In evidenza

“Ricordi futuri”, letto da Maria Teresa Armentano

Questo saggio di Marco Onofrio, con i suoi trenta articoli e le sue dieci letture critiche, si impone nel settore editoriale come protagonista sia per l’ossimoro del titolo, sia per l’opportunità di riflettere sulla realtà offerta ai lettori che, confusi dalla nebbia del vivere quotidiano e da un’esistenza che si trascina senza interrogativi, preferiscono invece escluderla dai loro pensieri. Ogni articolo del libro pone domande che inquietano perché senza risposte e, nella loro singolarità, ne generano altre che moltiplicano i dubbi, solo in parte attenuati dalla saggezza delle citazioni che opportunamente si intrecciano con le considerazioni del saggista.

L’analisi della società contemporanea che Onofrio presenta è sconcertante ma puntuale e autentica, guarda con gli occhi di dentro ciò che è visibile ai molti che colgono la superficie di un magma ribollente: la società senza punti di riferimento, senza obiettivi comuni che potrebbero innestare il cambiamento. La parola Comunità, il senso profondo di una collettività che persegue fini non commerciali, non utilitaristici, non è più nel DNA di un mondo sempre più disumano, senza più compassione, incapace di guardare ai bisogni altrui, che si arrende ogni giorno avvicinandosi all’orlo del baratro. Il saggio di Onofrio offre una doppia lettura. La prima è quella del ricordare, infatti i suoi scritti sono un colloquio con se stesso come nei Ricordi dell’Imperatore Marco Aurelio; lo scrittore guarda con disincanto l’agire umano e trae forza dai suoi convincimenti persuadendo anche i lettori che esiste salvezza nella cultura, nell’educazione al bello, perché la bellezza è un ponte verso il mistero delle cose, nella lotta per cambiare noi stessi prima che il mondo. La seconda scandaglia la contemporaneità, sviscerandone gli aspetti peggiori che, diventati spesso abitudini inveterate, ci tolgono il fiato con un’ansia che si placa solo, quando si placa, con i tranquillanti. La passione insita nelle parole del saggista valica i confini della oggettività quando lo scrittore, generalizzando un modello, trasforma una minoranza di donne in maggioranza. Sì, moltissime donne concorderebbero sull’idea che esse assumono il ruolo di consolatrici credendo di poter redimere e trasformare un uomo, ma in realtà cambiano solo se stesse. Il motore di questo cambiamento è il mistero dell’amore che, insondabile, angoscia l’essere che non sa risalire dalla profondità del pozzo in cui le domande senza senso lo hanno respinto. Negli ultimi articoli, concernenti gli anni più recenti, Onofrio disegna uno scenario apocalittico davanti a cui il singolo e anche i popoli sono impotenti, presi come sono in un ingranaggio che li stritola. In questa analisi il “modus rebus” non c’è perché si sono superati i sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum di oraziana memoria. In quel secolo prima di Cristo si rafforzavano gli stravolgimenti causati dal potere e dalla tirannide, ma erano presenti valori come la bellezza della poesia, l’amicizia e il desiderio di una vita semplice che combattevano la deriva verso cui la civiltà del tempo si avviava. Nel periodo in cui viviamo, non resta che un Recede in te ipsum che mi sembra anche la conclusione a cui giunge Onofrio quando scrive di desiderio come movimento della volontà verso qualcosa che non c’è ma potrebbe esserci se ognuno di noi, nel ritrovare se stesso, diventasse motore della Storia.

Non posso evitare di soffermarmi sulle letture critiche, quasi una summa che amplia lo sguardo nell’incontro non casuale di pagine letterarie spesso meno conosciute o dimenticate. È merito di Marco Onofrio affascinare il lettore con le sue pagine critiche e la sua bella, incisiva scrittura: non un’appendice ma saggi all’interno di un saggio che offrono ritratti pieni di un’epoca, di un popolo e di uno scrittore. Non ultimo pregio di questo testo la possibilità di scegliersi argomenti diversi e di ritrovare un filo comune, che è la schiena dell’autore diritta dinanzi al potere, il suo dire senza retorica, lo squarciare il velo dell’apparenza per consentirci di intravedere la verità di una realtà che ci è tanto estranea   umanamente da desiderare di respingerla e annullarla. Alla fine di una delle sue letture critiche l’autore riporta queste parole, degna conclusione ideale del suo testo: “Porto con me la certezza che l’uomo ha ancora la possibilità di guardarsi allo specchio e ritrovarvi un essere gioioso e speranzoso se è cosciente di chi è e di che cosa deve fare insieme agli altri” (da “(H)ombre(s) migranti”, di Andrea Cantaluppi).

Maria Teresa Armentano

“Specchio doppio”, letto da Dante Maffìa

specchio_onofrio

Non ricordo chi ha detto che è più difficile realizzare un racconto perfetto anziché un romanzo. Il racconto deve sintetizzare una storia, focalizzare un problema, darne l’essenza e caratterizzare uno squarcio di vita nella pienezza dello svolgersi. Respiro ampio, dunque, in poco spazio. Marco Onofrio ha al suo attivo un lievito di esperienze importanti e di letture sterminate, e ha guardato, cioè saputo guardare, ai modelli riusciti, agli autori di racconti che sono diventati classici, a cominciare da Gogol e da Gorkij, a Verga, a Pirandello, ecc. Ma in questo “Specchio doppio” (Cosenza, Pellegrini, 2022, pp. 160, Euro 15) si è indirizzato, vista la materia trattata, verso altre sfere, altre fonti, anche se ormai non ha bisogno di seguire i passi di nessuno, essendo arrivato a una maturità espressiva personale che gli consente di entrare e uscire dalle situazioni col suo piglio graffiante e ridanciano, con la padronanza di chi conosce bene i meccanismi del fare. Naturalmente non basterebbe soltanto il possesso della tecnica compositiva a dargli la pienezza che troviamo immergendoci nelle dieci sezioni che compongono il libro, ognuna delle quali composta da due narrazioni che, per la loro invenzione linguistica, per le scene spesso assurde, per le coloriture ironiche e goderecce, fanno pensare alla lezione di Tommaso Landolfi, di Samuel Beckett, di Charles Bukowski. Eppure Onofrio ha preso a piene mani dalla realtà quotidiana, dalla osservazione di ciò che accade accanto a lui e che ai più non desta attenzione. La sua sensibilità invece ne viene coinvolta e così lui snida i lati oscuri, comici, segreti; va oltre le apparenze, ne distorce il cammino e lo ribalta, ne trae implicazioni drammatiche, connubi esilaranti nei quali la dissacrazione di ciò che in genere è vissuto ciecamente diventa soggetto di qualcosa. Reinventa insomma la realtà e ne connota gli sfilacciamenti, i vizi, le ossessioni, i sogni corrotti, le disfunzioni del vivere, gli eccessi.

