“Fummo ragazzi felici”, poesia inedita

pokemon-gf9757daeb_1920

FUMMO RAGAZZI FELICI

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Gorgoglii di cose liquide,
scrosci sopra i tetti, crepitii.
Il mondo piccolo in un tempo chiuso
dal fluire dolce della vita.
Quant’era bello l’orto dei nonni!
Freschezza verde ombrosa
nel celeste molle dei mattini.
Si giocava per ore, indemoniati
a rincorrerci dentro le savane
ma poi, sopraggiunta la stanchezza
il sereno degli occhi s’incupiva
di uno strano veleno
mentre cresceva il senso dell’ignoto
e il mare distillato dai silenzi
come i pensieri scritti negli sguardi
e i suoni in fondo al cuore.
Che si trova, a terra
nel punto dove il fulmine è caduto?
Forse un sale, che ad averne
i cristalli in bocca
poi si può nuotare in aria
per volare? E raggiungere
gli imbuti delle nuvole
per capire cosa dicono davvero
mormorando arcani alle pianure?
Eccole, stupende, le rivedo
arricciate nell’azzurro come lana
di pecore ancestrali…

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Oh, lo scintillio dei platani
dolcemente accarezzati dalla brezza!
Splendore di vette lontane
contro l’ocra-arancio delle sere!
L’estate infinita
e incorruttibile durava
oltre la morte
fuori dalla sua portata.
Era la morte stessa, forse
che aveva tutta in pugno l’esistenza
la gamma ultravioletta del mistero
nel barlume d’oro dentro noi.

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.

Marco Onofrio
(poesia inedita)

 

 

 

 

 

 

Nota critica a una poesia inedita di Emanuela Dalla Libera

swing-gd9407cf80_1920

HA ANCORA I SOLCHI DELL’ALTALENA L’ALBICOCCO

Ha ancora i solchi dell’altalena l’albicocco
tra l’erbe a stento si nasconde l’orcio
frantumato dove si abbeveravano i grilli
nelle estati umide di suoni e di fermento
e nelle notti di luna piena la civetta nascosta
tra le fronde levava schiva voci di mistero.
Chissà se il tiglio racconta storie ancora
ai balestrucci a primavera, se i nidi
accoglie a crescere dei merli i nuovi canti,
se il vento i semi sparge a perpetuare
gli incanti miei perduti nel mondo alla deriva.
Solo il fiume oltre i campi sa dirmi quali voci
si levano ancora tra le rive dei gelsi uvidi
agli inverni, di quali inciampi riempirò
i miei giorni che scioglierò la sera accanto al fuoco.
Ora saetta il tempo visioni affievolite,
hanno smarrito i volti delle fiabe le nuvole nel vuoto,
solo qualche sillaba mi porta ancora il vento
se un’eco dispiega in cielo come un aquilone.

Emanuela Dalla Libera

Commento di Marco Onofrio:

Sunt lacrimae rerum. In questa bella elegia di Emanuela Dalla Libera c’è il sospiro delle cose perdute, compostamente fuso al nitore classico di una “misura” né classicistica né, tanto meno, di mediocre retorica “ad orecchio”, ma consapevole, organica, funzionale alla poetica di “sedimento del tempo” e scavo dell’esistenza che l’autrice elabora nei significati profondi e universali della sua scrittura. Che fine fanno le scene vissute, gli attimi e le cose del passato? Li inghiotte per sempre il vuoto o ne rimangono, almeno, vestigia recuperabili? Che rapporto c’è tra “forma” e “vita”? Dove comincia l’argine della cultura rispetto all’oceano della natura? Quale capacità abbiamo di lasciare una traccia durevole dentro l’infinito storico e biologico in cui, per citare il grande Foscolo dei Sepolcri, il divenire “involve / tutte cose” e “l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo”?

Pare che qualcosa rimanga, se la brava poetessa vicentina può scrivere che l’albicocco conserva «i solchi dell’altalena» con cui giocava da bambina, e che l’orcio «dove si abbeveravano i grilli», seppur «frantumato», «a stento si nasconde» in mezzo all’erba. Tornando ai luoghi dell’infanzia (se mentalmente o fisicamente non è dato sapere e non importa) trova dunque dei “reperti” sopravvissuti alla devastazione onnivora del tempo: certo, i «suoni» e il «fermento» delle estati di allora sono svaniti per sempre, i grilli non sono più quelli, e così la civetta con le sue «voci di mistero», i balestrucci, i merli, i nidi, ecc. La natura non è materialmente identica a quei giorni, ma è essenzialmente immutata poiché, come una polla d’acqua sorgiva, resta uguale a se stessa (al netto dell’opera umana) pur nell’infinita trasformazione. Non solo l’albicocco e l’orcio, ma anche il tiglio e soprattutto il fiume (simbolo primario della metamorfosi che rende l’esistenza costantemente sospesa tra divenire ed essere) sono rimasti fedeli al “loro” posto. Quindi si torna come “reduci” tra cose che ci sopravvivono e che, pur rimescolando di continuo i loro connotati, danno conferma “postuma” alle nostre esperienze. Riconoscibili e insieme irriconoscibili come ci appaiono, dopo tanti anni, queste cose ci conducono allo snodo filosofico fondamentale che i versi della composizione vanno a sollecitare: la divergenza tra “spazio” e “ambiente” in cui e di cui può, volta a volta, connotarsi il mondo ai nostri occhi. Il poeta è un “archeologo della memoria” che cerca nel mondo, a nome di ciascuno, un ambiente riconoscibile e abitabile, cioè uno specchio rassicurante dove confermare tutto il buono e il bello dell’esperienza, anche se deve purtroppo fare i conti con lo spazio infinito del «mondo alla deriva» che ogni cosa cancella e divora nella sua “macchina impastatrice”. Tentiamo disperatamente di inquadrare e contenere il mistero inarrivabile, che ci illudiamo di comprendere ma che in realtà “non cape”: non solo l’infinito dello spazio ma quello, ad esso interrelato, del tempo.

I quattro «ancora» di cui il testo è disseminato sottendono un contraltare innominato che coincide con la tonalità musicale stessa dell’elegia: il “non più”. Eppure la memoria ha la capacità di «perpetuare» le cose che non sono più, anche gli «incanti miei perduti» di cui il tempo saetta «visioni affievolite» e il vento reca «qualche sillaba», sparuta come «un’eco» dei giorni che furono. La memoria immaginativa, ovvero il patrimonio di miti infantili a cui attinge fascinosamente ogni scrittore, è ciò che consente di salvare il tempo perduto dentro l’arca delle parole dacché, come scrive la giapponese Banana Yoshimoto (lo so: cultura diversissima da Emanuela Dalla Libera, ma il sentire umano è universale quanto più profondo), “i ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa”, ed è proprio “il cristallo scintillante dei tempi felici, riaffiorando all’improvviso dal sonno della memoria”, che ci aiuta ad “andare avanti”.

Marco Onofrio  

“La facitrice”, di Ilda Tripodi. Lettura critica

facitrice

La seconda silloge poetica di Ilda Tripodi (La facitrice, Soveria Mannelli, Iride-Rubbettino, 2021, pp. 112, Euro 12) regala alla curiosità dei lettori – già instradati dal convincente esordio de L’anima gioca (2007) – un libro multanime, potente, ricco di sfaccettature, in dialogo con l’Esistenza, tra Natura e Cultura annodate entro e oltre la cornice universale della Storia. Talento confermato, dunque, ma c’è di più: Ilda Tripodi mostra già di essere matura per diventare una delle voci più autorevoli della nuova poesia italiana. Fin dalla prima lettura del libro si impongono alcune parole-chiave, a configurare un quadrante energetico che magnetizza e irradia significati: coscienza, conoscenza, libertà, verità. E al centro – equidistante – c’è la Grazia, che sostanzialmente è la capacità di saper capitare, di aderire al Mistero che si nasconde per scaturire nel miracolo della sua imprevedibile rivelazione. La Poesia, come l’Amore, è il luogo della verità che si rivela; e infatti sia l’Amore che la Poesia non tollerano di subire violenza. I poeti sono innamorati del mondo e, come gli innamorati, “vedono vicino le cose lontane”. Da questa predisposizione di dolce abbandono nasce il dono: sciogliere le resistenze, come quando si nuota, e affidarsi all’onda della vita. Proprio dalla disponibilità a bagnarsi e “sporcarsi” di vita, lasciandosi impigliare dalla rete plurisensoriale del frangente, è possibile avvertire la potenza della creazione che incalza, e così “io dimentico / la parola che volevo dire”. Il Sogno, infatti, è più forte e originario della metrica, cioè delle capacità ordinatrici della ragione umana. Dinanzi all’alterità perturbante del Mistero, il pensiero è solo una carretta del mare che imbarca “acqua acqua acqua”.

La parola poetica è lievito del mondo, poiché lo estende, lo approfondisce, gli consente di ricrearsi e respirare meglio. “I poeti hanno il nome delle cose che cantano”, e infatti diventano ciò che vedono e dicono. Sono facitori: terminali estremi e supremi della Creazione cosmica. Un po’ allievi e un po’ maestri: obbediscono e impongono. Le parole “sintetizzano / lo sforzo di restare immutati”, cioè di resistere al tempo che tutto divora. Ma più si approfondisce il Mistero e più le parole sono tremendamente inefficaci. Nota opportunamente Corrado Calabrò in Postfazione: «anche quando attinge un esito che per il prosatore sarebbe accettabile, il poeta rimane intimamente insoddisfatto perché sente, “sa”, di non essere riuscito a far percepire il flash di bellezza da lui intravisto con la stessa intensità, la stessa forza rivelatrice che l’hanno abbagliato. Non riesce, il poeta, a “rinominare”, vale a dire a rigenerare nell’impressività primigenia, le cose del creato, quelle visibili e quelle invisibili, le pulsioni profonde di quell’altro io sconosciuto che è dentro ognuno di noi e che anela a dare un segno della sua presenza». Scrive a tal proposito Dante Maffìa: “Il lievito delle parole / fa crescere il mondo, io però non trovo / che frasi fatte / e t’inseguo maldestro”. E l’altro Dante, in una terzina del I canto del Paradiso: “Vero è che come forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion de l’arte / perch’a risponder la matera è sorda” (vv. 127-129).

La centratura delle forze che abita il “grembo del tempo” vede la purezza dell’origine accompagnarsi con la zavorra della “solfa”, cioè la trita e grigia ripetizione che fa, del tempo, storia di sempre, ed è per questo che “bisogna ricominciare tutto / daccapo”. Scrive Ilda Tripodi: “Parole. / Parole nelle parole. / Cerco di liberarmi dalle parole. / (…) Restituitemi il silenzio. / Il silenzio era mio nonno. / (…) Lui pregava muto”. Il silenzio contiene tutte le parole e sta alla loro imperfezione come il sole alle “ombre riflesse” delle cose reali. Dalla totalità del silenzio irradiano gli archetipi di cui ciò che vediamo con gli occhi di carne è soltanto pallida copia. Certo, il mito della caverna, e un platonismo (fin dalle prime due composizioni del libro) che la dice lunga sulla vocazione metafisica dell’autrice, talora anche come dichiarazione di ricerca teologica: “Tutto in tutti. / L’eccedenza d’amore è la mia fede. / Ti cerco Dio / ma soprattutto ti penso”. La Poesia favorisce il “transito agli assoluti” che punta gli “elementi persistenti” del Mistero a cui dare la caccia, per stanarlo dai segreti dedali dove si nasconde. Ma forse si scioglierà spontaneamente quando le due Morgane dello Stretto “s’addormenteranno / faccia a faccia / con le mani condivise e giunte”. Allora emergeranno le infinite stratificazioni del mare, i suoi tesori sommersi, i suoi “immensi depositi di sale”.

