Note critiche di Sabino Caronia su “Specchio doppio”

 

Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.

I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.

C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».

Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.

Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.

Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.

È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.

C’è  il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.

Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.

Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non  a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.

Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?

                                                                                    Sabino Caronia

“Specchio doppio”, letto da Letizia Leone

Oggi nella quasi totale omologazione, sia stilistica che formale, della sterminata produzione letteraria e d’intrattenimento, spicca il poco spazio riservato al genere del racconto da parte dell’editoria italiana. Eppure il racconto, anzi quella che un volta veniva appellata la novellistica, vanta una prestigiosa e consolidata tradizione nella letteratura italiana attestata già alla fine del duecento con Il Novellino. Il genere della prosa breve non rientra nelle politiche merceologiche dell’industria editoriale. Le motivazioni non sono culturali, bensì economiche, di profitto. Il libro, quale prodotto di consumo, deve rispondere a determinati requisiti di vendita tra i quali la semplificazione, l’intrattenimento e l’appartenenza a modelli destinati a fette di mercato predeterminate. Sebbene poi il racconto, così come la poesia, da questa posizione di marginalità e autonomia tragga linfa per la ricerca espressiva. Lo stesso Giulio Ferroni afferma che il racconto ormai sembra «farsi carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica». Salutiamo dunque con favore libri come questo di Marco Onofrio, racconti brevi ma densamente significanti, parodistici e rappresentativi di una società “borderline”, dove “Le persone normali” (per citare un titolo di Aldo Busi) sotto la superficie della consuetudine rivelano un estremismo esistenziale tutto contemporaneo.

Il titolo e la citazione ad incipit di Giordano Bruno annunciano, nell’immagine prettamente barocca dello specchio, una ontologia dell’essere e dell’apparire, un forte richiamo a certe questioni classiche della doppia identità vita/arte, finzione/autenticità. Questioni già metabolizzate in una modernità pervasa ormai dal virtuale, dal bombardamento mediatico e che va smussando i confini del reale e del riflesso, del contingente e dell’illusionismo prospettico. Tempi di post-verità, ipoverità, fake-news, di illusione di massa dove i fatti indietreggiano rispetto ai pregiudizi o alle emozioni. Il reale e la finzione si mescolano. Istanze sottese a questi racconti. Se lo specchio riflette l’immagine reale e, in una distorsione diabolica un doppio specchio riflette un’immagine di secondo grado, magari con un certo impercettibile livello di deformazione, allora viene spezzato il rapporto biunivoco tra osservatore e osservato. Il doppio specchio di Onofrio, con la doppia rifrazione include osservatore e osservato in una visione straniante e obliqua che potrebbe essere anche una via di fuga dal semplice rispecchiamento. Ma anche il Vuoto e il Nulla sono fili rossi che innervano questi racconti con le variazioni socio-antropologiche dell’inettitudine, dell’inazione, del fallimento. Allora l’intuizione che ci raggiunge dal titolo è un’immagine di riflessione del vuoto che avviene tra due specchi posti l’uno di fronte all’altro, dunque auto-riflettentesi. Scrive R. Barthes: «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso». «Il vuoto del vuoto. Così vuoto da rimpiangere il nulla», scrive Onofrio in un atipico racconto dell’orrore, La vecchia Zerbe. Oppure in Caos: «È il vuoto, sotto e intorno a me. Tutto gira, tutto sfila. Sto cadendo. Precipito ed urlo, ma non sento nulla…»