Il bello è che Onofrio si diverte, soffre, diventa ogni volta il protagonista implicito del racconto, come a voler saggiare carnalmente ciò che fa accadere. Difficile stabilire quale dei venti racconti è il più affascinante. Ho provato a chiedermelo e subito ho cambiato idea, perché in ognuno trovo il godimento dell’invenzione, mai fine a se stessa. Un godimento che apre sui vizi della quotidianità e diventa, alla fine – anche quando è la sessualità a farla da padrona, come in “A porta vuota”, “Le mutandine”, “Il mal della borghese”, “Don Arfio” – analisi serrata e veritiera della filosofia del genere umano, che ha sempre dentro di sé uno specchio doppio, se non triplo. Siamo abituati alle scorribande di Onofrio nella psiche umana e nei meandri che inquietano il senso del vivere, conosciamo la sua irruenza e il suo passo di cavaliere errante che sa cogliere la fuga del bene e del male; ma qui egli ha trovato una misura che non s’arresta alla soglia delle situazioni. Ci scava dentro, le rivolta, le ribalta, ne scerpa l’idiozia e ne fa catarsi di una svolta auspicabile per ridare vigore ai valori, ai sogni, evitando le troppe e sconce interferenze, ormai dissestanti e malevole.

Forse il valore maggiore di “Specchio doppio” è la scrittura, tenuta sul rigore di una classicità che non demorde dal voler cogliere le sfumature della psiche e non si arrende allo sfacelo in atto portato dai minimalisti, dalla canea degli arrivisti e dei “banalisti”, oggi purtroppo difesi a spada tratta (personalmente mi fanno rimpiangere le Luciane Peverelli e i Salvatore Farina!). Ma torniamo ad Onofrio, almeno per dire che quando poi parla di Roma la sua pagina emana profumo di scrittura, e tutto diventa magico per offrire il senso nuovo di un approccio alla Caput Mundi. Leggiamo appena due righe: «I romani non vedono Roma. È così piena di significato, di sensi plurimi e contrapposti, di sfumature, di stratificazioni, così ricca di segni storici e umani che, per “sopportarla”, sei costretto a metterla “tra parentesi”. Devi viverci la tua vita. Non puoi permetterti di fare un “oh” di meraviglia ad ogni passo, o di ammutolirti di sgomento, come pur dovresti». Ecco, è questo il racconto preferito: “Il tempio del tempo”, dedicato da Onofrio alle stratificazioni storiche, antropologiche e anche esoteriche del Colosseo. Ma è scelta di un momento, perché come si fa a non seguire nel suo “camaleontismo”, sono parole di Paolo Di Paolo in quarta di copertina, il “Poeta aereo e iperconsapevole” che risponde al nome di Marco Onofrio?

La fluidità della scrittura, tra l’altro, incolla alla lettura e così i suoi voli surreali, le sue impennate, le sue giravolte non sono giochi d’artificio, ma ancora una volta espressione di quella condizione umana che ha sete di misurarsi col mondo. Insomma, “Specchio doppio” ha saputo fare il ritratto efficace e consistente del nostro tempo, abitato per lo più da scimmie ammaestrate alla banalità e all’insipienza. Onofrio ha giocato e giocando, questa è pedagogia della letteratura alta, ha gettato in bocca al lettore il seme per aprire gli occhi, la scomoda verità dell’inconsapevolezza additando la strada, l’altra faccia dello specchio.

Dante Maffìa

Riflessioni sul carcere (non) “rieducativo”

detenuto_in_attesa_di_giudizio_web500

Il film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), di Nanni Loy, con Alberto Sordi magnifico protagonista, mi procura ogni volta che lo vedo un senso vivo e straziante di angoscia, rabbia, indignazione. Anche perché il pensiero corre subito alla scandalosa detenzione (1983-1985) del povero Enzo Tortora, completamente estraneo ai fatti di camorra che gli vennero imputati, di cui il film rappresenta (col senno di poi) una specie di inquietante presagio. E, attraverso Tortora, il pensiero raggiunge tutti gli innocenti che scontano ingiustamente una pena e a cui è stata distrutta l’esistenza. Chissà quanti ce ne sono! E ripeto tra me, con sicura convinzione: “mille volte meglio un assassino libero che un innocente in galera”. Il film di Loy e il “caso Tortora” dimostrano che l’abominio giudiziario è una spada di Damocle sospesa sul capo di ognuno di noi: può accadere a chiunque, da un momento all’altro, di ritrovarsi coinvolto per errore in loschi affari, accusato per omonimia, vendetta, diffamazione, o designato a capro espiatorio (come accadde a Pino Pelosi, condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini) quale anello debole di una storia molto più grande del singolo individuo, dove i veri colpevoli sono tutelati dal potere.

Guai a restare intrappolati nei pachidermici ingranaggi della macchina giudiziaria: il rischio di venirne schiacciati è altissimo. Le leggi sono spesso ingiuste, le procedure lente, i disguidi, le omissioni e gli insabbiamenti all’ordine del giorno. È una macchina che, quando parte per la sua inerzia, sembra difficilmente governabile: non la guida infatti Dike, con la bellezza della sua forza ideale, ma Anànke, con la sua implacabile determinazione, cioè la ragion di stato che non guarda in faccia nessuno e ha il volto osceno della storia, oltre che la voce stridula della burocrazia. Non è solo la limitazione della libertà a prostrare i detenuti, ma anche il peso di questa violenza silenziosa che muove le spire stritolanti della legge, e la riprovazione sociale che, fin dallo stato di fermo, ricade sul “colpevole”, vero o presunto che sia. Anche l’ombra di un sospetto e la gente, per non compromettersi, gli farà il vuoto intorno: ecco perché basta pochissimo a rovinare la vita di una persona.

Eppure nell’articolo 27 della Costituzione c’è scritto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E poi, quand’anche condannato, egli è un soggetto da guadagnare al consesso civile con opportuna opera di reinserimento. Lo stesso articolo recita fra l’altro che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma allora perché i carceri sono agli antipodi della rieducazione? Inferni di sovraffollamento; di violenze esercitate in segreto dalle guardie carcerarie sui detenuti e tra gli stessi detenuti, per gerarchie interne e vendette collaterali; di infinite umiliazioni quotidiane. Non siamo più ai tempi di Oscar Wilde, quando scriveva – reduce dalla detenzione per sodomia e volgare indecenza – La ballata del carcere di Reading (1898):

A prison wall was round us both,
Two outcast men we were:
The world had thrust us from its heart,
And God from out His care:
And the iron gin that waits for Sin
Had caught us in its snare.