Ilda Tripodi ha, appunto, questa sua tipica poetica degli strati: “ad ogni strato / corrisponde un passaggio” attraverso cui il divenire compone e scompone figure. Guardando il mondo dall’osservatorio privilegiato di Reggio Calabria, in uno scenario di spettacolare bellezza dove lo stupore delle Origini abita ancora “presso giganti e montagne”, può recuperare una dimensione mitica e aurorale che, sintetizzando echi biblici ma anche greco antichi, le fa scrivere a un certo punto: “In principio era il verbo, / il verbo era presso la bocca dell’infinito / e il verbo era la bocca dell’infinito”, cioè la parola-abisso, la parola-vuoto che dice l’immensità dell’Àpeiron di Anassimandro. Anche se, forse, il Sud “è un trapianto di memoria / non riuscito” che rende ormai inattingibile l’armonia perduta, è innegabile il bagaglio di cultura classica che anima organicamente questa Poesia, non solo sul piano dei contenuti ma anche per lo stile formulare fatto di riprese, ripetizioni, cadenze epiche e gnomiche dove si percepiscono le sterminate letture assimilate in carne, sangue, respiro – attraverso le stratificazioni che soggiacciono alla pagina. Antigone. Medusa. Odisseo. Ci si chiede ad esempio: Itaca o il mare aperto? Entrambi, sussurra la probabile risposta, perché riemergono puntuali dalla conquista del termine reciproco: quando si è in mare aperto, si ha nostalgia di Itaca; quando si torna a Itaca, si ha di nuovo nostalgia del mare. La parola mediterranea (che appunto “sta in mezzo alla terra”) dopo la traversata di Odisseo è destinata all’erranza perenne: “tocca porto / ma prende di continuo il largo” anche se la poesia resta, con Paul Celan, una sorta di ritorno a casa, un modo di riprendere se stessi.  

La scrittura de La facitrice entra in risonanza con il naturalismo aitiologico e ilozoico dei filosofi presocratici, e quello panteistico dei rinascimentali – tra cui i calabresi Pitagora, Telesio, Campanella. Lo sguardo di Ilda Tripodi penetra così profondamente nell’essenza dei fenomeni da estrarne la “storia latente” e leggi universali come: “Caos furtivo / Cosmos dissimula” dove il soggetto del verbo può essere sia il Caos e sia il Cosmos, con lettura ambivalente. È il Caos che nasconde il Cosmo (cioè l’ordine armonico) o viceversa? Di entrambi abbiamo contezza, poiché sottoposti al destino della dissolvenza che regola le cose terrene: inutile illudersi o negare le “scomparse” continue, la verità è che tutto si scioglie nella consunzione e “il domani / viene sempre troppo presto”. Anche i cieli sono “irreplicabili”, ma a pensarci bene ogni singolo istante è unico e irripetibile, non tornerà mai più. “Tutto ciò che so / me lo ha insegnato il vento” ammette la poetessa. Per questo l’uomo è “stanco di morire” e dire addio. La poesia è una voce che vuole e anzi deve rispondere al grido che sale dal silenzio della Natura e della Storia, esplorando l’oblio dei loro drammi sepolti.

C’è un punto di snodo tra la vocazione metafisica e quella etica-civile discretamente sottesa anche alle poesie di chiara impronta filosofica, ed è la citazione dal primo stasimo dell’Antigone di Sofocle: il celebre “Pollà ta deinà”. Molte le cose straordinarie (ma anche: terribili, potenti, inquietanti), eppure niente più dell’uomo. La realtà è straordinaria (terribile, potente, inquietante) sia nell’ottica della perennità – il Mistero, il Mito, la divinità – sia in quella della storia, ed entrambe le dimensioni sono espresse dall’indecifrabile silenzio: “La parola ha sbandito i segni / e il desiderio di interpretare il silenzio. / Questo è il dramma della storia” . Molte delle poesie di Ilda Tripodi nascono da uno sconcerto per il mondo contemporaneo, un disincanto che la porta ad avere sfiducia nel futuro (“non credo più / nei nuovi raccolti”), fino a scrivere: “Ho perso la fede / nelle cose più ovvie”. Da sempre, sì, “gli uomini sono forbici / che cercano la carta. // Gli uomini sono forbici / che trovano il sasso”, ma oggi più che mai “ci hanno sottratto la ragione / ci hanno privato delle ragioni”. Non abbiamo più l’asse fondante dei valori, per cui “la verità / è una fatica” mai così ardua – come stiamo drammaticamente sperimentando con la pandemia. La speranza vorrebbe trovare un punto fermo, una “pietra serena” per “provare a ricominciare / insieme a tutti voi”, scrive Ilda Tripodi, ma “dove posso incontrarvi / se non esistono più luoghi / se vi ritrovate in spazi / che non esistono”, come i nonluoghi teorizzati da Marc Augé?

Dunque la poesia è anche “una linea che lascia apparire / tutto il nero sottostante”, cioè gli errori e gli orrori che incistano nei sepolcri imbiancati di ipocrisia, laddove – malgrado millenni di lotte civili – l’uomo continua a estinguere “l’uomo / con la forza dell’uomo”. È, ancora e sempre, il “mondo offeso” di cui scriveva Elio Vittorini, il mondo dove impera il sistema perverso che oltraggia la dignità e la libertà delle persone, e dove se “l’offeso” è “diverso / sta ancora fuori dalle cose”: non viene neanche percepito come tale.

La magia della parola poetica di Ilda Tripodi è la potenza sorgiva che le consente di accendere e spegnere “frammenti di senso” sia nel dialogo con l’anima, fluente a mo’ di risacca che “ad ogni suo ritorno / chiede chi sei”; sia nel dialogo con gli abissi della storia e della civiltà. E di affrontarli come le facce complementari di un unico discorso, quello stesso che ci dà luce e ci rende umani. Anche nell’esigenza umanistica, oggi sempre più urgente, di tornare ad esserlo.

Marco Onofrio

“Azzurro esiguo” letto da Francesca Farina (sul blog “Poetarum Silva”, 25 maggio 2021)

Azzurro esiguo cop-2

Marco Onofrio, Azzurro esiguo (lettura critica di Francesca Farina)

Fin dal titolo, come ha giustamente notato Dante Maffia nella prefazione alle poesie di Marco Onofrio, questa silloge si contraddistingue per l’assoluta originalità del dettato, tanto da suscitare, con l’evidente ossimoro che recita Azzurro esiguo, sconcerto e meraviglia nello stesso momento, sconcerto a causa dell’apparente inconciliabilità dei termini, in quanto ben difficilmente si può dare un “azzurro”, se inteso come cielo, che sia “esiguo”, ovvero modesto, scarso (ma il perché sarà spiegato, come in un plot a soluzione, nella poesia in chiusura del volume), essendo caratteristica precipua della volta celeste quella di essere immensa, ossia incommensurabile per definizione; e meraviglia per l’audace accostamento dei due termini. Si impone al lettore, e dunque al critico, l’urgenza di un immediato ripensamento del dato scientifico, oltreché visivo, universalmente assodato, e si sottopone a verifica una verità provata e inconfutata.
  Eppure il poeta dall’occhio acuminato, dalla vista dei sensi, oltreché dei sentimenti, più aguzza di qualsiasi altra creatura, riesce a distinguere cose che raramente si notano, e così avviene anche nelle sue poesie, le quali si snodano lungo le fitte pagine del libro, dove, quasi percorrendo una scala tonale, ovvero una vertiginosa ascesa verso l’abisso dell’universo e del cuore, l’autore insegue, tappa dopo tappa, e vorremmo dire gradino dopo gradino, le sue verità, il senso profondo dell’esistenza umana. Già dall’incipit Onofrio si interroga sull’essenza del suono, che è vita, ricostruendo le primordiali sensazioni che il corpo percepisce, ancora prima della nascita, emozioni espresse in sintagmi che registrano lo stupore di fronte all’assoluto mistero della creazione, e si procede quindi con l’incessante ricerca del montaliano “varco”, il quale pone la finitezza materiale dell’uomo a contatto e a contrasto con l’infinitezza immateriale dell’eterno.
  Siamo appena alla seconda lirica, ma ci appare netto il carattere filosofico dell’indagine poetica perché emergono decisamente le domande basilari, a partire dalla perenne analisi della “verità più vera” che provoca tristezza e disperazione, rendendoci persuasi dell’assoluto che permea ogni esistenza, ossia la morte, la quale non può che generare la voragine che è in noi. Il mistero dell’insondabile tutto opprime irrimediabilmente l’anima, costringendo l’essere umano ad interrogarsi sul significato delle “scritture incomprensibili”, che nel fondo del cosmo scorrono come su uno sterminato schermo, diremmo, senza lasciarsi decifrare, mentre la Storia trasforma assiduamente i luoghi, gli eventi, le creature, e mentre il tempo si fa eternità incalcolabile e incancellabile. Quale essere inafferrabile e incomprensibile decide ogni più minuzioso aspetto del reale? L’incessante quesito non ottiene risposta, forse da un milione di anni, benché da un milione di anni, probabilmente, l’uomo non cessi di rivolgerlo a se stesso e ai suoi sodali, nel vano tentativo di trovare una ragione nel caos inconoscibile del mondo, dove perfino “l’eco di una goccia” riesce a scardinare, impercettibilmente ma inesorabilmente, l’ordine della Natura, l’apparente rigidità del suolo sottoposto al gelo invernale, generando il rigoglio primaverile e una gioia esuberante nelle vene del poeta, quando “l’aria squillante di sole / mi piove dentro l’anima / e mi cura”, secondo un suo passo altamente ispirato, e l’amore invade le sue fibre più intime.
  Egli non smette dunque di interrogarsi, volgendosi “grato” all’incommensurabile bellezza del pianeta, non pago di studiarne gli aspetti più affascinanti, il cielo, il sole, il mare, il tempo, il silenzio, fino ad approdare a un testo fatto quasi da aforismi, distici in realtà, quei “9 passi” che scandiscono, come un ritmo sonoro e immediato (ma sappiamo quanto occorra meditare per pervenire a certe illuminazioni sensoriali e intellettive) la pagina, arricchendola di significati e costringendoci a fermarci e a riflettere insieme all’autore.
  La lirica intitolata “Respira” sembra rispondere all’esigenza assoluta che, in tempi di pandemia, sebbene scritta assai prima che esplodesse la peste mondiale che ci devasta, ha travolto l’intera specie umana, quella di poter sopravvivere oltre la malattia, la nuova tabe che sta deturpando tutte le nazioni della Terra, mentre l’ossigeno pare essere la sostanza più rara e più essenziale, e allora il poeta celebra “l’amore sconfinato della vita” in versi che sono sintagmi misteriosissimi, colmi di una conoscenza ancestrale, esaltando la poesia come grande consolatrice e la bellezza come “balsamo sublime”, sottraendoci al vuoto che ci minaccia da ogni parte, decretando la grandezza del pensiero che si oppone al nulla, rifugiandosi al tempo stesso nella felicità delle piccole cose, grande verità sapienziale che sovente non sappiamo cogliere, glorificando infine l’incommensurabile vastità dell’amore tra uomo e donna.
   La narrazione, estremamente precisa e nello stesso momento intuitiva, del rapporto tra due esseri che si uniscono inscindibilmente nel corpo e nell’anima, ci fa precipitare nell’estasi del piacere più ineffabile che sia dato alle creature e ci rende consapevoli, benché quasi obnubilati, di fronte a tanto incanto. I magnifici e fondamentali temi che assediano da sempre l’umanità tornano a tormentare la mente e il cuore di Onofrio, come in “Trascendenza” o in “Rivelazioni” dove lo smarrimento si fa quasi tangibile, come anche nella commemorazione, tutt’altro che retorica, della madre, indescrivibile ma eterno quid, cuore di ogni cuore, organo pulsante che si compenetra con gli elementi della Natura in un unicum preziosissimo e inscindibile. Al tempo stesso notiamo la singolarità di brani di prosa poetica, come quello intitolato “Stella verdognola”, dove ancora e ancora, incessantemente, il poeta canta l’inafferrabilità pressoché divina dell’essenza dell’uomo, della vita, del creato, anelando in modo struggente a penetrarne il senso, quindi desublimandosi nelle “Ombre” che occultano la conoscenza, poiché l’oscurità cieca dell’intelletto appare quale “verità insensata”.
  La consolazione del mare, del tramonto, delle nuvole, in uno scenario marino davvero pittorico come un dipinto di Hopper, l’artista che seppe ritrarre il silenzio del mondo, ci riconduce alla straziante bellezza di un paesaggio mediterraneo, con la perfetta descrizione di un istante di pura meraviglia, di estatica attesa. L’autore confessa inesorabilmente un amore lacerante nei confronti dell’elemento marino, quasi fosse una divinità fatta d’acqua, da adorare e a cui rendere perenne gratitudine, benedicendola, nella lirica ad esso intitolata, così come scioglie un peana assiduo e appassionato in lode al piacere, che rende vivida e lucente ogni cosa; o come osserva i gabbiani, tema spesso abusato e banalizzato in poesia, dei quali pare conoscere ogni movimento, ogni sguardo, perfino ogni pensiero (e non si dubita qui che il poeta ritenga i gabbiani capaci di pensiero); ovvero l’invisibile grillo, piccolo, oscuro, nascosto insetto, la cui morte dilania l’animo sensibilissimo del poeta…
   Ma innumerevoli appaiono gli argomenti che Onofrio sa portare avanti sulla sua pagina instancabile, le stagioni che declinano e immalinconiscono, il sesso che è “attimo divino”, la gioia del crepuscolo animato da incredibili coloriture, anche nella delusione di un tradimento, l’insondabilità delle parole, “lacerazioni oniriche”, “strappi dal tessuto primordiale”, una città “metafisica” come Matera, la passione travolgente per il gioco del calcio, mentre finanche le mani “agili come bestie” rappresentano un ennesimo quid su cui indagare, e così il viso dell’autore su cui si legge tutto, l’eternità sempre inconoscibile e sempre perturbante, lo stesso Napoleone dagli “occhi invisibili”, le nuvole che paiono “giardini immobili in attesa”, la vita stessa, dura come una donna assiduamente corteggiata, ogni elemento dell’esistenza insomma appena allietato dal miracolo dell’alba estiva, in cui si fa largo “l’azzurro esiguo /  dentro l’universo tutto nero”, simbolo inequivocabile di suprema speranza, dolcissimo presagio di felicità futura, a conclusione di questo profluvio incandescente di versi, dentro i quali si insinua una frastornante malinconia, muovendosi ineludibile lungo ogni pagina, sebbene nello scintillio dei sintagmi più felici.
 Davvero notevole, dunque, questa silloge di Onofrio, che certamente deriva da vasta sapienza, meditata consapevolezza delle proprie capacità, acuminata raffinatezza e maturità delle proprie doti di autore.

