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“La rivolta del corpo”, di Lina Raus. Lettura critica

Lina Raus incarna il prototipo dell’operatore umanistico che, coniugando arte e scienza nella comune matrice psicanalitica, si fa scrittore per elaborare dal vissuto, proprio e altrui, la narrazione interna ed esterna della nostra epoca. I suoi romanzi ispezionano le connessioni che annodano o sciolgono la psicologia dei gruppi sociali in tessuto comunitario, articolando i campi di forze e i rapporti in macro-sintesi attraverso cui, successivamente, la cronaca si cristallizza in storia. È un discorso indirettamente civile: la penna affonda la sua lama nella crisi, perscrutandone l’anatomia, l’estensione, i confini, le ferite, le suture, le putrefazioni, le possibilità di cicatrizzazione.

La scrittura di Lina Raus non persegue finalità precipuamente estetiche – l’arte per l’arte esula dai suoi interessi – ma assolve a un compito gnoseologico e terapeutico, di chiarificazione interiore e benessere sociale. Storie tragiche di dolore, certo, ma anche di guarigione, di rinascita, di emancipazione. La psicoterapeuta e scrittrice originaria di Minturno ha sempre provato un “bisogno particolare di essere vicina ai più deboli, ai sofferenti, ai bisognosi”, forse perché lei per prima ha conosciuto la sofferenza “a causa della guerra, delle malattie, e soprattutto della spiccata sensibilità” che la portava a soffrire anche per cose che le altre bambine non avrebbero neppure notato. La scrittura è un modo efficace per proiettare il dolore fuori di sé, oggettivandolo in una sintesi conoscitiva e come spurgandolo nella bile nera dell’inchiostro. È uno strumento di “ecologia della mente” che mette in contatto e in equilibrio i due emisferi, consentendo a chi scrive e a chi legge di ricomporre le fratture tra soggetto e oggetto, mente e corpo, spirito e materia, io e altro, conscio e inconscio, silenzio e suono, presenza e assenza, menzogna e verità.

L’obiettivo è comprendere e riprogettare continuamente se stessi, attingere al profondo, attivare le potenzialità latenti – contattare insomma il mistero del proprio essere, vivo benché sepolto dalle alienanti sovrastrutture del mondo contemporaneo e quasi consunto dalle ipnotiche strettoie percettive imposte, sin dall’infanzia, per mezzo delle nuove tecnologie di massa. La luce erompe attraverso le crepe delle zone d’ombra dove si annida maggiore l’inquietudine. Ora la “trilogia” inaugurata nel 2012, come l’ho definita in un mio saggio monografico, diventa tetralogia con il romanzo La rivolta del corpo (EdiLet 2021, pp. 148, Euro 14), pubblicato in piena crisi pandemica. Una nuova sintesi logomitica di sentimento e ragione, eloquenza e cura dell’anima, libertà creatrice e disciplina di autocontrollo, grazie a cui Lina Raus continua a convocare e convogliare temi e sentimenti universali – quanto mai validi e attuali, nella loro eternità – come il disagio psichico, la nevrosi, l’identità di genere, il pregiudizio sessuale, la famiglia, l’amore, l’amicizia, l’abbandono, il lutto, l’angoscia, la solitudine, ecc. La narrativa si fa carico delle risposte antropologiche fondamentali agli eventi e ai traumi dell’esistenza, e manifesta la dicibilità delle cose come se l’unità umanistica dei saperi non fosse stata ancora frantumata dall’età moderna e postmoderna, incarnando il “bisogno di una scienza della religione e dell’arte, di una religione dell’arte e della scienza, di un’arte della scienza e della religione”, cioè di una circolazione fluida e osmotica tra le pulsioni conoscitive basilari dell’uomo tout court.  

“Chi sono io, e come sono?” si chiede la protagonista de La rivolta del corpo, Sara Effe, e vi risuona (come non percepirlo?) lo “γνῶθι σεαυτόν” dell’Apollo delfico. Ecco la scrittura come strumento di conoscenza ed auto-terapia di “un dolore che gli altri, sconosciuti che lo leggeranno, ti aiuteranno a scaricare portando via ciascuno la sua piccola parte di angoscia”. Sara Effe è il tipico personaggio di Lina Raus: una vittima del “disagio della civiltà” concretizzatosi, per lei come per molti, in una famiglia retrograda e repressiva che ne ha segnato l’infanzia e, quindi, il proseguo dell’esistenza. Depressione bipolare, nevrosi, coazione a contare oggetti e situazioni, insoddisfazione, ricerca infinita, atavica mancanza di fiducia, incapacità di chiedere, paura di dare fastidio, solitudine, sensazione di “non essere mai capita”, di sentirsi sempre “sbagliata” e di avere o essere sempre qualcosa di mancante, ecc. l’hanno indotta a un percorso psicanalitico. Ma il romanzo comincia nel modo più atroce: Sara Effe ha scoperto di avere un cancro al rene e deve operarsi. La sua corazza difensiva rivela improvvisamente l’intrinseca vulnerabilità: “Sembro forte perché ho una volontà di ferro? È vero, sembro una kamikaze, ma faccio conto solo sulle mie forze: non ho mai potuto o saputo contare su nessun altro. Faccio fatica ad ammetterlo ancora oggi, ma è lì la prova della mia solitudine in continua ricerca: corro, sempre corro, per inseguire qualcosa di molto importante che mi sfugge. Mi sento come una farfalla che gira intorno ad una lampada accesa, allucinata dalla incandescenza della luce, senza sapere che quella potrebbe essere causa della sua morte”.    

Lina Raus ci fa vivere l’angoscia della notte prima dell’intervento, la paura della morte, il salto nel buio. Poi l’anestesia, l’operazione, il risveglio. Sara Effe intrappolata fra tubi e tubicini di flebo, ma soprattutto in un labirinto psicotico dato dal terribile anagramma di “cosa”, “caos” e “caso” tra cui si sente sballottata come un guscio di noce in mezzo a una tempesta. La “cosa” è il male, l’intruso da estirpare con devastante violazione del corpo, e ovviamente anche della psiche. La malattia ha però qualcosa di prezioso: rende straordinaria la cosiddetta “normalità”, fa cioè in modo che venga percepita straordinaria, come in realtà è, malgrado l’abitudine ci impedisca di viverla nella sua vera natura. Il responso dell’esame istologico è confortante: per Sara Effe rappresenta una rinascita, un “nuovo inizio”. Sa da sempre che le piace l’inizio delle cose, e allora giura a se stessa che il grande scoglio superato non potrà mancare di imporle un’esistenza programmata su basi nuove. Avere un’affettività sana e imparare finalmente a vivere, cioè a difendere la gioia, a godere senza rimorsi o rimpianti le tante cose belle che ci sono.

Una delle domande implicite che emerge dal libro è: siamo un corpo o semplicemente lo abbiamo? L’esperienza spirituale ci rivela di continuo che siamo anime incarnate, cioè intrappolate in una forma carnale che ci consente di esperire la materia, ma d’altro canto non risponde a pensieri e desideri così alti come quelli che ci abitano nel profondo. Ecco la sofferenza di una vita! Da qui il bisogno potente e originario di spezzare le catene invisibili: combattere la paura, i pregiudizi, le ipocrisie, riscattando la sofferenza nella libertà. Tutto il romanzo raccoglie questo grande slancio della coscienza per la conoscenza, e viceversa, verso l’ignota pace interiore, altrimenti definibile armonia. “Ma l’armonia non può essere intorno a noi, se prima non è dentro di noi”, leggiamo a un certo punto della storia. Ecco il lavoro su se stessi, l’autoanalisi, la ricerca delle cause prime: le ragioni intime della sofferenza. “Tutto mi riporta sempre alla mia infanzia”, riflette Sara Effe. Ha subìto una educazione rigida e piena di tabù. “I miei erano la causa del mio male… Spesso non mi sentivo trattata come una persona ma come una cosa… Non ricordo carezze, abbracci, sorrisi, considerazione”, ma solo nervosismo, urla e scatti di rabbia. Un clima inquisitorio di sospetto e di peccato che non le ha consentito un rapporto equilibrato e positivo con la natura delle opere e dei giorni. Era la “figlia della colpa” solo perché concepita prima del matrimonio! Si immagini già da questo il livello di arretratezza mentale e culturale che ha scolpito la purezza del suo diamante originario…

La repressione infantile e adolescenziale le ha procurato un “caratteraccio” indomabile e ribelle, intriso di rabbia pur nella tristezza e nella solitudine. Ma la repressione produce ribellione e desiderio di trasgressione: “è legge di natura che dove c’è l’oppressione nasce l’opposizione”. La psicanalisi prima e la malattia poi le hanno consentito di sentirsi paralizzata nelle contraddizioni: un passo avanti e due indietro, preda di forze ambivalenti. “Sono sempre stata in contraddizione: la parte di me che voleva uscire per manifestarsi rimaneva poi bloccata nell’ombra”. Ecco la paura di alzare la testa e tenere la schiena dritta per affrontare di petto i problemi, e la fretta nel vivere le situazioni favorevoli, come in apnea: l’incapacità di prendersi il tempo necessario per godere del bello e del buono, le volte rare e preziose in cui sono disponibili. E ancora: le resistenze, gli escamotages, i nascondigli infiniti per impedire di conoscersi veramente. Meglio non alzare la pietra, meglio non scoprire i vermi brulicanti che nasconde!