Il libro è strutturato in dieci coppie di racconti centrati su dieci parole-chiave (La Letteratura, La Carne, La Borghesia, la Morte, Il Caos, Il Sentimento, Il Football, La Politica, L’Italia, Roma) quasi un paradigma di variabili esistenziali dove la vita stessa è incasellata nei suoi aspetti macroscopici. La scrittura di Onofrio si muove con strategie stilistiche che rifiutano la rappresentazione lineare, mimetica. Lo straniamento ne è la cifra stilistica. Quasi tutti i racconti prendono avvio da situazioni di routine quotidiana, viaggi in treno, appuntamenti di studio, esami universitari di dottorato, Onofrio stesso lo dichiara in più punti: momenti di vite qualsiasi. Ad esempio nel racconto Le mutandine: «Una vita qualsiasi, Attilio lo sa, eppure non riesce a lamentarsi anche nella normalità puoi trovare, se vuoi, dello straordinario…». Attilio infatti si è specializzato nelle fantasticherie, come altri protagonisti del libro, tanto che nella “continuità dell’argomentazione logica”, per dirla filosoficamente, irrompe facilmente il surreale o il fantastico, l’assurdo o lo straordinario. Si tratta di rêveries, sogni ad occhi aperti, allucinazioni, esperienze surreali vissute come eventi normali. Fantasmi pubblici e privati. La narrazione di Onofrio ci suggerisce che il “Reale” è precario, incoerente, fluttuante e fluido, aperto alle irruzioni di altre dimensioni magari psichiche o inconsce che si mescolano ai fatti del giorno o della notte. Il principio di realtà ha perso il suo fondamento e l’Io ne esce indebolito e disorientato.

Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte scrive: «Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione, è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia ci sono soltanto dei simulacri.» Non a caso Onofrio parte dalla letteratura con un primo racconto eponimo smaccatamente pirandelliano, Specchio doppio, e lo colloca dentro un mosaico di temi, metafore e allusioni. Autore, lettore, in un gioco di continua interscambiabilità. Nel guardarsi allo specchio (il narcisismo, questa malattia tutta contemporanea!) ci si confonde infine, si entra in un loop, in un gioco di ripetizioni e di scatole cinesi, non si sa più chi è l’autore e il lettore, l’artista e il fruitore, L’Io e l’Altro. In fondo la coscienza e l’identità sono solo un punto di vista, un punto di osservazione prospettico che potrebbe cambiare da un momento all’altro. E l’equilibrio è solo un’illusione. Basta poco, un’impressione, una percezione, un nonnulla…Allucinazioni fantasmagoriche o illusioni ottiche sono ormai piani interscambiabili. L’assurdo e l’inverosimile vengono normalizzati.

La bravura di Onofrio è anche nella sorpresa. La sua narrazione parte da posizioni quasi didascaliche, ad esempio in Roma, dove le descrizioni di un monumento iconico quale il Colosseo vengono dispiegate in memorie storiche e aneddotiche fino ad un’inattesa virata nel grottesco e nell’umoristico con il racconto rocambolesco di un amplesso fantasmatico, finché nell’epilogo lo scrittore ti aggredisce poeticamente alle spalle con un finale che commuove a tradimento chi legge. Così come nel racconto Il grande sogno dedicato alla squadra del cuore, la Lazio, dove  entrano ed escono fantasmi e si può saltare da una parte all’altra della linea temporale con la facilità di una situazione onirica. La memoria è un fatto quotidiano come gli altri, e prendendo un autobus il protagonista può andare a cercarsi nel proprio quartiere a quarant’anni di distanza, magari arrivare dietro la porta di casa e ascoltare la propria voce infantile. Altro tema ricorrente quello del sesso, vissuto in una distorsione straniante, con femmine fameliche e maliarde, con l’immagine grottesca a tratti caricaturale del sesso femminile che ricorda certo espressionismo e deformazioni gaddiane. Non mancano gli affondi nella deiezione: «Indi calarsi le braghe, lentamente o meno – di questo ci si prega. Indi ancora, senza alcuna verecondia, liberamente dare inizio al cago: che ne spurghi le budella, dal gravame dell’attuffo che l’intrippa, e rilasci il ponderoso pegno di ventresca, che più utile riesca alla salute…». Con il cerimoniale scenografico della defecazione nel racconto Festa a tema avviene il ribaltamento grottesco del rito sociale della festa e del perbenismo borghese. Lo scarto fisiologico viene normalizzato a momento conviviale, parodia del trash mediatico in cui siamo immersi. Oppure la ricorsività di umoristiche  descrizioni delle performance sessuali sotto metafora calcistica.  