Francesca Farina




“Azzurro esiguo” letto da Maria Teresa Armentano

Azzurro esiguo cop-2

Lo stesso titolo del nuovo testo poetico di Marco Onofrio (Azzurro esiguo, Passigli, 2021, pp. 112, Euro 14, Prefazione di Dante Maffìa) pone al centro le contraddizioni che animano il cuore del poeta. L’azzurro non può essere esiguo; nel definirlo con questo aggettivo l’azzurro a cui pensiamo, quello del cielo e del mare, rievoca immagini di lontananza. E appare irraggiungibile, nebuloso e vago, e riporta alla dimensione interiore di una vastità che ha le sue radici nell’anima e che trabocca nei versi.

…La verità più vera / è il cuore buio / che incista in fondo all’incubo sublime /nel dolore del suo volto /ancipite: /da un lato la vita / che ci fa nascere; / dall’altro la morte che ci fredda /nel mistero. (“La verità più vera”)

…Miliardi di universi sfuggono / allo sguardo /e come polverume di foschie / si lasciano intuire / dentro il buio gelido / dell’inghiottitoio. (“Scritture incomprensibili”)

…L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia / dove entrano-escono le cose… (“Ingranaggio nascosto”).

Già in questi versi tratti dalle prime poesie del testo, Onofrio s’immerge nella dimensione dell’universalità in cui il buio e la morte non sono intesi come elementi di un pensiero negativo, bensì come l’altra faccia del nostro vivere, nella grandezza e sublimità di un mistero che la poesia tenta di decifrare, offrendo la possibilità di scorgere oltre l’umano. E nella poesia intitolata “Chi è” il poeta propone al lettore una sequela di domande che sa già essere senza risposta e che, proprio in questa mancanza, assumono senso. Nel libro intercala ai versi pagine di prosa poetica, quasi non trovasse che in prosa lo spiraglio necessario per esprimere l’arcano che avvicina al Mistero. Nella “Favola”, ad esempio, i tre tempi dell’umano sono scanditi come in una partitura: la rinuncia prima, poi il volo senza più barriere per raggiungere spazi infiniti e infine il mutare e il trasformarsi nel cuore di ogni cosa.  Scrive il poeta: «tutto è Amore, di sempre e di mai»: ecco, il segreto alfine assume un senso che è significato del mondo in sintonia con il proprio essere. In questo sogno il poeta ritrova sé stesso, percepisce l’universo che ora appare raggiungibile, perlomeno nella visione poetica. Percorrendo il cammino iniziato da Onofrio, il lettore avverte una leggerezza che si colora di speranza dove la primavera, rinascita del cuore, annuncia l’inizio di un nuovo disgelo, anche quello dei sentimenti: l’amore per la vita e la natura e l’invisibile pensiero sono un grido dolce, non più la voce stridula di chi emerge dal pozzo senza fondo ma di chi risalito guarda dall’orlo del burrone, ormai conscio delle infinite possibilità che la poesia apre al sé stesso sconosciuto e  celato nel profondo del cuore che ne svela i segreti.

Si avverte una grande umanità in questi versi e nei seguenti in cui il ricordo della figura paterna assume contorni tra il reale e l’immagine evanescente, sfumata, che riporta al buio profondo della perdita e della distanza non avvertite nell’evocazione poetica. I dubbi sul viaggio, dal luogo da cui nessuno ritorna, si moltiplicano insistenti e si concretano nell’unica Domanda finale: «Finisce poi davvero tutto quanto?»  E questa volta la risposta del poeta è senza esitazioni. Il luogo-non luogo, che fa di noi una goccia nel mare immenso dell’Universo, è dove fiorisce la radice dell’amore, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”, l’indecifrabile svelato che viene da lontano. E il miracolo è compiuto dal poeta mentre crea versi che suonano e risuonano come note di uno spartito ampliato dal riecheggiare di nuove sensazioni, visive e uditive insieme: dai sensi che percepiscono la bellezza del mare e del cielo alla luce delle stelle lontanissime che rivelano l’Assoluto. La verità –scrive il poeta – è nel cuore, piccolo e immenso perché è uno dei due estremi (l’altro è la luce delle stelle di cui percepiamo appena lo splendore) del filo invisibile che ci unisce all’Eterno. Sbalordisce questa capacità di Onofrio di infondere nelle parole, attraverso le metafore e le sonorità, la complessità di una natura di sogno, mitica, che allude al mistero di cui le cose e noi stessi siamo pervasi.

Guidami, Spirito, tienimi per mano / quando la notte illumina il cammino / mentre oscura, il sole / la verità segreta / delle cose / come se il mondo fosse / quello che vediamo / con gli occhi di carne, / e non soltanto l’ombra / la parvenza / del sogno che vorremmo / ricordare. (“Adorcismo”)

Il sogno che permea questi versi, nucleo di un segreto celato in ogni cosa, rende affascinante la scoperta rivissuta nell’immagine poetica della natura, come se ogni elemento trovasse posto in un’armonia irradiata da una infinita sorgente di luce. La perfetta felicità appartiene all’Eterno, la sete immensa di felicità del poeta non sarà mai placata. Non c’è in queste ultime poesie del testo, impropriamente conclusive se non graficamente, un prima e un dopo ma un filo sottile che è da ricercare esplorando la profondità dei versi,  ed è la meraviglia e lo stupore di fronte al Mistero della natura che il poeta riscopre nel sogno quando si scioglie nella ricchezza di un bacio, nella sofferenza del disagio e del dolore per ciò che muta senza ragione, nella discontinuità del sentimento che vivifica e nello stesso tempo sussurra che la vita è passata. Non resta che abbandonarsi alla natura che saprà darci l’ultimo abbraccio, quello che ci riporta al luogo a cui apparteniamo e che la Poesia rende eterno.

Nella complessità di questo libro, da lettrice, ho ritrovato nella sua interezza la bellezza di versi che non si dissolvono e non si perdono nel vuoto che si crea dentro e intorno a noi. E nonostante incomba il Gigantesco del vuoto, richiamato nel testo “Gigante di vuoto”, il poeta rasserena sé stesso, quando offre il proprio cuore alle Parole («Le Parole sono tracce di sogni perduti», da “Parole dalle cose”), e così ritrova l’azzurro esiguo dentro il suo universo, non più tutto nero, ma rischiarato dalla luce della Poesia.

Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. (“Azzurro esiguo”).

Maria Teresa Armentano

“Nei giorni per versi”, di Anna Maria Curci. Lettura critica

curci

“Nei giorni per versi” (Arcipelago Itaca Edizioni, 2019, pp. 108, Euro 13.50), di Anna Maria Curci, è un libro delizioso e sorprendente, fin dal titolo ancipite; un libro soprattutto necessario, che incuriosisce per vie sottili con la misura del suo respiro e poi coinvolge, entro e oltre i limiti che si dà per realizzarsi, con la potenza sommersa delle energie che smuove. Molte delle centosettantatre quartine di endecasillabi che vi sono raccolte sono “ordigni atomici” dall’apparenza innocua, malgrado cioè siano calati nell’habitus convenzionale del “diario di viaggio”, inteso il viaggio come percorso «di ricerca ed esistenza, di stupore e disappunto» (parole introduttive della stessa autrice) articolato nei giorni “per versi” – attraverso cioè lo strumento conoscitivo della poesia – ma anche nella poesia stessa, esplorata e utilizzata in un momento storico particolare, traviato appunto da giorni “perversi” come quelli che stiamo ultimamente vivendo. Anna Maria Curci dice cose potentissime e terribili con il sorriso sulle labbra, un sorriso che a ben vedere è “fratturato” dalla consapevolezza e dalla pena. Gli occhi sono «dilaniati» dall’orrore e obbligati alla visione delle cose vere, nel loro volto più autentico. Il paradiso è perduto, il disincanto ne ha chiuso le porte per tramutarsi in presupposizione stessa del pensiero:

Mai più conoscerai l’amore immenso,
la gratuità sublime dell’idiota.

L’inerzia apparente delle congiunture non impedisce all’udito sopracuto della poetessa di avvertire, dentro il grigio rumore dei fatti insignificanti, lo strazio che dirompe l’emergenza (nel doppio senso di avviso e di emersione):

Lo so che questo è il tempo dell’attesa,
ma sento sempre urlare la sirena.
Non è nel gorgo d’acque favolose,
è l’allarme perpetuo e ignorato.