Ma ecco la crisi come opportunità. Sara Effe capisce grazie alla malattia che “non ne può più di controllarsi”, schiacciata dal peso del Superio che le hanno imposto i suoi fin da quando era bambina per negarle il “principio di piacere” con proibizioni e punizioni di ogni tipo. E capisce anche le cause della malattia stessa come somatizzazione del malessere psicologico, cioè come rivolta del corpo trascurato e mai amato abbastanza. “Il corpo sopporta tutto, ma non per sempre. Il corpo, a un certo punto, si ribella; sembra che voglia vendicare tutto ciò che la mente ha sofferto senza cedere”. Ecco la malattia! Sara Effe ha vissuto per decenni la “sindrome della spugna”, assorbendo ingiustizie e sofferenze da cui non è riuscita a depurarsi: non a caso il cancro le è venuto a un rene! La scienza ha ampiamente dimostrato la connessione tra ambiente psicofisico e risposta immunitaria delle cellule: segnalo a tal proposito, fra gli altri, un bel libro di Bruce Lipton, “La Biologia delle Credenze”. Pensiero e stato d’animo influenzano il DNA e la salute delle cellule: depressione, insoddisfazione permanente o un grande dolore (come accadde al povero Enzo Tortora, dopo l’abominio giudiziario) possono portarle ad impazzire, innescando malattie gravi come il tumore. Il vero nutrimento della nostra vita – come afferma Massimo Recalcati in un colophon apposto dall’autrice alla Seconda Parte del romanzo – è il “desiderio”: nutre più del cibo! Senza l’entusiasmo del desiderio, cioè “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, tutto è destinato a cadere, a chiudersi, a incenerirsi.

Grazie al cancro sconfitto, Sara Effe evolve a un livello superiore di coscienza. Impara a non farsi più condizionare dalle voci interiorizzate della famiglia d’origine. Impara ad amarsi, finalmente, per lasciarsi finalmente amare. Impara a “osare vivere” e “osare nascere” ogni giorno. Impara a smettere di sopportare e resistere senza tregua, rinunciando al fine della irraggiungibile perfezione per accettare infine il mezzo della nostra condizione umana così com’è, “imperfetta e provvisoria”. La malattia ha fatto nuove tutte le cose: il “tempo regalato”, cioè strappato alle unghie della morte, impone d’ora in poi il sano godimento d’ogni singolo istante, con la “sua gioia per rimettere in equilibrio il corpo con la mente”.  Il libro si offre dunque come “testimonianza di dolore” dall’effetto catartico e liberatorio: veicolo di guarigione e invito al riscatto dal disagio che la vita e il mondo ci infliggono, per fare del bene a noi stessi e, di conseguenza, alle persone che abbiamo intorno e che non di rado contribuiscono a farci stare male. Un libro piacevole da leggere, con le sue gioconde e ironiche digressioni, e anche utile da riflettere per capire che noi non siamo la nostra eventuale malattia, ma tutto ciò che essa indica con urgenza, invitandoci a salvaguardia del bene, della vita, in una parola: dell’amore. Appunto questo ci urla da dentro la malattia: che la morte è l’opposto dell’amore, e che dunque per vivere è indispensabile amare, il più possibile e il prima possibile, perché già domani potrebbe non bastare o essere troppo tardi.

  Marco Onofrio        

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“Con altra voce”, di Sabino Caronia. Lettura critica

La silloge “Con altra voce” (Edizioni Nemapress, 2019), di Sabino Caronia, raccoglie 30 poesie che paiono scritte con la bocca amara, le labbra deformate nella smorfia di un gusto aspro che tenta di nascondersi sotto il velo brillante dell’ironia ma che in altri momenti, al colmo del malincuore, può lasciarsi andare apertamente nel sarcasmo. L’opera si dipana tra “diario di assenze”, giocate tra non più e non ancora, e “naufragio di amori” mai consumati, soltanto sognati, finiti sul nascere o al primo apparire della loro potenzialità. Dalla “ferita del possibile” qui si passa alla “ferita nell’esistere”, giacché l’esistere stesso è e produce una ferita che langue in silenzio e «tutt’a un tratto» può risanguinare. Caronia guarda da spettatore passivo al destino che muove da dentro l’evoluzione delle cose, governandone e determinandone gli incontri, gli scontri, le separazioni, fino alla chimerica «forma segreta» della loro essenza. Ad esempio il vento che «corre all’appuntamento con le foglie», o le nubi che passano in cielo «messaggere di lutto», oppure la cometa che fugge «chissà dove / da chissà quale terribile dove / e silenziosa nella notte» va «sempre obbediente ai calcoli del cuore». La voce “altra” della poesia scaturisce dalle crepe sul muro compatto dei sogni, fratturato dalle esperienze, dalle delusioni, dai dolori. Da cui, conseguente, la constatazione del nulla in cui siamo immersi e a cui siamo destinati, a dispetto del nostro inutile sforzo, e quindi anche l’incomunicabilità, «la coscienza d’essere vivi in un mondo di morti» e, talvolta, la vergogna «d’essere un uomo».

Cosa resta di noi, di queste nostre
vite senza memoria, cosa resta
di questa solitudine infinita?
Soli, come Franz Kafka, dentro un treno
che corre per deserti alti di neve.

La vita è come un viaggio in un mattino
freddo, nebbioso, triste, senza luce
che ci conforti e ci riscaldi il cuore.  

Infatti il cuore è freddo, ed è freddo perché troppo ha compreso, facendo di persone, cose e situazioni «specchio di me vivo e profondo» fino alla vertigine dell’inesistente. L’intelligenza (intus legere) è in certi casi una condanna, si vorrebbe avere meno consapevolezza – o almeno un senso meno vivo e straziante – di ciò che accade dentro e intorno a dove siamo.

Questo è morire, sai: guardare dentro.

L’esistenza è il dolore sconsolato di capire che «dietro quella finestra c’è la notte» e che siamo tanto fragili: «Domani il vento ci porterà via». A questo freddo, che in ultima ipotesi può anche essere eterno («quando i vermi un freddo pasto / faranno alfine del mio corpo»), Caronia oppone il potere consolatorio offerto – soprattutto nella prospettiva malinconica del post factum – da lacerti episodici di vita, attimi irripetibili, rare luminose epifanie, attraverso la mediazione salvifica della Donna: le sue mani sulle mani innamorate, il «calore delle dolci labbra» che scalda ancora le sue, gli occhi grandi «dove amore fa nido», gli «occhi di cielo» dove ritrova la «fuggiasca fecondità», i pensieri dove vorrebbe vivere, la «promessa di futuro / che ritorna da un tempo ormai lontano / e il cuore scalda e l’anima innamora», ecc. L’amore che nutre i frutti della vita e la poesia che li raccoglie possono opporre un argine di salvezza al baratro eterno in cui tutto prima o dopo è destinato a dissolversi. Lo scrittore è come colui che «accende fiori di solarità» posandoli in offerta votiva «sul nero del dolore», e Caronia ricorda il girasole che Plinio Perilli portò in dono al funerale del caro Elio Fiore. Si tratta insomma di poesie pervase da un disperato bisogno di felicità, in attesa di un appuntamento «dove non c’è miseria né dolore» (come quello sospirato da Don Fabrizio Salina quasi alla fine del Gattopardo, “un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza”), qualcosa che dunque ci liberi dal gioco trito e tristo dei giorni in cui siamo impelagati. L’opzione di un’altra voce (che è, infine, la poesia stessa) apre universi alternativi, scenari che si affacciano su dimensioni diverse da quelle ordinarie, per limpidezza, lucidità ed intensità percettive, benché ad esse parallele e in qualche modo adese, forse concentriche. Un esempio di questa realtà poeticamente rinnovata e “salva” è nella bella composizione “Sotto diverso cielo”:

SOTTO DIVERSO CIELO

Il vivissimo fuoco
dei tuoi verdi occhi chiari
come lama sottile
mi ha frugato nel cuore,
sotto diversa luce,
sotto diverso cielo,
su prati di smeraldo,
dentro una pioggia d’oro.

Il mondo visto con gli occhi di un trapassato, che finalmente ha visto svelata “sotto diversa luce” la verità del mistero, implica la salvezza ultima della fede religiosa, del credere in ciò che non si è visto e del sapere con tutta l’anima che «Cristo è Cristo», ossia che fedele e saldo come Lui al mondo non c’è e non ci sarà mai nessun altro. Cristo infatti è «infinita speranza che non muore» ed è Lui lo scoglio sicuro che può offrirci l’«appiglio» dove resistere al naufragio ininterrotto delle cose. La ricerca del divino che è in noi non deve languire nell’abitudine dei fatti scontati, ma essere pungolata dalla sete viva dell’assoluto, ed è ciò che si afferma nella prima composizione – quasi un segnavia, una stella cometa deposta a splendere proprio all’incipit del cammino – che peraltro ritengo la migliore, anzi la più memorabile delle trenta:

COME L’ACQUA

Poiché l’acqua è insegnata dalla sete
non ci resta che prendere la sete,
per maestra, per guida d’assoluto,
nei cammini dell’anima inquieta.

