti attraversa lo sguardo,
intercetto le parole
che non hai potuto dire.
A tutte le foto si sovrappone
la tua ultima immagine
che sale dallo specchio delle acque
dove splende il nero informe
senza nome
su cui le stelle annodano
scritture.
È laggiù la spugna enorme del silenzio
dove annegano le voci della vita.


Cedo, cado, precipito
per scale misteriose elicoidali
nei convolvoli interiori
della profondità.
Mi lascio andare,
mi arrendo alla tristezza universale.
Siedo, immobile, sul fondo del mare.
Guardo tutto da dentro una bottiglia.


Dove sei finito? In quale altra parte
dell’universo è ora il calore spento
dei tuoi giorni? Ridevi e singhiozzavi
battendoti la fronte con la mano.
Io provavo a fermartela,
sentivo il polso dell’operaio antico
ancora forte che si ribellava.


Si è aggravato ancora. Rantola.
Ha lo sguardo perso nel vuoto.
Si prepari: sta per trapassare.


Impossibile prepararsi,
dirsi pronti.
La falce ti ha reciso il 4 giugno,
il giorno di Roma liberata.
Sì, ti sei liberato
dal peso sofferente
del tuo corpo.
Sei andato oltre.
Sei in viaggio
dentro l’incredibile realtà
delle rivelazioni.


La distanza è incolmabile
come il vuoto che ci divide,
eppure ormai
abiti ogni mio respiro.


E io abito il mistero
d’essere te e me.
Un’unica persona.


Marco Onofrio
(da Azzurro esiguo, Passigli, 2021)

“Ostaggio della vallata”, di Fausta Genziana Le Piane. Lettura critica

lepianefaustagenziana

Se l’esistenza tutta, percepita dal punto di vista degli esseri umani, è un caos irredimibile di ingiustizie e feroci sopraffazioni, una jungla che costringe a nascondere l’innocenza per proteggerla in un recinto segreto da mostrare soltanto a chi si ama, la poesia è invece lo spazio libero dove magicamente «si rinnovella / il candore del cuore». Questo sembra dire in sottotesto Fausta Genziana Le Piane a tutto il suo poderoso Ostaggio della vallata (Tracce Edizioni, 2014, pp. 144, Euro 11), dove si esprime a pieno titolo la ricchezza e la felicità di un pentagramma poetico giocato su una grande varietà di argomenti, temi, toni, esiti, variazioni e soluzioni che scaturiscono dalla sua capacità innata di disseminare lo sguardo nello sterminato “numero” dell’esistibile senza perdere mai l’impronta della voce originaria. La parola insegue la cosa e la raggiunge, manifestandola nella indefettibile imperfezione, per così dire, del suo duplice versante fisico e biologico/umano. Plasma i suoi versi «su fogli sparsi» per scrivere la vita inchiodandola al taglio chirurgico della forma, lucida di fuoco bianco come un cristallo di quarzo e, al contempo, stellare e precisa come il meccanismo di un orologio atomico.

Come si rappresenta, in quanto donna e anima creatrice? Un insieme di libertà, fierezza, solitudine, e amore per gli spazi infiniti, «gli occhi vigili e attenti / a verità dell’altrove». La poesia dunque è come la mangrovia:

Piedi nell’acqua e solide radici
per uccelli che non hanno
posto altrove.


La condizione della poesia è quella di avere «il capo volto all’altrove», di partecipare alle cose «in modo diverso». La poesia è un’oasi che accoglie la diversità più integrale e incompatibile, rispetto a un mondo deleterio di conformisti, per «rendere eterna la Bellezza» (non sfugga l’iniziale maiuscola) con la ferma volontà di «difendere la parola» e «impedire lo scacco», cioè la sconfitta della conoscenza e la resa al labirinto universale. Ansia metafisica e slancio di trascendenza le danno desiderio di avvitarsi al cielo per raggiungere la meta del viaggio «fino alla stanza del re» dove tutto potrà finalmente coincidere, tra apparenza e sostanza, nella rivelazione. Le verità amano nascondersi, sono insondabili come le profondità oceaniche dell’animo umano: il Logos è chiuso, catafratto, inchiavardato. Ma la poesia può, liberando il suo potenziale epifanico, aprire la scorza dei tegumenti e «catturare / la trasparenza» a dispetto della confusione più opaca, giacché opera di recto e di verso, cioè in luce e controluce, restituendo l’essenza della vita vissuta ma anche la filigrana della “non vita” con le occasioni mancate e le possibilità inespresse. Ne emerge l’autoritratto di un’anima che «non riposa», divorata dall’inquietudine di seguire la «traiettoria» dell’oscurità per catturare la scintilla della luce nell’attimo impercettibile che «separa / il giorno dalla notte». Un’anima bella di tenebroso mistero, abitata da una presenza e consapevole della propria irriducibile diversità:

Il nodo delle mani non si allenta.
Sciogli i miei capelli,
ma non l’enigma che è in me.


Il cuore è un cantiere di lavori perennemente in corso e l’autrice esercita il suo work in progress anche scavando a mani nude nella sabbia del deserto per cercare le «radici nascoste» della propria anima. Non a caso silenzio e solitudine sono gli assi cartesiani di una percezione dove «le parole coprono il vuoto» e «il silenzio riveste la pienezza». Scrive infatti di «parola viva / scuoiata / di solitudine muta», che poi è una specie di self portrait della poetica in atto dentro questo libro. Ecco ad esempio lo spazio misurato dal vuoto e dal silenzio:

STANZA VUOTA

In questo silenzio
la mia solitudine
è uno sparo nella mente.

Oppure la presenza dell’assenza, lo specchio dell’io, il Sé come doppio che ci fa compagnia anche quando siamo soli (ché soli, poi, non siamo mai):

FURTO

Ho un buco nel cuore.
Non spiare:
gli occhi della solitudine
mi fissano.

Ostaggio della vallata copertina

La silloge ha inizio dalla dimensione noetica ed estetica dell’infinito, la smisura che assalta il pensiero dell’uomo e le sue “rappresentazioni” come un uragano che travolge la pioggia e compie «razzie» nella capacità che abbiamo di disporre del mondo, di crearlo e ordinarlo «tra i cinque punti cardinali / delle dita». L’infinito «si accovaccia / nel palmo della mano» e «aderisce alla carezza / che scardina i lineamenti del viso», sciogliendo la Gestalt con cui vediamo e ri-conosciamo le cose che sappiamo o crediamo di sapere. È una spirale che “riecheggia” l’essere fino al non essere e, mediante il lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi di rimbaudiana memoria, conduce al suono stesso dell’eternità. Da quella sorgente primordiale origina, come vissuto da sempre e per sempre, tutto ciò che le liriche successive a quella iniziale – nel ventaglio larghissimo delle emozioni attraversate – riescono poi a focalizzare. Aver sentito dentro sé le vibrazioni oceaniche dell’infinito rende congeniali alla dispersione dentro gli universi paralleli («M’illudo di essere qui / mentre mi sgrano nello spazio») e alla conseguente smaterializzazione («Non ho più corpo / ma anima lucente»). Occorre però disancorarsi dal «nido protetto / in fondo al mare» per essere disposti a perdersi, andando nel mistero alla deriva. Così fa il figlio che esce dall’«incavo / caldo / del nido materno» o che, cresciuto e pronto ad affrontare il mondo, lascia la mano del genitore.

Fausta Genziana Le Piane non fugge la palude del male vissuto, il dolore che non si estingue, non va più via – «sedimenta», «ristagna», «marcisce», «corrode». La vita è spietata, «inesorabilmente / si sgretola il verde» e ci si trova come «ancore di barche / attraccate alla riva – / dimenticate. / Dopo inutili viaggi / in terre lontane». C’è anzi spesso attiva, nella miscela alchemica dei reagenti, una forma di noluntà schopenhauriana, precisabile tra cupio dissolvi e volontà di esilio ed abbandono. Si legga ad esempio “Angolo”:

Lasciami in un angolo,
come cosa smarrita,
che a fatica respira.


Come valigia
che non conosca più meta,
non indovini più il suo contenuto,
non sappia più il suo peso.


Ed ecco, ancora su questo versante, la sensazione di essere un «violino stanco / di palpebre chiuse», la coscienza di «non avere più voglia di ricominciare», la voglia di sprofondare in una poltrona di velluto blu, colore del cielo e del mare, «con il peso / del corpo stanco, / dei ricordi, / di sillabe spezzate». L’esistenza si consuma nel sospiro eterno dell’aurora, ad «aspettare il sole», disposti e forse pronti a crocifiggersi «alla luce» e offrirsi al mondo in dono sacrificale. L’archetipo della donna «sola, di fronte al sole» che assorbe le «pagliuzze dorate» dei raggi e aiuta la rigenerazione della vita, dal cuore stesso della notte senza fine, è molto potente nell’economia simbolica del libro. Il lato positivo c’è in ogni cosa, magari nascosto, non evidente, legato al guizzo di un istante che scompare; occorre soltanto saperlo vedere, come il rovescio d’ala della rondine:

Indovino il chiaro della tua ala,
rondine:
brilla
per chi vuol cercare.