Ed è ignorato perché anzitutto a molti fa comodo che lo sia, ma anche perché la maggior parte delle intelligenze è obnubilata, e assuefatta a una sorta di narcosi collettiva che impedisce loro di percepirlo. Il mondo è «sinistrato» da una infinità di squilibri reciprocamente collegati che lo sta rendendo sempre più ostile e problematico. Il centro dove potrebbe insistere un equilibrio è oggi più che mai «traballante»: ogni giorno accade impunemente la «sincronizzazione del nefando», cioè la complicità delle infamie che regge il sacco ai ladri della nostra umanità. Stiamo infatti tentando di sopravvivere a un’epoca post-umana che – malgrado gli appelli a un presunto “nuovo umanesimo”, lanciati a vuoto da più parti – ha ormai liquidato i valori fondanti della cultura e della civiltà. Il tempo è triturato e scansionato dalla nevrosi centrifuga delle metropoli tecnocratiche globalizzate. Che fine ha fatto il tempo giusto e “centrato” in cui respirava, con i suoi ritmi ancora organici, l’uomo del ’900?

Quel tempo regalato in sospensione
furono i viaggi in treno a rivelarlo.
Rapidi, littorine e scartamento
ridotto per riflettere e sostare.

Tanto da arrivare a chiedersi l’origine prima del danno, la stortura originaria che ci ha portato – tradimento dopo tradimento – a questa condizione di asfissia, per soffocamento progressivo:

Quand’è che principiammo a destinare
la fragranza del pane a chi latrava,
quand’è che dismettemmo madre e padre
che chiamammo sorgente il cherosene?

L’onestà brechtiana con cui la poetessa, germanista e raffinata traduttrice, affila l’«arma bianca» della sua penna per sviscerare, «sull’orlo tra missione e sabotaggio», il cuore più profondo delle questioni e, seminando inquietudine, sobillare al risveglio e alla rivolta, evoca per converso il destino degli ideali in un contesto di «voci inquadrate e ammansite» dove non è più «il tempo del bastian contrario». Dov’è ora il «cartoccio» di speranza colmo di «baldanze» e «pie intenzioni» alla luce delle quali il futuro sembrava una «bottega di sogni a cielo aperto»? Dove sono gli entusiasmi e gli entusiasti? Chi crede davvero che il mondo possa ancora cambiare? Siamo «come quegli impettiti soldatini / spezzati dentro e fuori sorridenti»: tutti postulanti «pratiche inevase» e ottenebrati in un appannamento da cui, se ne usciremo, «sarà per sdilinquirci» in «remote elegie rassicuranti». Sdegno e ribellione, quando poi residualmente emersi o formulati, vengono poi subito normalizzati dal «sofisma / finto-bonario minimizzatore / a silenziare», tipico del conformismo dominante, e a quel punto il gioco è fatto. Proprio per questo Anna Maria Curci vuole che «sia ciascuno persona di pace, / non in pace», e che gli occhi tornino a splendere di una luce non ingenua ma consapevole, e quindi capace di incanto benché generata dal disincanto: «luce che sa del buio e dell’orrore, / mantello di serena irrequietezza». D’altra parte veniamo al mondo «lacerando» il buio caldo del sacco amniotico per aprirci al trauma della luce, dell’aria e del tempo; così, all’improvviso, uno squarcio nel “muro della terra”, di dantesca e caproniana memoria, potrebbe aprirci gli occhi e, rivelandoci la verità, farci nascere di nuovo, o nascere davvero. Tutto è confuso, caotico, ambiguo. Le segnaletiche di ieri non valgono più, devono essere continuamente aggiornate per inseguire una realtà che evolve in modo sempre più rapido e inafferrabile.

L’erba è cresciuta sopra gli ideali
(va’ a separare, adesso, la sterpaglia).
Non sai se è soffocata o rigogliosa,
se è sovversivo o prono il fiore giallo.

L’unica opzione percorribile è «resistere ogni giorno»; l’unica speranza è che i signori del male organizzato sottovalutino, com’è nelle corde della loro oltracotanza, la «forza del mite» quand’anche non tradotta in ira, cioè il lavorio paziente e quotidiano per scalfire i muri della prigione. È necessario sentirsi, come si è, dalla parte del giusto, e dunque illudersi di avere, ancora e sempre, «verità e bellezza» e soprattutto speranza da opporre allo squallore dei carnefici, con cui stringere il nodo delle loro pregiatissime cravatte fino a soffocarli. Per questo resta importantissimo l’esempio dei poeti capaci di esercitare ad ogni costo il dissenso e di conservare la mossa spiazzante del cavallo, «il salto a lato, la disobbedienza». Non, perciò, dei sempre più frequenti poeti narcisisti a caccia di applausi, che assumono pose e da cui la poesia, abusata e consumata, può salvarsi continuando a praticare la sua “cura”; come ad esempio certe poetesse…

Le lupe travestite da vestali
schiamazzano l’amore per la musa.
Opponi studio e pazienza, tu lisa
palandrana da troppi rivoltata.

I problemi grandi, anzi immensi, sono due: da un lato la storia, ovvero la socialità; dall’altro la natura, ovvero l’esistenza. Sono entrambi irrisolvibili, per definizione e per, come non bastasse, sopraggiunte complicanze estemporanee. La storia partorisce sequenze innumerevoli di menzogne, poiché è la manifestazione quantitativa e qualitativa della socialità che ingabbia e determina il percorso umano sulla Terra. Socialità è sinonimo di intrigo e di inganno. Un coacervo putrido di «circo-stanze» in cui si aggirano tragicomici pagliacci per soffiare nelle orecchie maldicenze tra «creduli» a loro volta maligni, vogliosi e ansiosi  di credere, e quindi «baruffe bassotte flatulente», «codici tribali affantoccianti», e ancora ipocrisie, cannibalismo affettivo, vampirismo psicologico, «maniere e manierismi» per malcelate intenzioni, «solipsismi in posa da autoscatto» (i cosiddetti “selfies”), e ovunque il rumore di fondo di quel «chiacchiericcio» insulso ma dannosissimo che purtroppo conosciamo molto bene. La natura d’altro canto è spietata perché soggetta a inderogabili leggi evolutive e all’imperio tirannico del tempo, con la sua «carta vetrata che sfalda ogni giorno» per cui l’esistenza è fatta da «rovine di frammenti» e «vestigia ammonticchiate» dove, talvolta, può splendere qualche epifania (gli «scarti», difatti, approntano «festoni a intermittenza») mentre la «dignità volteggia con cartacce». Quella di Anna Maria Curci è, per auto-definizione consapevole di poetica, «l’arte dei brandelli», cioè la vocazione etica a lavorare con le «frattaglie», raccogliere le «spoglie abbandonate», aggirarsi tra «piaghe» e «macerie» per abbracciare l’«intangibile» e puntellare le crepe dal crollo imminente che le allarga. La condizione umana è di per sé risibile, vana e ingannatrice:

Nell’interludio tra le glaciazioni
s’inorgoglisce l’uomo, si fa centro.
Pesce rosso nella boccia di vetro
e invece e a malapena se ne avvede.

E ancora:

Canticchiare con le gambe conserte,
mettere i saldi per non stare soli
indaffararsi con stridio di specchi.
La pietra sa che ci prendiamo in giro.

Non siamo affatto il centro dell’universo, né la misura delle cose che ci sfuggono e delle quali restiamo in balia, a guisa di naufraghi; sensazione mirabilmente espressa dalla straordinaria metafora epistemica incarnata nella quartina CXII:

Non un’isola, nemmeno una boa,
solo un turacciolo usato e disperso,
gettato a caso ad assorbire sabbia
che si rotola goffo in cerca d’acqua.

Il mistero che soggiace all’intrico dei segni e all’ambiguo confliggere dei casi resta più che mai inconoscibile e «a noi precluso», anzi: si affaccia soltanto «per essere incompreso», come sa bene Orfeo, «il reduce dall’eterna penombra»:

Quando accediamo, gli occhi dilaniati,
alla stanza che ripara il mistero,
è già tutto perduto. (…)

Ciò, tuttavia, non esime l’uomo, e anzitutto il poeta, dal dovere di ricerca e conoscenza, dato che camminano «allacciate, una pensosa, / l’altra poppante intrepida o vecchina / sdentata, la ricerca e l’esistenza». È una «lama di dentro» che spinge a risalire «il corso dei nomi» per decifrare e sciogliere gli enigmi, ed è anche un modo di cercare «rifugio dall’orrore» che si annida nel vuoto dell’universo, dove appunto la verità ama nascondersi come la bellezza quando «gioca a nascondino». La verità non si raggiunge e non si costruisce a forza di «proclami» o di «trionfi» (e infatti questi sono “mottetti” privi di sentenze) ma umilmente, con pazienza di attitudine e abnegazione, soprattutto come dono spontaneo della natura stessa, allorché «le frontiere diventano ponti» e allora «si allarga breccia», «lo squarcio all’improvviso rivelato» per cui il «deserto ostile e familiare» che brucia nella “terra desolata” svela, tra «l’opaco e il brillante», tutte le «gradazioni minute» della ricchezza che normalmente cela. Ogni tentativo di conoscere il mistero, o di resistere alla forza del mondo, è destinato a scacco, a fallimento, a inanità. La forma che estraiamo dalla vita è «fragilissima», pur quando «tenace», e il baluardo provvisoriamente elevato crolla sotto i colpi di un’erosione continua e costante, come un castello di sabbia in riva al mare. «Appronti con fervore il fortilizio, / scavi fossati, piombi fenditure» per poi scoprirti «tenente Drogo dei refusi» che presidia una «fortezza smantellata». Il cammino della conoscenza è punteggiato di false cime («si profila e si sgretola la meta»), fino a quando capisci che

Non puoi vuotare il mare col secchiello,
neanche il tentativo può salvarti, (…)

Il problema della forma rispetto alla vita, cioè della sua resistenza agli eventi critici che la consumano e infine la aprono e la dissolvono, è uno degli snodi tematici più importanti del libro. Tanto da improntare la struttura chiusa e al tempo stesso aperta di queste quartine, come cuciture che schiudono «spazi estesi e contorni inaspettati» componendo una specie di “romanza” non solo, come si è visto, del desolante scenario contemporaneo, ma anche della terra senza luogo e senza tempo dove suona l’«antico adagio dello smarrimento». Strumento affascinante la quartina, da Omar Khayam a Eugenio Montale (“Mottetti”) ad Anna Maria Curci, poiché chiude l’universo in una forma che, data la brevità dello slancio, costringe la poesia ad essere precisa e determinata, e insieme a cercare lo scarto del nuovo e il respiro aperto dell’infinito.

Decostruzione e ricomposizione, come per la tela di Penelope: è il metodo creativo messo in atto dall’autrice in questo libro, come si capisce anche dalla caratteristiche della sua voce poetica e, nella fattispecie, della sua scrittura. È una voce «claudicante» che accoglie lo sgambetto delle «vocine» divergenti, quelle che contrastano il bordone. Sa che la parola non è mai innocua, è una compagna fedele e rabbiosa che può fungere da paracadute e, soprattutto, da piccone demolitore. Smontare, spezzettare e poi ricomporre il mondo – è questa l’impronta caratteristica – articolando la dinamica ondivaga di una scrittura “contro”, che procede appunto in controtempo e cerca il controcanto «terza o quinta sotto» per fare il contropelo, cioè scuotere, svegliare e fustigare. Ha bisogno per questo della dissonanza, che già appartiene alla natura stessa delle cose (dal punto di vista dell’uomo contemporaneo); tanto che può dire, pur utilizzando la “musica” degli endecasillabi, variati nelle diverse accentuazioni toniche e ritmiche: «Io non ti ho mai incontrata, melodia».