Marco Onofrio

“Amen”, di Chiara Mutti. Lettura critica

Leggendo “Amen”, il nuovo, suggestivo libro di Chiara Mutti, vien fatto di estrarre dalla robusta tessitura dei “racconti”, sospesi tra diario senza date, espresso in terza persona, e poema lirico di frammenti in prosa, dall’impatto poetico-musicale piuttosto che narrativo, una sorta di identikit della protagonista fittizia, Giulia, in cui l’autrice, decidendo per sé un ruolo apparentemente neutro di “io narrante”, sembra con ben altra evidenza sostanziale riconoscersi e riversarsi, in guisa di “alter ego”. Starà poi al lettore comprendere e decidere quanto di Giulia appartenga a Chiara, o viceversa. Quanto cioè Chiara Mutti abbia avuto bisogno di uno “schermo” esterno – come la visiera con cui l’operaio si protegge gli occhi dall’incandescenza della saldatura – per maneggiare e, appunto, saldare i frammenti di un passato traumatico che le brucia dentro, malgrado i decenni trascorsi.

Regge, la finzione di Giulia? È un personaggio credibile, dotato di vita autonoma? Oppure è una mera funzione narrativa, ricavata semplicemente trasformando l’io nella “terzietà” di una prospettiva equidistante, almeno in teoria, tra l’io e il tu, cioè tra lo sguardo interiore e quello esterno proveniente dal lettore? Secondo me la risposta è “sì” per entrambi i corni del quesito: vale sia come finzione realistica, o almeno verosimile, e sia come trasposizione strumentale di contenuti privati che, anche grazie all’espediente narrativo, si pongono e si porgono in senso universale. È un problema di “sospensione dell’incredulità”: sta al lettore credere in Giulia, o vederci Chiara in trasparenza. In un caso o nell’altro emerge il temperamento, forte e fragile al contempo, di una donna fieramente anticonformista, e intendo l’anticonformismo autentico, non quello esibito, per darsi un tono, dai conformisti. Un mix di autonomia, libertà, orgoglio, dignità, volontà di bastare a se stessa. Un retrogusto antico di femminismo anni ’70 dove però gli slogan programmatici e le frasi fatte si sono ormai stemperati nella dolce maturità dell’esperienza e, perché no, in una prima forma di “saggezza”. Una infanzia difficile ha costretto Giulia a farsi da madre e padre, ad essere figlia di se stessa, ma anche a farsi compagnia come “unica amica dei giochi”. Aveva ed ha tuttora una sensibilità diversa: suonava fin da piccola “un’altra musica”, sventolava “una bandiera tutta sua”. Ha uno spirto guerrier ch’entro le rugge: un’anima barricadera che la spinge alla ribellione fin dalle cose più semplici, plasmando la sua volontà di uscire dal “bozzolo rassicurante” delle abitudini, dalla narcosi del tran-tran quotidiano. Ma specialmente una integrità morale che la costringe a non piegarsi, a non arrendersi mai: è persuasa che “la pace non fa saldi” e non può esistere senza giustizia. I vecchi ideali di un mondo che nel frattempo sembra cambiato di secoli, e non in meglio, sono agganciati ai contrappesi di un “disincanto” che è nutrito anzitutto di sano realismo: il coraggio di non raccontarsi favole e non cedere alle facili illusioni – forse per troppe delusioni subite.

Per Giulia la realtà è un baratro immenso e vuoto, come il “buco in fondo all’anima” dove cerca sempre la sua voce; il dolore è buio che illumina, svelando inganni e ipocrisie; l’esistenza è un desolato magazzino di depositi (scorie ricordi traumi ferite squallori): “migliaia di immagini… Non tutte comprensibili, ma ognuna sembra racchiudere una importanza vitale” – così scrive Chiara. Il fatto è che l’artista, quando lo è davvero, è “abitato” da visioni inconsumabili che nelle opere cerca di circumnavigare, comprendere, esorcizzare: le insegue per tutta la vita. Sono i miti personali: le scene che continuano sempre ad accadere, per esempio dopo l’ultima lite col padre “la porta sbattuta così violentemente da continuare a sentirne le vibrazioni per tutto il resto dei suoi giorni”. Essere artisti è un crisma che unisce benedizione e dannazione; il rovescio della medaglia che il dono comporta è il disagio esistenziale, cioè la difficoltà di adattarsi al mondo, alla comune socialità, alla comunicazione banale e insincera che domina i rapporti umani. Ecco quel tipico stato di sospensione e impaccio: la sensazione costante di “aver rimandato qualcosa di molto importante” o di essere “sempre in ritardo di qualche minuto sulla vita”.

La parola per Giulia è il surrogato di “un’altra via di comunicazione” che segue “strade impervie e misteriose”, “percorsi siderali” entro cui “chissà dove si perde e chissà quando poi si ritrova”. Le è connaturale il mutismo, cioè il silenzio che, come il bianco i colori, contiene tutte le parole. È, per così dire, taciturna anche quando parla: preferisce parlare con gli occhi o completare le parole con gli sguardi. Di conseguenza, Chiara scrive di lei per sottrazione: ma questo, anziché attenuarla, amplifica la forza della parola così come, proprio quando si vuol far piano, i gradini di una scala di legno scricchiolano più del normale o del necessario… Il rapporto sofferto e combattuto che anche Chiara intrattiene con l’imprecisione riduttiva della parola trova un compromesso accettabile nella parola scritta, che (al pari della fotografia) “salva” le cose estraendole dal flusso del tempo, ed esime dall’obbligo della presenza perché continua a parlare anche quando chi ha scritto non c’è, o non c’è più. La scrittura viene onorata e praticata come rito ancestrale di sprofondamento nelle umane radici, attraverso una dinamica biunivoca dal particolare all’universale e viceversa. È una “terrazza aperta sulla notte e sui segreti del cielo” dove hanno modo di svelarsi e apparire, come i punti luminosi di una figura archetipa che riemerge dai canali aperti dell’immaginazione, i significati profondi e originari dell’esistenza. Da qui, la concentrazione tipicamente “poetica” di questa prosa, orchestrata sulle potenzialità di una scrittura tesa, tagliente e lucida come l’aria dell’inverno. Vale, per la Chiara Mutti prosatrice, il monito di Lalla Romano: stringere un libro intero nella pagina, la pagina in una frase, la frase dentro la parola.

Se intendiamo “poesia” anzitutto come “intensità” dello sguardo, dimensione dello spirito e stato della mente, “Amen” è un libro di poesia trafugato in pagine di prosa che dalla dissimulazione del focus traggono motivi di efficacia più sottile e, proprio per questo, ancora più incisiva. Anche per la sfuggevolezza del senso, che obbliga talvolta a tornare indietro per ripetere la lettura: ed è tutt’altro che un difetto, penso ai “Canti Orfici” di Dino Campana, a “Biografia a Ebe” di Mario Luzi, ai libri di Carmelo Bene… La dimensione poetica veicola naturalmente una tonalità melanconica, di inquietudine struggente e di atroce nostalgia (soprattutto di ciò che non è stato). Lo scrittore turco Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006, ha notato in un suo libro di preziose riflessioni sull’arte del racconto, dal titolo “La valigia di mio padre”, che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Sono ferite che non cicatrizzano mai completamente, e infatti il poeta è un essere scorticato, come ci ricorda Rainer Maria Rilke.

Analizziamo lo sguardo melanconico di Giulia: da un lato il miraggio fugace della felicità nell’“urgenza di volersi e di sentirsi eternamente vivi”; dall’altro il grido disperato delle cose inghiottite dal vuoto, la fine irredimibile che incombe e lo strazio sottile del pianto universale (sunt lacrimae rerum), per esempio il grido gioioso e grottesco che alla fine, espressionisticamente, coincide con quello stesso del cosmo, dal cielo “colmo di stelle”. A fronte della ineludibile realtà tragica, ecco il colophon da Montaigne, dedicato all’attrazione per gli inizi: «La nascita di tutte le cose è debole e tenera; e quindi dovremmo avere i nostri occhi dediti agli inizi». L’impatto di questa debole tenerezza si traduce e si declina in forza come slancio retroattivo e regressivo, ricerca dell’origine dei giorni: il tempo perduto da ritrovare e il mistero sconosciuto che palpita al centro del conosciuto “ordinario”, anche come improvvisa rivelazione. Ed ecco, subito, il secondo colophon, da Pasolini: «Quando si scrive senza pensare di rivelare un segreto, cioè sinceramente, ci si accorge di rivelare un segreto che non si sapeva di avere». La crisi è sempre opportunità di un nuovo inizio, a patto di esercitare la tanto decantata “resilienza” che però in “Amen” non è la parola oggi tanto di moda, ma la forza autentica di sormontare gli ostacoli (nella fattispecie di Giulia abbracciano ad arco filiere di traumi dovuti a disgregazione familiare, miseria, fame, collegio, esclusione, solitudine, e in una sola parola riassuntiva: disamore), cioè la prodigiosa capacità di estrarre armonia dal caos più nero e doloroso di una vita non proprio fortunata.