E se spesso il soggetto subisce una «perdita di realtà», in una conversione umoristica arriva più volte la sberla liberatoria. Come una catastrofe, il rivolgimento giunge alla fine dell’azione e la conclude: «…stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e…PEM…gli assesto un manrovescio coi fiocchi, da farlo rivoltare.» (Il “Dannunziano”) Se il nichilismo ha depredato la realtà di ogni valore facendoci precipitare verso una incognita,  la vita ha assunto una parvenza farsesca. E questa scrittura stride di critica sociale e si dipana sempre un gradino sopra la logica tranquillizzante e la ragionevolezza. Ha detto bene Paolo Di Paolo nella quarta di copertina: «Marco Onofrio poeta nutrito dalla tradizione». Ma non si tratta di epigonismo, bensì di appropriazione per assimilazione cosciente di una tradizione letteraria nell’originalità e individualità propria dello stile dello scrittore Onofrio al quale aderiscono le parole di Ernst Robert Curtius: «Per la letteratura, tutto il passato è presente… Il presente atemporale, caratteristica specifica della letteratura significa che la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente».

Dunque racconti densi di stratificazioni letterarie, fantasmi pirandelliani, disarmonie espressionistiche gaddiane, trappole kafkiane, ironie alla Flaiano. Perché in fondo ognuno di questi racconti potrebbe anche rivelarsi un omaggio ai grandi testimoni della più alta tradizione letteraria, da Pirandello a Pasolini, da Flaiano a Kafka, da Calvino al Dürrenmatt.

Letizia Leone

“Specchio doppio”, letto da Dante Maffìa

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Non ricordo chi ha detto che è più difficile realizzare un racconto perfetto anziché un romanzo. Il racconto deve sintetizzare una storia, focalizzare un problema, darne l’essenza e caratterizzare uno squarcio di vita nella pienezza dello svolgersi. Respiro ampio, dunque, in poco spazio. Marco Onofrio ha al suo attivo un lievito di esperienze importanti e di letture sterminate, e ha guardato, cioè saputo guardare, ai modelli riusciti, agli autori di racconti che sono diventati classici, a cominciare da Gogol e da Gorkij, a Verga, a Pirandello, ecc. Ma in questo “Specchio doppio” (Cosenza, Pellegrini, 2022, pp. 160, Euro 15) si è indirizzato, vista la materia trattata, verso altre sfere, altre fonti, anche se ormai non ha bisogno di seguire i passi di nessuno, essendo arrivato a una maturità espressiva personale che gli consente di entrare e uscire dalle situazioni col suo piglio graffiante e ridanciano, con la padronanza di chi conosce bene i meccanismi del fare. Naturalmente non basterebbe soltanto il possesso della tecnica compositiva a dargli la pienezza che troviamo immergendoci nelle dieci sezioni che compongono il libro, ognuna delle quali composta da due narrazioni che, per la loro invenzione linguistica, per le scene spesso assurde, per le coloriture ironiche e goderecce, fanno pensare alla lezione di Tommaso Landolfi, di Samuel Beckett, di Charles Bukowski. Eppure Onofrio ha preso a piene mani dalla realtà quotidiana, dalla osservazione di ciò che accade accanto a lui e che ai più non desta attenzione. La sua sensibilità invece ne viene coinvolta e così lui snida i lati oscuri, comici, segreti; va oltre le apparenze, ne distorce il cammino e lo ribalta, ne trae implicazioni drammatiche, connubi esilaranti nei quali la dissacrazione di ciò che in genere è vissuto ciecamente diventa soggetto di qualcosa. Reinventa insomma la realtà e ne connota gli sfilacciamenti, i vizi, le ossessioni, i sogni corrotti, le disfunzioni del vivere, gli eccessi.