E insomma la passione per la Vita, sempre e malgrado tutto: come la fiamma che «non ha paura della cenere / e avvolge felice il ceppo» perché è scaturita appunto per bruciare, e non può fare altro. La vita di cui non si cela né la dolcezza, né la cruda ferocia: ad esempio quando parla di maternità scrive sia di «presenza calda / nel mio ventre buio», sia di «strappo violento», di «fenditura profonda», di «lacerazione dolente». Ma è pronta sempre a celebrare la potenza creatrice nel suo vulcanismo magmatico di calore, fuoco, sangue, getto, forma… dove ovviamente prevale su tutti il colore rosso. Alcuni lacerti emblematici: «Sbocco d’amore / come di sangue / a fiotti / caldo / rosso / violento»; «Officina rovente del cuore / dove si forgia l’angoscia / e la passione»; «Sono matassa di lana / tra le tue mani / rossa ti scaldo / (…) tra dita che febbrili / tessono tele colorate»; «L’amore è / una macchia rossa / fra me e te. / Si ritrae / poi si allarga / si spande. / Nel buio / splende». Il caldo del soffio vitale implica, come si nota, la plasticità metamorfica di una materia che è fluida al punto di modellarsi continuamente, e insieme abbastanza solida per consistere ogni volta in una forma. E in questa dialettica opera gran parte del mistero del quale siamo attori, tra essere e divenire: la sorgente dell’invisibile da cui emergono le cose che vediamo. Ecco, ancora, la donna-peonia che sboccia «per sprigionare l’intero suo profumo», e la terrestrità dionisiaca del duende, con la sua infrenabile espansione: «Tutta la notte / ho ballato / nuda / la rumba per te / (…) il ritmo saliva / la musica contorceva i fianchi / (…) i piedi nudi battevano la terra».

Fausta Genziana Le Piane veicola alla sua scrittura delle potenti dinamiche di liberazione da tutte le catene, per cui a un certo punto invoca – esempio supremo – la risurrezione dalla morte: «Signore, / resuscita Lazzaro!». Non a caso il titolo del libro è dato dal vento «ostaggio della vallata» che spezza la sua prigionia e, «trasportando con sé / frantumi di sere d’estate», si prepara a fare l’amore col mondo. Le inutili panie che ci invischiano “al di qua” devono essere oltrepassate in vista dell’essenza creaturale, quella del «sasso levigato / dal silenzio salvifico» che nasce dal sentirsi gettati nelle «acque tempestose del fiume», come piccola cosa nel turbine del divenire cosmico; e tuttavia capaci di sintonizzarsi con le profonde energie dello spirito:

genero cerchi concentrici
d’amore infinito.


Ciò significa fra l’altro uscire dalla prospettiva antropocentrica per arrivare a vedere il mondo dal punto di vista degli animali (ad esempio il ragno) o delle cose (ad esempio il libro di una biblioteca), fino a raggiungere la nudità originaria dell’esistenza, il puro essere di ciò che è, oltre ogni sovrastruttura, «senza più incanti, / senza più ombre. / La Vita in pieno giorno». Per capire l’alto valore di questa scrittura poetica basterebbe notare la delicatezza meravigliosa con cui approccia la tragedia di Hiroshima mediante una bambina di allora, Yoko, evocata mentre sta andando a scuola qualche attimo prima del boato e raggiunta, infine, nel suo «mondo di polvere»; o la stupenda, pregnante analogia utilizzata per scolpire l’essenza vitale del figlio:

veloce levriero del sorriso
che corri senza catene
nella tempesta della giovinezza.


Ma a impressionare è soprattutto la consonanza storica e l’estrema attualità di una lirica come “Macerie”, straordinaria per la sua capacità di focalizzare la coscienza di un mondo in crisi, nel suo equilibrio infranto – tra opere nefaste ed omissioni – e nel ricordo senza tempo dell’armonia perduta:

Come siamo giunti
a queste macerie?
A questo cumulo
di detriti polverosi?
Quale fu
il primo colpo di cannone sparato
che distrusse i vagoni?
Chi fu
il primo viaggiatore
che rinunziò a salire
e ad andare?
E poi
perché il treno non è più partito
e
smarrita
la stazione
si è spopolata?

Domande a cui soltanto la poesia, prima di qualunque analisi sociologica o politica, saprebbe idealmente rispondere, esercitando con fede la sua instancabile opera di nutrimento e di ricostruzione.

Marco Onofrio

“La parola esclusa”, di Giuseppe Bova. Lettura critica

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La poesia di Giuseppe Bova nasce dal bisogno umanissimo di inseguire il Mito ai bordi della sua stessa eternità, facendone echeggiare i riverberi, i riflessi antichi e suggestivi, nella narrazione archetipa dell’esperienza: «Vorrei raccontare» – scrive in limine al libro La parola esclusa (Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2003) – «come ho scoperto il mare». Non solo il mare d’acqua salsa che dialoga con gli oceani del mondo, ma anche ovviamente il mare del tempo, dell’amore, della vita. E appunto ai bordi di questa dimensione nascosta ma eternamente presente, deputata a custodire i lacci del mistero a cui siamo e ci troviamo incardinati, si dirama una duplice visione del mondo: quella che si attiene alla natura, abbandonandovisi con dolcezza e commozione; e quella che viceversa cerca di trascendere la natura, resistendole per catturarne l’ultimo segreto. Da una parte l’anima, fluida e femminile; dall’altra lo spirito, tagliente e maschile: a determinare la maggiore o minore fiducia nella dicibilità dell’esperienza, e la consapevolezza che la parola è comunque esclusa dalla verità, non può mai raggiungerla in quanto “parola”, nel limite umano del suo essere relativo (quella parola), poiché la verità appartiene all’assoluto del silenzio che racchiude e origina tutte le parole possibili. Ma è la verità stessa che esclude la parola, per consentire all’uomo la ricerca senza fine attraverso cui intuirla ai confini dello sguardo, oltre l’orizzonte. Scrive Bova: «una risposta è sempre da venire. / Domani sarà ancora un’altra tappa / e andremo sempre avanti per capire», giacché il «mistero dei secoli» è sepolto «sul fondo» del mare, e «il fondo non si tocca / con la mano».

Nella cultura ebraica la parola è centrale rispetto alla cosa, anzi: la parola è la cosa, dal momento che Dio crea il mondo parlando (e Bova scrive «Il suono / avrà sostanza di Creato»). Nella cultura greca, invece, la cosa (cioè la φύσις, ovvero la natura) è centrale rispetto alla parola: “sema” significa “segno” ma anche “tomba”, cioè presenza vicaria di un’assenza, testimonianza imperfetta di ciò che esiste e dunque esclusione dalla pienezza del vivente. La parola come mondo e/o come suo imperfetto riflesso. Bova dà udienza a entrambe le concezioni, incarnandole nelle due pulsioni fondamentali della sua poesia, magistralmente lumeggiate da Antonio Piromalli in prefazione: trascendenza e terrestrità. La trascendenza nasce dal sentirsi esclusi e distonici, la terrestrità dal sentirsi inclusi e sintonici. E Bova le vive con reciproco scambio di attributi, per cui la trascendenza ha sempre accenti di concretezza e la terrestrità non manca mai di essere a suo modo spirituale. C’è un momento in cui le due pulsioni sono percepite in parallelo, sia pure in prevalenza della prima:

Sfuggire alla terra che mi attira
toccare le cime alte del pensiero.

Se da un lato, così, il poeta obbedisce allo slancio metafisico, cioè all’«urgenza di sapere / di toccare / di sfondare la porta del mistero», dall’altro estende la sua coscienza creaturale, centrata sulla forza di gravità, per riconoscersi fibra dell’universo nella misura in cui armonizzato, osmotico, uno con tutte le cose: «La roccia si spacca / ed è il mio sangue che sgorga». Può dunque affermare: «Sono / un albero / che vive sul dirupo / che vede su ogni fondo / la sua fine». Come salvarsi dall’abisso? Allungando le radici. «Stringersi / le mani / sulla terra / per trovare / le parole / d’amore. / Questo è / il segreto / di ogni nostro / resistere / alla morte». Un patto d’amore e resilienza di leopardiana memoria: allearsi e far fronte comune per rubare terreno alla morte, il «resistere estremo / sulla barricata». Le parole lasciano filtrare, come crepe su un muro, le trame della luce perduta, e riescono a recuperarla anche dopo che ha smesso di splendere.