Grazie al processo alchemico attivato nel corpo della rigenerazione creativa e poetica che Chiara opera in nome e a favore di Giulia, la musica del pensiero e l’intensità del cuore articolano il centro unitario da cui irradiano le suggestioni del libro: la pulsione che muove e commuove la scrittura verso un indefinibile “oltre” umanamente alto, qualcosa di diverso e più profondo, da cui procede il riscatto “postumo” delle energie negative prodotte, anche dopo molto tempo, dagli eventi. Chiara riesce ad estrarre la radice del mondo nella vita di Giulia, e la radice della vita di Giulia in mezzo ai fili molteplici del mondo. Non è dato sapere quanto travaso personale immetta nell’opera di trasduzione, ma è certo che nell’osmosi consente a Giulia di vedere il fondo delle cose attraverso la loro dolorosa opacità. Un fondo che spesso si rivela doppio, tanto che parla esplicitamente di “dicotomia d’immagine” a cavallo tra onirico e reale. Ma che cos’è reale? La realtà stessa è forse sogno? O il sogno è realtà? Una delle rivelazioni offerte dal percorso è che le cose più “normali” sono, a ben vedere, quelle più oscure e misteriose: come nel racconto di atmosfera kafkiana dal titolo “Il faro”. Realismo e simbolismo sono in effetti le due cifre estetiche in cui vanno a collocarsi le due forze motrici del libro, una centripeta (la paura) l’altra centrifuga (il desiderio): la paura tende al realismo, il desiderio al simbolismo, ovviamente con tutto l’arco delle gradazioni intermedie e degli impasti reciproci. Il grande dono offerto alla fine del percorso è la catarsi, che consente uno stadio di possibile guarigione e liberazione dal dolore, secondo il principio che tutti i grandi medici furono dei grandi malati, e ogni malato, se guarisce, può guarire a sua volta gli altri. Amen significa allora fare i conti col passato: perdonare e soprattutto perdonarsi per buttare giù la diga che opponiamo allo scorrere eterno delle cose, e che in realtà “non è altro che la nostra paura di vivere”. E allora imparare anche ad arrendersi, accettare che la vita faccia il suo corso malgrado noi, i nostri limiti, i nostri sforzi disperati di resistere e sperare.

Voglio concludere queste note evidenziando una straordinaria e forse non casuale assonanza tra il racconto “Pietra” e il pasoliniano “Teorema” (1968), film e romanzo. Leggiamo dal racconto di “Amen”: “La figura di sua madre si stagliava nitida contro il sole, stava rigida, inginocchiata come in un antico rito di adorazione, statua pagana nel mezzo dei prati brulli di fine estate”. La madre di Giulia, Giulia stessa e suo fratello maggiore sono usciti a passeggio per i prati del Tiburtino, dietro gli squallidi palazzoni, all’altezza del civico 613. La madre dei due bambini è malata di mente, preda di fissazioni mistiche e manie di persecuzione. Si pensa subito all’Emilia di “Teorema”, nel film interpretata da Laura Betti. Leggo passim dal romanzo di Pasolini: «Emilia (…) si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole. (…) piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia. (…) I due bambini (…) sono sul prato davanti alla casa (…). Infagottati nei loro vestiti da contadini a modo, già quasi simili ai borghesi, raccolgono le ortiche in silenzio, diligentemente. Solo la bambina, ogni tanto, si lamenta un po’ perché le ortiche la pungono. Il pentolino lo tiene in mano il maschio. (…) E intorno, quasi vertiginosi per quel loro verde, si stendono i prati (…). Emilia immobile (…) È davanti a lei che i due bambini si recano. A debita distanza, si fermano, e, coi gesti dell’abitudine (…) depongono il pentolino di coccio pieno di ortiche. (…) Emilia, assorta altrove, con gli occhi foschi che non guardano nulla, mangia a lente cucchiaiate il cibo verde della sua scandalosa penitenza».

Torniamo ora a “Pietra”. I due bambini si tengono un po’ distanti dalla madre “inginocchiata, le mani giunte, lo sguardo fisso verso il sole”, poiché temono che sopraggiunga qualcuno a cui dover dare spiegazioni. Così accade: “A un tratto spuntò come dal nulla un uomo magro, alto ed elegante, il soprabito scuro svolazzante nell’aria quasi autunnale”. L’uomo si ferma, ipnotizzato dalla visione, e poi chiede ai due bambini se conoscono quella donna. I due bambini rinnegano la madre: alto è il rischio d’essere affidati ai servizi sociali, e perciò divisi. “Dopo minuti che sembrarono interminabili l’ospite indesiderato andò via, con il suo agile passo lungo, tornando a voltarsi e a guardare di quando in quando; loro fecero finta di giocare, fino a che fu sparito all’orizzonte”. Ora, considerando che da quelle parti – all’altezza di Casal Bruciato, nei pressi degli stabilimenti cinematografici della De Paolis – era praticamente di casa, ho il fondato sospetto che l’uomo dall’“agile passo lungo” fosse nientemeno che Pier Paolo Pasolini, e che abbia guardato avidamente quella scena strana, tragica e a suo modo ieratica per appuntarla mentalmente e poi riversarla (mutatis mutandis, per esempio trasformando i prati del Tiburtino nelle campagne della pianura padana) all’interno del film “Teorema” e del conseguente romanzo, dando così vita al personaggio della mistica Emilia. È da escludere una suggestione al contrario, poiché Chiara Mutti quando scrisse “Pietra” non aveva ancora letto né visto “Teorema”, e d’altra parte ha narrato un episodio, a quanto pare, realmente accaduto. Sarebbe peraltro da verificare la coincidenza temporale tra l’episodio stesso e “Teorema”, sempre tenendo conto che il multiforme ingegno pasoliniano aveva tempi rapidissimi di metabolizzazione, sintesi eidetica e scrittura. Insomma, era davvero Pasolini? Non lo sapremo mai, però a me piace credere di sì, e che in cambio della scena, così misteriosamente carica di simboli e significati, egli abbia trasmesso in dono a Giulia, quel giorno lontano nella polvere assolata della periferia romana, lo stigma e la dannazione della poesia autentica; e che di conseguenza Chiara Mutti li abbia ereditati, per Giulia, per sé e per noi tutti.

Marco Onofrio

“Morte del padre”, nel primo anniversario della morte di mio padre Aurelio

Mio padre Aurelio in casa di riposo, nel 2018
Mio padre in casa di riposo, 2018


MORTE DEL PADRE

Serve la tua foto per la tomba
che guarda dai colli verso Roma,
tua patria
dopo la Calabria che ti nacque.
Serve l’emblema,
la cifra riassuntiva d’una storia.

Eri un uomo comune
un ferroviere,
lo dico con l’orgoglio
con cui lo disse Quasimodo
di suo padre,
eri di quell’Italia
che oggi non c’è più.

“Benemerito della rotaia”
ti nominarono
prima d’andare in pensione,
per la tua esemplare
dedizione.


Scartabello amaramente
gli album di famiglia.
Nei cassetti trovo soltanto disordine,
mentre i ricordi s’affannano
fino a smemorarmi;
ho dimenticato
che cosa sto cercando.
Non riesco a non pensare alle parole
del primario.


Sta male. La saturazione va scendendo.
Lo abbiamo attaccato all’ossigeno.
Si nutre con la flebo. Speriamo
di riprenderlo, peggiora
purtroppo d’ora in ora.


Una luce torbida
ti attraversa lo sguardo,
intercetto le parole
che non hai potuto dire.
A tutte le foto si sovrappone
la tua ultima immagine
che sale dallo specchio delle acque
dove splende il nero informe
senza nome
su cui le stelle annodano
scritture.
È laggiù la spugna enorme del silenzio
dove annegano le voci della vita.


Cedo, cado, precipito
per scale misteriose elicoidali
nei convolvoli interiori
della profondità.
Mi lascio andare,
mi arrendo alla tristezza universale.
Siedo, immobile, sul fondo del mare.
Guardo tutto da dentro una bottiglia.


Dove sei finito? In quale altra parte
dell’universo è ora il calore spento
dei tuoi giorni? Ridevi e singhiozzavi
battendoti la fronte con la mano.
Io provavo a fermartela,
sentivo il polso dell’operaio antico
ancora forte che si ribellava.


Si è aggravato ancora. Rantola.
Ha lo sguardo perso nel vuoto.
Si prepari: sta per trapassare.


Impossibile prepararsi,
dirsi pronti.
La falce ti ha reciso il 4 giugno,
il giorno di Roma liberata.
Sì, ti sei liberato
dal peso sofferente
del tuo corpo.
Sei andato oltre.
Sei in viaggio
dentro l’incredibile realtà
delle rivelazioni.


La distanza è incolmabile
come il vuoto che ci divide,
eppure ormai
abiti ogni mio respiro.


E io abito il mistero
d’essere te e me.
Un’unica persona.


Marco Onofrio
(da Azzurro esiguo, Passigli, 2021)

“Ostaggio della vallata”, di Fausta Genziana Le Piane. Lettura critica

lepianefaustagenziana

Se l’esistenza tutta, percepita dal punto di vista degli esseri umani, è un caos irredimibile di ingiustizie e feroci sopraffazioni, una jungla che costringe a nascondere l’innocenza per proteggerla in un recinto segreto da mostrare soltanto a chi si ama, la poesia è invece lo spazio libero dove magicamente «si rinnovella / il candore del cuore». Questo sembra dire in sottotesto Fausta Genziana Le Piane a tutto il suo poderoso Ostaggio della vallata (Tracce Edizioni, 2014, pp. 144, Euro 11), dove si esprime a pieno titolo la ricchezza e la felicità di un pentagramma poetico giocato su una grande varietà di argomenti, temi, toni, esiti, variazioni e soluzioni che scaturiscono dalla sua capacità innata di disseminare lo sguardo nello sterminato “numero” dell’esistibile senza perdere mai l’impronta della voce originaria. La parola insegue la cosa e la raggiunge, manifestandola nella indefettibile imperfezione, per così dire, del suo duplice versante fisico e biologico/umano. Plasma i suoi versi «su fogli sparsi» per scrivere la vita inchiodandola al taglio chirurgico della forma, lucida di fuoco bianco come un cristallo di quarzo e, al contempo, stellare e precisa come il meccanismo di un orologio atomico.

