
Categoria: Pensieri
3 novembre 2022: Marco Onofrio parla di “Mediterraneo” su Slash Radio Web

Per la rassegna “Conversazioni d’arte” e il ciclo “Mediterraneo. Culture, scambi e immaginari condivisi”, promossi dal MIC in collaborazione con l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Marco Onofrio sarà ospite della puntata del 3 novembre 2022, dalle ore 16.40 alle ore 17.30, sul tema a più voci: “Creare nel Mediterraneo: arte, musica e letteratura”.
Per seguire la diretta: http://www.uiciechi.it/radio/radio.asp
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Riflessioni sul carcere (non) “rieducativo”
Il film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), di Nanni Loy, con Alberto Sordi magnifico protagonista, mi procura ogni volta che lo vedo un senso vivo e straziante di angoscia, rabbia, indignazione. Anche perché il pensiero corre subito alla scandalosa detenzione (1983-1985) del povero Enzo Tortora, completamente estraneo ai fatti di camorra che gli vennero imputati, di cui il film rappresenta (col senno di poi) una specie di inquietante presagio. E, attraverso Tortora, il pensiero raggiunge tutti gli innocenti che scontano ingiustamente una pena e a cui è stata distrutta l’esistenza. Chissà quanti ce ne sono! E ripeto tra me, con sicura convinzione: “mille volte meglio un assassino libero che un innocente in galera”. Il film di Loy e il “caso Tortora” dimostrano che l’abominio giudiziario è una spada di Damocle sospesa sul capo di ognuno di noi: può accadere a chiunque, da un momento all’altro, di ritrovarsi coinvolto per errore in loschi affari, accusato per omonimia, vendetta, diffamazione, o designato a capro espiatorio (come accadde a Pino Pelosi, condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini) quale anello debole di una storia molto più grande del singolo individuo, dove i veri colpevoli sono tutelati dal potere.
Guai a restare intrappolati nei pachidermici ingranaggi della macchina giudiziaria: il rischio di venirne schiacciati è altissimo. Le leggi sono spesso ingiuste, le procedure lente, i disguidi, le omissioni e gli insabbiamenti all’ordine del giorno. È una macchina che, quando parte per la sua inerzia, sembra difficilmente governabile: non la guida infatti Dike, con la bellezza della sua forza ideale, ma Anànke, con la sua implacabile determinazione, cioè la ragion di stato che non guarda in faccia nessuno e ha il volto osceno della storia, oltre che la voce stridula della burocrazia. Non è solo la limitazione della libertà a prostrare i detenuti, ma anche il peso di questa violenza silenziosa che muove le spire stritolanti della legge, e la riprovazione sociale che, fin dallo stato di fermo, ricade sul “colpevole”, vero o presunto che sia. Anche l’ombra di un sospetto e la gente, per non compromettersi, gli farà il vuoto intorno: ecco perché basta pochissimo a rovinare la vita di una persona.
Eppure nell’articolo 27 della Costituzione c’è scritto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E poi, quand’anche condannato, egli è un soggetto da guadagnare al consesso civile con opportuna opera di reinserimento. Lo stesso articolo recita fra l’altro che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma allora perché i carceri sono agli antipodi della rieducazione? Inferni di sovraffollamento; di violenze esercitate in segreto dalle guardie carcerarie sui detenuti e tra gli stessi detenuti, per gerarchie interne e vendette collaterali; di infinite umiliazioni quotidiane. Non siamo più ai tempi di Oscar Wilde, quando scriveva – reduce dalla detenzione per sodomia e volgare indecenza – La ballata del carcere di Reading (1898):
A prison wall was round us both,
Two outcast men we were:
The world had thrust us from its heart,
And God from out His care:
And the iron gin that waits for Sin
Had caught us in its snare.
(Il muro della prigione ci circondava,
noi non eravamo che reietti:
il mondo ci ha cacciato dal suo cuore,
e Dio dalla Sua carità:
e la trappola di ferro che attende il Peccato
ci aveva catturati nella sua rete).
E ancora:
We were as men who through a fen
Of filthy darkness grope:
We did not dare to breathe a prayer,
Or to give our anguish scope:
Something was dead in each of us,
And what was dead was Hope.
