
“Nei giorni per versi” (Arcipelago Itaca Edizioni, 2019, pp. 108, Euro 13.50), di Anna Maria Curci, è un libro delizioso e sorprendente, fin dal titolo ancipite; un libro soprattutto necessario, che incuriosisce per vie sottili con la misura del suo respiro e poi coinvolge, entro e oltre i limiti che si dà per realizzarsi, con la potenza sommersa delle energie che smuove. Molte delle centosettantatre quartine di endecasillabi che vi sono raccolte sono “ordigni atomici” dall’apparenza innocua, malgrado cioè siano calati nell’habitus convenzionale del “diario di viaggio”, inteso il viaggio come percorso «di ricerca ed esistenza, di stupore e disappunto» (parole introduttive della stessa autrice) articolato nei giorni “per versi” – attraverso cioè lo strumento conoscitivo della poesia – ma anche nella poesia stessa, esplorata e utilizzata in un momento storico particolare, traviato appunto da giorni “perversi” come quelli che stiamo ultimamente vivendo. Anna Maria Curci dice cose potentissime e terribili con il sorriso sulle labbra, un sorriso che a ben vedere è “fratturato” dalla consapevolezza e dalla pena. Gli occhi sono «dilaniati» dall’orrore e obbligati alla visione delle cose vere, nel loro volto più autentico. Il paradiso è perduto, il disincanto ne ha chiuso le porte per tramutarsi in presupposizione stessa del pensiero:
Mai più conoscerai l’amore immenso,
la gratuità sublime dell’idiota.
L’inerzia apparente delle congiunture non impedisce all’udito sopracuto della poetessa di avvertire, dentro il grigio rumore dei fatti insignificanti, lo strazio che dirompe l’emergenza (nel doppio senso di avviso e di emersione):
Lo so che questo è il tempo dell’attesa,
ma sento sempre urlare la sirena.
Non è nel gorgo d’acque favolose,
è l’allarme perpetuo e ignorato.
Ed è ignorato perché anzitutto a molti fa comodo che lo sia, ma anche perché la maggior parte delle intelligenze è obnubilata, e assuefatta a una sorta di narcosi collettiva che impedisce loro di percepirlo. Il mondo è «sinistrato» da una infinità di squilibri reciprocamente collegati che lo sta rendendo sempre più ostile e problematico. Il centro dove potrebbe insistere un equilibrio è oggi più che mai «traballante»: ogni giorno accade impunemente la «sincronizzazione del nefando», cioè la complicità delle infamie che regge il sacco ai ladri della nostra umanità. Stiamo infatti tentando di sopravvivere a un’epoca post-umana che – malgrado gli appelli a un presunto “nuovo umanesimo”, lanciati a vuoto da più parti – ha ormai liquidato i valori fondanti della cultura e della civiltà. Il tempo è triturato e scansionato dalla nevrosi centrifuga delle metropoli tecnocratiche globalizzate. Che fine ha fatto il tempo giusto e “centrato” in cui respirava, con i suoi ritmi ancora organici, l’uomo del ’900?
Quel tempo regalato in sospensione
furono i viaggi in treno a rivelarlo.
Rapidi, littorine e scartamento
ridotto per riflettere e sostare.
Tanto da arrivare a chiedersi l’origine prima del danno, la stortura originaria che ci ha portato – tradimento dopo tradimento – a questa condizione di asfissia, per soffocamento progressivo:
Quand’è che principiammo a destinare
la fragranza del pane a chi latrava,
quand’è che dismettemmo madre e padre
che chiamammo sorgente il cherosene?
L’onestà brechtiana con cui la poetessa, germanista e raffinata traduttrice, affila l’«arma bianca» della sua penna per sviscerare, «sull’orlo tra missione e sabotaggio», il cuore più profondo delle questioni e, seminando inquietudine, sobillare al risveglio e alla rivolta, evoca per converso il destino degli ideali in un contesto di «voci inquadrate e ammansite» dove non è più «il tempo del bastian contrario». Dov’è ora il «cartoccio» di speranza colmo di «baldanze» e «pie intenzioni» alla luce delle quali il futuro sembrava una «bottega di sogni a cielo aperto»? Dove sono gli entusiasmi e gli entusiasti? Chi crede davvero che il mondo possa ancora cambiare? Siamo «come quegli impettiti soldatini / spezzati dentro e fuori sorridenti»: tutti postulanti «pratiche inevase» e ottenebrati in un appannamento da cui, se ne usciremo, «sarà per sdilinquirci» in «remote elegie rassicuranti». Sdegno e ribellione, quando poi residualmente emersi o formulati, vengono poi subito normalizzati dal «sofisma / finto-bonario minimizzatore / a silenziare», tipico del conformismo dominante, e a quel punto il gioco è fatto. Proprio per questo Anna Maria Curci vuole che «sia ciascuno persona di pace, / non in pace», e che gli occhi tornino a splendere di una luce non ingenua ma consapevole, e quindi capace di incanto benché generata dal disincanto: «luce che sa del buio e dell’orrore, / mantello di serena irrequietezza». D’altra parte veniamo al mondo «lacerando» il buio caldo del sacco amniotico per aprirci al trauma della luce, dell’aria e del tempo; così, all’improvviso, uno squarcio nel “muro della terra”, di dantesca e caproniana memoria, potrebbe aprirci gli occhi e, rivelandoci la verità, farci nascere di nuovo, o nascere davvero. Tutto è confuso, caotico, ambiguo. Le segnaletiche di ieri non valgono più, devono essere continuamente aggiornate per inseguire una realtà che evolve in modo sempre più rapido e inafferrabile.