(Il muro della prigione ci circondava,
noi non eravamo che reietti:
il mondo ci ha cacciato dal suo cuore,
e Dio dalla Sua carità:
e la trappola di ferro che attende il Peccato
ci aveva catturati nella sua rete).

E ancora:

We were as men who through a fen
Of filthy darkness grope:
We did not dare to breathe a prayer,
Or to give our anguish scope:
Something was dead in each of us,
And what was dead was Hope.


(Sembravamo uomini che annaspano
in una palude tristemente oscura:
non osavamo sussurrare una preghiera
o dare sfogo alla nostra angoscia:
qualcosa era morto dentro di noi,
e ad esser morta era la Speranza).

Sono trascorsi oltre cento anni, ma lo stato pietoso dei carceri non sembra cambiato granché. La detenzione produce, anziché rieducarlo, il peggioramento dell’individuo e il regresso di almeno un grado della sua moralità: perciò, se entra onesto, esce delinquente; se entra delinquente, esce criminale; se entra criminale, esce mostro. In carcere si sta troppo male e si impara a delinquere, o a delinquere “meglio”. C’è una specie di rinunzia “a priori” nel tentativo di rieducazione: i detenuti sono lasciati in balia di se stessi, a insegnare l’un l’altro, e non certo l’onestà ma le tecniche professionali di delinquenza. Questa “scuola di perfezionamento al contrario” fa sì che ogni volta che un recidivo torna in carcere per scontare una nuova pena, lo Stato civile ratifichi una ulteriore sconfitta nella propria capacità di rieducazione penitenziaria.

Ora, alcune domande sorgono spontanee: che cosa impedisce, in concreto, la costruzione di nuovi carceri o, almeno, il miglioramento di quelli esistenti? Quale interesse c’è a renderli o mantenerli fatiscenti e invivibili? Perché si preferisce piuttosto svuotarli dall’eccesso di detenuti con periodici indulti, che liberano per le pubbliche vie delinquenti pericolosi, tutt’altro che redenti o pentiti? Perché non si ricorda che la pena del detenuto è già la sottrazione della sua libertà fondamentale (pena terribile, se solo ci si ferma a riflettere), e che dunque non c’è bisogno di aggiungere sadicamente un surplus di sofferenza legato alle condizioni in cui quella libertà esigua e residua dovrà essere vissuta? Qualcuno potrebbe ironizzare facendo notare che le persone cosiddette libere, in realtà libere non sono, e che allora c’è bisogno di distinguerle ulteriormente dai detenuti attraverso un inasprimento punitivo dell’esperienza carceraria; ma io risponderei che non è il caso di ironizzare, perché c’è una differenza enorme e reale tra la libertà di chi sta fuori e quella di chi sta dentro, come ben sa chiunque in carcere ci sia stato davvero, anche un solo giorno. La “punizione” deve coincidere con la “pena” da scontare, che a sua volta prevede solo la sottrazione della libertà, non anche la trasformazione dell’esistenza quotidiana in un inferno. Dove sta scritto che questo debba accadere? E ancora: perché in Italia si parla sempre di stadi inadeguati da ricostruire, e non si invoca la stessa necessità per i carceri? D’accordo, il calcio come valvola di sfogo per tenere buono il popolo-bue; ma, sulla scorta dei decenni, qualcosa si potrebbe fare anche per i detenuti, che forse vengono trascurati dalla politica perché hanno accesso limitatissimo al diritto di voto (1 su 10 può esercitarlo), e soprattutto perché sono consumatori di serie C, forzatamente esclusi dal libero flusso delle merci e degli acquisti (per esempio dalle “liturgie” familiari nei centri commerciali) che tanto importa ai governi e alle istituzioni. I politici potrebbero interessarsi di come sopravvivono i detenuti solo se avessero realmente a cuore, come peraltro giurano, il bene comune e il miglioramento della società: ecco perché fingono di interessarsi.  

I carceri dovrebbero essere rimodellati in “case circondariali di esperienza” dove utilizzare in chiave evolutiva le vicende di chi ha sbagliato, come fattori di crescita umana. Consentire e incoraggiare un dialogo costante dei detenuti con il resto della comunità. Farli sentire importanti invitando ciascuno di loro a raccontare la propria storia e ascoltandola con sincera attenzione, offrendo persino l’opportunità di scriverci un libro con la supervisione di un editor, e poi di pubblicarlo a quattro mani. Farli vivere in luoghi per l’appunto vivibili, cioè spaziosi e accoglienti, seppure sobri e razionali, dove sciogliere la tenebra dell’uomo in luce umanistica di redenzione. Luce e aria, anzitutto, per curare le ferite interiori e sociali che li hanno portati a delinquere. Non un progetto utopistico di parole vuote, ma qualcosa di concretamente realizzabile mettendo a frutto la cultura, e quindi organizzando proficuamente la settimana dei detenuti con un calendario fitto di incontri, di scambi, di lezioni, di gare. Il detenuto sconterà la sua pena studiando, imparando nozioni e mestieri, liberando energie nello sport. Affiancato e assistito da una equipe di umanisti a 360°, psicologi, pedagogisti, insegnanti, musicisti, scrittori, artigiani, cuochi, allenatori, ecc., sui quali naturalmente investire risorse statali che, altrettanto naturalmente, risulteranno di sicuro irreperibili non per penuria di fondi, ma perché manca la reale volontà di risolvere il problema. I detenuti vivono in condizioni penose? E lasciamoli marcire! Del resto, sono o non sono la feccia della società? Hanno o non hanno commesso crimini? Così, il comune benpensante nelle chiacchiere da bar. Così, il politico comune nei suoi veri pensieri. Però poi si lamentano (o tempora, o mores) che la società è trista e malata. Ma allora perché continuare a parlare ipocritamente di “rieducazione del condannato”? Perché non cancellare l’articolo della Costituzione? Che cosa si fa, in concreto, per ottemperarvi? Quanti laureati in Lettere, ad esempio, potrebbero trovare impiego nei carceri per tirare fuori il meglio dai detenuti e innescare in loro un “circolo virtuoso” con cui disinnescare quello vizioso che li spinge a peggiorare? Quanto potrebbero invece migliorare, e con loro l’intera società, se fossero incentivati (anche per fini di buona condotta e relativo sconto di pena) a personalizzare un “piano educativo di riabilitazione” tra le molteplici proposte offerte dall’istituto penitenziario? Se il detenuto, una volta scontata la pena, torna a delinquere, siamo sicuri che è solo perché delinquente incallito, o non anche e soprattutto perché la società non ha saputo né voluto riaccoglierlo come meritava? Quante “recidive” verrebbero meno se il detenuto si sentisse davvero apprezzato e valorizzato come persona umana, durante l’esperienza carceraria? E se poi si smettesse di trattarlo come detenuto a vita, ergastolano “de facto”, anche dopo che ha saldato il debito con la legge e la società?