(Sembravamo uomini che annaspano
in una palude tristemente oscura:
non osavamo sussurrare una preghiera
o dare sfogo alla nostra angoscia:
qualcosa era morto dentro di noi,
e ad esser morta era la Speranza).
Sono trascorsi oltre cento anni, ma lo stato pietoso dei carceri non sembra cambiato granché. La detenzione produce, anziché rieducarlo, il peggioramento dell’individuo e il regresso di almeno un grado della sua moralità: perciò, se entra onesto, esce delinquente; se entra delinquente, esce criminale; se entra criminale, esce mostro. In carcere si sta troppo male e si impara a delinquere, o a delinquere “meglio”. C’è una specie di rinunzia “a priori” nel tentativo di rieducazione: i detenuti sono lasciati in balia di se stessi, a insegnare l’un l’altro, e non certo l’onestà ma le tecniche professionali di delinquenza. Questa “scuola di perfezionamento al contrario” fa sì che ogni volta che un recidivo torna in carcere per scontare una nuova pena, lo Stato civile ratifichi una ulteriore sconfitta nella propria capacità di rieducazione penitenziaria.
Ora, alcune domande sorgono spontanee: che cosa impedisce, in concreto, la costruzione di nuovi carceri o, almeno, il miglioramento di quelli esistenti? Quale interesse c’è a renderli o mantenerli fatiscenti e invivibili? Perché si preferisce piuttosto svuotarli dall’eccesso di detenuti con periodici indulti, che liberano per le pubbliche vie delinquenti pericolosi, tutt’altro che redenti o pentiti? Perché non si ricorda che la pena del detenuto è già la sottrazione della sua libertà fondamentale (pena terribile, se solo ci si ferma a riflettere), e che dunque non c’è bisogno di aggiungere sadicamente un surplus di sofferenza legato alle condizioni in cui quella libertà esigua e residua dovrà essere vissuta? Qualcuno potrebbe ironizzare facendo notare che le persone cosiddette libere, in realtà libere non sono, e che allora c’è bisogno di distinguerle ulteriormente dai detenuti attraverso un inasprimento punitivo dell’esperienza carceraria; ma io risponderei che non è il caso di ironizzare, perché c’è una differenza enorme e reale tra la libertà di chi sta fuori e quella di chi sta dentro, come ben sa chiunque in carcere ci sia stato davvero, anche un solo giorno. La “punizione” deve coincidere con la “pena” da scontare, che a sua volta prevede solo la sottrazione della libertà, non anche la trasformazione dell’esistenza quotidiana in un inferno. Dove sta scritto che questo debba accadere? E ancora: perché in Italia si parla sempre di stadi inadeguati da ricostruire, e non si invoca la stessa necessità per i carceri? D’accordo, il calcio come valvola di sfogo per tenere buono il popolo-bue; ma, sulla scorta dei decenni, qualcosa si potrebbe fare anche per i detenuti, che forse vengono trascurati dalla politica perché hanno accesso limitatissimo al diritto di voto (1 su 10 può esercitarlo), e soprattutto perché sono consumatori di serie C, forzatamente esclusi dal libero flusso delle merci e degli acquisti (per esempio dalle “liturgie” familiari nei centri commerciali) che tanto importa ai governi e alle istituzioni. I politici potrebbero interessarsi di come sopravvivono i detenuti solo se avessero realmente a cuore, come peraltro giurano, il bene comune e il miglioramento della società: ecco perché fingono di interessarsi.