Come si rappresenta, in quanto donna e anima creatrice? Un insieme di libertà, fierezza, solitudine, e amore per gli spazi infiniti, «gli occhi vigili e attenti / a verità dell’altrove». La poesia dunque è come la mangrovia:

Piedi nell’acqua e solide radici
per uccelli che non hanno
posto altrove.


La condizione della poesia è quella di avere «il capo volto all’altrove», di partecipare alle cose «in modo diverso». La poesia è un’oasi che accoglie la diversità più integrale e incompatibile, rispetto a un mondo deleterio di conformisti, per «rendere eterna la Bellezza» (non sfugga l’iniziale maiuscola) con la ferma volontà di «difendere la parola» e «impedire lo scacco», cioè la sconfitta della conoscenza e la resa al labirinto universale. Ansia metafisica e slancio di trascendenza le danno desiderio di avvitarsi al cielo per raggiungere la meta del viaggio «fino alla stanza del re» dove tutto potrà finalmente coincidere, tra apparenza e sostanza, nella rivelazione. Le verità amano nascondersi, sono insondabili come le profondità oceaniche dell’animo umano: il Logos è chiuso, catafratto, inchiavardato. Ma la poesia può, liberando il suo potenziale epifanico, aprire la scorza dei tegumenti e «catturare / la trasparenza» a dispetto della confusione più opaca, giacché opera di recto e di verso, cioè in luce e controluce, restituendo l’essenza della vita vissuta ma anche la filigrana della “non vita” con le occasioni mancate e le possibilità inespresse. Ne emerge l’autoritratto di un’anima che «non riposa», divorata dall’inquietudine di seguire la «traiettoria» dell’oscurità per catturare la scintilla della luce nell’attimo impercettibile che «separa / il giorno dalla notte». Un’anima bella di tenebroso mistero, abitata da una presenza e consapevole della propria irriducibile diversità:

Il nodo delle mani non si allenta.
Sciogli i miei capelli,
ma non l’enigma che è in me.


Il cuore è un cantiere di lavori perennemente in corso e l’autrice esercita il suo work in progress anche scavando a mani nude nella sabbia del deserto per cercare le «radici nascoste» della propria anima. Non a caso silenzio e solitudine sono gli assi cartesiani di una percezione dove «le parole coprono il vuoto» e «il silenzio riveste la pienezza». Scrive infatti di «parola viva / scuoiata / di solitudine muta», che poi è una specie di self portrait della poetica in atto dentro questo libro. Ecco ad esempio lo spazio misurato dal vuoto e dal silenzio:

STANZA VUOTA

In questo silenzio
la mia solitudine
è uno sparo nella mente.

Oppure la presenza dell’assenza, lo specchio dell’io, il Sé come doppio che ci fa compagnia anche quando siamo soli (ché soli, poi, non siamo mai):

FURTO

Ho un buco nel cuore.
Non spiare:
gli occhi della solitudine
mi fissano.

Ostaggio della vallata copertina

La silloge ha inizio dalla dimensione noetica ed estetica dell’infinito, la smisura che assalta il pensiero dell’uomo e le sue “rappresentazioni” come un uragano che travolge la pioggia e compie «razzie» nella capacità che abbiamo di disporre del mondo, di crearlo e ordinarlo «tra i cinque punti cardinali / delle dita». L’infinito «si accovaccia / nel palmo della mano» e «aderisce alla carezza / che scardina i lineamenti del viso», sciogliendo la Gestalt con cui vediamo e ri-conosciamo le cose che sappiamo o crediamo di sapere. È una spirale che “riecheggia” l’essere fino al non essere e, mediante il lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi di rimbaudiana memoria, conduce al suono stesso dell’eternità. Da quella sorgente primordiale origina, come vissuto da sempre e per sempre, tutto ciò che le liriche successive a quella iniziale – nel ventaglio larghissimo delle emozioni attraversate – riescono poi a focalizzare. Aver sentito dentro sé le vibrazioni oceaniche dell’infinito rende congeniali alla dispersione dentro gli universi paralleli («M’illudo di essere qui / mentre mi sgrano nello spazio») e alla conseguente smaterializzazione («Non ho più corpo / ma anima lucente»). Occorre però disancorarsi dal «nido protetto / in fondo al mare» per essere disposti a perdersi, andando nel mistero alla deriva. Così fa il figlio che esce dall’«incavo / caldo / del nido materno» o che, cresciuto e pronto ad affrontare il mondo, lascia la mano del genitore.

Fausta Genziana Le Piane non fugge la palude del male vissuto, il dolore che non si estingue, non va più via – «sedimenta», «ristagna», «marcisce», «corrode». La vita è spietata, «inesorabilmente / si sgretola il verde» e ci si trova come «ancore di barche / attraccate alla riva – / dimenticate. / Dopo inutili viaggi / in terre lontane». C’è anzi spesso attiva, nella miscela alchemica dei reagenti, una forma di noluntà schopenhauriana, precisabile tra cupio dissolvi e volontà di esilio ed abbandono. Si legga ad esempio “Angolo”:

Lasciami in un angolo,
come cosa smarrita,
che a fatica respira.


Come valigia
che non conosca più meta,
non indovini più il suo contenuto,
non sappia più il suo peso.


Ed ecco, ancora su questo versante, la sensazione di essere un «violino stanco / di palpebre chiuse», la coscienza di «non avere più voglia di ricominciare», la voglia di sprofondare in una poltrona di velluto blu, colore del cielo e del mare, «con il peso / del corpo stanco, / dei ricordi, / di sillabe spezzate». L’esistenza si consuma nel sospiro eterno dell’aurora, ad «aspettare il sole», disposti e forse pronti a crocifiggersi «alla luce» e offrirsi al mondo in dono sacrificale. L’archetipo della donna «sola, di fronte al sole» che assorbe le «pagliuzze dorate» dei raggi e aiuta la rigenerazione della vita, dal cuore stesso della notte senza fine, è molto potente nell’economia simbolica del libro. Il lato positivo c’è in ogni cosa, magari nascosto, non evidente, legato al guizzo di un istante che scompare; occorre soltanto saperlo vedere, come il rovescio d’ala della rondine:

Indovino il chiaro della tua ala,
rondine:
brilla
per chi vuol cercare.


E insomma la passione per la Vita, sempre e malgrado tutto: come la fiamma che «non ha paura della cenere / e avvolge felice il ceppo» perché è scaturita appunto per bruciare, e non può fare altro. La vita di cui non si cela né la dolcezza, né la cruda ferocia: ad esempio quando parla di maternità scrive sia di «presenza calda / nel mio ventre buio», sia di «strappo violento», di «fenditura profonda», di «lacerazione dolente». Ma è pronta sempre a celebrare la potenza creatrice nel suo vulcanismo magmatico di calore, fuoco, sangue, getto, forma… dove ovviamente prevale su tutti il colore rosso. Alcuni lacerti emblematici: «Sbocco d’amore / come di sangue / a fiotti / caldo / rosso / violento»; «Officina rovente del cuore / dove si forgia l’angoscia / e la passione»; «Sono matassa di lana / tra le tue mani / rossa ti scaldo / (…) tra dita che febbrili / tessono tele colorate»; «L’amore è / una macchia rossa / fra me e te. / Si ritrae / poi si allarga / si spande. / Nel buio / splende». Il caldo del soffio vitale implica, come si nota, la plasticità metamorfica di una materia che è fluida al punto di modellarsi continuamente, e insieme abbastanza solida per consistere ogni volta in una forma. E in questa dialettica opera gran parte del mistero del quale siamo attori, tra essere e divenire: la sorgente dell’invisibile da cui emergono le cose che vediamo. Ecco, ancora, la donna-peonia che sboccia «per sprigionare l’intero suo profumo», e la terrestrità dionisiaca del duende, con la sua infrenabile espansione: «Tutta la notte / ho ballato / nuda / la rumba per te / (…) il ritmo saliva / la musica contorceva i fianchi / (…) i piedi nudi battevano la terra».

Fausta Genziana Le Piane veicola alla sua scrittura delle potenti dinamiche di liberazione da tutte le catene, per cui a un certo punto invoca – esempio supremo – la risurrezione dalla morte: «Signore, / resuscita Lazzaro!». Non a caso il titolo del libro è dato dal vento «ostaggio della vallata» che spezza la sua prigionia e, «trasportando con sé / frantumi di sere d’estate», si prepara a fare l’amore col mondo. Le inutili panie che ci invischiano “al di qua” devono essere oltrepassate in vista dell’essenza creaturale, quella del «sasso levigato / dal silenzio salvifico» che nasce dal sentirsi gettati nelle «acque tempestose del fiume», come piccola cosa nel turbine del divenire cosmico; e tuttavia capaci di sintonizzarsi con le profonde energie dello spirito:

genero cerchi concentrici
d’amore infinito.


Ciò significa fra l’altro uscire dalla prospettiva antropocentrica per arrivare a vedere il mondo dal punto di vista degli animali (ad esempio il ragno) o delle cose (ad esempio il libro di una biblioteca), fino a raggiungere la nudità originaria dell’esistenza, il puro essere di ciò che è, oltre ogni sovrastruttura, «senza più incanti, / senza più ombre. / La Vita in pieno giorno». Per capire l’alto valore di questa scrittura poetica basterebbe notare la delicatezza meravigliosa con cui approccia la tragedia di Hiroshima mediante una bambina di allora, Yoko, evocata mentre sta andando a scuola qualche attimo prima del boato e raggiunta, infine, nel suo «mondo di polvere»; o la stupenda, pregnante analogia utilizzata per scolpire l’essenza vitale del figlio:

veloce levriero del sorriso
che corri senza catene
nella tempesta della giovinezza.