È una poesia ispida e ruvida, talvolta anche petrosa, benché provvista delle sue dolcezze e di una certa particolare grazia naturale. Cammina in modo sghembo tra buche, sobbalzi, pensieri, visioni che emergono “a schiaffo” dalle associazioni eidetiche e cognitive, ma soprattutto non è mai in cerca di facili consolazioni: quand’anche giungesse ad una trasfigurazione, sarebbe «maculata» di ombre e di esperienza. L’unica vera distensione affettiva si ha quando le epifanie della memoria involontaria liberano, come lampi, i ricordi dell’infanzia, e quindi il gioco della campana e del nascondino, le serpi nella marana, il tranvetto della Stefer, i versi a memoria («infeconda tortura» scolastica), il rapimento di Aldo Moro appreso ai banchi del liceo, ecc. Anna Maria Curci usa il setaccio analitico ma conosce anche «l’ingordigia del lupo» e l’arte beata del consumo, della dissipazione, tanto da potersi definire «metà e metà, formica e poi cicala, / un ibrido che ascolta, stipa e canta». Tuttavia, per concludere, il migliore autoritratto poetico è offerto dalla quartina CXXII, in cui sembra riassumersi tutto l’arco evolutivo del libro e il suo profondo significato storico e umano:

In volo su mottetti e ditirambi,
simbolo, segno, grido, invocazione,
scava un pertugio, accedi alla speranza,
tra cielo e terra parla al sottosuolo.

 Marco Onofrio 

“Raggiungere il cielo e raccontarlo”, di Virginia Rescigno. Lettura critica

rescigno

Protetta e, in parte, come “ingabbiata” da un impianto formale di stampo classicistico (ad esempio nel retaggio volutamente démodé delle frequenti apocopi: «tramontar», «scorrer», «rassenerar», «temporal», «tintinnar», ecc.), benché distesa in versi liberi e affidata a una scansione metro-ritmica efficace poiché idonea al tracciato emotivo dei contenuti, la poesia di Virginia Rescigno in “Raggiungere il cielo e raccontarlo” (Lilit Books, 2017, pp. 102, Euro 12) nasce da un grumo di consapevolezza che si addensa attorno a una delle più spietate verità metafisiche dell’esistenza:

(…)
non serve scavare viscere ai mari,
se l’Ombra raccoglie la vita
e prosciuga speranze
e scarnifica menti,

come scalpello mortale
flagellerà
i nostri piccoli giorni
e cancellerà
le nostre splendide storie.

Ovvero l’infinita vanità del tutto, come diceva Dino Campana. Ogni cosa è destinata ad essere inghiottita da quell’Ombra per cui la Dissolvenza, ovunque, domina sovrana. Se la ricerca è inutile, come tutto il resto, è lecito «scrivere e domandarsi / se serve ancora / con le parole / andare oltre». E tuttavia siamo nati per “disturbare l’universo” (Eliot) e sviscerare il Logos: appartiene alla natura dell’esistere (ex-sistere: uscire, stare fuori, appunto andare oltre) che ci impedisce di cedere all’inedia e ci rende “sporgenza ontologica” dell’universo di cui facciamo parte e a cui, simultaneamente, ci contrapponiamo. La rivolta continua che, se non diventiamo accidiosi, è connaturale al nostro sguardo, osa opporre all’Ombra incombente e al «freddo respiro del mondo» il fiato caldo della presenza, il lievito dell’anima, la forza originaria della luce, e insomma la fatica, la gioia e la gloria delle opere e dei giorni, ancorché deputati a scomparire fin dal loro inizio. L’eterno scacco dell’uomo è oggi accentuato da una condizione di grave crisi storica: l’umanità è «ferita» non solo dagli squilibri, dai virus, dai conflitti, ma anche da una perversa «civiltà dell’effimero» che intorpidisce le menti e spegne la scintilla negli sguardi. Spetta al poeta – a nome di tutti – scalare il cielo per raggiungerlo e “raccontarlo”, come fece per sempre Dante Alighieri. E scalare il cielo significa scavare dentro l’anima «nel profondo» per fare in modo che le parole non rimangano vuote e inutili.

La poesia di Virginia Rescigno percorre il discrimine sottile tra Natura e Cultura, e impara dalla Natura per rigenerare la Cultura a nuova vita, in un potente empito di palingenesi spirituale, di trasformazione esterna ed interiore:

(…)
cancello parole,
annullo i miei battiti
e m’inebrio di cielo,
di mare di terra.

La poesia non è, evidentemente, fumisteria “a freddo”, arzigogolo ingannevole o gioco intellettualistico per scettici sfaccendati, e neppure coincide con la cronaca o con il giornalismo, ma con la voce eterna dell’uomo e delle cose. Ricorda la semplicità nutriente del pane, e infatti scrive: «pane-poesia il mio nutrimento». E poi, dichiarando e precisando una forma congeniale di poetica: «Non canterò più / se non da siepi / a primavera». Quindi la freschezza del nascente, ciò che sta per sorgere e sbocciare. Quella di Virginia Rescigno è una musica che dipinge le cose lasciandole emergere nel contesto panoramico e atmosferico del loro ambiente con le «mille crepe segrete» che le caratterizzano, cioè ammantate di infinito ma al tempo stesso nette, precise, ricche di insostituibile peculiarità: ad esempio il «formicolare d’erba» diverso e unico per ogni singolo stelo. Ha un’anima «ladra» e «testarda» che ruba speranza alla disperazione e un «soffio di primavera» alle nubi tempestose dell’inverno. I suoi occhi nascondono il bacio che abita nei sogni: lo nascondono per difenderlo e mantenerlo vivo.

È una parola che vive intensamente nel tempo ma che anela a schiudersi oltre, nelle «eterne stagioni» che vibrano in parallelo a quelle in cui la natura sgrana e orchestra la sua evoluzione. La sinfonia già vivaldiana delle quattro stagioni viene perciò superata da continue allusioni a una dimensione metafisica cui giungere dal cuore stesso dei fenomeni percepiti. L’identificazione è totale («Sarò il respiro dell’erba, / il brulicare della terra, / aggrappata ad un raggio di sole / disegnerò i tramonti») ma continuamente disturbata dalle interferenze e dai limiti del nostro significato. Gli esseri umani inquinano tutto e sono incorreggibili. La società è un covo infernale di storture e infinite aberrazioni: «Noi / esistenze mortali, / assassini, violenti,  / ambiziosi, potenti / ubriachi di luci e di applausi». E ancora: «Troppo rumore, / non riesco a sentire / il vento / che sgrana le nuvole, / il ruscello / che saltella sui ciottoli / e le voci sommerse / (…) Troppo rumore, / rumore di guerre, / di tempeste razziali, / umanità tarlata / da soldi e potere, / da fatue apparenze, / da un Dio assente…» Un «universo di anime dolenti» da cui la poetessa vorrebbe liberarsi per fluttuare leggera e felice «in una bolla di sapone» con i riflessi dell’arcobaleno. La poesia è appunto un arcobaleno che ridà colore al «bianco e nero» del mondo falso e artificiale creato dagli umani. Ma solo che si oltrepassino «i recinti dell’uomo» si può abbracciare l’eternità, e allora «scompare del vivere la greve asprezza»:

Tra le fronde ridenti
al gioco del sole
e al trastullo del vento,
galleggia il non-tempo
(…).

E così

lo sguardo s’innalza,
un sussulto vibra nell’aria,
è vita che scorre
come un’onda nel cielo.

Lieve è la carezza dell’aria e dolce è la purezza degli elementi. Basta percorrere un sentiero di campagna per inazzurrarsi di vita e sentire la linfa che scorre nel «silenzio primordiale», laddove si rifugiano le stelle «non più offuscate / dalle fatue luci dell’uomo / che spengono i sogni / nelle città rumorose / e affollate di niente». La vita resta, malgrado l’uomo, «cristallo prezioso» e «fragile trasparenza». E l’uomo dovrebbe imparare dalla natura, dalla lezione di un «piccolo fiore selvatico / (…) abbagliato dall’istante / (…) felice così, / d’esser vivo e basta». Il creato è lì, fuori di noi che gli siamo innanzi (separati dalla nostra autocoscienza): il «sorriso del mondo sereno» non aspetta altro che d’essere raccolto. È tutta questione di sguardo: «All’improvviso / ho guardato il cielo / e il volo di una rondine, / e sono felice». La natura è «amica», non matrigna: offre un rifugio di medicamenti e consolazioni alle spine che rendono «aspra» l’esistenza. Gli elementi naturali sono proclivi a caricarsi di significati umani, e quindi vengono spesso antropomorfizzati. Per esempio le nuvole al tramonto che sospendono «relitti di speranze» e «frammenti di malinconie». La smisurata complessità che il silenzio trattiene in fondo al vuoto rende auspicabile, se non indispensabile, una lettura stratificata e polisemantica dei fenomeni. Il silenzio stesso viene esplorato nei suoi diversi colori, che appunto dipendono dallo stato d’animo di chi lo ascolta: può essere «giallo-oro» o «grigio-argento» o «bianco» o «nero-fumo». Le stelle sono «domande sospese / al cielo notturno» in cui riconosciamo al tempo stesso «speranze ridotte in frantumi», «occhi di un Dio lontano», «sogni appesi alla notte», «bagliori di pianeti distanti», anime dei trapassati, ecc. Le stelle sono anche «luci di case, / di respiri alle finestre accese» come quelle dei nostri occhi, abitate dall’anima. Delle cose c’è sempre un versante metafisico che oltrepassa dall’interno la dimensione del percetto fenomenico. Per esempio le onde del mare che «dal più remoto inizio del tempo / ascoltano e raccontano» le nostre storie… ma nel loro «rimescolio arcano e perpetuo» lasciano avvertire anche i «sussulti dell’anima mundi» e l’«eco misteriosa e lontana» della voce di Dio.

L’estate è la stagione dello splendore che incendia l’anima. La poetessa rimira questo spettacolo, cioè guarda con l’intensità di una «gran meraviglia» la «Bellezza Infinita» che si sprigiona dalla natura portata all’apoteosi della sua maturazione, che si vorrebbe eterna.

Vorrei morire
abbracciata all’estate,
al canto delle cicale.

Ma anche l’estate è destinata a passare, come ogni altra cosa immersa nei cicli del tempo: la foglia «presto s’accartoccerà», le cicale e i grilli verranno ammutoliti dalle brume di ottobre. Ogni stagione, però, ha le sue bellezze. Ecco ad esempio l’autunno, il suo dolce richiudersi dopo la grande espansione estiva: «S’addormentano i boschi / e le nebbie sfumano / i contorni fugaci del mondo»; «Raggomitolarmi / e star qui in un angolo / con le parole / compagne / del mio silenzio»; «Quando è notte / mi piace sentire / la pioggia scrosciante / scivolare sui vetri piangenti»… Questo nido di gioie sicure rappresenta il cantuccio in cui riappropriarsi della propria limpidezza e da cui immaginare le grandi scalate spirituali, quelle che associano profondità e altezza scandagliando gli abissi del mare mentre bramano l’alto dei cieli. L’Infinito «chimerico», pur quando irraggiungibile, è utile tuttavia come sprone di ricerca per «andare oltre il silenzio, / andare oltre il dolore». C’è una via «arcana» nel cielo, «che percorre l’attimo / e l’abbandona»; e di quella il cuore si appropria per migrare nell’assoluto del «più sublime canto», verso un giorno sottratto al tempo («senza albe né tramonti») dove «esuli vagare finalmente liberi». La poesia auspica una risolutiva emancipazione delle energie, peraltro senza negare la pesantezza delle ombre che le incatenano. Solitudine, dolore, malinconia, «morire intorno»… eppure la speranza resta chiusa nelle mani che, se davvero vogliamo, possono «afferrare l’orizzonte»:

Allarga le ali e vola

è il monito, l’incitamento che Virginia Rescigno rivolge all’Uomo vitruviano narcotizzato dentro ognuno di noi. Il mondo oggi è pieno di rumore: occorre «tornare al silenzio» e innalzarsi all’amore come unica percorribile «strada di vita». E il merito storicamente più apprezzabile di questo libro è di raccontare il disincanto, o meglio l’incanto devastato dalla Storia, oltre gli steccati del “pensiero debole” e le pose blasé di molti intellettualoidi e pseudo poeti contemporanei: senza ricomporre semplicisticamente le fratture dello sguardo ma senza perdere altresì la capacità sincera dell’emozione, il senso della bellezza, l’integrità della meraviglia.         