I carceri dovrebbero essere rimodellati in “case circondariali di esperienza” dove utilizzare in chiave evolutiva le vicende di chi ha sbagliato, come fattori di crescita umana. Consentire e incoraggiare un dialogo costante dei detenuti con il resto della comunità. Farli sentire importanti invitando ciascuno di loro a raccontare la propria storia e ascoltandola con sincera attenzione, offrendo persino l’opportunità di scriverci un libro con la supervisione di un editor, e poi di pubblicarlo a quattro mani. Farli vivere in luoghi per l’appunto vivibili, cioè spaziosi e accoglienti, seppure sobri e razionali, dove sciogliere la tenebra dell’uomo in luce umanistica di redenzione. Luce e aria, anzitutto, per curare le ferite interiori e sociali che li hanno portati a delinquere. Non un progetto utopistico di parole vuote, ma qualcosa di concretamente realizzabile mettendo a frutto la cultura, e quindi organizzando proficuamente la settimana dei detenuti con un calendario fitto di incontri, di scambi, di lezioni, di gare. Il detenuto sconterà la sua pena studiando, imparando nozioni e mestieri, liberando energie nello sport. Affiancato e assistito da una equipe di umanisti a 360°, psicologi, pedagogisti, insegnanti, musicisti, scrittori, artigiani, cuochi, allenatori, ecc., sui quali naturalmente investire risorse statali che, altrettanto naturalmente, risulteranno di sicuro irreperibili non per penuria di fondi, ma perché manca la reale volontà di risolvere il problema. I detenuti vivono in condizioni penose? E lasciamoli marcire! Del resto, sono o non sono la feccia della società? Hanno o non hanno commesso crimini? Così, il comune benpensante nelle chiacchiere da bar. Così, il politico comune nei suoi veri pensieri. Però poi si lamentano (o tempora, o mores) che la società è trista e malata. Ma allora perché continuare a parlare ipocritamente di “rieducazione del condannato”? Perché non cancellare l’articolo della Costituzione? Che cosa si fa, in concreto, per ottemperarvi? Quanti laureati in Lettere, ad esempio, potrebbero trovare impiego nei carceri per tirare fuori il meglio dai detenuti e innescare in loro un “circolo virtuoso” con cui disinnescare quello vizioso che li spinge a peggiorare? Quanto potrebbero invece migliorare, e con loro l’intera società, se fossero incentivati (anche per fini di buona condotta e relativo sconto di pena) a personalizzare un “piano educativo di riabilitazione” tra le molteplici proposte offerte dall’istituto penitenziario? Se il detenuto, una volta scontata la pena, torna a delinquere, siamo sicuri che è solo perché delinquente incallito, o non anche e soprattutto perché la società non ha saputo né voluto riaccoglierlo come meritava? Quante “recidive” verrebbero meno se il detenuto si sentisse davvero apprezzato e valorizzato come persona umana, durante l’esperienza carceraria? E se poi si smettesse di trattarlo come detenuto a vita, ergastolano “de facto”, anche dopo che ha saldato il debito con la legge e la società?
Proprio l’ingiustizia di questa macchia indelebile, e il cerchio conseguente di gelo e sospetto che continua ad aleggiare intorno al detenuto tornato libero cittadino, sono a mio dire perniciosi nel debilitare ulteriormente la sua fragile psiche e scoraggiare tutti i “buoni propositi” con cui vorrebbe e potrebbe diventare un cittadino onesto come gli altri. Lo scoraggiamento è premessa di caduta e ricaduta: non credere più in se stessi e in un possibile futuro, porta qualsiasi uomo (non solo l’ex detenuto) a buttarsi via, in un processo irreversibile di autodistruzione. I detenuti vanno nutriti di speranza in carcere, e poi concretamente reintegrati quanto tornano liberi. Non li si lasci allo sbaraglio: ci dev’essere un lavoro che li attende all’uscita dal carcere, e un assistente sociale che li seguirà nei primi mesi. Ai migliori di loro, a quelli cioè che si sono più distinti nel percorso evolutivo di riabilitazione, affiderei ad esempio la tutela di un monumento o di un bene culturale, con funzioni di custodia e di guida turistica per visitatori e/o comitive. Non per buonismo pietoso di facciata, oggi tanto in voga, ma per meriti acquisiti nel dimostrarsi degni di quella funzione e nel voler contribuire sinceramente al miglioramento della società. Chi meglio di un ex detenuto risorto dai propri peccati ha la credibilità e i titoli per farlo?