Proprio l’ingiustizia di questa macchia indelebile, e il cerchio conseguente di gelo e sospetto che continua ad aleggiare intorno al detenuto tornato libero cittadino, sono a mio dire perniciosi nel debilitare ulteriormente la sua fragile psiche e scoraggiare tutti i “buoni propositi” con cui vorrebbe e potrebbe diventare un cittadino onesto come gli altri. Lo scoraggiamento è premessa di caduta e ricaduta: non credere più in se stessi e in un possibile futuro, porta qualsiasi uomo (non solo l’ex detenuto) a buttarsi via, in un processo irreversibile di autodistruzione. I detenuti vanno nutriti di speranza in carcere, e poi concretamente reintegrati quanto tornano liberi. Non li si lasci allo sbaraglio: ci dev’essere un lavoro che li attende all’uscita dal carcere, e un assistente sociale che li seguirà nei primi mesi. Ai migliori di loro, a quelli cioè che si sono più distinti nel percorso evolutivo di riabilitazione, affiderei ad esempio la tutela di un monumento o di un bene culturale, con funzioni di custodia e di guida turistica per visitatori e/o comitive. Non per buonismo pietoso di facciata, oggi tanto in voga, ma per meriti acquisiti nel dimostrarsi degni di quella funzione e nel voler contribuire sinceramente al miglioramento della società. Chi meglio di un ex detenuto risorto dai propri peccati ha la credibilità e i titoli per farlo?         

Marco Onofrio

Italia, crocevia di popoli

98daed1a36963392e9f1c4fb7f7427f8

L’identità civile di un Paese – ovvero il patrimonio stesso della sua vicenda storica, delle sue manifestazioni caratteristiche, delle sue istituzioni culturali – è inevitabilmente condizionata dalla conformazione geografica del territorio racchiuso entro i suoi confini. I confini, a loro volta, si conformano al vario evolversi degli accadimenti storici e politici. Non sempre, peraltro, i confini geografici corrispondono a quelli segnatamente politici. Nel caso dell’Italia, tale corrispondenza è connotata da una necessità – starei per dire vocazione – assolutamente naturale, considerando il mare che ne avvolge e bagna gli oltre 8000 km di coste, e le catene montuose che ne cingono, a mo’ di corona, le estremità settentrionali. Inoltre, la stessa caratteristica forma a stivale fa del nostro Paese un’entità geografica particolarmente definita e riconoscibile (anche ad altitudini satellitari). Il linguaggio silenzioso del suo “corpo” fisico dice: “sono una terra di incontri e scambi, un ponte naturale tra i popoli”. La penisola si protende in tutta la sua lunghezza verso il cuore assolato del Mediterraneo, mettendo in comunicazione spazio-temporale mondi fra loro diversissimi come quelli dell’Europa continentale e del Nordafrica. Ma è soprattutto la posizione centrale nel mondo mediterraneo che, da sempre, ne fa un crocevia obbligato. Non solo tra Nord e Sud, ma anche tra Oriente e Occidente d’Europa: a segnare lo spartiacque, il punto di separazione (e quindi anche di contatto) fra queste stesse definizioni geografiche, storiche e culturali. Per capire quanto, basterebbe guardare indietro, alla storia che rende il nostro Paese, non a caso e a dispetto della sua non strabiliante estensione geografica, ricchissimo di “passaggi” e testimonianze, detentore, com’è, del 70% del patrimonio artistico e culturale censito ad oggi nel mondo. Si pensi per esempio ai Greci che, colonizzandone le coste meridionali (quella che venne poi chiamata “Magna Grecia”), vedevano nell’Italia una sorta di “America” ante litteram, di nuova frontiera occidentale: uno spazio di libera espansione.

Ma è solo con l’Impero ecumenico e mediterraneo creato dai Romani che l’Italia poté rivelare appieno la propria organica vocazione internazionale, il proprio respiro multietnico. L’Impero apportò innegabili benefici a tutti i popoli “romanizzati”, concedendo loro la “pax romana”, promuovendo una maggior regolarità e giustizia nell’amministrazione della cosa pubblica, garantendo leggi più sicure, agevolando la fioritura delle città, permettendo alle attività economiche di espandersi in un unico organismo di straordinaria ampiezza, insomma: inquadrando in compagine unitaria tutti i Paesi del Mediterraneo. Era un crogiolo di genti, culture e lingue che dialogavano, legate da una coesistenza non sempre pacifica, ma comunque effettiva. 

Per diversi secoli Roma riuscì a far convivere mondi eterogenei sotto le insegne dell’aquila imperiale. Poi, con l’indebolimento del potere centrale, accentuato da una progressiva e sempre più sensibile differenziazione tra Oriente e Occidente, il puzzle cominciò a disgregarsi, a perdere tasselli. La differenza tra le due zone dell’Impero, anche quando non ancora ratificata a livello giuridico, prendeva corpo anzitutto dal punto di vista economico e politico: sicché, mentre in Occidente i traffici ristagnavano e la gente impoveriva, sommersa da tasse sempre più esose, in Oriente perdurava il controllo di province ricche come Egitto e Siria, mediante cui avevano luogo gli scambi col mondo mesopotamico e con la valle dell’Indo; e mentre in Occidente il potere civile era ormai alla mercé dei comandanti dell’esercito (spesso di origine barbarica), in un avvicendarsi caotico che spesso rasentava l’anarchia, in Oriente l’imperatore manteneva ancora saldo il controllo dell’amministrazione e solida la propria autonomia dinanzi ai vertici del corpo militare. Tale superiorità dell’Oriente venne di fatto riconosciuta allorché, nel 330 d.C., Costantino decise di trasferire la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio, ribattezzata in suo onore Costantinopoli. La ratifica avvenne con l’assegnazione, da parte di Teodosio, dell’Occidente e dell’Oriente rispettivamente ai figli Onorio e Arcadio (394 d.C.). L’Impero d’Occidente, sconvolto da una situazione caotica e minato gravemente nelle sue strutture, non poté resistere a lungo alla pressione sempre più incontenibile dei Barbari. Roma finì con l’essere saccheggiata (dai Visigoti di Alarico, nel 410 d.C., e dai Vandali di Genserico, nel 455 d.C.), mentre l’Impero d’Occidente si avviava convulsamente alla caduta, che si materializzò, infine, allorché Romolo Augustolo fu deposto dal barbaro Odoacre (476 d.C.). L’Impero d’Oriente, invece, forte di una cultura scaturita dalla sintesi della tradizione ellenistica e della civiltà romana, poté sopravvivere alla marea delle invasioni barbariche e, mantenendo intatto il suo splendore, esercitare ancora per molti secoli (fino al 1453) la sua importante funzione storica. La cultura orientale, peraltro, già da secoli aveva improntato di sé il mondo romano, ad esempio con il fascino dei riti misterici, con la diffusione del Cristianesimo (poi religione di Stato), e con il fastoso modello teocratico, adottato da parecchi imperatori.