Il bello è che Onofrio si diverte, soffre, diventa ogni volta il protagonista implicito del racconto, come a voler saggiare carnalmente ciò che fa accadere. Difficile stabilire quale dei venti racconti è il più affascinante. Ho provato a chiedermelo e subito ho cambiato idea, perché in ognuno trovo il godimento dell’invenzione, mai fine a se stessa. Un godimento che apre sui vizi della quotidianità e diventa, alla fine – anche quando è la sessualità a farla da padrona, come in “A porta vuota”, “Le mutandine”, “Il mal della borghese”, “Don Arfio” – analisi serrata e veritiera della filosofia del genere umano, che ha sempre dentro di sé uno specchio doppio, se non triplo. Siamo abituati alle scorribande di Onofrio nella psiche umana e nei meandri che inquietano il senso del vivere, conosciamo la sua irruenza e il suo passo di cavaliere errante che sa cogliere la fuga del bene e del male; ma qui egli ha trovato una misura che non s’arresta alla soglia delle situazioni. Ci scava dentro, le rivolta, le ribalta, ne scerpa l’idiozia e ne fa catarsi di una svolta auspicabile per ridare vigore ai valori, ai sogni, evitando le troppe e sconce interferenze, ormai dissestanti e malevole.

Forse il valore maggiore di “Specchio doppio” è la scrittura, tenuta sul rigore di una classicità che non demorde dal voler cogliere le sfumature della psiche e non si arrende allo sfacelo in atto portato dai minimalisti, dalla canea degli arrivisti e dei “banalisti”, oggi purtroppo difesi a spada tratta (personalmente mi fanno rimpiangere le Luciane Peverelli e i Salvatore Farina!). Ma torniamo ad Onofrio, almeno per dire che quando poi parla di Roma la sua pagina emana profumo di scrittura, e tutto diventa magico per offrire il senso nuovo di un approccio alla Caput Mundi. Leggiamo appena due righe: «I romani non vedono Roma. È così piena di significato, di sensi plurimi e contrapposti, di sfumature, di stratificazioni, così ricca di segni storici e umani che, per “sopportarla”, sei costretto a metterla “tra parentesi”. Devi viverci la tua vita. Non puoi permetterti di fare un “oh” di meraviglia ad ogni passo, o di ammutolirti di sgomento, come pur dovresti». Ecco, è questo il racconto preferito: “Il tempio del tempo”, dedicato da Onofrio alle stratificazioni storiche, antropologiche e anche esoteriche del Colosseo. Ma è scelta di un momento, perché come si fa a non seguire nel suo “camaleontismo”, sono parole di Paolo Di Paolo in quarta di copertina, il “Poeta aereo e iperconsapevole” che risponde al nome di Marco Onofrio?

La fluidità della scrittura, tra l’altro, incolla alla lettura e così i suoi voli surreali, le sue impennate, le sue giravolte non sono giochi d’artificio, ma ancora una volta espressione di quella condizione umana che ha sete di misurarsi col mondo. Insomma, “Specchio doppio” ha saputo fare il ritratto efficace e consistente del nostro tempo, abitato per lo più da scimmie ammaestrate alla banalità e all’insipienza. Onofrio ha giocato e giocando, questa è pedagogia della letteratura alta, ha gettato in bocca al lettore il seme per aprire gli occhi, la scomoda verità dell’inconsapevolezza additando la strada, l’altra faccia dello specchio.

Dante Maffìa

Esce a Cosenza, con Pellegrini Editore, il nuovo libro di Marco Onofrio: “Specchio doppio”

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Esce a Cosenza con Pellegrini, importante editore di cultura che quest’anno festeggia i 70 anni di attività, il nuovo libro di Marco Onofrio, suo nono volume narrativo e trentanovesimo di sempre. “Specchio doppio” (pp. 158, Euro 15, ISBN 979-12-205-0073-9) consta di 20 racconti appaiati in 10 nuclei tematici di parole-chiave (Letteratura, Carne, Borghesia, Morte, Caos, Sentimento, Football, Politica, Italia, Roma) attraverso cui  viene esplorata la complessità inafferrabile del mondo, senza arretrare dinanzi all’osceno, al greve, all’acido, al mostruoso, al perturbante… e insomma, affondando il bisturi della scrittura anche negli aspetti sgradevoli che spesso si annidano dentro la polpa delle cose, oltre l’ambiguità delle loro superfici e della loro ordinaria “normalità”.