Il mondo, purtroppo, è abitato da «anime nere» che trafficano «parole inutili» senza contezza né rispetto della potenza mitica e storica di cui ogni parola, creando la realtà, si fa intima portatrice. La poesia, ai loro antipodi, è una via di purificazione e chiarificazione («Quello che non capivo ora si fa più vero») grazie alla quale ci si cava «dallo sbattere quotidiano» e dai suoi velenosi frastuoni («a volte mi ritiro in una stanza / a cercare il silenzio»): uno «specchio / d’aria pulita» dove si disvela il «contatto estremo», cioè l’essenza ultima delle cose e del proprio rapporto col mondo: «Leggo carte che scavano cortecce / e vanno fino al cuore di ogni tronco». Occorre l’«ostinato credere» con cui il poeta oltrepassa, usando gli occhi dell’anima, la propria finitezza per tentare di amare «con la pelle di Dio» la Luce della «tremenda oscurità», ossia il Mistero da cui tutto emerge e in cui tutto viene, da ultimo, inghiottito. L’atto poetico, riecheggiando il non omnis moriar di Orazio, è anche uno strumento di ribellione al pensiero «d’esser stato / un decimiliardesimo di occhi / sul corpo inavvertito della terra», una minuscola e risibile «formica tra i mille camminamenti». La poesia ha questo potere perché è una potenza originaria e incontrollabile, un «fiume di corrente seminale»:

Questa è la poesia.
Un fiume di parole
per seminare i sogni.

Ma non si ordina alla parola poetica, altrimenti muore «appena nata». È la parola, anzi, che ordina e “ditta dentro” al poeta, pesando in volo la sua luce: «trascinata è l’idea / che il sangue irrora / per vie d’inquietudini». Non un gioco di prestigio, dunque, ma un mandato di rivelazione. La parola è la chiave che apre lo spazio della sacralità. Senza questo fiato caldo essa «si accorcia»: «suonatore e strumento / vanno insieme». Il poeta, dunque, suona ed è contemporaneamente suonato dal proprio strumento. Il suo sguardo coglie «lo spunto di un’origine / liberato da ogni costruzione», ovvero l’energia orgonica pura, anteriore alle forme dell’intelletto: è lì che si apre lo «slargo d’infinito». E quindi i semi delle cose: della notte, della pietra, del vento, della pioggia, del mare, etc. come granelli setacciati «già luminosi / e privi di ogni scoria». La parola si confronta con l’infinito degli elementi che la rendono «piccola», «esclusa» e «imprigionata», ma proprio per questo capace di afferrare le coscienze e spingerle in alto, sopravvivendo anche a chi muore o viene ucciso nei patiboli. La parola non può essere fermata perché, quando autentica, è incisa nell’ordine cosmico-ciclico del divenire e sale dalle origini del mondo, producendosi come evento creativo che traduce in scrittura «quanto non è scritto»; altrimenti è spenta, è «corpo morto».

Comunque giunta
la mia parola chiude
un grande cerchio
ed io sono materia
di ogni avvolgimento
all’origine degli occhi
nel fulcro della trave.

Così accade quanto non è scritto
e ciò che non riflette
è corpo morto.

La presenza e la sostanza delle cose: mai essere assuefazione di forma vuota, imitazione di voce originale, ripetizione del sentito dire. «Non sarò mai pane / senza essere lievito». La poesia sgorga dalla vita che la nutre e che la impasta: «Non scrivere parola non sentita» ammonisce Bova, ricordandolo anche a se stesso. Il poeta che parla in questo libro lo fa da una condizione di maturità ulissiaca, di inquietudine nella tenebra e nello smarrimento: la sua anima è «alla deriva» ed egli si sente «barca sul mare avvolta dalla notte», ovvero «barca già in disarmo» come «dopo tanta odissea / un corpo inanimato sulla riva». Non solo la polvere bruciata durante i viaggi, ma anche quella «incombusta» delle occasioni mancate, della vita non vissuta. L’incompiutezza ci è connaturale poiché siamo incatenati al principium individuationis, per cui in realtà «siamo dove non siamo». Questo produce e procura un senso vertiginoso di dispersione: «Sono nel gorgo anch’io / portato da correnti disperate / su ondate ascendenti e discendenti», quelle stesse che lo fanno risalire proprio attraverso il punto più basso e buio, dove sente il tempo che demolisce e divora, e la morte come un ingranaggio interno al meccanismo della vita. La memoria profonda si dissolve, qualcosa resta sempre «indecifrato» fino a che «tutto rimane muto / disconoscenza / vuoto» inghiottito da irredimibile oblio. Bova rappresenta la morte come una bambola «regina / in tutti i mondi» che si fa percepire in déjà vu, come appunto «l’impressione di un’immagine già vista» poiché «siamo sempre vissuti / e sempre morti» attraverso i tempi della nostra vita.

Il poeta non edulcora, non seleziona per convenienza, ma ha il coraggio di affrontare integralmente il dolore: «poetare è una ferita sempre aperta / perché toccare il cielo con un dito / è scavare il cuore di ogni angoscia». L’identificazione con la vittima sacrificale lo porta a visualizzare il «costato trafitto» di San Sebastiano: basta guardarlo per sentire Dio «come una lancia». E tuttavia il dolore non ci esime dal dovere di «legare la vita / dentro a un sogno» e, malgrado tutto, non smettere mai di farlo. Il poeta obbedisce alla vita e alla sua volontà insaziabile: egli sta «nel seme che rinnova» e non ha fame né sete «se non di nascite / e porte spalancate / ai grandi abbracci». Il dolore, la sofferenza e il caos attraversati nutrono anzi il desiderio di gioia e positività: «rimuovere il disagio» fugando le ombre e le angosce per trovare «un’altra strada», giacché – scrive il poeta con due versi sentenziosi e memorabili – «il tempo è troppo breve / per essere tristi». Ci sarà infatti «una fontana dove bere / senza più la paura di morire» dissetando «l’anima assetata». Occorre ritrovare sempre la condizione della bellezza dentro il proprio sguardo: «la gioventù del cuore / quel sorriso che spalanca girasoli». Il segreto è proprio il cuore.

Così è la vita:
due rette in parallelo per la gioia
percorse all’incontrario
se ad azionare lo scambio del binario
non è il cuore.

Il sacrificio nel dolore non deve mai bagnare le polveri all’agonismo, al fuoco della vita, alla capacità di risollevarsi dopo le tempeste e di meravigliarsi («stupisco al solo esistere di forma»), vedendo le cose come nel primo mattino del creato. Ecco lo sguardo commosso e “miracoloso” che in ogni albero vede un giardino e nell’unione di un uomo e una donna «tutto il mondo». Uno sguardo che è anche frutto di amore, nella vigile attesa di segnali («Raccolgo come l’occhio di Colombo / i piccoli detriti di altri mondi») e nell’attenzione alle cose invisibili, alle delicate sfumature dell’impercettibile («Sono il solitario origliere / di ciò che dorme»). È come se Bova avesse dinanzi due strade per scalare la montagna del Mistero: una più breve ma più ardua, a parete verticale, della trascendenza metafisica; l’altra meno ripida ma più lunga, a tornanti concentrici, della coincidenza naturale. Nel primo caso la parola è uno «scandaglio» che scava la «caverna dei silenzi» per tradurre in segno, dell’essere, l’indicibile “barriera semantica” (per citare Dante Maffìa) e il segreto principio animatore: «Sono la donna che ha generato i figli. / Creo lo spazio infinito e lì mi annego». Nel secondo caso la parola deve sciogliersi nella natura e acquisire la voce stessa delle cose: essere «liquido sciacquio» ed «eco di musiche nel cuore».

Quando
come l’acqua sarà la mia lingua
ed io nel corpo al canarino
sviterò la mia gola
per non essere parola senza vita
(oh volo d’amore che traffica tra i rami
più lontani e refrattari)
tu parlerai con me da uomo a uomo
(…).
Solo nell’acqua
può schiarire il verso
nel lento gocciolare
è l’oscuro mio processo.

E quindi, anche la bellezza purificatrice del mare, che «è una chiesa / coi suoi fedeli interpreti. / Mai parola è uscita / di una qualche confessione. / Il mare è il mare». E ancora: il mistero del divenire, «lo strano mutare degli avvenimenti», la circolarità dei fenomeni per cui «ogni approdo è un inizio». Entrambe le strade portano a un passo dalla rivelazione, laddove la “porta” potrebbe aprirsi. Giungere «al cuore del principio»: è lì che, recandosi idealmente, il poeta scrive «pagine di un mare sconosciuto / immaginando l’altrove», l’inesauribile varietà del mondo, gli «occhi sconosciuti di ogni approdo». La poesia de La parola esclusa è una finestra aperta tra l’io del poeta e il sé del cielo, tanto che egli chiede di essere chiamato non «per nome» ma in prospettiva eterna, «per l’infinito», cioè nella sua verità di essere cosmico. E così, allo stesso modo, è una finestra aperta tra la sensibilità di Giuseppe Bova e lo sterminato firmamento della poesia mondiale, dai classici antichi ai maggiori contemporanei, di cui il poeta reggino assorbe e rielabora creativamente l’aurea eredità. Egli si sente chiamato dalla voce «che viene da un braccio di cielo», ma il suo sgabello è «insicuro» e non «così alto / da vedere l’oltre», e allora ristagna in un limbo di conoscenza: «Aspettare è ristagno / e le braccia vanno aperte sulle rive / quando ancora le speranze sono vive». Ma, forse, ciò che più gli interessa è mantenersi puro e selvaggio «come il monte oscuro / che conserva il segreto del principio» anche quando il mattino è di là da venire.