A valutare quanto l’Italia sia stata fin da tempi antichi ponte e crocevia tra Oriente e Occidente, basterebbe esaminare la storia e le vestigia di città come Ravenna (dove Onorio trasferì, nel 402 d.C., la capitale dell’Impero) o come Venezia e, in genere, delle coste bagnate dall’Adriatico (vero e proprio “cuscinetto” tra due mondi), dirimpetto alla sponda levantina. Sempre da Oriente giungevano i pirati saraceni, per compiere le loro scorrerie lungo le guardinghe coste italiane; mentre in direzione opposta si mossero i Crociati per la conquista della Terra santa, e i viaggiatori come Marco Polo, per la scoperta di nuovi mondi.  L’Italia è piena delle tracce dei popoli passati sul suo territorio, avvicendandosi – secolo dopo secolo – al dominio delle sue genti. Terra di conquista e di guerre, sì, ma anche di incontri, dialoghi, viaggi (fu meta immancabile del Grand Tour). Senza scomodare Roma, sistema vivente di tutte le sue innumerevoli rovine, basti pensare ai mille volti che connotano una città significativa come Palermo: fenicia per le origini, greca per il nome, romana per i mosaici di Villa Bonanno, araba per alcune chiese eredi delle moschee, sveva per le tombe degli Hohenstaufen, francese per i monumenti angioini e borbonici, spagnola per le architetture memori dei tre secoli di governo vicereale… In una sola parola: “italiana”. Già, perché è proprio dell’Italia, ovvero congeniale alla sua natura profonda, alla sua storia, questo essere crogiolo e memoria di civiltà eterogenee, attrattevi dal diverso favore delle circostanze e dall’inevitabilità, per così dire, della sua posizione geografica. L’unità d’Italia (1861) sovrappose una vernice di coesione politica all’estrema frammentazione storica del nostro territorio, che, nel suo sviluppo, aveva proceduto per “sacche” autonome e spesso incomunicabili, da regione a regione e, spesso, da zona a zona. Anche se la scolarizzazione diffusa e la prepotente invasività dei media tendono a omologare il costume nazionale (in senso europeo ed occidentale globalizzato), eliminando le differenze più vistose e macroscopiche, un siciliano e un piemontese, ad esempio, sono ancora oggi molto diversi, quanto a mentalità, cultura, modo di intendere la vita. Esiste tuttavia una comune e condivisa “identità italiana”: un quid che nasce dalla nostra stessa storia, e che ci rende “popolo” (nazionale di calcio e lingua a parte). 

Proprio per questa vocazione mediterranea e multietnica – che fa degli Italiani, tra le altre cose, un popolo di “navigatori” – il nostro Paese è in grado di porsi e proporsi come mediatore di incontri, come risolutore di controversie internazionali, come operatore di pace. È nel DNA storico dell’Italia tale imprinting umanistico: l’apertura ai principi democratici del dialogo, dell’accoglienza, della tolleranza, che rendono il nostro Paese quanto mai atto ad agevolare l’incontro e lo scambio osmotico fra popoli e culture anche profondamente diversi. Ed è in grado di farlo senza perdere nulla della propria identità culturale: proprio perché è questa l’identità culturale in cui gli Italiani possono meglio riconoscersi, la civiltà congeniale alla loro natura. Pertanto, risultano estranee all’ethos italico più autentico – oltre che speciose e pretestuose – le manifestazioni di xenofobia, intolleranza razziale ed esasperato nazionalismo che spesso accompagnano il pur delicato processo di integrazione, conseguente ai flussi migratori di cui è oggetto fra gli altri il nostro Paese, ormai da decenni, da parte di cittadini extracomunitari in cerca di lavoro e di fortuna. Non c’è dubbio che le dinamiche di accoglienza dei migranti – ancorché incondizionate dal punto di vista umanitario, specie nel primo soccorso, tanto più che l’Italia ha salde radici cristiane – dovrebbero essere regolamentate in ragione delle effettive possibilità di integrazione nel nostro tessuto economico e sociale, anche in sinergia con gli altri membri dell’Unione Europea, i quali dal canto loro non possono demandare all’Italia, solo perché protesa nel Mediterraneo, tutto l’onere di sostenere l’impatto del fenomeno migratorio, anche e soprattutto dopo le doverose e sacrosante pratiche di “prima accoglienza”. Ciò per un duplice ordine di motivi fondamentali: 1) sulla migrazione umana non deve speculare nessuno, né le mafie, né i politici, né le ONG, né gli imprenditori disposti allo sfruttamento; 2) i migranti non lasciano i loro Paesi di origine, affrontando il mare a rischio della vita, per poi continuare a fare i profughi, emarginati e disadattati, anche nel cosiddetto “primo mondo”, o diventare mano d’opera a basso costo, o essere cooptati dalla criminalità e ritrovarsi a delinquere.

Una cosa è certa: se l’Africa fosse degli africani, se cioè non fosse stata depredata negli ultimi secoli dall’Europa e dal suo rapace imperialismo, oggi sarebbe forse (e toglierei forse) il primo continente del pianeta, il più ricco e autonomo, e milioni di persone non avrebbero bisogno disperato di migrare; accadrebbe, semmai, il contrario. Ricordiamoci di quando eravamo noi, pezzenti e malnutriti, a migrare nelle Americhe e negli altri Paesi europei!         

Marco Onofrio        

Strisce blu e autovelox. Quando lo Stato si fa “taglieggiatore”…  

a031cca7b805dd32fb0fd238ce4382fd

I doveri del cittadino verso le istituzioni esistono a prescindere o dipendono anche dalla credibilità delle stesse? Credo che dipendano anche, pur esistendo a prescindere. Se è plausibile e addirittura doveroso, rispetto al tribunale etico interiore, contravvenire per obiezione di coscienza a una legge palesemente ingiusta, non è altresì lecito affermare che si obbedisce volentieri a uno Stato capace di imporsi non con l’autorità coercitiva, che in linea teorica finirebbe per legittimare anche i soprusi di una dittatura, ma con l’autorevolezza riconosciutagli dal cittadino per la capacità di emanare leggi giuste, di farle rispettare volentieri, di rispettarle esso stesso per primo, nell’esercizio quotidiano delle sue funzioni amministrative?