Questo l’ordine dei racconti: 

LA LETTERATURA
SPECCHIO DOPPIO 
CAMPARE SCRIVENDO 

LA CARNE
A PORTA VUOTA
LE MUTANDINE

LA BORGHESIA
IL MAL DELLA BORGHESE
FESTA A TEMA

LA MORTE
RICCARDELLO
LA VECCHIA ZERBE

IL CAOS
INFEZIONE MATEMATICA 
ALL’OPERA!

IL SENTIMENTO
ERA LEI
IL “DANNUNZIANO” 

IL FOOTBALL
IL GRANDE SOGNO
SILVANAYA FOOTBALL CLUB 

LA POLITICA
MUSSOLINI CENTRATTACCO 
IL “COMUNISTA” 

L’ITALIA
DOTTORATO DI RICERCA
COME TI AMMAZZO IL MAFIOSO

ROMA
IL TEMPIO DEL TEMPO
DON ARFIO 

In quarta di copertina, Nota critica di Paolo Di Paolo

Il primo live de “La cenere dei Sogni” su “Il Caffè dei Castelli Romani” del 26 agosto 2021

4 agosto, Il caffè

Ha suscitato grandi emozioni e ottenuto un meritato successo la prima esecuzione dell’audiolibro musicale “La cenere dei Sogni”, di Marco Onofrio e Valerio Mattei, lo scorso 4 agosto, presso la Sala Lepanto di Palazzo Colonna, a Marino. L’evento si è svolto con il patrocinio del Comune e ha visto una nutrita partecipazione di spettatori (la Sala era gremita, al netto delle limitazioni anti-Covid) che, opportunamente distanziati, hanno assistito con attenzione – nonostante le mascherine – alle due ore abbondanti della sua durata. Lo spettacolo è stato concepito come un recital di “consapevolezza umanistica” integrato a musiche e canzoni (contenute nel cd “La cenere dei Sogni”) che interagiscono con alcuni video, per l’occasione proiettati sullo schermo della Sala da Andrea Fabriziani e Martina Michelangeli, in cabina di regia, con Luciano Saltarelli al controllo delle luci di scena. Dopo un’anteprima discorsiva già parecchio emozionante, dove Onofrio ha introdotto gli altissimi temi del recital – evidenziando soprattutto l’urgenza di quello ecologico – anche grazie agli splendidi interventi musicali di Mattei (chitarra acustica e voce), c’è stato il contributo critico di Paolo Di Paolo che ha parlato, da par suo, dell’originalità della scrittura di Onofrio e della perdurante attualità del suo “Emporium”, il poemetto di “civile indignazione” da qualche mese trasformato, appunto, in audiolibro musicale. A quel punto la serata è entrata nel clou: Onofrio ha recitato con veemenza e passione le parole rabbiose e salvifiche di “Emporium” (un atto d’accusa contro l’invadenza del profitto in ogni ambito della società contemporanea e contro l’alienazione indotta dal sistema del lavoro, specie nelle aziende, dove però la cenere della disperazione non impedisce alla pianticella della speranza di rifiorire ostinatamente, malgrado tutto e tutti), e Mattei ha “risposto” suonando e cantando le sue bellissime canzoni, alternate ad alcuni temi strumentali ideati dallo stesso Onofrio. Molto efficaci gli stacchi determinati dai video, ovvero i discorsi di Greta Thunberg all’ONU, di Charlie Chaplin (dal film “Il grande dittatore”) e di Martin Luther King (il celebre “I have a dream”). Sorprendente il passaggio in cui Onofrio, sottraendo per un attimo l’arte a Mattei, ha cantato (bene) un frammento tra i più alti e intensi del suo lavoro: «Un uomo è un uomo / sotto ogni cielo / perché ogni cielo è / il Cielo / ed ogni uomo è / l’Uomo». Insomma uno spettacolo davvero bello e suggestivo, che ci si augura venga replicato a lungo e portato anche nelle scuole.

P. G.