Marco Onofrio

Nota critica su “La venatura della viola” (Ladolfi, 2019), di Rita Pacilio

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Con questo libro breve e delicato, ma non meno vigoroso dei precedenti, Rita Pacilio pronuncia in poesia la sua risposta ferma e gentile a una condizione di crisi acquisita. Crisi etica e sociale, di cui sono capillarmente intrisi i nostri tempi. E crisi anche personale, per una certa delusione maturata verso il mondo letterario e le sue storture, dopo anni di serio lavoro e un percorso tra i più notevoli e coerenti in Italia. Scrive, nella “Lettera al lettore” anteposta ai versi, della volontà di «maneggiare» (per tocchi e aggiustamenti di precisione, come fosse creta) «la parola poetica per trovare la strada possibile da percorrere quando non ci si arrende all’incuria, all’abbandono, all’assenza, alla miseria umana». La poesia, dunque, come baluardo di resistenza umanistica al degrado e come veicolo di potenziale rinascita: «Per resistere e oppormi alle brutture della vita» aggiunge «ho cercato la risposta nella semplicità e nella dolcezza di un piccolo fiore», la viola appunto, che impara a guardare nei dettagli unici e infinitesimi della sua “venatura”, su cui si sofferma «con garbo» e di cui non vuole «perdere niente». È questo il muro ultimo di ogni realismo: la parola vorrebbe dire la cosa “così come è” fino a coincidere con essa, con la sua verità integrale. «Ambire al succo del vero mi educa e mi spinge a sentire le creature tutte come un dono che non voglio dare per scontato». Ecco il punto cruciale: de-automatizzare le abitudini che ci fanno sembrare scontate e normali cose che normali e scontate non sono affatto. Ogni istante, ad esempio, è la goccia di un oceano senza sponde, il prodigio «indimostrato» di un mistero che non finiremmo mai di provare a comprendere. Ma vegetiamo nell’apatia, quasi in trance, «soldati / ordinati come soprammobili», «statuine» che in mezzo alla polvere mantengono la «solita postura» in un «valzer di guerra», quella inapparente che scoppia ogni giorno sotto i nostri occhi addormentati. L’atmosfera umana è una «nebbia rancorosa e scura», ma noi scampiamo «al timore di saperci morti», bravissimi come siamo a raccontarci storie, ad ingannarci il meglio possibile. L’eredità oggi sembra infranta, il filo della continuità storica spezzato, il mondo esploso in mille pezzi: i “vecchi” (cioè quelli del mondo di prima) inseguono «l’origine, la foce / ma sarà difficile ricostruire il senno». La follia è sparsa dappertutto, sotto forma di un «disagio senza prospettiva»: «tutte le persone compiono aspri squilibri / muoiono senza compassione / come se il peccato fosse l’amore». È la Terra tutta in sofferenza, con i suoi ecosistemi squilibrati dalla molesta invadenza dell’animale umano: «Qualcuno dice non puoi farci niente / rassegnati al timbro del frastuono». Ma Rita Pacilio non vuole e non può rassegnarsi, e allora guarda alla viola e, per suo tramite, si abbandona alla «saggezza del necessario».

La venatura della viola diventa uno specchio da cui emergono le verità profonde della vita. Però è possibile vederle solo se si taglia il «grembo scuro» della disperazione: «l’unico punto di partenza / è nutrire la fede». La stanchezza dello spirito produce un desiderio intenso di pace e purificazione: «Voglio esiliarmi in un giardino / dove le burrasche restano fuori / dove sulla bocca di tutte le viole / c’è l’audace avventura del poco». Attraversa fino in fondo una condizione di crisi dove «dentro stringe lo sconforto»: «I conti non tornano. / Allora dovrei smettere di contare». Ecco improvvisamente svelato il segreto! Smettere di contare, di monetizzare, di programmare tutto. Chi si impone di marciare al passo con un mondo di squilibri e squilibrati, come può stupirsi se poi diventa preda dell’alienazione? Occorre abbandonare questa folle corsa che spreca e disperde la vita di ognuno. Il «modo per resistere» è la «coscienza quieta». Uscire dagli schemi consueti («Non pensi più come una volta») e rendersi immobili, naturali, compiuti e centrati intorno al proprio fulcro «come la mela matura appesa al ramo». Insomma, la via maestra della rerum natura: «Devi farti sottile per rimanere / effettiva presenza, erba primaverile / in questa fitta foresta dell’autunno». Il mondo sta declinando nell’autunno della sua “civiltà” definitiva, ma se impariamo a coincidere con il nostro essere effettivo – ciò che realmente siamo – possiamo mantenerci vivi e verdi come l’erba della primavera.

La viola spalanca allo sguardo un portale metafisico di rivelazioni e, con la sua venatura, insegna ad aprire «la cerniera del vuoto come fa / l’abisso», per «dissotterrare l’infinito»: «Bisogna distendersi fronte a terra e annusare / l’esalazione dell’esistenza intera / poi metterci di lato per dissotterrare l’infinito». Occorre dunque un duplice, simultaneo movimento della coscienza: di umiltà, e insieme di sovranità. Di decentramento («metterci di lato»), e insieme di centratura. Da un lato, osare «il perdono di te stesso» accettandoti come sei e liberandoti finalmente dalla tensione, dalla stanchezza, dalla colpa; dall’altro, prendere dalla natura «lezioni / di innocenza» e imparare l’amore, il «segreto dei segreti». Solo così potrà continuare in modo credibile «l’insaziabile racconto dell’incanto» che la poesia pronuncia e declina al futuro, malgrado tutto, come un ponte di luce oltre le paludi dove oggi arranchiamo, sempre più disfatti e impantanati. 

Marco Onofrio

“Oltre la maceria”, poesia inedita

cenere

OLTRE LA MACERIA

La vita, amici, è una cosa seria.
Per questo si ride
inevitabilmente
in fondo alla scintilla
di ogni lacrima.
E il sale amaro
acquista piano piano
una stanca malinconica
dolcezza.

La spilla che si appunta
al nostro cuore
a forza di portarla si fa carne:
non la sentiamo più.

Siamo nati per resistere
e scoprire, al colmo
della sofferenza,
il varco che traluce
dall’ingombro pieno
di frantumi.

Proprio quando la salvezza
sembra irraggiungibile
noi diventiamo grandi,
andiamo oltre la maceria.

Marco Onofrio
(dalla silloge inedita
“Azzurro esiguo”)

“Due”, di Angela Giojelli. Lettura critica

Angela Giojelli COP

Esordio promettente, quello di Angela Giojelli con Due (RP libri, 2019, pp. 40, Euro 10), una silloge che, raccogliendosi in appena 26 liriche, sa condensare – nonostante l’esiguità del percorso – l’impronta originale di uno sguardo e le premesse di un mondo poetico che ipotizziamo ricco di avvenire. Sono parole pazienti, distillate da lunga gestazione e che trapelano, come loro malgrado, dal guscio di silenzio che le ha protette e nutrite per farle crescere, rendendole degne della debordante carica umana di cui sono, a un tempo, tramite e catarsi. La voce della poetessa di Capua trasuda, per così dire, da una ferita primaria dell’esistenza che non si limita alla triste realtà del figlio malato, ma da lì parte per andare “al di là di ciò che si dice / o è” affondando la sostanza autentica della nostra condizione, anche a costo di rintracciare i barlumi del vero “lungo gli argini dell’impossibile”. Cerca, così, di stabilire ponti tra i frammenti che il dolore ha prodotto e separato; la dimensione del passaggio e dello scambio, infatti, è molto importante per Angela Giojelli, da cui il titolo del libro. E non è solo entro la felice pienezza della diade primordiale (madre-figlio) che la grazia si espande in dono di verità, quell’essere “stretti in noi / stretti a noi / nella casa della pace”: è il “duale” tutto che assurge a principio indispensabile di conoscenza. È la “reciprocità silenziosa” dell’abbraccio in cui si vaga e poi ci si trova, nell’oceano spirituale di un’altra persona, della quale – proprio grazie al discorso infinito che quel silenzio può racchiudere – si percepisce l’intima verità. Una condizione di grazia per cui, appunto, “si amplificano i suoni / si moltiplicano le stagioni” tra “oscillazioni primitive / e complesse energie / attivate da ogni cosa che ci tocca”. La diversità “non è un male” ma il segno prezioso di una ricchezza ulteriore che rende colui che sceglie per manifestarsi “più vicino a Dio”: proprio lì occorre amare “forte”, amare “tutto”, perché il male non è la diversità ma la negazione della vita, il “non vivere”. La fusione dell’abbraccio vorrebbe coinvolgere tutta l’umanità, finalmente pacificata nello splendore di una nuova coscienza, e la grandezza sconfinata della vita, percepibile nella concentrazione pura di ogni attimo: ci sono “tutti i rumori del mondo / e i sorrisi negati e donati / ogni colore / è tutto qua: mani nelle mani”. La poetessa, sprofondandosi nell’ascolto più sottile (ad esempio dei “rumori di febbraio”), percepisce molto bene la fragilità estrema del tempo che impregna l’aria “sospesa nell’addio”. Da un lato c’è la “mera materia che ci cambia” con gli inesorabili meccanismi a cui, vivendo, siamo sottoposti; dall’altro la nostra coscienza come “antimateria” che, ribellandosi alla natura e illudendosi di sottrarci ai processi indipendenti della vita, accentua la nostra cognizione del dolore e della finitezza entro cui siamo costretti a galleggiare.