L’erba è cresciuta sopra gli ideali
(va’ a separare, adesso, la sterpaglia).
Non sai se è soffocata o rigogliosa,
se è sovversivo o prono il fiore giallo.
L’unica opzione percorribile è «resistere ogni giorno»; l’unica speranza è che i signori del male organizzato sottovalutino, com’è nelle corde della loro oltracotanza, la «forza del mite» quand’anche non tradotta in ira, cioè il lavorio paziente e quotidiano per scalfire i muri della prigione. È necessario sentirsi, come si è, dalla parte del giusto, e dunque illudersi di avere, ancora e sempre, «verità e bellezza» e soprattutto speranza da opporre allo squallore dei carnefici, con cui stringere il nodo delle loro pregiatissime cravatte fino a soffocarli. Per questo resta importantissimo l’esempio dei poeti capaci di esercitare ad ogni costo il dissenso e di conservare la mossa spiazzante del cavallo, «il salto a lato, la disobbedienza». Non, perciò, dei sempre più frequenti poeti narcisisti a caccia di applausi, che assumono pose e da cui la poesia, abusata e consumata, può salvarsi continuando a praticare la sua “cura”; come ad esempio certe poetesse…
Le lupe travestite da vestali
schiamazzano l’amore per la musa.
Opponi studio e pazienza, tu lisa
palandrana da troppi rivoltata.
I problemi grandi, anzi immensi, sono due: da un lato la storia, ovvero la socialità; dall’altro la natura, ovvero l’esistenza. Sono entrambi irrisolvibili, per definizione e per, come non bastasse, sopraggiunte complicanze estemporanee. La storia partorisce sequenze innumerevoli di menzogne, poiché è la manifestazione quantitativa e qualitativa della socialità che ingabbia e determina il percorso umano sulla Terra. Socialità è sinonimo di intrigo e di inganno. Un coacervo putrido di «circo-stanze» in cui si aggirano tragicomici pagliacci per soffiare nelle orecchie maldicenze tra «creduli» a loro volta maligni, vogliosi e ansiosi di credere, e quindi «baruffe bassotte flatulente», «codici tribali affantoccianti», e ancora ipocrisie, cannibalismo affettivo, vampirismo psicologico, «maniere e manierismi» per malcelate intenzioni, «solipsismi in posa da autoscatto» (i cosiddetti “selfies”), e ovunque il rumore di fondo di quel «chiacchiericcio» insulso ma dannosissimo che purtroppo conosciamo molto bene. La natura d’altro canto è spietata perché soggetta a inderogabili leggi evolutive e all’imperio tirannico del tempo, con la sua «carta vetrata che sfalda ogni giorno» per cui l’esistenza è fatta da «rovine di frammenti» e «vestigia ammonticchiate» dove, talvolta, può splendere qualche epifania (gli «scarti», difatti, approntano «festoni a intermittenza») mentre la «dignità volteggia con cartacce». Quella di Anna Maria Curci è, per auto-definizione consapevole di poetica, «l’arte dei brandelli», cioè la vocazione etica a lavorare con le «frattaglie», raccogliere le «spoglie abbandonate», aggirarsi tra «piaghe» e «macerie» per abbracciare l’«intangibile» e puntellare le crepe dal crollo imminente che le allarga. La condizione umana è di per sé risibile, vana e ingannatrice:
Nell’interludio tra le glaciazioni
s’inorgoglisce l’uomo, si fa centro.
Pesce rosso nella boccia di vetro
e invece e a malapena se ne avvede.
E ancora:
Canticchiare con le gambe conserte,
mettere i saldi per non stare soli
indaffararsi con stridio di specchi.
La pietra sa che ci prendiamo in giro.
Non siamo affatto il centro dell’universo, né la misura delle cose che ci sfuggono e delle quali restiamo in balia, a guisa di naufraghi; sensazione mirabilmente espressa dalla straordinaria metafora epistemica incarnata nella quartina CXII:
Non un’isola, nemmeno una boa,
solo un turacciolo usato e disperso,
gettato a caso ad assorbire sabbia
che si rotola goffo in cerca d’acqua.