Le istituzioni devono dare esempio di integerrima onestà, se vogliono che la gente non accampi rivendicazioni e non si senta “giustificata” a compiere atti illeciti. La vox populi elabora più o meno il seguente pensiero: “se i primi a delinquere sono i politici, perché mai il cittadino dovrebbe essere onesto?”. E c’è un fondo di verità che impedisce di darle torto. Sia chiaro: ognuno deve sentirsi chiamato all’onestà indipendentemente dalle circostanze e dalle occasioni (che facciano l’uomo ladro, è sbagliato già di per sé), ma è innegabile che ogni autorità viene desautorata, cioè ipso facto destituita di fondamento, qualora il garante e il rappresentante della legge vengano trovati in flagranza di reato, cioè in evidente contraddizione con quanto da loro garantito e rappresentato, nonché solennemente promesso al popolo con il giuramento. Il presidente del Consiglio e i ministri, ad esempio, non diventano effettivamente tali senza aver pronunciato la seguente formula: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Tale differenza qualitativa del comune dovere civico è sancita anche dall’articolo 54 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Di conseguenza, lo stesso reato commesso dal semplice cittadino aumenta notevolmente la propria gravità qualora commesso da un pubblico ufficiale.

Risultano pertanto dannosissime all’opinione che il cittadino nutre dello Stato e delle sue legittime istituzioni, alcune illegittime e odiose iniziative intraprese a livello amministrativo, come ad esempio le strisce blu (anche in piccoli centri) e gli autovelox. Iniziative che svelano presto la reale volontà che le sottende: quella di fare cassa, cioè di rimpinguare le sempre anemiche risorse economiche dei Comuni, che in realtà sono anemiche non perché i soldi pubblici non ci siano, ma perché vengono male amministrati. Immagino discorsi preliminari, in camera caritatis, del tipo: “Oddio, non c’è rimasto più un euro! E adesso che cosa c’inventiamo?”. Da cui il toto-sanzione, cioè la caccia al modo più ingegnoso per estorcere denari. La colpa della corruzione non deve ricadere a pioggia sul cittadino innocente, rendendolo “mazziato” oltre che “cornificato” dalla stessa. Il politico che ruba, procura già un danno grave al cittadino; non può addirittura rifarsi degli ammanchi pubblici sulla vittima delle sue malversazioni!

Che la volontà politica effettiva da cui sono “animati” i parchimetri sia sostanzialmente quella di far cassa, sta a dimostrarlo il progressivo perfezionamento degli stessi a favore dei Comuni: non solo in termini di tariffe orarie, spesso davvero esose e soggette a non infrequenti rincari, ma anche con il recente “giro di vite” rappresentato dall’imposizione di personalizzare il ticket digitando la targa, il che ha drasticamente eliminato gli episodi di cortesia per cui si poteva regalare il tagliando non ancora scaduto a un altro automobilista in procinto di parcheggiare. Ora mi chiedo: i ricavi economici di questa personalizzazione valgono davvero la brutta figura del Comune che la impone? cioè lo svelamento spudorato della reale intenzione lucrativa che presiede a tutta l’iniziativa?

Idem per gli autovelox: la sicurezza stradale, diciamoci la verità, è solo il motivo ipocrita e pretestuoso. Ho assistito di persona a un caso emblematico. Un autovelox era stato collocato in un tratto di strada dissestata che “impediva” di per sé alle automobili di superare i limiti di velocità. Ebbene, constatato che l’autovelox non rendeva adeguatamente, il Comune di competenza ha provveduto ad asfaltare solo il tratto di strada precedente l’autovelox stesso! Come a dire: “forza, prendete la rincorsa e… vai con le multe”. Si può essere più sciocchi e inopportuni? Un’amministrazione davvero “furba” avrebbe asfaltato sia prima sia dopo l’autovelox, per rendersi immune da critiche e mascherare meglio (cioè in modo più intelligente) le proprie reali intenzioni. Quindi i casi sono due: o i politici considerano gli italiani un branco di emeriti imbecilli, col cervello guasto e incapace di comprendere alcunché, ovvero (quand’anche consci del misfatto) di pecoroni impotenti e inetti ad ogni rimostranza; oppure – cosa che ritengo più probabile – la politica ha ormai dato per acquisito il tramonto dell’etica, e quindi si sente al di là del bene e del male, non più soggetta ai freni inibitori da cui un tempo scaturiva quella sana vergogna di sbagliare. Sarebbe davvero divertente vedere l’autovelox impossibilitato a “estorcere” multe, per conto dello Stato taglieggiatore, grazie all’ineccepibile comportamento degli automobilisti, attentissimi a rallentare fino al “passo d’uomo” in prossimità dell’apparecchio sanzionatorio; e poi, di lì a qualche tempo, assistere alla seduta del consiglio comunale dove si discute dei mancati introiti, e chiedere conto del disappunto incarnato sui volti della giunta dinanzi a ciò che, invece, dovrebbe suscitare soddisfazione e pubblico encomio. Se davvero gli autovelox fossero deterrenti all’eccessiva velocità – come sostiene la legge – e non volgari macchinette per far cassa, come spiegare infine certi musi lunghi?               

Marco Onofrio          

“Nei giorni per versi”, di Anna Maria Curci. Lettura critica

curci

“Nei giorni per versi” (Arcipelago Itaca Edizioni, 2019, pp. 108, Euro 13.50), di Anna Maria Curci, è un libro delizioso e sorprendente, fin dal titolo ancipite; un libro soprattutto necessario, che incuriosisce per vie sottili con la misura del suo respiro e poi coinvolge, entro e oltre i limiti che si dà per realizzarsi, con la potenza sommersa delle energie che smuove. Molte delle centosettantatre quartine di endecasillabi che vi sono raccolte sono “ordigni atomici” dall’apparenza innocua, malgrado cioè siano calati nell’habitus convenzionale del “diario di viaggio”, inteso il viaggio come percorso «di ricerca ed esistenza, di stupore e disappunto» (parole introduttive della stessa autrice) articolato nei giorni “per versi” – attraverso cioè lo strumento conoscitivo della poesia – ma anche nella poesia stessa, esplorata e utilizzata in un momento storico particolare, traviato appunto da giorni “perversi” come quelli che stiamo ultimamente vivendo. Anna Maria Curci dice cose potentissime e terribili con il sorriso sulle labbra, un sorriso che a ben vedere è “fratturato” dalla consapevolezza e dalla pena. Gli occhi sono «dilaniati» dall’orrore e obbligati alla visione delle cose vere, nel loro volto più autentico. Il paradiso è perduto, il disincanto ne ha chiuso le porte per tramutarsi in presupposizione stessa del pensiero:

Mai più conoscerai l’amore immenso,
la gratuità sublime dell’idiota.

L’inerzia apparente delle congiunture non impedisce all’udito sopracuto della poetessa di avvertire, dentro il grigio rumore dei fatti insignificanti, lo strazio che dirompe l’emergenza (nel doppio senso di avviso e di emersione):

Lo so che questo è il tempo dell’attesa,
ma sento sempre urlare la sirena.
Non è nel gorgo d’acque favolose,
è l’allarme perpetuo e ignorato.