Siamo tutti così soli, seduta sulla sabbia mi domando
a cosa ci serve guardare il mare
se non possiamo stare insieme?

La realtà sembra facilmente leggibile, il grigiore opaco dell’esistenza assume spesso le forme del déjà vu (“qualunque cosa accada è tutto accaduto già”), e tuttavia essa trattiene sempre l’ultimo segreto delle cose, magari attraverso le luci che “si tengono strette / le cose non dette / cresciute in sentieri misteriosi”. Non possiamo vivere che “barcollando”, alla ricerca inutile di un “rifugio” perché “non c’è tregua / né porto sicuro”.

Fluttuo, pendo, mi arrampico
ondeggio e tremo
in questo equilibrio instabile di ombre.

Eppure c’è un ordine profondo che sorregge dall’interno il caos e si manifesta nei fenomeni (ad esempio la “caotica acqua che scende / perfettamente ordinata”), per cui la vita è un “mare calmo fra le tempeste” e l’unico modo per accoglierla integralmente è l’ossimoro, la “lacrima gioiosa” che annoda la rabbia e l’urlo alla dolcezza. E di dolcezza questo libro trabocca, la dolcezza trepidante e dolorosa che ammanta anzitutto il “decimo senso” (decimo, non sesto!) della madre che ovunque abbraccia, comprende, protegge:

sappi che dove avrai porte chiuse
ci sarò io ad aprirle
dove tu non capirai
parlerò per te
e dove tu non saprai amare
io scriverò una poesia.

La cenere dei desideri “sfiniti dalle corse del giorno”, la fatica inenarrabile di risolvere problemi ed imprevisti senza fine, insieme a “tutto il resto che ci gira intorno”, non impediscono la “purezza del dono”, cioè la vita percepita come mitologia del nascente (“germoglio fra le mani / e limpido stupore”) e ripensata con gioia, malgrado tutto, annusando “l’odore di un neonato”. La realtà opaca e sorda delle cose è, infatti, giustificata da quella intoccabile e invisibile che vi è mescolata e dove ci troviamo a camminare, spesso come ciechi o sonnambuli che non vogliono vedere né svegliarsi. C’è una dimensione spirituale dove vola chi muore “nella certezza di arrivare / a casa” e donde parla il bambino mai nato, nella composizione più toccante del libro:

Non ti ho visto
non ho avuto il tempo
ricordo solo la tua voce
ti ho amato da subito
mentre morivo pensavo a te
non ho amato nessuno
e nessuno come te
eri l’altra metà del mio tutto
ci vediamo in paradiso, papà
dove i non nati sono angeli
e io ti terrò per mano
come sto facendo adesso
solo che non mi vedi.

È la purezza altissima e sacra della vita a nutrire la fede che irradia da questa voce poetica, determinandone a sua volta la coscienza. Scrive Angela Giojelli: “io non sono ossa / sono un brivido”. La nostra vita non può ridursi alla materia: c’è qualcosa di infinitamente maggiore in cui risiedono, da sempre e per sempre, le chiavi silenziose del mistero. Brivido è anche il sogno, senza cui saremmo soltanto imbuti, tubi digerenti, macchine insensate; e quindi la voglia sacrosanta di andar via, il bisogno di abbandonare i limiti, la ricerca e l’attesa di “tramonti nuovi” in un mondo libero e fluido, felice, “dove è proibito proibire” e “non esiste la paura / di avere paura”. Tra il dolore e la speranza, vince la speranza. E dunque la risorgente pulsione di abbandonarsi alla forza della vita “come due tronchi millenari / dalle radici prepotentemente / intrecciate nella terra / esplosi nella natura”. E la poesia, infine, ha una fondatezza essenziale che la distingue dall’incertezza ovunque dominante (“Poesia mia, albero in fiore / tu non cadi mai”) e la rende strumento di restituzione amorosa ai debiti del tempo: una specie di fiume che, nel suo involgere sinuoso lungo le strade del mondo, raccoglie detriti di ogni tipo per trascinarli al mare, cioè di nuovo a casa.

Fermi a riposare sul muretto
il nostro cammino non è finito
voci di bimbi d’estate
mentre facciamo pace
se cadi ti darò la mano…
Ti darò la mano verso il mare.

Marco Onofrio

 

“Casa di morti”, di Francesca Farina. Lettura critica

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Francesca Farina ha scritto un romanzo torrenziale e bellissimo (Casa di morti, Bertoni Editore, 2018, pp. 484, Euro 18), dove le cose si traducono in parole e le parole sono così forti, evocative, palpitanti di energia poetica, da trasformarsi in “cose” più reali e vere delle cose stesse. Ci troviamo dinanzi a un’opera a forma di “Mondo”, che procede con mano sicura e vista lungimirante nella ricostruzione antropologica, eziologica e filologica di una cultura, quella della Sardegna pastorale dell’entroterra nuorese, tanto profondamente da portarsi alle radici della Storia, sarda e non solo, esplorando il “silenzio di una lunga eternità” auscultata con strumenti di grande captazione, “come inseguendo una città perduta”.

Lo snodo tematico fondamentale del libro è il rapporto dialettico tra il “patrimonio incommensurabile” della Memoria, di cui l’autrice si autoproclama devota “vestale”, e il tremendo inghiottitoio dell’Oblio, cioè il “vento della dimenticanza” che soffia l’orrore della verità, oltre il velo delle illusioni squarciato dalle “unghie di un tempo distruggitore e feroce”, per cui il tumulto dei giorni (persone, vicende, cose) è destinato inesorabilmente a incenerirsi, a diventare polvere, ombra, silenzio. La Storia è una “macina” che schiaccia i suoi nati “come semi di grano”: l’esistenza degli uomini passa come “sabbia attraverso un crivello” senza lasciare tracce se non c’è chi, come lo scrittore, spende tanto ammirevole impegno per darle significato, voce, parola. Alla forza “invisibile e potente” della Storia si contrappone la disperata resistenza del Borgo, con la sua “immobile trama” scolpita dentro il cuore dei millenni.

Francesca Farina parte dalle origini mitiche (dal Sardus Pater alla stirpe eroica degli Iliensi) per poi chiamare in causa gli invasori, spesso persecutori del popolo sardo (Fenici, Punici, Romani, Bizantini, Saraceni), fino alle soglie della modernità, quando i Piemontesi chiamano a combattere le truppe dei coscritti isolani, come l’antenato impegnato in Crimea nel lungo assedio di Sebastopoli o, qualche anno più tardi, nella battaglia di Palestro. E costui, come tutti gli altri, “non sa bene cosa stia facendo, perché porta quello zaino di venti chili” che lo ha strappato, per decisione altrui, alla vita agreste del Borgo. L’insensatezza della guerra, certo, ma anche l’orrore della carneficina: spaventose mutilazioni, squarci sanguinanti, petti dilaniati, capi mozzati e ovunque terribile fetore di putrefazione: il campo verde di grano trasformato entro poche ore in campo di morte. L’autrice ci fa percepire la tensione insostenibile dei soldati “vedendo cadere i compagni e scansando la morte ogni momento”. E poi, su tutto sovrastante, il Caso-tiranno con le sue circostanze imponderabili: “chi si crede al sicuro in seconda linea è stanato come una lepre, mentre colui che presta il fianco alle pallottole è risparmiato da una misteriosa coincidenza di fatti”.

La forza del passato, dunque, con la sua potenza schiacciante: poiché il presente e il futuro sono inesistenti per quella cultura dove “il passato era presente e futuro insieme, era la Storia”. Ecco pazientemente ricostruito il tessuto organico e sociale di una terra plasmata dalle “dita dei secoli” e abitata da “spiriti indomabili”, dove alla tracotanza dei maggiorenti (come la stirpe mitica dei Barones) si contrappone la fierezza di pastori e contadini dalla tempra forte e selvaggia, dotati di qualità “leonine”, virtù “ferine” e “smisurato orgoglio”. Vivono, sopravvivono anzi, sempre sull’orlo dell’abisso: l’incognita della natura in perenne agguato (alluvioni, siccità, epidemie) li costringe a “mordere la vita coi denti” per consumare stentatamente il “pane di dolore”, l’“acqua di sangue” e il “latte di morte”.

