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“Più libri più liberi”, 10 dicembre 2023: intervento di Marco Onofrio per i 25 anni della Casa Editrice Edilazio

Intervengono: Ricardo De Mambro Santos (scrittore e storico dell’arte), Marco Onofrio (scrittore e critico letterario), Giuseppe Sanzotta (giornalista)

Modera l’incontro: Mariarita Pocino, direttrice Edilazio

domenica 10 dicembre 2023, ore 17

Sala Aldus, Centro Congressi La Nuvola – Roma

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“Lettera aperta a Willy Pocino, in memoriam”, letta da Marco Onofrio in occasione dell’Omaggio dell’11 novembre 2023, a tre mesi dalla scomparsa

E così, caro Willy, non ti possiamo più toccare. Non vediamo più il lampo dei tuoi occhi sorridenti. Non ascoltiamo più il suono della tua voce. Ma tu davvero te ne sei andato? O non, piuttosto, ti sei semplicemente trasferito nella stanza accanto, per cui ora ci vedi, ci ascolti, cammini invisibile in mezzo a noi?

L’estate giocoforza travagliata, la tua condizione sempre più fragile, l’urgenza che, implacabile, bussava sempre più spesso alla porta. Ero partito per una breve tregua, qualche giorno di mare in Calabria, con il conforto di una piccola speranza. La dialisi peritoneale non aveva funzionato, ma l’emodialisi completa ti aveva prontamente ristabilito, sia pure per poche ore. “Finalmente mi sento bene” mi avevi detto in un sospiro l’ultima volta che ci siamo visti, dal letto dove eri ricoverato, all’ospedale S. Giovanni di Roma, più per rassicurare me che per esprimere una tua sicura convinzione. Pareva insomma che si fosse imboccata la strada buona… e invece, di lì a poco, l’atroce notizia. Ero in spiaggia quella mattina, stavo facendo il bagno nelle acque blu di Scilla mentre tu nascevi al mondo della Luce che non tramonta mai. 11 agosto 2023. Eri libero dal grumo dolorante della carne, che tanto ti aveva fatto penare nell’ultimo anno della tua lunga vita. Chissà se il tuo spirito, trasumanato dall’immensità della scoperta che ci attende dopo l’ultimo respiro, spinto dalla sapienza inconcepibile della Grazia o guidato dalla voce delle Sirene mediterranee, è venuto a salutarmi subito dopo, nel grido fuggitivo di un gabbiano, nello scroscio di un’onda, nel guizzo lampeggiante di un riflesso.

Che mistero terribile è la morte! La persona cara se ne va e noi, se siamo lontani, in quel momento non ne sappiamo nulla, restiamo esclusi dal percepire quanto accade o è appena accaduto, immersi nel torrente della nostra esistenza che invece prosegue. E così arriva la “telefonata” che non vorremo mai ricevere: Mariarita, distrutta dal dolore, singhiozza al telefono e io capisco subito. In un attimo, mentre le lacrime scendevano da sole, irrefrenabili, ho rivissuto tutti gli attimi trascorsi insieme a te: i pranzi, le cene, le gite, le vacanze, i discorsi, i ragionamenti, le riflessioni comuni, le storie e le storielle che mi raccontavi e che a un certo punto sapevo e ricordavo meglio di te, quei deliziosi aneddoti con cui, affabulando, sapevi affascinare chiunque ti ascoltasse, anche perfetti sconosciuti, e poi i casi incredibili di cui ancora ti stupivi dopo anni, le barzellette, quelle piccanti e quelle più castigate, e le risate, le risate e le risate… Quante me ne avevi fatte fare! Con te si stava in semplice armonia, creavi ovunque un clima di festa, di dolcezza, di calda bellezza umana. Mettevi pace, scioglievi le tensioni, rinfrancavi i cuori. Era uno dei tuoi carismi. Mi avevi accolto come un figlio, con tenerezza immediata, e poi eravamo diventati complici e confidenti, come amici di vecchia data. 

Ah, le estati indimenticabili nelle Marche, a Pievebovigliana, trascorse al fresco di quella casa che il terremoto del 2016, vissuto in diretta proprio lì, ha reso temporaneamente inagibile e dove entrambi ci portavamo per le vacanze cataste di libri da leggere e almeno un’opera da continuare a scrivere nella concentrazione assoluta di un silenzio confortato dalla dolce musica scrosciante della cascata che spumeggia al lato della strada! E poi le bozze infinite da correggere, nelle quali ti vedevo sempre impelagato con la tua penna rossa e i tuoi segni minuscoli, come la grafia con cui scrivevi. E l’impaginazione della tua, della nostra amata rivista, “Lazio ieri e oggi”, la tua primogenita creatura. E gli eventi culturali da organizzare e svolgere, i libri da presentare, e le fatiche della Fiera all’Eur in cui ogni anno a dicembre, fin dalla prima edizione, misuravi con soddisfazione i frutti del lavoro svolto. 