Ed è ignorato perché anzitutto a molti fa comodo che lo sia, ma anche perché la maggior parte delle intelligenze è obnubilata, e assuefatta a una sorta di narcosi collettiva che impedisce loro di percepirlo. Il mondo è «sinistrato» da una infinità di squilibri reciprocamente collegati che lo sta rendendo sempre più ostile e problematico. Il centro dove potrebbe insistere un equilibrio è oggi più che mai «traballante»: ogni giorno accade impunemente la «sincronizzazione del nefando», cioè la complicità delle infamie che regge il sacco ai ladri della nostra umanità. Stiamo infatti tentando di sopravvivere a un’epoca post-umana che – malgrado gli appelli a un presunto “nuovo umanesimo”, lanciati a vuoto da più parti – ha ormai liquidato i valori fondanti della cultura e della civiltà. Il tempo è triturato e scansionato dalla nevrosi centrifuga delle metropoli tecnocratiche globalizzate. Che fine ha fatto il tempo giusto e “centrato” in cui respirava, con i suoi ritmi ancora organici, l’uomo del ’900?

Quel tempo regalato in sospensione
furono i viaggi in treno a rivelarlo.
Rapidi, littorine e scartamento
ridotto per riflettere e sostare.

Tanto da arrivare a chiedersi l’origine prima del danno, la stortura originaria che ci ha portato – tradimento dopo tradimento – a questa condizione di asfissia, per soffocamento progressivo:

Quand’è che principiammo a destinare
la fragranza del pane a chi latrava,
quand’è che dismettemmo madre e padre
che chiamammo sorgente il cherosene?

L’onestà brechtiana con cui la poetessa, germanista e raffinata traduttrice, affila l’«arma bianca» della sua penna per sviscerare, «sull’orlo tra missione e sabotaggio», il cuore più profondo delle questioni e, seminando inquietudine, sobillare al risveglio e alla rivolta, evoca per converso il destino degli ideali in un contesto di «voci inquadrate e ammansite» dove non è più «il tempo del bastian contrario». Dov’è ora il «cartoccio» di speranza colmo di «baldanze» e «pie intenzioni» alla luce delle quali il futuro sembrava una «bottega di sogni a cielo aperto»? Dove sono gli entusiasmi e gli entusiasti? Chi crede davvero che il mondo possa ancora cambiare? Siamo «come quegli impettiti soldatini / spezzati dentro e fuori sorridenti»: tutti postulanti «pratiche inevase» e ottenebrati in un appannamento da cui, se ne usciremo, «sarà per sdilinquirci» in «remote elegie rassicuranti». Sdegno e ribellione, quando poi residualmente emersi o formulati, vengono poi subito normalizzati dal «sofisma / finto-bonario minimizzatore / a silenziare», tipico del conformismo dominante, e a quel punto il gioco è fatto. Proprio per questo Anna Maria Curci vuole che «sia ciascuno persona di pace, / non in pace», e che gli occhi tornino a splendere di una luce non ingenua ma consapevole, e quindi capace di incanto benché generata dal disincanto: «luce che sa del buio e dell’orrore, / mantello di serena irrequietezza». D’altra parte veniamo al mondo «lacerando» il buio caldo del sacco amniotico per aprirci al trauma della luce, dell’aria e del tempo; così, all’improvviso, uno squarcio nel “muro della terra”, di dantesca e caproniana memoria, potrebbe aprirci gli occhi e, rivelandoci la verità, farci nascere di nuovo, o nascere davvero. Tutto è confuso, caotico, ambiguo. Le segnaletiche di ieri non valgono più, devono essere continuamente aggiornate per inseguire una realtà che evolve in modo sempre più rapido e inafferrabile.

L’erba è cresciuta sopra gli ideali
(va’ a separare, adesso, la sterpaglia).
Non sai se è soffocata o rigogliosa,
se è sovversivo o prono il fiore giallo.

L’unica opzione percorribile è «resistere ogni giorno»; l’unica speranza è che i signori del male organizzato sottovalutino, com’è nelle corde della loro oltracotanza, la «forza del mite» quand’anche non tradotta in ira, cioè il lavorio paziente e quotidiano per scalfire i muri della prigione. È necessario sentirsi, come si è, dalla parte del giusto, e dunque illudersi di avere, ancora e sempre, «verità e bellezza» e soprattutto speranza da opporre allo squallore dei carnefici, con cui stringere il nodo delle loro pregiatissime cravatte fino a soffocarli. Per questo resta importantissimo l’esempio dei poeti capaci di esercitare ad ogni costo il dissenso e di conservare la mossa spiazzante del cavallo, «il salto a lato, la disobbedienza». Non, perciò, dei sempre più frequenti poeti narcisisti a caccia di applausi, che assumono pose e da cui la poesia, abusata e consumata, può salvarsi continuando a praticare la sua “cura”; come ad esempio certe poetesse…

Le lupe travestite da vestali
schiamazzano l’amore per la musa.
Opponi studio e pazienza, tu lisa
palandrana da troppi rivoltata.

I problemi grandi, anzi immensi, sono due: da un lato la storia, ovvero la socialità; dall’altro la natura, ovvero l’esistenza. Sono entrambi irrisolvibili, per definizione e per, come non bastasse, sopraggiunte complicanze estemporanee. La storia partorisce sequenze innumerevoli di menzogne, poiché è la manifestazione quantitativa e qualitativa della socialità che ingabbia e determina il percorso umano sulla Terra. Socialità è sinonimo di intrigo e di inganno. Un coacervo putrido di «circo-stanze» in cui si aggirano tragicomici pagliacci per soffiare nelle orecchie maldicenze tra «creduli» a loro volta maligni, vogliosi e ansiosi  di credere, e quindi «baruffe bassotte flatulente», «codici tribali affantoccianti», e ancora ipocrisie, cannibalismo affettivo, vampirismo psicologico, «maniere e manierismi» per malcelate intenzioni, «solipsismi in posa da autoscatto» (i cosiddetti “selfies”), e ovunque il rumore di fondo di quel «chiacchiericcio» insulso ma dannosissimo che purtroppo conosciamo molto bene. La natura d’altro canto è spietata perché soggetta a inderogabili leggi evolutive e all’imperio tirannico del tempo, con la sua «carta vetrata che sfalda ogni giorno» per cui l’esistenza è fatta da «rovine di frammenti» e «vestigia ammonticchiate» dove, talvolta, può splendere qualche epifania (gli «scarti», difatti, approntano «festoni a intermittenza») mentre la «dignità volteggia con cartacce». Quella di Anna Maria Curci è, per auto-definizione consapevole di poetica, «l’arte dei brandelli», cioè la vocazione etica a lavorare con le «frattaglie», raccogliere le «spoglie abbandonate», aggirarsi tra «piaghe» e «macerie» per abbracciare l’«intangibile» e puntellare le crepe dal crollo imminente che le allarga. La condizione umana è di per sé risibile, vana e ingannatrice:

Nell’interludio tra le glaciazioni
s’inorgoglisce l’uomo, si fa centro.
Pesce rosso nella boccia di vetro
e invece e a malapena se ne avvede.