Ma a impressionare è soprattutto la consonanza storica e l’estrema attualità di una lirica come “Macerie”, straordinaria per la sua capacità di focalizzare la coscienza di un mondo in crisi, nel suo equilibrio infranto – tra opere nefaste ed omissioni – e nel ricordo senza tempo dell’armonia perduta:

Come siamo giunti
a queste macerie?
A questo cumulo
di detriti polverosi?
Quale fu
il primo colpo di cannone sparato
che distrusse i vagoni?
Chi fu
il primo viaggiatore
che rinunziò a salire
e ad andare?
E poi
perché il treno non è più partito
e
smarrita
la stazione
si è spopolata?

Domande a cui soltanto la poesia, prima di qualunque analisi sociologica o politica, saprebbe idealmente rispondere, esercitando con fede la sua instancabile opera di nutrimento e di ricostruzione.

Marco Onofrio

“La parola esclusa”, di Giuseppe Bova. Lettura critica

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La poesia di Giuseppe Bova nasce dal bisogno umanissimo di inseguire il Mito ai bordi della sua stessa eternità, facendone echeggiare i riverberi, i riflessi antichi e suggestivi, nella narrazione archetipa dell’esperienza: «Vorrei raccontare» – scrive in limine al libro La parola esclusa (Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2003) – «come ho scoperto il mare». Non solo il mare d’acqua salsa che dialoga con gli oceani del mondo, ma anche ovviamente il mare del tempo, dell’amore, della vita. E appunto ai bordi di questa dimensione nascosta ma eternamente presente, deputata a custodire i lacci del mistero a cui siamo e ci troviamo incardinati, si dirama una duplice visione del mondo: quella che si attiene alla natura, abbandonandovisi con dolcezza e commozione; e quella che viceversa cerca di trascendere la natura, resistendole per catturarne l’ultimo segreto. Da una parte l’anima, fluida e femminile; dall’altra lo spirito, tagliente e maschile: a determinare la maggiore o minore fiducia nella dicibilità dell’esperienza, e la consapevolezza che la parola è comunque esclusa dalla verità, non può mai raggiungerla in quanto “parola”, nel limite umano del suo essere relativo (quella parola), poiché la verità appartiene all’assoluto del silenzio che racchiude e origina tutte le parole possibili. Ma è la verità stessa che esclude la parola, per consentire all’uomo la ricerca senza fine attraverso cui intuirla ai confini dello sguardo, oltre l’orizzonte. Scrive Bova: «una risposta è sempre da venire. / Domani sarà ancora un’altra tappa / e andremo sempre avanti per capire», giacché il «mistero dei secoli» è sepolto «sul fondo» del mare, e «il fondo non si tocca / con la mano».

Nella cultura ebraica la parola è centrale rispetto alla cosa, anzi: la parola è la cosa, dal momento che Dio crea il mondo parlando (e Bova scrive «Il suono / avrà sostanza di Creato»). Nella cultura greca, invece, la cosa (cioè la φύσις, ovvero la natura) è centrale rispetto alla parola: “sema” significa “segno” ma anche “tomba”, cioè presenza vicaria di un’assenza, testimonianza imperfetta di ciò che esiste e dunque esclusione dalla pienezza del vivente. La parola come mondo e/o come suo imperfetto riflesso. Bova dà udienza a entrambe le concezioni, incarnandole nelle due pulsioni fondamentali della sua poesia, magistralmente lumeggiate da Antonio Piromalli in prefazione: trascendenza e terrestrità. La trascendenza nasce dal sentirsi esclusi e distonici, la terrestrità dal sentirsi inclusi e sintonici. E Bova le vive con reciproco scambio di attributi, per cui la trascendenza ha sempre accenti di concretezza e la terrestrità non manca mai di essere a suo modo spirituale. C’è un momento in cui le due pulsioni sono percepite in parallelo, sia pure in prevalenza della prima:

Sfuggire alla terra che mi attira
toccare le cime alte del pensiero.

Se da un lato, così, il poeta obbedisce allo slancio metafisico, cioè all’«urgenza di sapere / di toccare / di sfondare la porta del mistero», dall’altro estende la sua coscienza creaturale, centrata sulla forza di gravità, per riconoscersi fibra dell’universo nella misura in cui armonizzato, osmotico, uno con tutte le cose: «La roccia si spacca / ed è il mio sangue che sgorga». Può dunque affermare: «Sono / un albero / che vive sul dirupo / che vede su ogni fondo / la sua fine». Come salvarsi dall’abisso? Allungando le radici. «Stringersi / le mani / sulla terra / per trovare / le parole / d’amore. / Questo è / il segreto / di ogni nostro / resistere / alla morte». Un patto d’amore e resilienza di leopardiana memoria: allearsi e far fronte comune per rubare terreno alla morte, il «resistere estremo / sulla barricata». Le parole lasciano filtrare, come crepe su un muro, le trame della luce perduta, e riescono a recuperarla anche dopo che ha smesso di splendere.

Il mondo, purtroppo, è abitato da «anime nere» che trafficano «parole inutili» senza contezza né rispetto della potenza mitica e storica di cui ogni parola, creando la realtà, si fa intima portatrice. La poesia, ai loro antipodi, è una via di purificazione e chiarificazione («Quello che non capivo ora si fa più vero») grazie alla quale ci si cava «dallo sbattere quotidiano» e dai suoi velenosi frastuoni («a volte mi ritiro in una stanza / a cercare il silenzio»): uno «specchio / d’aria pulita» dove si disvela il «contatto estremo», cioè l’essenza ultima delle cose e del proprio rapporto col mondo: «Leggo carte che scavano cortecce / e vanno fino al cuore di ogni tronco». Occorre l’«ostinato credere» con cui il poeta oltrepassa, usando gli occhi dell’anima, la propria finitezza per tentare di amare «con la pelle di Dio» la Luce della «tremenda oscurità», ossia il Mistero da cui tutto emerge e in cui tutto viene, da ultimo, inghiottito. L’atto poetico, riecheggiando il non omnis moriar di Orazio, è anche uno strumento di ribellione al pensiero «d’esser stato / un decimiliardesimo di occhi / sul corpo inavvertito della terra», una minuscola e risibile «formica tra i mille camminamenti». La poesia ha questo potere perché è una potenza originaria e incontrollabile, un «fiume di corrente seminale»:

Questa è la poesia.
Un fiume di parole
per seminare i sogni.

Ma non si ordina alla parola poetica, altrimenti muore «appena nata». È la parola, anzi, che ordina e “ditta dentro” al poeta, pesando in volo la sua luce: «trascinata è l’idea / che il sangue irrora / per vie d’inquietudini». Non un gioco di prestigio, dunque, ma un mandato di rivelazione. La parola è la chiave che apre lo spazio della sacralità. Senza questo fiato caldo essa «si accorcia»: «suonatore e strumento / vanno insieme». Il poeta, dunque, suona ed è contemporaneamente suonato dal proprio strumento. Il suo sguardo coglie «lo spunto di un’origine / liberato da ogni costruzione», ovvero l’energia orgonica pura, anteriore alle forme dell’intelletto: è lì che si apre lo «slargo d’infinito». E quindi i semi delle cose: della notte, della pietra, del vento, della pioggia, del mare, etc. come granelli setacciati «già luminosi / e privi di ogni scoria». La parola si confronta con l’infinito degli elementi che la rendono «piccola», «esclusa» e «imprigionata», ma proprio per questo capace di afferrare le coscienze e spingerle in alto, sopravvivendo anche a chi muore o viene ucciso nei patiboli. La parola non può essere fermata perché, quando autentica, è incisa nell’ordine cosmico-ciclico del divenire e sale dalle origini del mondo, producendosi come evento creativo che traduce in scrittura «quanto non è scritto»; altrimenti è spenta, è «corpo morto».

Comunque giunta
la mia parola chiude
un grande cerchio
ed io sono materia
di ogni avvolgimento
all’origine degli occhi
nel fulcro della trave.

Così accade quanto non è scritto
e ciò che non riflette
è corpo morto.

La presenza e la sostanza delle cose: mai essere assuefazione di forma vuota, imitazione di voce originale, ripetizione del sentito dire. «Non sarò mai pane / senza essere lievito». La poesia sgorga dalla vita che la nutre e che la impasta: «Non scrivere parola non sentita» ammonisce Bova, ricordandolo anche a se stesso. Il poeta che parla in questo libro lo fa da una condizione di maturità ulissiaca, di inquietudine nella tenebra e nello smarrimento: la sua anima è «alla deriva» ed egli si sente «barca sul mare avvolta dalla notte», ovvero «barca già in disarmo» come «dopo tanta odissea / un corpo inanimato sulla riva». Non solo la polvere bruciata durante i viaggi, ma anche quella «incombusta» delle occasioni mancate, della vita non vissuta. L’incompiutezza ci è connaturale poiché siamo incatenati al principium individuationis, per cui in realtà «siamo dove non siamo». Questo produce e procura un senso vertiginoso di dispersione: «Sono nel gorgo anch’io / portato da correnti disperate / su ondate ascendenti e discendenti», quelle stesse che lo fanno risalire proprio attraverso il punto più basso e buio, dove sente il tempo che demolisce e divora, e la morte come un ingranaggio interno al meccanismo della vita. La memoria profonda si dissolve, qualcosa resta sempre «indecifrato» fino a che «tutto rimane muto / disconoscenza / vuoto» inghiottito da irredimibile oblio. Bova rappresenta la morte come una bambola «regina / in tutti i mondi» che si fa percepire in déjà vu, come appunto «l’impressione di un’immagine già vista» poiché «siamo sempre vissuti / e sempre morti» attraverso i tempi della nostra vita.