Marco Onofrio

“La saggezza degli ubriachi”, di Stefano Vitale. Lettura critica

È raro trovare, specie nel panorama letterario contemporaneo, una dimostrazione così centrata e consapevole di poesia pensante, come quella che intride le pagine de La saggezza degli ubriachi (La Vita Felice Edizioni, 2017, pp. 92, Euro 13), di Stefano Vitale. L’autore torinese trascende i dati della cronaca – dalle cui occasioni, peraltro, gli capita di muovere – mentre guarda all’uomo sub specie aeternitatis, cioè alla universalità spaziotemporale della humana conditio: e questo gli consente, per istinto e per assunto, di postulare ancora la validità e la dicibilità del “noi” con cui sfonda la soggettività auto-centrica dell’io, dal momento che «siamo figli di un destino comune». La potentissima tessitura esistenziale che permea le composizioni di questo libro realizza e traduce l’“incessante e necessitante indagine” di cui parla Alfredo Rienzi in Prefazione: sull’essere, cioè sul tempo, gli altri, l’immagine di noi, i limiti, i confini, i condizionamenti, la necessità di fingere di «essere normali» per farsi accettare e meglio tutelare gli abissi della propria identità; ma anche su come la ragione percepisce e organizza la cosiddetta “realtà,” imponendole un dominio «patetico» giacché invece «dentro e fuori tutto è buio / buio pesto», e tra noi e il mondo rimane una «chiusura stagna».

È una poesia che esplora i sentieri del Dasein heideggeriano mettendo in opera una martellante e insistita ricerca di senso, aprendosi cioè senza ripari alla consapevolezza, autentica quanto più feroce e rigorosa. La ricerca di senso ci è connaturale nella misura in cui siamo animali supercoscienti, e per ciò stesso braccati dall’incomprensibile. Interrogando l’essere interroghiamo noi stessi, e viceversa. Vitale accoglie i limiti negativi della finitezza come “deiezione” dell’essere “gettati” nel mondo («noi qui, / cose tra le cose / posate per caso sulla tavola del tempo») in un «esilio obbligato» che diventa «regno dell’attesa» dove appunto si attraversano anni ed anni ad aspettare, spesso inutilmente, un «segnale dal futuro». Esistiamo nella cecità opaca dello stare a fronte, dentro i limiti di un corpo che, a differenza degli altri, non riusciamo a vedere da fuori: “Io sono e non mi vedo” è la cifra emblematica della nostra realtà percepita, sempre parziale e ingannevole. Trascorriamo la vita sostanzialmente estranei al nostro mistero, senza sapere come e perché «questo sangue scuro / (…) intanto macina nelle nostre vene / e agita le nostre sere». Il «notturno continente che tutti ci racchiude» non è soltanto la notte che succede a ogni tramonto, ma lo sconfinato e irrisolvibile enigma nel quale ci ritroviamo immersi. Il Vuoto domina sovrano, è ciò da cui veniamo e in cui finiamo per tornare: come scrive Adam Zagajewski, citato da Vitale in uno dei colophon interni, “vi sono / più oceani che terraferma. Più ombra / che forma”. Sintetizzando il sugo di migliaia di esperienze, la scrittura porta alla luce alcune pregnanti definizioni del vivere che è merito dell’autore porgere senza la presunzione apodittica delle “sentenze”, ma con la sobria naturalezza delle constatazioni. Così accade, per esempio, allorché Vitale, “correggendo” Shakespeare quattro secoli dopo, nota che «siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli». La finestra di tempo da cui siamo racchiusi ci rende intrappolati «nell’astuzia della Storia» che massacra le generazioni; tanto più oggi, ridotti come siamo a «schiavi / di una Storia / di cui si sono perse / ormai le chiavi».

Il poeta è molto abile nel far sentire il tritume della quotidianità inautentica: scrive di «grigio presente dei minuti pesanti», di «tempo andato a male», di «noia», di «pastoia», di «deserto d’ombre d’inutili ore». Ma vivere significa andare oltre, «oltre il dolore / oltre una porta chiusa per sempre», poiché appunto c’è una «luce instancabile che spinge / oltre le umiliazioni». Il gesto di oltre-passare implica una presa in carico della negatività da cui si vorrebbe risorgere, che viceversa ingigantisce quanto più rimossa. Traguardare lo spiraglio di una possibile liberazione significa dunque muoversi «verso il fondo» esercitando l’attitudine di «archeologi di noi stessi» in cerca dei «fossili della speranza». Occorre trovare, però, l’anello che non tiene: infilarsi nel varco, deragliare, usare il «pensiero sbilenco» nella «torsione dell’attimo sgrammaticato». Ecco la “saggezza degli ubriachi” che, nell’ebbrezza alcolica, escono dai vincoli normativi per restituirsi al mondo immediato degli istinti, alla presenza pura dell’esistente, alla natura originaria delle cose.

La poesia di Stefano Vitale certifica lo scacco definitivo della ragione raziocinante, quella stessa che – annodando i nostri pensieri e portandoli al sistematico fallimento – dimostra di per sé come «la forza del ragionamento / è poca cosa». La Verità di conseguenza, se vogliamo ancora scriverla con l’iniziale maiuscola, è solo «presunta», così come la «precisione» è soltanto illusoria. Inseguiamo la perfezione abbarbicati alla cima dell’imperfezione, da cui «tutto ci sfugge». Gli specchi non sono «cristallini» ma «inevitabilmente» deformati. Le diverse realtà in gioco all’interno di ogni porzione di mondo sono prismi caleidoscopici con milioni di facce in mutamento, come le nuvole, «miraggio d’immagini, specchio della nostra mente». È possibile perciò avanzare non più che congetture, cosa che ci rende «eterni dilettanti della vita», controfigure di noi stessi, «fragili figure di sabbia / sul confine della memoria». Quest’ultima esercita un peso che può contrastare l’itinerarium mentis ad veritatem e certamente la sua innocenza salvifica, tanto che «un vuoto di memoria / talvolta, salva la vita». Anche la parola costituisce, per certi versi, un intralcio alla verità; ma d’altra parte è uno strumento simbolico privilegiato e insostituibile per tentare di avvicinarla. La parola cerca di colmare il divario tra la cosa e la conoscenza, ma della cosa rappresentata non riesce a cogliere l’essenza. Ci si avvicina di più, invece, nel «silenzio / dei nostri pensieri nascosti e veri», quelli che parlano in noi una lingua straniera ma insieme arcanamente familiare: «Un vortice di pensieri / senza padrone / cadenza straniera / memoria d’altra storia?»

Come si arriva, dunque, al cuore misterioso della vita? Andando «oltre il confine del cortile» e il «crocevia del tempo», poiché «il Vero sta nell’oltrepassare, / nel dettaglio dove si nasconde al primo sguardo / il nostro Esserci». Come in una sorta di epoché fenomenologica, occorre anticipare l’agguato delle abitudini, la conferma dei meccanismi percettivi, l’edificio di strutture razionali che ci scherma dalla purezza dell’essere.

Ridurre il campo visivo
alla coda dell’occhio
per meglio vedere ciò che resta nascosto
allo sguardo troppo sicuro.

Il che significa anche abdicare all’oltracotanza dell’uomo saccente e accentratore, che conquista/devasta il mondo. Occorre affidarsi a un altro tipo di ragione, ontologica e paritaria, modulata cioè dal punto di vista delle cose. La via per evitare le «trappole» del razionalismo? Silenzio e «mente immobile»:

Contro l’ingarbugliarsi delle cose
vince la mente immobile.

E quindi, «diventare muro, insetto, foglia» placando l’ansia di combattere e contrapporsi per imporre un “dominio” che la distesa dei secoli e il silenzio nero del cosmo rendono risibile, oltre che esiziale. Ecco la «lezione dei fiori»:

La lezione dei fiori
è nel loro essere fiori, e questo basta,
mondo che rinasce
nella pura insolvenza del vivere.

Davanti ai nostri occhi si spalanca l’oceano della Vita, che ammiriamo ma «non possiamo afferrare». La natura è «incomprensibile e chiarissima» al contempo, e per intenderla «non servono i libri che abbiamo letto / perché non sempre comprendono / la lingua delle cose». Oscilliamo costantemente tra le «ombre / di un delirio di purezza» e il «lucido buio», cioè tra il mistero che si vela e che si svela. Le cose ci guardano dall’eternità, con “occhio calmo e molto chiaro” come i ciottoli di Herbert, che non si lasciano “addomesticare”. Vitale cerca dunque di stanare le cose dalla loro autonomia, dal loro sonno immemoriale, dal loro segreto intangibile. Cerca di conseguenza una parola nuova, diversa, piena, in grado di coincidere con la cosa denotata.

Tirar fuori dalla selva del tempo
una parola certa e precisa
che ci rassomigli una volta per tutte
per dare un senso
al silenzioso scrutarsi delle cose.

Coglie le “scene” fenomeniche del mondo ma tende in realtà a ciò che precede la ragione delle parole convenzionali, la «necessità» e l’«automatismo creaturale», cioè il rapporto geniale che regge le cose dall’interno e le tiene fra loro unite, dentro l’intelligenza dei fatti e degli eventi. Raccoglie via via, così, «i sogni delle piante», il «sordo salmo del silenzio», «l’alfabeto muto / dei tetti», la sera che «mi parla di sé / e non capisco», l’aria che «respira se stessa», ecc.      

La poesia si slarga ad accogliere il colore stesso del vuoto e la forma sconfinata del silenzio («parole invisibili / su una lavagna trasparente»), masticando le «perfette costellazioni di niente / nella nera calma che inonda il mondo». Ci si può arrivare, forse, anche affondando nel «grembo della lingua» per cercarne le balenanti rivelazioni («gli istanti illuminati») che splendono dalla “miniera della mente” come «oro inatteso». Ma il traliccio estetico da cui è sorretto il movimento della scrittura resta comunque quello che porta dal contingente all’universale, dalla storia alla natura, dal fisico al metafisico, dal rumore al silenzio, dalla sostanza all’essenza. È ancora possibile il “canto”, questa «piccola ostinata intima luce / che riposa nel tabernacolo / delle nostre viscere»? Sì, sembra rispondere Vitale con tutto il libro, malgrado l’inafferrabilità della forma, la complessità estrema del mondo, la terra ormai desolata e il «sopravvenuto disincanto»:

e niente più rassomiglia
in questo dilagare di riflessi
se non quest’assenza
di noi a noi stessi
perduti nello specchio infranto del suono
del sopravvenuto disincanto.

Marco Onofrio

“I cinque pilastri della stoltezza”, di Aldo Onorati. Lettura critica

pilastri

Con questo brillante e piacevole saggio (“I cinque pilastri della stoltezza”, Roma, Armando, 2003, pp. 125, Euro 12), Aldo Onorati – rovesciando un celebre titolo di Lawrence d’Arabia, “I sette pilastri della saggezza” (1922) – invita a riflettere sulla consistenza e la portanza strutturale del nostro edificio cognitivo: la Weltanshauung che plasma la cultura occidentale di cui siamo eredi e, insieme, parte attiva. Una cultura che, dopo Platone, si afferma e caratterizza come uso del sapere a vantaggio dell’uomo e a scapito del mondo circostante: attività manipolatrice che si incunea nella natura per trasformarla, antropizzarla, civilizzarla, rendendo man mano più sensibile il divario fra i “tempi storici” e i “tempi biologici” di cui parla l’ecologo Enzo Tiezzi in un libro fondamentale. La storia stessa nasce come distacco del tempo dell’uomo dal grande grembo del tempo della natura: una frattura che F. Nietzsche anelava a ricucire in ripristinata unità mediante lo “spirito dionisiaco”: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco», cito da “La nascita della tragedia” (1872), «non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente».