La società chiusa, crudele e implacabile rende il Borgo un “paese dell’eterno lutto” dove regna il silenzio dei millenni, un silenzio “forte, sonoro, abbagliante”, sempre prossimo a una rivelazione. La pagina a questo punto traluce della dimensione ancestrale che sostanzia l’anima autentica della Sardegna, coi Nuraghes maestosi e inquietanti “simili a giganti muti e fermi”, e le figure ieratiche degli indigeni dai volti che “parevano scolpiti nel granito delle montagne” e le usanze ataviche protette dai vincoli sacri del sortilegio, e le donne “simili a bibliche eroine” con la loro attitudine millenaria “ereditata dalle ave più lontane” che avevano la stessa posa anche centomila anni addietro… Prima del traumatico arrivo della modernità che ha bruscamente accelerato la Storia, la continuità del mondo procedeva intatta e ininterrotta: i tempi erano sostanzialmente uguali a quelli dei secoli precedenti. Il rapporto coi fenomeni era contrassegnato da una forma di animismo primordiale che spingeva ad “adorare le querce e le fonti” sgorganti dai pozzi della dea Acqua (ad esempio il pozzo sacro di Santa Cristina). Nei tempi più remoti, infatti, “tutto era sacro per gli uomini, la terra, i fili d’erba, la pioggia, l’acqua e la neve”. Incessantemente si invocavano gli dei che “sembravano essere dappertutto, perfino nella corbella del cibo, nel pane e nel sale”. Il silenzio impenetrabile delle case era affollato da strane “presenze” di cui parlavano gli scricchiolii, le travi di legno impegnate da inquietanti e invisibili passaggi: per le scale transitavano di continuo le anime dei trapassati, i morti si aggiravano per le stanze e sorvegliavano i gesti dei vivi. I vivi e i morti erano uniti indissolubilmente, per cui non si contavano le “visite” dall’universo parallelo dell’altra dimensione, e “la paura di un incontro era pari al desiderio dell’incontro stesso”. Brividi di repulsione e attrazione connaturali all’eterna crosta della humana conditio. Così scrive Francesca Farina: “Che cosa tremenda, questa, che ogni giorno poteva essere l’ultimo e perfino ogni ora, ed ogni attimo potevano essere gli ultimi! E che cosa c’era, dopo? Perché era così inevitabile e pauroso quel passo? Perché era tanto tenacemente radicato in ogni creatura vivente l’istinto di morte? E perché tutti ne avevano desiderio ed orrore?” Il silenzio era dunque carico di presagi, e il buio nascondeva presenze sovrannaturali. La soffitta e il fòndaco, da questo punto di vista, erano i luoghi più misteriosi e paurosi della casa. La consuetudine con la morte “rientrava nella vita normalmente”. I morti preannunciavano gli eventi, quasi sempre luttuosi, attraverso un sogno, il verso di un rapace o un qualsiasi segno manifestantesi tra le pieghe più ordinarie del quotidiano.

La società era repressiva, i divieti soffocanti, il Borgo occhiuto come un Argo preposto a sorvegliare incessantemente per spegnere sul nascere il libero sviluppo delle energie. Ogni singola Casa, come la cella dell’unico alveare, era “luogo di oblio, di dolore e di morte”: tenebrosa, opprimente, con le camere perennemente chiuse, abitate da un silenzio luttuoso, così profondo “da far male” come presagendo una sciagura. La vita era dominata da un dolore primario che nasceva dalla negazione assoluta del piacere e della vita stessa. L’amore era parola inconcepibile e impronunziabile, “quasi una bestemmia”. L’educazione barbara dei fanciulli li teneva per “oggetti, piuttosto che per soggetti pensanti (…) ad essi tutto veniva negato, perfino lo sguardo, la parola, nonché il cibo, il vestiario: ogni cosa era ridotta a poco, all’essenziale”. Un unico vestito doveva bastare per anni, ma soprattutto non c’era spazio per i sentimenti: venivano negati e condannati, “l’unico valore approvato era il silenzio”. Sguardi, carezze e baci erano “sepolti in bare di granito” e tali “mancati gesti” e “tenerezze non date” generavano una “supplica perenne negli occhi”, una “spaventosa immotivata tristezza” e l’incapacità di manifestare sentimenti: chi non ha avuto mai amore, mai potrà darne. Dopo una simile amarissima infanzia, lo “straniamento, la disperazione, la nevrosi emergevano inesorabili”. Ecco ad esempio Juanne Maccus, il matto del villaggio, con gli occhi e i modi da cane, così bisognoso di amore e di riconoscimento da dimostrare “folle fedeltà a chiunque gli mostrasse un poco di attenzione”. Infatti, precisa Francesca Farina, “le violenze subite dai bambini di quelle ferali case di morti avrebbero fatto un nido di terrore nelle più intime fibre del loro essere”.

I sardi, così, emergono dalle pagine come un popolo “triste ed austero” divorato da un “tetro rovello di morte e di dolore, di lutto incessante”. E il “dolore di esistere” come una “malattia sopportata senza mai farsene avvedere”. Una vita di “lavoro inenarrabile e di stenti, di divieti, di odio e di massacro”: fame, fatica, dolore, disperazione, miseria, solitudine, emarginazione. Il romanzo, perciò, è come un “arazzo variegato” mirabilmente ordito da Francesca Farina, “instancabile tessitrice” delle proprie origini, ovvero “racconto ininterrotto” (novella Sherazade) per sopravvivere al tempo e farlo sopravvivere, ma anche come restituzione del maltolto ai “vinti” e loro postumo riscatto per le ingiustizie patite dalla Storia. Da questa fonda oscurità sorgeva poi, con l’istruzione obbligatoria, la “luce della scrittura”. Ma a scuola c’era un “maestro indimenticabile, che insegnava picchiando e urlando senza posa, terrorizzando gli alunni che nulla apprendevano se non la paura”. Naturalmente, dati i tempi di cui si parla, è quasi superfluo accennare alla inveterata subordinazione femminile (sin da fanciulle erano “sepolte vive” nel “carcere della Casa”, chiuse nelle stanze, assoggettate al “capestro della famiglia” e legate alla “ferrea catena stretta intorno al focolare”), da cui osavano emergere le donne-tigre dal temperamento ribelle, spesso tempestose e devastatrici come Erinni, e poi, forse, le donne liquide, le dee d’acqua, calme in apparenza ma bruciate dal fuoco di un “furore frenetico”. Anche se, a dire il vero, la Sardegna si distingueva da altre terre per una stabile tendenza al matriarcato, derivante dalla necessità delle donne di governare casa e prole durante i periodi di assenza – anche mesi – degli uomini, impegnati nella pastorizia. E così gli guardi erano offuscati da una “millenaria abiezione” ma talvolta, per contrasto, invasi dalla “straordinaria forza vitale” che li faceva resistere al male, al dolore, all’insensatezza, con le pupille accese da una “folle speranza, una forza oscura e segreta, la vita insomma”.

Poi ecco, con l’arrivo distruttivo della modernità, la fine di un mondo, sepolto dalle colate di asfalto e cemento, e ingannato dalla falsa felicità della chimica: “tutto, ad un tratto, divenne di plastica, perfino le sedie, i mobili, i soprammobili, le rose, le statue, i vestiti” (di nylon terribilmente infiammabile) e insomma tanti oggetti scadenti e inutili che annunciavano l’effimera civiltà del consumismo. Con la conseguente e progressiva devastazione della natura: alberi abbattuti, siepi divelte, sorgenti prosciugate, sentieri cancellati, raganelle scomparse, al posto dei “miti orti paesani” i “pretenziosi giardini” dei borghesi neocapitalisti, etc.

Ma la Sardegna autentica vive per sempre nel sangue, nella “radice del cervello”, nel “fiocco dell’anima”. La panoramica d’assieme si precisa ulteriormente con gli “affondo” della seconda parte, dedicata ai ritratti di figure della Famiglia, come le tre indimenticabili zie Enne, Nenne e Memme, quest’ultima specialmente, la “Tigre ircana” simile a Medea “ma incorruttibile, Medusa e Maga ammaliatrice” e quasi sempre “urlante e rabbiosa”, con un “diavolo per capello”. Luoghi, oggetti e volti, sepolti nella memoria, restano “come sedimentati nel fondo della coscienza, quasi fatti coscienza essi stessi”. Il “mal di Sardegna”, che ben conosce anche il turista quando abbandona l’isola, colma gli occhi e il cuore di nostalgia della terra edenica intravista fra gli scenari di quella reale: una specie di amore struggente, quasi desiderio carnale, di quelle piante, quelle rocce, quelle creature. Il paesaggio esterno si traduce in paesaggio interiore: “di ogni albero” leggiamo “portava nel sangue la visione fremente, instillatavi da un milione di anni, dacché un essere tanto simile e tanto diverso, ignoto a lui, ma fratello, aveva colto per primo quei fruttici, quelle bacche”. È la continua coscienza di essere, ciascuno di noi, l’anello di una catena infinita – e dunque il senso vivo della Storia di cui siamo parte e che di noi si compone – a conferire alla scrittura di Francesca Farina la sua tipica, particolare e universale profondità, per cui dietro le parole si avverte “un universo intero, di stelle e di abissi”, mentre la linea esteriore corrisponde “a una linea interiore (…) a volte sinuosa e spiraliforme, sfrecciante e sfuggente”.