Il mistero che soggiace all’intrico dei segni e all’ambiguo confliggere dei casi resta più che mai inconoscibile e «a noi precluso», anzi: si affaccia soltanto «per essere incompreso», come sa bene Orfeo, «il reduce dall’eterna penombra»:
Quando accediamo, gli occhi dilaniati,
alla stanza che ripara il mistero,
è già tutto perduto. (…)
Ciò, tuttavia, non esime l’uomo, e anzitutto il poeta, dal dovere di ricerca e conoscenza, dato che camminano «allacciate, una pensosa, / l’altra poppante intrepida o vecchina / sdentata, la ricerca e l’esistenza». È una «lama di dentro» che spinge a risalire «il corso dei nomi» per decifrare e sciogliere gli enigmi, ed è anche un modo di cercare «rifugio dall’orrore» che si annida nel vuoto dell’universo, dove appunto la verità ama nascondersi come la bellezza quando «gioca a nascondino». La verità non si raggiunge e non si costruisce a forza di «proclami» o di «trionfi» (e infatti questi sono “mottetti” privi di sentenze) ma umilmente, con pazienza di attitudine e abnegazione, soprattutto come dono spontaneo della natura stessa, allorché «le frontiere diventano ponti» e allora «si allarga breccia», «lo squarcio all’improvviso rivelato» per cui il «deserto ostile e familiare» che brucia nella “terra desolata” svela, tra «l’opaco e il brillante», tutte le «gradazioni minute» della ricchezza che normalmente cela. Ogni tentativo di conoscere il mistero, o di resistere alla forza del mondo, è destinato a scacco, a fallimento, a inanità. La forma che estraiamo dalla vita è «fragilissima», pur quando «tenace», e il baluardo provvisoriamente elevato crolla sotto i colpi di un’erosione continua e costante, come un castello di sabbia in riva al mare. «Appronti con fervore il fortilizio, / scavi fossati, piombi fenditure» per poi scoprirti «tenente Drogo dei refusi» che presidia una «fortezza smantellata». Il cammino della conoscenza è punteggiato di false cime («si profila e si sgretola la meta»), fino a quando capisci che
Non puoi vuotare il mare col secchiello,
neanche il tentativo può salvarti, (…)
Il problema della forma rispetto alla vita, cioè della sua resistenza agli eventi critici che la consumano e infine la aprono e la dissolvono, è uno degli snodi tematici più importanti del libro. Tanto da improntare la struttura chiusa e al tempo stesso aperta di queste quartine, come cuciture che schiudono «spazi estesi e contorni inaspettati» componendo una specie di “romanza” non solo, come si è visto, del desolante scenario contemporaneo, ma anche della terra senza luogo e senza tempo dove suona l’«antico adagio dello smarrimento». Strumento affascinante la quartina, da Omar Khayam a Eugenio Montale (“Mottetti”) ad Anna Maria Curci, poiché chiude l’universo in una forma che, data la brevità dello slancio, costringe la poesia ad essere precisa e determinata, e insieme a cercare lo scarto del nuovo e il respiro aperto dell’infinito.
Decostruzione e ricomposizione, come per la tela di Penelope: è il metodo creativo messo in atto dall’autrice in questo libro, come si capisce anche dalla caratteristiche della sua voce poetica e, nella fattispecie, della sua scrittura. È una voce «claudicante» che accoglie lo sgambetto delle «vocine» divergenti, quelle che contrastano il bordone. Sa che la parola non è mai innocua, è una compagna fedele e rabbiosa che può fungere da paracadute e, soprattutto, da piccone demolitore. Smontare, spezzettare e poi ricomporre il mondo – è questa l’impronta caratteristica – articolando la dinamica ondivaga di una scrittura “contro”, che procede appunto in controtempo e cerca il controcanto «terza o quinta sotto» per fare il contropelo, cioè scuotere, svegliare e fustigare. Ha bisogno per questo della dissonanza, che già appartiene alla natura stessa delle cose (dal punto di vista dell’uomo contemporaneo); tanto che può dire, pur utilizzando la “musica” degli endecasillabi, variati nelle diverse accentuazioni toniche e ritmiche: «Io non ti ho mai incontrata, melodia».
È una poesia ispida e ruvida, talvolta anche petrosa, benché provvista delle sue dolcezze e di una certa particolare grazia naturale. Cammina in modo sghembo tra buche, sobbalzi, pensieri, visioni che emergono “a schiaffo” dalle associazioni eidetiche e cognitive, ma soprattutto non è mai in cerca di facili consolazioni: quand’anche giungesse ad una trasfigurazione, sarebbe «maculata» di ombre e di esperienza. L’unica vera distensione affettiva si ha quando le epifanie della memoria involontaria liberano, come lampi, i ricordi dell’infanzia, e quindi il gioco della campana e del nascondino, le serpi nella marana, il tranvetto della Stefer, i versi a memoria («infeconda tortura» scolastica), il rapimento di Aldo Moro appreso ai banchi del liceo, ecc. Anna Maria Curci usa il setaccio analitico ma conosce anche «l’ingordigia del lupo» e l’arte beata del consumo, della dissipazione, tanto da potersi definire «metà e metà, formica e poi cicala, / un ibrido che ascolta, stipa e canta». Tuttavia, per concludere, il migliore autoritratto poetico è offerto dalla quartina CXXII, in cui sembra riassumersi tutto l’arco evolutivo del libro e il suo profondo significato storico e umano:
In volo su mottetti e ditirambi,
simbolo, segno, grido, invocazione,
scava un pertugio, accedi alla speranza,
tra cielo e terra parla al sottosuolo.
Marco Onofrio