Il cammino della civiltà occidentale è infatti configurabile come un continuo e progressivo distacco dalla “physis”, e quindi dalla percezione stessa della natura primigenia e indistinta. L’homo sapiens sapiens, in cerca di terre sempre nuove da esplorare e colonizzare, si è armato di una sorta di corazza culturale, astratta e artificiosa, che lo rende estraneo e, per così dire, “indigesto” al grosso del mondo animale. Tra i molti miti dall’uomo elaborati, da brandire come torce o spade lungo il cammino senza fine verso Utòpia, c’è sicuramente quello più pericoloso, una sorta di dono ancipite – come il fuoco rubato da Prometeo, che riscalda, sì, ma che se sfugge al controllo può anche ridurre in cenere: il progresso.

Il progresso ha finito per diventare surrogato del dio che abbiamo perduto lungo la strada del nostro non trovarci più di casa a questo mondo, smarriti a nostra volta tra la nostalgia del “non più” e l’angoscia del “non ancora”. Scortato da una schiera di sentinelle mitiche, quali la Ragione, l’Intelligenza, la Civiltà (altrettanti squilli di tromba che il sapientissimo uomo, invischiato nel suo soliloquio, utilizza per autoincensarsi, per rimuovere la cattiva coscienza e per neutralizzare gli inquietanti segnali che, malgrado tutto, continua a mandargli da dentro la belva primordiale), nonché giustificato dal profitto economico (che non a caso viene elevato a sistema e promosso al rango di “etica” dal momento in cui, col Protestantesimo, viene meno il ruolo del sacerdote come intermediario tra al di qua e al di là), il progresso assurge a orizzonte e focus della scena, e, abbracciando la pretesa di auto-fondarsi come unica via praticabile, senza più interlocutori, libera tutto il suo potenziale distruttivo. La cultura e la “civilizzazione” tipiche della modernità si sono poste dunque a servizio di questo mito di conquista e colonizzazione eurocentrica, in un grandioso progetto che si risolve e accende nel progresso, laddove comincia e finisce la “grande corsa” dell’uomo occidentale. Che poi alle tentazioni eurocentriche siano subentrati i connotati informi di un mondo globalizzato “all’americana”, coi relativi squilibri, non cambia la sostanza delle cose: l’uomo continua noncurante a utilizzare il pianeta a mo’ di pattumiera, mentre il pianeta gli muore sotto i piedi minacciando di ucciderlo a sua volta.

Quali sono i falsi miti con cui l’homo sapiens sapiens ha puntellato il suo progetto di conquista del pianeta?
Eccoli:

1) che l’intelligenza sia prerogativa (esclusivamente) umana;
2) che l’uomo sia l’unico essere vivente dotato di razionalità (la dea Ragione);

3) che solo l’uomo abbia l’anima;
4) che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza di Dio;
5) che l’uomo sia il re del creato.

Questi i cinque pilastri della presunta “saggezza” individuati, attraverso la natura e la storia dell’uomo, come radice maligna della sua vocazione autodistruttiva. Onorati si diverte con riso amaro a rovesciarli, uno ad uno. Li smonta, dunque, e ne smaschera la fallacia con la forza della sua humanitas, cioè di una cultura nutrita di buon senso ed equilibrio, e non antagonistica, bensì accordata alla natura, in armonia con il Logos della vita, la legge interna delle cose. Non è un caso che a farlo sia un figlio e un testimone diretto della civiltà contadina, ormai fagocitata dai mostri del progresso: Onorati ha nel sangue il plasma di quella cultura che, lungi da ogni “oltracotanza”, aveva un senso naturale e pratico della realtà e, pur contemplando l’uomo come agente trasformatore della natura, faceva sì che la Terra potesse ancora tollerarlo come accidente sostenibile, nella misura in cui ingranaggio funzionale degli ecosistemi, e non come aberrazione o variabile impazzita. L’uomo un tempo sapeva per istinto quale fosse il suo posto all’interno della natura: aveva il senso naturale del limite, del posto a lui assegnato, oltre cui è pericoloso spingersi. Aldo Onorati è semplicemente uno che, a differenza di tanti suoi colleghi scrittori (ai quali la corona da re non basta neppure), ha il coraggio di affermare che “il re è nudo” poiché vestito di fumo e di nulla; e poi, non pago, cerca anche di scuoterlo, di urlargli in faccia per svegliarlo dal torpore. Ma l’uomo procede per forza d’inerzia, come un sonnambulo o un condannato, incontro a un destino che sta facendo di tutto per trasformare in fato. La società di massa, vero e proprio teatro dove il progresso, come nel ballo “Excelsior” d’inizio ’900, celebra e immola i propri trionfi, ha scisso e parcellizzato l’individuo, sia al di fuori sia all’interno: ciascuno di noi è una monade schizofrenica dentro un insieme di solitudini. Ogni individuo è un Io senza Noi. Abbiamo perso quell’identità collettiva di valori e di appartenenza che caratterizzava la civiltà preindustriale come una ben più umana e accogliente “comunità”. Una comunità è una società dove ciò che accade a uno riguarda tutti. Proprio perché non si sente più membro di una comunità, l’uomo oggi crede di potersi permettere la suprema idiozia di ridere mentre la nave di cui egli stesso è passeggero affonda: come il pazzo che, a chi gli domanda il motivo di quel riso, risponde: “Tanto la nave non è mia”. Né poi la generica appartenenza all’umanità è vissuta come reale “vincolo comunitario”: abbiamo ancora bisogno dei confini, dei campanilismi (se non ci sono, ne creiamo di sempre nuovi), e obbediamo inconsciamente al concetto, ormai superato, di “nazione sovrana”. L’umanità sta perpetrando il più assurdo ed efferato dei delitti: stiamo tradendo i nostri discendenti, impedendo loro di avere un futuro. Le conseguenze del nostro vivere “civilizzato”, infatti, non sono immediate. Peraltro il pianeta, avviluppato dal nostro gorgo e disturbato dalla nostra invadenza, sta assorbendo la frenesia convulsa dei tempi che gli imponiamo ogni giorno di più, snaturandolo e privandolo dei suoi delicati equilibri, per cui «quello che non è accaduto in millenni, oggi accade in decenni».

L’unica salvezza è riposta nell’ethos di una “morale cosmica” da acquisire con urgenza apocalittica: ognuno dovrebbe comportarsi come se il futuro di tutta l’umanità dipendesse da lui, da ogni singola scelta, dai gesti quotidiani. Agli scrittori è demandato il compito di costruire la “memoria del futuro”: non sterili cassandre o apocalittici profeti, ma attenti stimolatori delle coscienze e umili ricercatori della verità. È quanto si impegna a fare Onorati in questo libro che è insieme un grido d’allarme ecologico e una risposta filosofica al problema dell’esistenza. Opera che nasce da un bisogno di chiarificazione e ricapitolazione nei confronti anzitutto dell’uomo, inteso come «indecifrabile errore della natura» dove «ogni vizio capitale, ogni inganno, ogni limite, ogni obbrobrio risiedono (…) insieme a un misterioso congegno geniale e apparentemente libero che fanno di lui una meraviglia e insieme un mostro del creato mondo».

Onorati è mosso da una sincera ansia di verità. Egli avverte che questa in particolare è l’epoca dei simulacri, dei falsi miti: un’epoca di cecità, nel profluvio insipiente delle immagini; di solitudine e incomunicabilità, nel trionfo apparente della comunicazione; di stoltezza mascherata da sapienza. Infatti è più che possibile, anzi è probabile, che la verità si trovi altrove dai “luoghi comuni” deputati ad accoglierla: non può bastare, a colui che cerca il vero, l’inganno della forma. Per questo il sottotitolo del saggio è “considerazioni di un immorale”: Onorati è cosciente che il suo è un pensiero “ex lege”, che attraversa e oltrepassa il muro delle convenzioni, ponendosi liberamente “al di là del bene e del male”. Ecco allora che, scattando queste cinque fotografie all’uomo (come nota Bruno Benelli in Prefazione), il suo obiettivo penetra nell’essenza che la forma delle cose nasconde, alla ricerca del loro senso autentico. Il pensiero s’incunea nelle pieghe della realtà e si appunta alle sconnessioni dell’intelligenza, sempre affilando la sua lama sul «dubbio fecondo e l’umiltà salvifica» (così Onorati li definisce) – il che, fra l’altro, gli consente di evitare posizioni manichee, e lo rende immune da tentazioni facilmente censorie o moralistiche. Onorati sa benissimo, e lo scrive, che le cose sono molto più complesse di come appaiono, che «bene e male, menzogna e verità» sono mescolati e spesso indiscernibili nell’uomo: che ad esempio lo stesso progresso, che tanti squilibri procura, ha per altri versi recato innegabili e ormai irrinunziabili benefici alla qualità della nostra vita.

La Vita, infine, è il nucleo essenziale del saggio: un “miracolo” di cui Onorati si dichiara stupefatto ammiratore; la forza che tutto domina, infinitamente superiore alla tronfia ragione umana. Con questo libro egli leva una sorta di grande preghiera laica: un inno di lode in cui ama la natura fino alla commozione e celebra la vita nelle sue infinite, prodigiose manifestazioni. Allora forse la verità essenziale che Onorati cerca, fra tanti rumori di sottofondo, è la legge stessa del Logos, ovvero quella che nel libro è definita «necessità strutturale insita nella legge dell’esistenza»; ciò stesso che rende la vita una «unità inscindibile» e un caos pieno di armonia. La sola legge alla quale l’intelligenza umana, per ritrovare la sua giusta misura, dovrebbe affidarsi (con buona pace dei tanti “sapienti” oggi conclamati e pubblicamente riconosciuti) poiché, come scriveva Francesco Bacone, è soltanto obbedendole che l’uomo comanda la natura.

Marco Onofrio

“La parola esclusa”, di Giuseppe Bova. Lettura critica

human-771601_1920

La poesia di Giuseppe Bova nasce dal bisogno umanissimo di inseguire il Mito ai bordi della sua stessa eternità, facendone echeggiare i riverberi, i riflessi antichi e suggestivi, nella narrazione archetipa dell’esperienza: «Vorrei raccontare» – scrive in limine al libro La parola esclusa (Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2003) – «come ho scoperto il mare». Non solo il mare d’acqua salsa che dialoga con gli oceani del mondo, ma anche ovviamente il mare del tempo, dell’amore, della vita. E appunto ai bordi di questa dimensione nascosta ma eternamente presente, deputata a custodire i lacci del mistero a cui siamo e ci troviamo incardinati, si dirama una duplice visione del mondo: quella che si attiene alla natura, abbandonandovisi con dolcezza e commozione; e quella che viceversa cerca di trascendere la natura, resistendole per catturarne l’ultimo segreto. Da una parte l’anima, fluida e femminile; dall’altra lo spirito, tagliente e maschile: a determinare la maggiore o minore fiducia nella dicibilità dell’esperienza, e la consapevolezza che la parola è comunque esclusa dalla verità, non può mai raggiungerla in quanto “parola”, nel limite umano del suo essere relativo (quella parola), poiché la verità appartiene all’assoluto del silenzio che racchiude e origina tutte le parole possibili. Ma è la verità stessa che esclude la parola, per consentire all’uomo la ricerca senza fine attraverso cui intuirla ai confini dello sguardo, oltre l’orizzonte. Scrive Bova: «una risposta è sempre da venire. / Domani sarà ancora un’altra tappa / e andremo sempre avanti per capire», giacché il «mistero dei secoli» è sepolto «sul fondo» del mare, e «il fondo non si tocca / con la mano».