Nel mondo e nel “modo” epistemico di questo romanzo ogni cosa ha un nome e, viceversa, ogni nome “è” una cosa (nomina sunt res, diceva Giustiniano). In quella Sardegna “ogni collina, ogni sentiero, ogni roccia portava, come le persone, un nome” e quindi la scrittura cerca idealmente di dare udienza e voce ad “ogni macchia, ogni arbusto, ogni foglia e ciascun fiore screziato”, “evocando la estrema ricchezza della natura”, nella sua inesauribile fenomenologia, e “osservando come il più acuto e sottile entomologo ogni insetto, ogni sepalo, ogni bacca, ogni goccia di rugiada”. L’autrice è talvolta presa dal demone dell’enumerazione, come quando descrive i gioielli tradizionali delle donne sarde o nomina, nello spazio di mezza pagina, oltre 30 tipi di piante diverse, anche quelle “dai nomi poco usati” (per citare Montale) come l’iperico, l’ononis, il colchico e l’euforbia. È una scrittura che sa unire le matrici opposte di Verga (la concretezza icastica di una parola che è pietra e carne) e D’Annunzio (la musica della prosodia) in pagine di grande equilibrio compositivo ed efficacia lirica, come nel passo seguente: “il mistero del futuro era grande e indefinito come quello della luna che, sporgendosi da una foresta di nubi, guardava con occhi cupi nel fondo dell’universo”.

La composizione poietica in prosa di “Casa di morti” riporta in auge la questione pluri-millenaria della Mimesis, che per Platone (X libro della “Repubblica”) è mendace in quando copia della copia della verità. Per Dante il realismo cosiddetto “figurale” annunzia e manifesta la realtà vera, quella trascendente. Quello di Francesca Farina è un realismo simbolico e fenomenologico, che vuole definire senza finire, cioè senza limitare la ricchezza dell’esistente negli schemi riduzionistici dove “non cape”, per inseguire l’irraggiungibile e inconcepibile realtà delle cose così come sono, evocando – quasi oltre le parole – quel “linguaggio privo di mediazione” a cui Hofmannsthal dedica, all’inizio del ‘900, la sua “Lettera di Lord Chandos”: la bellezza si rivela alla mente e “in ogni piega del cuore” come “perfezione di forme”, “beata opulenza di colori”, “memoria indelebile per i giorni venturi, ricchezza inesauribile, gioia perenne”.

Nelle opere la critica stilistica tende a esaminare anche la struttura dello spazio letterario. Ad esempio la “Divina Commedia” predilige lo spazio verticale, adeguato alla visione trascendente e medievale di Dante; l’“Orlando Furioso” lo spazio orizzontale, adeguato alla visione laica e rinascimentale dell’Ariosto; la “Gerusalemme liberata” mescola allo spazio verticale del cristianesimo quello orizzontale del paganesimo, etc. Qui lo spazio è, piuttosto, circolare, giacché asseconda la ruota del tempo e la dinamica ciclica delle incessanti trasformazioni. Non a caso le due parti di cui il libro si compone sono intitolate “Nel cerchio delle colline” e “Nel cerchio della famiglia”, e gli stessi personaggi emblematici della narrazione (come le tre zie) sono come magneti attorno a cui ruotano i satelliti degli altri, in una coralità che incide a propria volta la sua spirale dentro il cerchio misterioso della vita.

“Casa di morti” è un romanzo straordinario, non solo a livello storico e antropologico, ma anche a livello ontologico, di scrittura del mondo, di presa della realtà ad ogni livello della materia. La sua scrittura ricchissima e multisensoriale ripristina la dicibilità totale dell’esperienza, e dunque la perduta centralità umanistica come cardine e misura delle cose, ma con un senso “postmoderno” di apertura universale, di nuova umiltà e devozione all’essere. Ma è soprattutto il tema della Memoria a rendere il libro degno della massima attenzione. La scrittura come esorcismo dell’oblio e arca di salvezza delle cose, altrimenti destinate a scomparire. “Di ogni cosa, alberi e visi, mani e foglie, parole e fruscii del vento, tutto si portarono via gli anni”, così è scritto nell’ultima pagina; e tutto il ponderoso e poderoso romanzo che si è letto fino a quel momento non è altro, in definitiva, che il tentativo – riuscito – di opporre una misura di resistenza umana a questa sparizione.

Il libro è importante, da ultimo, anche per la sua magnifica inattualità, che lo pone in controtendenza alle mode letterarie oggi imperanti, stabilizzate sul “mordi e fuggi” di un facile e preconfezionato “intrattenimento”. Un punto fermo da cui muovere per riportare la narrativa italiana ai fasti dell’arte che un tempo, neanche troppo lontano, usavamo chiamare “Letteratura”.

Marco Onofrio

“Lo Sciamano”, di Valerio Mattei. Lettura critica

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Lo Sciamano, il libro grazie a cui – esordendo in campo letterario – lo straordinario talento musicale di Valerio Mattei si cimenta con la melodia della pagina scritta, è un’opera in equilibrio tra narrativa e saggistica, romanzo e dialogo filosofico, apologo morale e vademecum di massime spirituali. La scrittura coinvolge e intriga, è agile e scattante, quasi sempre fluida nonostante la quantità e la complessità degli argomenti affrontati. Dico subito che Lo Sciamano è un libro d’Amore e sull’Amore (con l’iniziale maiuscola), giacché l’impulso e poi l’andamento che lo caratterizzano, percepibili nel corpo emozionale di ogni pagina, nascono da quello che è, spiritualmente e non solo, il significato primo e ultimo della Vita, ciò che appunto le dà significato, linfa, profumo, sapore. Scrive infatti Mattei, come in un gospel gaudioso per voci celebranti o in un mantra sciamanico per cuori visionari:

L’Amore è la Legge
che non prescrive condizioni.
L’Amore crocifigge
per consentire resurrezioni.
Non segna sulla lavagna
cattivi e buoni.
Non disdegna,
a tutti insegna,
senza eccezioni.

L’Amore dice senza parlare.
L’Amore brucia senza divorare.
Porta Giudizio senza giudicare.
L’Amore cuoce senza attaccare.
Silenzioso, antiaderente,
l’Amore è mare e salvagente.
Così grande da essere Tutto,
e da saper sembrare niente.

Sentinella negli assedi.
Fontanella per le seti.
Campanella per gli impreparati.

L’Amore osserva senza fare osservazioni.
L’Amore ama libero dalle passioni.
L’Amore conosce senza imparare.
L’Amore riconosce senza ricordare.
L’Amore sa mentire senza ingannare.
L’Amore sa astenersi dal fare il bene,
quando quel bene, può fare male.

L’Amore intende senza sentire.
L’Amore comprende senza capire.
L’Amore si protende senza interferire.
L’Amore si arrende senza smettere di agire.
L’Amore sogna senza dormire.
L’Amore aspetta senza aspettative.

Parole che sgorgano come acqua sorgiva da un senso vivo di gratitudine per il dono di esistere, di avere avuto in dono un potere creativo, un potere quindi terapeutico. Tutto il libro è pervaso da questa fede nell’artista come guaritore, curator animi, catalizzatore e trasformatore di energie. Una vibrante antenna che riceve e trasmette a 360°. Praticamente, appunto, uno “sciamano”. La musica, Valerio Mattei lo sa bene, lenisce le ferite del cuore. Ora sta imparando che anche la scrittura può farlo, per chi scrive e per chi legge, ed è uno degli obiettivi di rigenerazione che si propone di ottenere con il libro.

Parlando ancora dell’Amore che dà la propulsione alla scrittura, nutrendone di luce creativa tutti i potenziali di bellezza, c’è da aggiungere quello incondizionato che proviene dalla “radice prima” della famiglia, quel tepore dolcissimo nel sentirsi «costantemente amato e al sicuro», protetto da ogni pericolo. Lo percepiamo fin dalla dedica al padre che, con umanità e dolcezza non comuni, Valerio depone sulla soglia del percorso:

Non riesco a immaginare
benedizione più grande
e dono più prezioso
dell’aver conosciuto e sperimentato a piene mani
il tuo amore incondizionato,
la tua bontà straripante
e la tua inesauribile, infinita generosità.

Lo Sciamano
sei sempre stato tu,
Papà.

Grazie,

Valerio

La parola-chiave del libro è: trasformazione. Configura infatti un percorso di guarigione e crescita evolutiva. Un reset spirituale. Un ricapitolarsi dalle origini. Lo Sciamano si struttura e si dipana come dialogo/monologo con una entità sopramentale, una sorta di Virgilio ipnotico ed estatico, spesso leggero, acrobatico, arguto e sorridente, assimilabile al Superio, lo Spirito Guida, il Sé eterno, la «versione più alta di me stesso», nelle sembianze di un maestro spirituale che accoglie l’io narrante alle soglie di un sogno lucido e lo accompagna lungo il percorso dentro i territori metafisici che la nostra esperienza terrena racchiude. Questo sogno lucido apre le porte della percezione al «regno dimensionale» da cui proveniamo prima di incarnarci: l’Infinito e l’Eterno da cui irradia un senso meraviglioso di luce, di «espansione e immensità». Viene così focalizzata la vocazione profonda di Valerio Mattei, tripartita fra Arte, Comunicazione, Spiritualità, convogliate nella ricerca della felicità, così definita:

Non c’è una strada per la felicità. La felicità è la strada.
La felicità è quindi una scelta.
La scelta innanzitutto di arrenderti, di mollare i combattimenti, gli spasmi forsennati con cui ti dimeni tra le onde a volte impazzite della vita e di iniziare finalmente a danzarci insieme, senza perdere i tuoi colori e la tua personalità unica e irripetibile.