Non ti è stato semplice fare l’editore. Gli editori devono avere i peli sul cuore, e infatti sono quasi sempre spietati, opportunisti, indifferenti: l’esatto contrario di te! Edilazio, la casa editrice che hai sviluppato dalla rivista 25 anni fa, ti ha dato forse più dolori che gioie, talvolta esponendoti alla ferocia e alla rapacità di personaggi da dimenticare, e non aggiungo altro… Ma tu molto hai perdonato e capito, fornendomi con l’esempio diretto grandiose lezioni di vita su quella che amavi chiamare “cristiana rassegnazione”: la forza umile e gentile che ti faceva superare qualunque ostacolo senza mai perdere il filo della speranza, della fede in un futuro migliore per te e per tutti. Eri un inguaribile ottimista, e questo certe volte finiva per diventare un difetto poiché vedevi cose e persone migliori di quanto lo fossero realmente, e allora ti donavi – inerme di eccessiva fragilità – anche a chi non meritava, anche quando non avresti dovuto…

Sei stato fin troppo generoso, aiutando tutti e spesso avendone in cambio, com’è tipico di questo mondo, solo amarezze, torti e irriconoscenza. “Ci rimasi malissimo”, non a caso, è una frase ricorrente nelle memorie autobiografiche che hai scritto qualche anno fa – un libro che letto oggi, dopo la tua scomparsa fisica, ha ancora più valore poiché racchiude tutta la rara preziosità del percorso che hai sviluppato, così amabilmente, nella giungla delle vicende umane. Vorrei sottacere, ma non posso non ricordare, la stretta al cuore da me provata nel vederti più volte tornare a casa come un passerotto arruffato, stanco e deluso dopo lunghissime riunioni inconcludenti con politicanti della Regione Lazio o del Comune di Roma che ti palleggiavano da un ufficio all’altro, senza alcun rispetto per la tua anzianità, per capire se eri davvero ingenuo come sembravi o invece eri disposto, in cambio di qualche sovvenzione, a fare della tua rivista un organo utile alla loro volgare e implacabile ricerca del consenso. Tu venivi da un’altra Italia, quella dove la parola data aveva più valore di una firma scritta: sulla base di quale codice avresti potuto intenderti con certi squali, privi di ogni scrupolo elementare? E poi, perdonami l’appunto, non avresti dovuto sentirti umiliato, come peraltro accadeva, poiché l’umiliazione – a ben vedere – l’avevi inferta, non patita: non tu ma loro, i cialtroni in doppio petto, erano stati umiliati dalla tua nobiltà d’animo, dalla tua dignità, dalla tua libertà di piccolo gigante della Cultura, con l’iniziale maiuscola, tutt’altro che presunto galoppino delle cosiddette “politiche culturali”. E ciononostante ti rifiutavi di prendere atto della sporcizia del mondo, di capire cioè che prebende e benefici sono decisi a monte per questioni di opportunità e scambio di convenienze, non elargiti per motivi ideali o per la gloria dell’umanità.             

Bando alle amarezze, voglio farti sorridere un po’. Provo a raccontarti una storiella, perdona se non so farlo bene come avresti fatto tu. Ascolta dunque. Un re voleva sapere cosa fosse peggio, l’invidia o la meschinità. Per saperlo fece chiamare l’uomo più invidioso e quello più meschino di tutto il regno. Il re disse loro: “Chiedetemi ciò che volete, ma ad una condizione; darò all’altro il doppio di ciò che ciascuno di voi chiederà per se stesso”. L’invidioso e il meschino ebbero un giorno per pensarci e decidere. Entrambi passarono la notte insonne, ad arrovellarsi. L’indomani il meschino decise di non chiedere nulla, pur di lasciare l’invidioso a bocca asciutta. L’invidioso chiese che gli venisse tolto un occhio, pur di accecare il meschino. E ascolta ora questa battuta fulminante di Bette Midler: “Ora basta parlare di me, parliamo un po’ di voi. Cosa ne pensate di me?”. Ecco, ti ho appena illustrato il mondo della cultura: egocentrismo patologico, invidia, meschinità. Ma tu eri altro da tutto questo. Come tutti gli eccellenti eri umile, non sbandieravi mai i tuoi 40 libri su Roma, i tuoi innumerevoli premi, i titoli ufficiali acquisiti per merito (eri Cavaliere della Repubblica e Commendatore, ma nessuno lo sapeva), poiché avevi da sempre consapevolezza che dinanzi alla morte siamo tutti uguali e che quando arriviamo dove tu sei ora non ci portiamo dietro nulla di nulla, se non l’anima. E quella, tu, l’avevi grande. Infatti non cercavi ossessivamente il tuo tornaconto, non ti anteponevi agli altri, non adoravi il potere per inseguire il successo. Disse un’altra anima grande, Mahatma Gandhi: “Il giorno in cui il potere dell’amore supererà l’amore per il potere, il mondo potrà scoprire la pace”.

Direi per concludere che tu eri semplicemente questo: un uomo d’amore. Amavi gli altri, cioè desideravi il loro bene, godevi della loro felicità. Tenevi a farli essere liberi di essere se stessi: se non è amore questo, cos’altro lo è? Hai avuto in sorte un’anima speciale, da mago buono, e il tuo compito terreno era con ogni probabilità: sciogliere i nodi, costruire pace, aiutare gli altri. Ed è ciò che probabilmente continui a fare nella Luce, ora, alle radici eterne dell’invisibile. Noi siamo testimoni e memori del tuo insegnamento di vita e di cultura, e quando dico “noi” penso anzitutto alla tua amata, unica nipote: Valentina. Ti ricorderemo in ogni articolo che scriveremo, in ogni pagina che leggeremo, in ogni sguardo che poseremo sulla tua amata città. E avremo “Roma nel cuore” ogni volta che sarai nelle cose che vivremo. Un grande abbraccio, ovunque tu sia.   

Marco Onofrio