Nella cultura ebraica la parola è centrale rispetto alla cosa, anzi: la parola è la cosa, dal momento che Dio crea il mondo parlando (e Bova scrive «Il suono / avrà sostanza di Creato»). Nella cultura greca, invece, la cosa (cioè la φύσις, ovvero la natura) è centrale rispetto alla parola: “sema” significa “segno” ma anche “tomba”, cioè presenza vicaria di un’assenza, testimonianza imperfetta di ciò che esiste e dunque esclusione dalla pienezza del vivente. La parola come mondo e/o come suo imperfetto riflesso. Bova dà udienza a entrambe le concezioni, incarnandole nelle due pulsioni fondamentali della sua poesia, magistralmente lumeggiate da Antonio Piromalli in prefazione: trascendenza e terrestrità. La trascendenza nasce dal sentirsi esclusi e distonici, la terrestrità dal sentirsi inclusi e sintonici. E Bova le vive con reciproco scambio di attributi, per cui la trascendenza ha sempre accenti di concretezza e la terrestrità non manca mai di essere a suo modo spirituale. C’è un momento in cui le due pulsioni sono percepite in parallelo, sia pure in prevalenza della prima:

Sfuggire alla terra che mi attira
toccare le cime alte del pensiero.

Se da un lato, così, il poeta obbedisce allo slancio metafisico, cioè all’«urgenza di sapere / di toccare / di sfondare la porta del mistero», dall’altro estende la sua coscienza creaturale, centrata sulla forza di gravità, per riconoscersi fibra dell’universo nella misura in cui armonizzato, osmotico, uno con tutte le cose: «La roccia si spacca / ed è il mio sangue che sgorga». Può dunque affermare: «Sono / un albero / che vive sul dirupo / che vede su ogni fondo / la sua fine». Come salvarsi dall’abisso? Allungando le radici. «Stringersi / le mani / sulla terra / per trovare / le parole / d’amore. / Questo è / il segreto / di ogni nostro / resistere / alla morte». Un patto d’amore e resilienza di leopardiana memoria: allearsi e far fronte comune per rubare terreno alla morte, il «resistere estremo / sulla barricata». Le parole lasciano filtrare, come crepe su un muro, le trame della luce perduta, e riescono a recuperarla anche dopo che ha smesso di splendere.

Il mondo, purtroppo, è abitato da «anime nere» che trafficano «parole inutili» senza contezza né rispetto della potenza mitica e storica di cui ogni parola, creando la realtà, si fa intima portatrice. La poesia, ai loro antipodi, è una via di purificazione e chiarificazione («Quello che non capivo ora si fa più vero») grazie alla quale ci si cava «dallo sbattere quotidiano» e dai suoi velenosi frastuoni («a volte mi ritiro in una stanza / a cercare il silenzio»): uno «specchio / d’aria pulita» dove si disvela il «contatto estremo», cioè l’essenza ultima delle cose e del proprio rapporto col mondo: «Leggo carte che scavano cortecce / e vanno fino al cuore di ogni tronco». Occorre l’«ostinato credere» con cui il poeta oltrepassa, usando gli occhi dell’anima, la propria finitezza per tentare di amare «con la pelle di Dio» la Luce della «tremenda oscurità», ossia il Mistero da cui tutto emerge e in cui tutto viene, da ultimo, inghiottito. L’atto poetico, riecheggiando il non omnis moriar di Orazio, è anche uno strumento di ribellione al pensiero «d’esser stato / un decimiliardesimo di occhi / sul corpo inavvertito della terra», una minuscola e risibile «formica tra i mille camminamenti». La poesia ha questo potere perché è una potenza originaria e incontrollabile, un «fiume di corrente seminale»:

Questa è la poesia.
Un fiume di parole
per seminare i sogni.

Ma non si ordina alla parola poetica, altrimenti muore «appena nata». È la parola, anzi, che ordina e “ditta dentro” al poeta, pesando in volo la sua luce: «trascinata è l’idea / che il sangue irrora / per vie d’inquietudini». Non un gioco di prestigio, dunque, ma un mandato di rivelazione. La parola è la chiave che apre lo spazio della sacralità. Senza questo fiato caldo essa «si accorcia»: «suonatore e strumento / vanno insieme». Il poeta, dunque, suona ed è contemporaneamente suonato dal proprio strumento. Il suo sguardo coglie «lo spunto di un’origine / liberato da ogni costruzione», ovvero l’energia orgonica pura, anteriore alle forme dell’intelletto: è lì che si apre lo «slargo d’infinito». E quindi i semi delle cose: della notte, della pietra, del vento, della pioggia, del mare, etc. come granelli setacciati «già luminosi / e privi di ogni scoria». La parola si confronta con l’infinito degli elementi che la rendono «piccola», «esclusa» e «imprigionata», ma proprio per questo capace di afferrare le coscienze e spingerle in alto, sopravvivendo anche a chi muore o viene ucciso nei patiboli. La parola non può essere fermata perché, quando autentica, è incisa nell’ordine cosmico-ciclico del divenire e sale dalle origini del mondo, producendosi come evento creativo che traduce in scrittura «quanto non è scritto»; altrimenti è spenta, è «corpo morto».

Comunque giunta
la mia parola chiude
un grande cerchio
ed io sono materia
di ogni avvolgimento
all’origine degli occhi
nel fulcro della trave.

Così accade quanto non è scritto
e ciò che non riflette
è corpo morto.

La presenza e la sostanza delle cose: mai essere assuefazione di forma vuota, imitazione di voce originale, ripetizione del sentito dire. «Non sarò mai pane / senza essere lievito». La poesia sgorga dalla vita che la nutre e che la impasta: «Non scrivere parola non sentita» ammonisce Bova, ricordandolo anche a se stesso. Il poeta che parla in questo libro lo fa da una condizione di maturità ulissiaca, di inquietudine nella tenebra e nello smarrimento: la sua anima è «alla deriva» ed egli si sente «barca sul mare avvolta dalla notte», ovvero «barca già in disarmo» come «dopo tanta odissea / un corpo inanimato sulla riva». Non solo la polvere bruciata durante i viaggi, ma anche quella «incombusta» delle occasioni mancate, della vita non vissuta. L’incompiutezza ci è connaturale poiché siamo incatenati al principium individuationis, per cui in realtà «siamo dove non siamo». Questo produce e procura un senso vertiginoso di dispersione: «Sono nel gorgo anch’io / portato da correnti disperate / su ondate ascendenti e discendenti», quelle stesse che lo fanno risalire proprio attraverso il punto più basso e buio, dove sente il tempo che demolisce e divora, e la morte come un ingranaggio interno al meccanismo della vita. La memoria profonda si dissolve, qualcosa resta sempre «indecifrato» fino a che «tutto rimane muto / disconoscenza / vuoto» inghiottito da irredimibile oblio. Bova rappresenta la morte come una bambola «regina / in tutti i mondi» che si fa percepire in déjà vu, come appunto «l’impressione di un’immagine già vista» poiché «siamo sempre vissuti / e sempre morti» attraverso i tempi della nostra vita.

Il poeta non edulcora, non seleziona per convenienza, ma ha il coraggio di affrontare integralmente il dolore: «poetare è una ferita sempre aperta / perché toccare il cielo con un dito / è scavare il cuore di ogni angoscia». L’identificazione con la vittima sacrificale lo porta a visualizzare il «costato trafitto» di San Sebastiano: basta guardarlo per sentire Dio «come una lancia». E tuttavia il dolore non ci esime dal dovere di «legare la vita / dentro a un sogno» e, malgrado tutto, non smettere mai di farlo. Il poeta obbedisce alla vita e alla sua volontà insaziabile: egli sta «nel seme che rinnova» e non ha fame né sete «se non di nascite / e porte spalancate / ai grandi abbracci». Il dolore, la sofferenza e il caos attraversati nutrono anzi il desiderio di gioia e positività: «rimuovere il disagio» fugando le ombre e le angosce per trovare «un’altra strada», giacché – scrive il poeta con due versi sentenziosi e memorabili – «il tempo è troppo breve / per essere tristi». Ci sarà infatti «una fontana dove bere / senza più la paura di morire» dissetando «l’anima assetata». Occorre ritrovare sempre la condizione della bellezza dentro il proprio sguardo: «la gioventù del cuore / quel sorriso che spalanca girasoli». Il segreto è proprio il cuore.

Così è la vita:
due rette in parallelo per la gioia
percorse all’incontrario
se ad azionare lo scambio del binario
non è il cuore.

Il sacrificio nel dolore non deve mai bagnare le polveri all’agonismo, al fuoco della vita, alla capacità di risollevarsi dopo le tempeste e di meravigliarsi («stupisco al solo esistere di forma»), vedendo le cose come nel primo mattino del creato. Ecco lo sguardo commosso e “miracoloso” che in ogni albero vede un giardino e nell’unione di un uomo e una donna «tutto il mondo». Uno sguardo che è anche frutto di amore, nella vigile attesa di segnali («Raccolgo come l’occhio di Colombo / i piccoli detriti di altri mondi») e nell’attenzione alle cose invisibili, alle delicate sfumature dell’impercettibile («Sono il solitario origliere / di ciò che dorme»). È come se Bova avesse dinanzi due strade per scalare la montagna del Mistero: una più breve ma più ardua, a parete verticale, della trascendenza metafisica; l’altra meno ripida ma più lunga, a tornanti concentrici, della coincidenza naturale. Nel primo caso la parola è uno «scandaglio» che scava la «caverna dei silenzi» per tradurre in segno, dell’essere, l’indicibile “barriera semantica” (per citare Dante Maffìa) e il segreto principio animatore: «Sono la donna che ha generato i figli. / Creo lo spazio infinito e lì mi annego». Nel secondo caso la parola deve sciogliersi nella natura e acquisire la voce stessa delle cose: essere «liquido sciacquio» ed «eco di musiche nel cuore».

Quando
come l’acqua sarà la mia lingua
ed io nel corpo al canarino
sviterò la mia gola
per non essere parola senza vita
(oh volo d’amore che traffica tra i rami
più lontani e refrattari)
tu parlerai con me da uomo a uomo
(…).
Solo nell’acqua
può schiarire il verso
nel lento gocciolare
è l’oscuro mio processo.

E quindi, anche la bellezza purificatrice del mare, che «è una chiesa / coi suoi fedeli interpreti. / Mai parola è uscita / di una qualche confessione. / Il mare è il mare». E ancora: il mistero del divenire, «lo strano mutare degli avvenimenti», la circolarità dei fenomeni per cui «ogni approdo è un inizio». Entrambe le strade portano a un passo dalla rivelazione, laddove la “porta” potrebbe aprirsi. Giungere «al cuore del principio»: è lì che, recandosi idealmente, il poeta scrive «pagine di un mare sconosciuto / immaginando l’altrove», l’inesauribile varietà del mondo, gli «occhi sconosciuti di ogni approdo». La poesia de La parola esclusa è una finestra aperta tra l’io del poeta e il sé del cielo, tanto che egli chiede di essere chiamato non «per nome» ma in prospettiva eterna, «per l’infinito», cioè nella sua verità di essere cosmico. E così, allo stesso modo, è una finestra aperta tra la sensibilità di Giuseppe Bova e lo sterminato firmamento della poesia mondiale, dai classici antichi ai maggiori contemporanei, di cui il poeta reggino assorbe e rielabora creativamente l’aurea eredità. Egli si sente chiamato dalla voce «che viene da un braccio di cielo», ma il suo sgabello è «insicuro» e non «così alto / da vedere l’oltre», e allora ristagna in un limbo di conoscenza: «Aspettare è ristagno / e le braccia vanno aperte sulle rive / quando ancora le speranze sono vive». Ma, forse, ciò che più gli interessa è mantenersi puro e selvaggio «come il monte oscuro / che conserva il segreto del principio» anche quando il mattino è di là da venire.

Marco Onofrio