Mattei evoca un atteggiamento di apertura al mondo e ai suoi messaggi subliminali, ad esempio «spezzoni di frasi ascoltate per caso». In realtà nulla accade per caso e «tutto parla. Il punto è semmai: chi ascolta?». L’artista è questo, anzitutto: un uomo in ascolto. C’è tutto un assieme di universi che chiede e merita ascolto. Le vibrazioni energetiche. Le voci del silenzio. Gli oceani della profondità. Le soglie invisibili del mistero.

L’artista è chiamato a conciliare l’inquietudine perenne che ne guida il percorso con il desiderio di una vita piena e appagante, per sé e per gli altri. La formula per cominciare a guarire è: «Io sono. Qui. Ora». Il presente è sempre un dono, come dice la parola stessa. Nel coincidere con la contingenza dell’impermanente, si ferma per magia il fiume del tempo e si abbraccia «l’Eterno che sorride sornione tra le pieghe degli eventi quotidiani». Contattiamo così il «campo di energia molto più vasto della nostra persona fisica» in cui siamo immersi, spesso come sonnambuli. Ma occorre abbattere il muro della pigrizia e dell’inerzia statica che ci impedisce di cambiare, consapevoli che «anche un viaggio lunghissimo / inizia da un singolo passo».

Lo Sciamano che l’io narrante incontra è un Maestro autentico perché mostra la grandezza del discepolo, non la sua. Ma non è sempre facile o piacevole parlarci: rovescia i luoghi comuni, de-automatizza i processi mentali, produce impatti vertiginosi con le sue domande destabilizzanti. Sintetizza in modo eclettico, nei suoi discorsi, millenni di pensiero, di sapienza religiosa, di ricerca filosofica e spirituale. Le sue parole, dosate con cura amorevole, consentono «il germogliare del mio essere, fino ad allora sopito come un seme sepolto nella preistoria della mia vita». Agevola, con la sua attività maieutica – ricca di stimoli, esempi, consigli, provocazioni, e soprattutto tantissime domande –, un processo di integrazione della persona umana e di centratura del Sé verso la piena auto-realizzazione: «Ripristinare lo splendore / di quando sei venuto al mondo». Questo vorrebbe Valerio Mattei facendosi Sciamano di ogni suo lettore, cioè animatore e mallevadore di energie addormentate; e per farsi Sciamano deve fingersi discepolo del proprio Maestro interiore.

Le persone stanno male, vivono male. C’è tanto da essere, più che da fare. Siamo «distratti e distrutti», logorati da una vita impossibile e da un sovraccarico di stimoli (immagini suoni parole) che in realtà nascondono il vuoto dell’insignificanza. Tutti iper-connessi ma profondamente soli. Viviamo «ampiamente al di sotto delle nostre possibilità». Ecco perché il mondo non cambia! E invece basterebbe poco:

Non immagini neanche quanto si può essere luminosi e in pace aggiustando un paio di cose a livello interiore. Però vai cercando il grande amore, il grande successo, soldi, case, lavoro, etc.
Inizia a dire… grazie… al mattino.

Occorre destrutturarsi per far emergere la propria verità: far cadere le impalcature, gli schemi, gli stereotipi, le abitudini, le gabbie, le trappole dell’Ego che ci condizionano. Naufragio e black out, altra via non c’è: morire a se stessi per cominciare a vivere davvero.

Muori adesso.
Muori mentre vivi.
Muori all’Ego.
Muori al falso sé.
Muori a chi pensavi di essere.
Muori ai condizionamenti che hai assorbito acriticamente nell’infanzia.
Muori ai traumi, alle ferite, a tutto ciò che non ti appartiene.
Muori a tutto ciò che ostruisce e sporca la tua connessione.
Muori a tutto ciò che ti tira giù e oscura la tua luce.
Muori al tuo dramma.
Esci dalla recita.
Lascia cadere la maschera.
Lava via il trucco.
Scendi dal palco.
Salta giù dal treno.
Muori a tutto il tuo patrimonio genetico che, come un nastro ininterrotto, ti porta a sbattere continuamente sulle stesse frustrazioni. Come una nave che naufraga sempre sulla stessa scogliera. Come un calabrone che urta ciecamente sul vetro della finestra chiusa, quando poco più in là ce n’è un’altra spalancata.
Muori adesso.
Muori senza morire.
Muori.
E inizia a vivere.
Inizia a vivere davvero.

Fra i tanti percorsi spirituali che il libro ha il pregio di illuminare, ho individuato 7 passi fondamentali di crescita interiore grazie a cui creare i presupposti del necessario e sospirato salto di coscienza:

1) perdonare, amare il nemico, smettere di volergli assomigliare. Il perdono «è un regalo immenso che fai a te stesso» perché annulli la negatività, liberando le energie intrappolate dal bisogno di vendetta, di rivalsa, di rivendicazione;

2) perdonarsi, accettare il proprio passato. «Non giudicare la persona che eri. Perché quella persona ti ha portato qui sulle sue spalle ed è morta per far vivere te»;

3) ringraziare tutti gli ostacoli e i fallimenti attraversati: è grazie ad essi che sei cresciuto. Imparare a danzare leggeri e naturali sulle circostanze, come il surfista che diventa un’unica cosa con le onde, con il vento, con il mare;

4) trasformare il dolore: tocca a noi farlo, ed è «libero chi ce la fa». Il dolore è uno scandaglio abissale, un veicolo di profondità che ci permette di essere autentici;

5) riconoscere la legge universale dell’ambivalenza: «ogni cosa è portatrice sana del proprio opposto»;

6) com-prendere, cioè prendere con sé, accogliere e capire con il cuore. Riconoscere la luce in ogni persona, anche quella in apparenza più oscura. Amare incondizionatamente, seminare amore (o almeno un’intenzione d’amore) senza aspettarsi niente in cambio. Sentire gli altri come parti di sé;

7) arrendersi, smettere di fare la guerra. Accettare la sconfitta, ammettere il fallimento: quello è il primo gradino della risalita, il presagio della rinascita.

Il successo autentico coincide allora con l’auto-realizzazione:

Essere non fare.
In questo modo potrai diventare meditativo in qualsiasi circostanza.
La meditazione, l’introspezione, la respirazione, il movimento, la giusta alimentazione, abbondanti dosi di acqua e sonno rappresentano le chiavi per essere una persona altamente funzionale.
Sarai creativo, rapido, efficiente, geniale, intuitivo, amorevole, paziente, centrato, compassionevole.
Avrai la sensazione gradevolissima di camminare in un pianeta completamente diverso pur continuando a fare avanti e indietro dal lavoro.
Non avrai neanche più voglia di desiderare chissà cosa perché la dolcezza, la delizia sarà dentro di te e da dentro di te potrai proiettarla fuori di te.
Il successo è questo. Nient’altro. È una qualità che tu proietti da dentro a fuori, non qualcosa che devi raschiare dai muri del mondo. Il tuo talento riposa nel tuo DNA, non nelle mani di chi ti ascolta.
Non è il clap clap degli altri che deve e/o può sancire il tuo valore.

Ciascuno è chiamato a liberare le energie imprigionate, creare lo spazio di un miracolo, abbracciare finalmente la propria identità divina: sentire sorgere dentro di sé «il potere, la libertà, la maestà, la bellezza», l’infinita dignità dell’essere umano. Sono questi alcuni dei semi spirituali – spesso autentiche perle di riflessione e di intuizione poetica – con cui Lo Sciamano si propone di nutrire il nostro cuore inaridito per curarci e farci riappropriare di noi stessi.

C’è qui, peraltro, il laboratorio artistico di Valerio Mattei Percepiamo tutto il fervore creativo da cui sbocciano le sue creazioni. Il pensiero che fa da retroterra alla sua musica; ma anche la musica del suo pensiero, non meno bella e avvincente delle sue canzoni. Dovrebbero leggere questo libro gli studenti nelle scuole, soprattutto quelle di musica, e poi gli artisti, i formatori, gli insegnanti, gli operatori culturali e in genere chiunque senta il bisogno psicofisico di crescere, svegliarsi, stare meglio. Tutto il libro è un viaggio verso la completezza, l’armonia, la pace. Un grande inno alla gioia, grazie a cui imparare a rimettersi al mondo… come (e si veda l’immagine di copertina)

La goccia a cui il cielo
aveva sempre detto no,

e che

si lasciò cadere in mare
… e mare diventò.

Marco Onofrio