Il poeta non edulcora, non seleziona per convenienza, ma ha il coraggio di affrontare integralmente il dolore: «poetare è una ferita sempre aperta / perché toccare il cielo con un dito / è scavare il cuore di ogni angoscia». L’identificazione con la vittima sacrificale lo porta a visualizzare il «costato trafitto» di San Sebastiano: basta guardarlo per sentire Dio «come una lancia». E tuttavia il dolore non ci esime dal dovere di «legare la vita / dentro a un sogno» e, malgrado tutto, non smettere mai di farlo. Il poeta obbedisce alla vita e alla sua volontà insaziabile: egli sta «nel seme che rinnova» e non ha fame né sete «se non di nascite / e porte spalancate / ai grandi abbracci». Il dolore, la sofferenza e il caos attraversati nutrono anzi il desiderio di gioia e positività: «rimuovere il disagio» fugando le ombre e le angosce per trovare «un’altra strada», giacché – scrive il poeta con due versi sentenziosi e memorabili – «il tempo è troppo breve / per essere tristi». Ci sarà infatti «una fontana dove bere / senza più la paura di morire» dissetando «l’anima assetata». Occorre ritrovare sempre la condizione della bellezza dentro il proprio sguardo: «la gioventù del cuore / quel sorriso che spalanca girasoli». Il segreto è proprio il cuore.

Così è la vita:
due rette in parallelo per la gioia
percorse all’incontrario
se ad azionare lo scambio del binario
non è il cuore.

Il sacrificio nel dolore non deve mai bagnare le polveri all’agonismo, al fuoco della vita, alla capacità di risollevarsi dopo le tempeste e di meravigliarsi («stupisco al solo esistere di forma»), vedendo le cose come nel primo mattino del creato. Ecco lo sguardo commosso e “miracoloso” che in ogni albero vede un giardino e nell’unione di un uomo e una donna «tutto il mondo». Uno sguardo che è anche frutto di amore, nella vigile attesa di segnali («Raccolgo come l’occhio di Colombo / i piccoli detriti di altri mondi») e nell’attenzione alle cose invisibili, alle delicate sfumature dell’impercettibile («Sono il solitario origliere / di ciò che dorme»). È come se Bova avesse dinanzi due strade per scalare la montagna del Mistero: una più breve ma più ardua, a parete verticale, della trascendenza metafisica; l’altra meno ripida ma più lunga, a tornanti concentrici, della coincidenza naturale. Nel primo caso la parola è uno «scandaglio» che scava la «caverna dei silenzi» per tradurre in segno, dell’essere, l’indicibile “barriera semantica” (per citare Dante Maffìa) e il segreto principio animatore: «Sono la donna che ha generato i figli. / Creo lo spazio infinito e lì mi annego». Nel secondo caso la parola deve sciogliersi nella natura e acquisire la voce stessa delle cose: essere «liquido sciacquio» ed «eco di musiche nel cuore».

Quando
come l’acqua sarà la mia lingua
ed io nel corpo al canarino
sviterò la mia gola
per non essere parola senza vita
(oh volo d’amore che traffica tra i rami
più lontani e refrattari)
tu parlerai con me da uomo a uomo
(…).
Solo nell’acqua
può schiarire il verso
nel lento gocciolare
è l’oscuro mio processo.

E quindi, anche la bellezza purificatrice del mare, che «è una chiesa / coi suoi fedeli interpreti. / Mai parola è uscita / di una qualche confessione. / Il mare è il mare». E ancora: il mistero del divenire, «lo strano mutare degli avvenimenti», la circolarità dei fenomeni per cui «ogni approdo è un inizio». Entrambe le strade portano a un passo dalla rivelazione, laddove la “porta” potrebbe aprirsi. Giungere «al cuore del principio»: è lì che, recandosi idealmente, il poeta scrive «pagine di un mare sconosciuto / immaginando l’altrove», l’inesauribile varietà del mondo, gli «occhi sconosciuti di ogni approdo». La poesia de La parola esclusa è una finestra aperta tra l’io del poeta e il sé del cielo, tanto che egli chiede di essere chiamato non «per nome» ma in prospettiva eterna, «per l’infinito», cioè nella sua verità di essere cosmico. E così, allo stesso modo, è una finestra aperta tra la sensibilità di Giuseppe Bova e lo sterminato firmamento della poesia mondiale, dai classici antichi ai maggiori contemporanei, di cui il poeta reggino assorbe e rielabora creativamente l’aurea eredità. Egli si sente chiamato dalla voce «che viene da un braccio di cielo», ma il suo sgabello è «insicuro» e non «così alto / da vedere l’oltre», e allora ristagna in un limbo di conoscenza: «Aspettare è ristagno / e le braccia vanno aperte sulle rive / quando ancora le speranze sono vive». Ma, forse, ciò che più gli interessa è mantenersi puro e selvaggio «come il monte oscuro / che conserva il segreto del principio» anche quando il mattino è di là da venire.

Marco Onofrio

Nota critica su “La venatura della viola” (Ladolfi, 2019), di Rita Pacilio

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Con questo libro breve e delicato, ma non meno vigoroso dei precedenti, Rita Pacilio pronuncia in poesia la sua risposta ferma e gentile a una condizione di crisi acquisita. Crisi etica e sociale, di cui sono capillarmente intrisi i nostri tempi. E crisi anche personale, per una certa delusione maturata verso il mondo letterario e le sue storture, dopo anni di serio lavoro e un percorso tra i più notevoli e coerenti in Italia. Scrive, nella “Lettera al lettore” anteposta ai versi, della volontà di «maneggiare» (per tocchi e aggiustamenti di precisione, come fosse creta) «la parola poetica per trovare la strada possibile da percorrere quando non ci si arrende all’incuria, all’abbandono, all’assenza, alla miseria umana». La poesia, dunque, come baluardo di resistenza umanistica al degrado e come veicolo di potenziale rinascita: «Per resistere e oppormi alle brutture della vita» aggiunge «ho cercato la risposta nella semplicità e nella dolcezza di un piccolo fiore», la viola appunto, che impara a guardare nei dettagli unici e infinitesimi della sua “venatura”, su cui si sofferma «con garbo» e di cui non vuole «perdere niente». È questo il muro ultimo di ogni realismo: la parola vorrebbe dire la cosa “così come è” fino a coincidere con essa, con la sua verità integrale. «Ambire al succo del vero mi educa e mi spinge a sentire le creature tutte come un dono che non voglio dare per scontato». Ecco il punto cruciale: de-automatizzare le abitudini che ci fanno sembrare scontate e normali cose che normali e scontate non sono affatto. Ogni istante, ad esempio, è la goccia di un oceano senza sponde, il prodigio «indimostrato» di un mistero che non finiremmo mai di provare a comprendere. Ma vegetiamo nell’apatia, quasi in trance, «soldati / ordinati come soprammobili», «statuine» che in mezzo alla polvere mantengono la «solita postura» in un «valzer di guerra», quella inapparente che scoppia ogni giorno sotto i nostri occhi addormentati. L’atmosfera umana è una «nebbia rancorosa e scura», ma noi scampiamo «al timore di saperci morti», bravissimi come siamo a raccontarci storie, ad ingannarci il meglio possibile. L’eredità oggi sembra infranta, il filo della continuità storica spezzato, il mondo esploso in mille pezzi: i “vecchi” (cioè quelli del mondo di prima) inseguono «l’origine, la foce / ma sarà difficile ricostruire il senno». La follia è sparsa dappertutto, sotto forma di un «disagio senza prospettiva»: «tutte le persone compiono aspri squilibri / muoiono senza compassione / come se il peccato fosse l’amore». È la Terra tutta in sofferenza, con i suoi ecosistemi squilibrati dalla molesta invadenza dell’animale umano: «Qualcuno dice non puoi farci niente / rassegnati al timbro del frastuono». Ma Rita Pacilio non vuole e non può rassegnarsi, e allora guarda alla viola e, per suo tramite, si abbandona alla «saggezza del necessario».

La venatura della viola diventa uno specchio da cui emergono le verità profonde della vita. Però è possibile vederle solo se si taglia il «grembo scuro» della disperazione: «l’unico punto di partenza / è nutrire la fede». La stanchezza dello spirito produce un desiderio intenso di pace e purificazione: «Voglio esiliarmi in un giardino / dove le burrasche restano fuori / dove sulla bocca di tutte le viole / c’è l’audace avventura del poco». Attraversa fino in fondo una condizione di crisi dove «dentro stringe lo sconforto»: «I conti non tornano. / Allora dovrei smettere di contare». Ecco improvvisamente svelato il segreto! Smettere di contare, di monetizzare, di programmare tutto. Chi si impone di marciare al passo con un mondo di squilibri e squilibrati, come può stupirsi se poi diventa preda dell’alienazione? Occorre abbandonare questa folle corsa che spreca e disperde la vita di ognuno. Il «modo per resistere» è la «coscienza quieta». Uscire dagli schemi consueti («Non pensi più come una volta») e rendersi immobili, naturali, compiuti e centrati intorno al proprio fulcro «come la mela matura appesa al ramo». Insomma, la via maestra della rerum natura: «Devi farti sottile per rimanere / effettiva presenza, erba primaverile / in questa fitta foresta dell’autunno». Il mondo sta declinando nell’autunno della sua “civiltà” definitiva, ma se impariamo a coincidere con il nostro essere effettivo – ciò che realmente siamo – possiamo mantenerci vivi e verdi come l’erba della primavera.