E ancora:

Canticchiare con le gambe conserte,
mettere i saldi per non stare soli
indaffararsi con stridio di specchi.
La pietra sa che ci prendiamo in giro.

Non siamo affatto il centro dell’universo, né la misura delle cose che ci sfuggono e delle quali restiamo in balia, a guisa di naufraghi; sensazione mirabilmente espressa dalla straordinaria metafora epistemica incarnata nella quartina CXII:

Non un’isola, nemmeno una boa,
solo un turacciolo usato e disperso,
gettato a caso ad assorbire sabbia
che si rotola goffo in cerca d’acqua.

Il mistero che soggiace all’intrico dei segni e all’ambiguo confliggere dei casi resta più che mai inconoscibile e «a noi precluso», anzi: si affaccia soltanto «per essere incompreso», come sa bene Orfeo, «il reduce dall’eterna penombra»:

Quando accediamo, gli occhi dilaniati,
alla stanza che ripara il mistero,
è già tutto perduto. (…)

Ciò, tuttavia, non esime l’uomo, e anzitutto il poeta, dal dovere di ricerca e conoscenza, dato che camminano «allacciate, una pensosa, / l’altra poppante intrepida o vecchina / sdentata, la ricerca e l’esistenza». È una «lama di dentro» che spinge a risalire «il corso dei nomi» per decifrare e sciogliere gli enigmi, ed è anche un modo di cercare «rifugio dall’orrore» che si annida nel vuoto dell’universo, dove appunto la verità ama nascondersi come la bellezza quando «gioca a nascondino». La verità non si raggiunge e non si costruisce a forza di «proclami» o di «trionfi» (e infatti questi sono “mottetti” privi di sentenze) ma umilmente, con pazienza di attitudine e abnegazione, soprattutto come dono spontaneo della natura stessa, allorché «le frontiere diventano ponti» e allora «si allarga breccia», «lo squarcio all’improvviso rivelato» per cui il «deserto ostile e familiare» che brucia nella “terra desolata” svela, tra «l’opaco e il brillante», tutte le «gradazioni minute» della ricchezza che normalmente cela. Ogni tentativo di conoscere il mistero, o di resistere alla forza del mondo, è destinato a scacco, a fallimento, a inanità. La forma che estraiamo dalla vita è «fragilissima», pur quando «tenace», e il baluardo provvisoriamente elevato crolla sotto i colpi di un’erosione continua e costante, come un castello di sabbia in riva al mare. «Appronti con fervore il fortilizio, / scavi fossati, piombi fenditure» per poi scoprirti «tenente Drogo dei refusi» che presidia una «fortezza smantellata». Il cammino della conoscenza è punteggiato di false cime («si profila e si sgretola la meta»), fino a quando capisci che

Non puoi vuotare il mare col secchiello,
neanche il tentativo può salvarti, (…)

Il problema della forma rispetto alla vita, cioè della sua resistenza agli eventi critici che la consumano e infine la aprono e la dissolvono, è uno degli snodi tematici più importanti del libro. Tanto da improntare la struttura chiusa e al tempo stesso aperta di queste quartine, come cuciture che schiudono «spazi estesi e contorni inaspettati» componendo una specie di “romanza” non solo, come si è visto, del desolante scenario contemporaneo, ma anche della terra senza luogo e senza tempo dove suona l’«antico adagio dello smarrimento». Strumento affascinante la quartina, da Omar Khayam a Eugenio Montale (“Mottetti”) ad Anna Maria Curci, poiché chiude l’universo in una forma che, data la brevità dello slancio, costringe la poesia ad essere precisa e determinata, e insieme a cercare lo scarto del nuovo e il respiro aperto dell’infinito.

Decostruzione e ricomposizione, come per la tela di Penelope: è il metodo creativo messo in atto dall’autrice in questo libro, come si capisce anche dalla caratteristiche della sua voce poetica e, nella fattispecie, della sua scrittura. È una voce «claudicante» che accoglie lo sgambetto delle «vocine» divergenti, quelle che contrastano il bordone. Sa che la parola non è mai innocua, è una compagna fedele e rabbiosa che può fungere da paracadute e, soprattutto, da piccone demolitore. Smontare, spezzettare e poi ricomporre il mondo – è questa l’impronta caratteristica – articolando la dinamica ondivaga di una scrittura “contro”, che procede appunto in controtempo e cerca il controcanto «terza o quinta sotto» per fare il contropelo, cioè scuotere, svegliare e fustigare. Ha bisogno per questo della dissonanza, che già appartiene alla natura stessa delle cose (dal punto di vista dell’uomo contemporaneo); tanto che può dire, pur utilizzando la “musica” degli endecasillabi, variati nelle diverse accentuazioni toniche e ritmiche: «Io non ti ho mai incontrata, melodia».

È una poesia ispida e ruvida, talvolta anche petrosa, benché provvista delle sue dolcezze e di una certa particolare grazia naturale. Cammina in modo sghembo tra buche, sobbalzi, pensieri, visioni che emergono “a schiaffo” dalle associazioni eidetiche e cognitive, ma soprattutto non è mai in cerca di facili consolazioni: quand’anche giungesse ad una trasfigurazione, sarebbe «maculata» di ombre e di esperienza. L’unica vera distensione affettiva si ha quando le epifanie della memoria involontaria liberano, come lampi, i ricordi dell’infanzia, e quindi il gioco della campana e del nascondino, le serpi nella marana, il tranvetto della Stefer, i versi a memoria («infeconda tortura» scolastica), il rapimento di Aldo Moro appreso ai banchi del liceo, ecc. Anna Maria Curci usa il setaccio analitico ma conosce anche «l’ingordigia del lupo» e l’arte beata del consumo, della dissipazione, tanto da potersi definire «metà e metà, formica e poi cicala, / un ibrido che ascolta, stipa e canta». Tuttavia, per concludere, il migliore autoritratto poetico è offerto dalla quartina CXXII, in cui sembra riassumersi tutto l’arco evolutivo del libro e il suo profondo significato storico e umano:

In volo su mottetti e ditirambi,
simbolo, segno, grido, invocazione,
scava un pertugio, accedi alla speranza,
tra cielo e terra parla al sottosuolo.

 Marco Onofrio