La viola spalanca allo sguardo un portale metafisico di rivelazioni e, con la sua venatura, insegna ad aprire «la cerniera del vuoto come fa / l’abisso», per «dissotterrare l’infinito»: «Bisogna distendersi fronte a terra e annusare / l’esalazione dell’esistenza intera / poi metterci di lato per dissotterrare l’infinito». Occorre dunque un duplice, simultaneo movimento della coscienza: di umiltà, e insieme di sovranità. Di decentramento («metterci di lato»), e insieme di centratura. Da un lato, osare «il perdono di te stesso» accettandoti come sei e liberandoti finalmente dalla tensione, dalla stanchezza, dalla colpa; dall’altro, prendere dalla natura «lezioni / di innocenza» e imparare l’amore, il «segreto dei segreti». Solo così potrà continuare in modo credibile «l’insaziabile racconto dell’incanto» che la poesia pronuncia e declina al futuro, malgrado tutto, come un ponte di luce oltre le paludi dove oggi arranchiamo, sempre più disfatti e impantanati. 

Marco Onofrio

“Oltre la maceria”, poesia inedita

cenere

OLTRE LA MACERIA

La vita, amici, è una cosa seria.
Per questo si ride
inevitabilmente
in fondo alla scintilla
di ogni lacrima.
E il sale amaro
acquista piano piano
una stanca malinconica
dolcezza.

La spilla che si appunta
al nostro cuore
a forza di portarla si fa carne:
non la sentiamo più.

Siamo nati per resistere
e scoprire, al colmo
della sofferenza,
il varco che traluce
dall’ingombro pieno
di frantumi.

Proprio quando la salvezza
sembra irraggiungibile
noi diventiamo grandi,
andiamo oltre la maceria.

Marco Onofrio
(dalla silloge inedita
“Azzurro esiguo”)

“Due”, di Angela Giojelli. Lettura critica

Angela Giojelli COP

Esordio promettente, quello di Angela Giojelli con Due (RP libri, 2019, pp. 40, Euro 10), una silloge che, raccogliendosi in appena 26 liriche, sa condensare – nonostante l’esiguità del percorso – l’impronta originale di uno sguardo e le premesse di un mondo poetico che ipotizziamo ricco di avvenire. Sono parole pazienti, distillate da lunga gestazione e che trapelano, come loro malgrado, dal guscio di silenzio che le ha protette e nutrite per farle crescere, rendendole degne della debordante carica umana di cui sono, a un tempo, tramite e catarsi. La voce della poetessa di Capua trasuda, per così dire, da una ferita primaria dell’esistenza che non si limita alla triste realtà del figlio malato, ma da lì parte per andare “al di là di ciò che si dice / o è” affondando la sostanza autentica della nostra condizione, anche a costo di rintracciare i barlumi del vero “lungo gli argini dell’impossibile”. Cerca, così, di stabilire ponti tra i frammenti che il dolore ha prodotto e separato; la dimensione del passaggio e dello scambio, infatti, è molto importante per Angela Giojelli, da cui il titolo del libro. E non è solo entro la felice pienezza della diade primordiale (madre-figlio) che la grazia si espande in dono di verità, quell’essere “stretti in noi / stretti a noi / nella casa della pace”: è il “duale” tutto che assurge a principio indispensabile di conoscenza. È la “reciprocità silenziosa” dell’abbraccio in cui si vaga e poi ci si trova, nell’oceano spirituale di un’altra persona, della quale – proprio grazie al discorso infinito che quel silenzio può racchiudere – si percepisce l’intima verità. Una condizione di grazia per cui, appunto, “si amplificano i suoni / si moltiplicano le stagioni” tra “oscillazioni primitive / e complesse energie / attivate da ogni cosa che ci tocca”. La diversità “non è un male” ma il segno prezioso di una ricchezza ulteriore che rende colui che sceglie per manifestarsi “più vicino a Dio”: proprio lì occorre amare “forte”, amare “tutto”, perché il male non è la diversità ma la negazione della vita, il “non vivere”. La fusione dell’abbraccio vorrebbe coinvolgere tutta l’umanità, finalmente pacificata nello splendore di una nuova coscienza, e la grandezza sconfinata della vita, percepibile nella concentrazione pura di ogni attimo: ci sono “tutti i rumori del mondo / e i sorrisi negati e donati / ogni colore / è tutto qua: mani nelle mani”. La poetessa, sprofondandosi nell’ascolto più sottile (ad esempio dei “rumori di febbraio”), percepisce molto bene la fragilità estrema del tempo che impregna l’aria “sospesa nell’addio”. Da un lato c’è la “mera materia che ci cambia” con gli inesorabili meccanismi a cui, vivendo, siamo sottoposti; dall’altro la nostra coscienza come “antimateria” che, ribellandosi alla natura e illudendosi di sottrarci ai processi indipendenti della vita, accentua la nostra cognizione del dolore e della finitezza entro cui siamo costretti a galleggiare.

Siamo tutti così soli, seduta sulla sabbia mi domando
a cosa ci serve guardare il mare
se non possiamo stare insieme?

La realtà sembra facilmente leggibile, il grigiore opaco dell’esistenza assume spesso le forme del déjà vu (“qualunque cosa accada è tutto accaduto già”), e tuttavia essa trattiene sempre l’ultimo segreto delle cose, magari attraverso le luci che “si tengono strette / le cose non dette / cresciute in sentieri misteriosi”. Non possiamo vivere che “barcollando”, alla ricerca inutile di un “rifugio” perché “non c’è tregua / né porto sicuro”.

Fluttuo, pendo, mi arrampico
ondeggio e tremo
in questo equilibrio instabile di ombre.

Eppure c’è un ordine profondo che sorregge dall’interno il caos e si manifesta nei fenomeni (ad esempio la “caotica acqua che scende / perfettamente ordinata”), per cui la vita è un “mare calmo fra le tempeste” e l’unico modo per accoglierla integralmente è l’ossimoro, la “lacrima gioiosa” che annoda la rabbia e l’urlo alla dolcezza. E di dolcezza questo libro trabocca, la dolcezza trepidante e dolorosa che ammanta anzitutto il “decimo senso” (decimo, non sesto!) della madre che ovunque abbraccia, comprende, protegge:

sappi che dove avrai porte chiuse
ci sarò io ad aprirle
dove tu non capirai
parlerò per te
e dove tu non saprai amare
io scriverò una poesia.

La cenere dei desideri “sfiniti dalle corse del giorno”, la fatica inenarrabile di risolvere problemi ed imprevisti senza fine, insieme a “tutto il resto che ci gira intorno”, non impediscono la “purezza del dono”, cioè la vita percepita come mitologia del nascente (“germoglio fra le mani / e limpido stupore”) e ripensata con gioia, malgrado tutto, annusando “l’odore di un neonato”. La realtà opaca e sorda delle cose è, infatti, giustificata da quella intoccabile e invisibile che vi è mescolata e dove ci troviamo a camminare, spesso come ciechi o sonnambuli che non vogliono vedere né svegliarsi. C’è una dimensione spirituale dove vola chi muore “nella certezza di arrivare / a casa” e donde parla il bambino mai nato, nella composizione più toccante del libro:

Non ti ho visto
non ho avuto il tempo
ricordo solo la tua voce
ti ho amato da subito
mentre morivo pensavo a te
non ho amato nessuno
e nessuno come te
eri l’altra metà del mio tutto
ci vediamo in paradiso, papà
dove i non nati sono angeli
e io ti terrò per mano
come sto facendo adesso
solo che non mi vedi.

È la purezza altissima e sacra della vita a nutrire la fede che irradia da questa voce poetica, determinandone a sua volta la coscienza. Scrive Angela Giojelli: “io non sono ossa / sono un brivido”. La nostra vita non può ridursi alla materia: c’è qualcosa di infinitamente maggiore in cui risiedono, da sempre e per sempre, le chiavi silenziose del mistero. Brivido è anche il sogno, senza cui saremmo soltanto imbuti, tubi digerenti, macchine insensate; e quindi la voglia sacrosanta di andar via, il bisogno di abbandonare i limiti, la ricerca e l’attesa di “tramonti nuovi” in un mondo libero e fluido, felice, “dove è proibito proibire” e “non esiste la paura / di avere paura”. Tra il dolore e la speranza, vince la speranza. E dunque la risorgente pulsione di abbandonarsi alla forza della vita “come due tronchi millenari / dalle radici prepotentemente / intrecciate nella terra / esplosi nella natura”. E la poesia, infine, ha una fondatezza essenziale che la distingue dall’incertezza ovunque dominante (“Poesia mia, albero in fiore / tu non cadi mai”) e la rende strumento di restituzione amorosa ai debiti del tempo: una specie di fiume che, nel suo involgere sinuoso lungo le strade del mondo, raccoglie detriti di ogni tipo per trascinarli al mare, cioè di nuovo a casa.

Fermi a riposare sul muretto
il nostro cammino non è finito
voci di bimbi d’estate
mentre facciamo pace
se cadi ti darò la mano…
Ti darò la mano verso il mare.

Marco Onofrio