Marco Onofrio
Italia, crocevia di popoli

L’identità civile di un Paese – ovvero il patrimonio stesso della sua vicenda storica, delle sue manifestazioni caratteristiche, delle sue istituzioni culturali – è inevitabilmente condizionata dalla conformazione geografica del territorio racchiuso entro i suoi confini. I confini, a loro volta, si conformano al vario evolversi degli accadimenti storici e politici. Non sempre, peraltro, i confini geografici corrispondono a quelli segnatamente politici. Nel caso dell’Italia, tale corrispondenza è connotata da una necessità – starei per dire vocazione – assolutamente naturale, considerando il mare che ne avvolge e bagna gli oltre 8000 km di coste, e le catene montuose che ne cingono, a mo’ di corona, le estremità settentrionali. Inoltre, la stessa caratteristica forma a stivale fa del nostro Paese un’entità geografica particolarmente definita e riconoscibile (anche ad altitudini satellitari). Il linguaggio silenzioso del suo “corpo” fisico dice: “sono una terra di incontri e scambi, un ponte naturale tra i popoli”. La penisola si protende in tutta la sua lunghezza verso il cuore assolato del Mediterraneo, mettendo in comunicazione spazio-temporale mondi fra loro diversissimi come quelli dell’Europa continentale e del Nordafrica. Ma è soprattutto la posizione centrale nel mondo mediterraneo che, da sempre, ne fa un crocevia obbligato. Non solo tra Nord e Sud, ma anche tra Oriente e Occidente d’Europa: a segnare lo spartiacque, il punto di separazione (e quindi anche di contatto) fra queste stesse definizioni geografiche, storiche e culturali. Per capire quanto, basterebbe guardare indietro, alla storia che rende il nostro Paese, non a caso e a dispetto della sua non strabiliante estensione geografica, ricchissimo di “passaggi” e testimonianze, detentore, com’è, del 70% del patrimonio artistico e culturale censito ad oggi nel mondo. Si pensi per esempio ai Greci che, colonizzandone le coste meridionali (quella che venne poi chiamata “Magna Grecia”), vedevano nell’Italia una sorta di “America” ante litteram, di nuova frontiera occidentale: uno spazio di libera espansione.
Ma è solo con l’Impero ecumenico e mediterraneo creato dai Romani che l’Italia poté rivelare appieno la propria organica vocazione internazionale, il proprio respiro multietnico. L’Impero apportò innegabili benefici a tutti i popoli “romanizzati”, concedendo loro la “pax romana”, promuovendo una maggior regolarità e giustizia nell’amministrazione della cosa pubblica, garantendo leggi più sicure, agevolando la fioritura delle città, permettendo alle attività economiche di espandersi in un unico organismo di straordinaria ampiezza, insomma: inquadrando in compagine unitaria tutti i Paesi del Mediterraneo. Era un crogiolo di genti, culture e lingue che dialogavano, legate da una coesistenza non sempre pacifica, ma comunque effettiva.
Per diversi secoli Roma riuscì a far convivere mondi eterogenei sotto le insegne dell’aquila imperiale. Poi, con l’indebolimento del potere centrale, accentuato da una progressiva e sempre più sensibile differenziazione tra Oriente e Occidente, il puzzle cominciò a disgregarsi, a perdere tasselli. La differenza tra le due zone dell’Impero, anche quando non ancora ratificata a livello giuridico, prendeva corpo anzitutto dal punto di vista economico e politico: sicché, mentre in Occidente i traffici ristagnavano e la gente impoveriva, sommersa da tasse sempre più esose, in Oriente perdurava il controllo di province ricche come Egitto e Siria, mediante cui avevano luogo gli scambi col mondo mesopotamico e con la valle dell’Indo; e mentre in Occidente il potere civile era ormai alla mercé dei comandanti dell’esercito (spesso di origine barbarica), in un avvicendarsi caotico che spesso rasentava l’anarchia, in Oriente l’imperatore manteneva ancora saldo il controllo dell’amministrazione e solida la propria autonomia dinanzi ai vertici del corpo militare. Tale superiorità dell’Oriente venne di fatto riconosciuta allorché, nel 330 d.C., Costantino decise di trasferire la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio, ribattezzata in suo onore Costantinopoli. La ratifica avvenne con l’assegnazione, da parte di Teodosio, dell’Occidente e dell’Oriente rispettivamente ai figli Onorio e Arcadio (394 d.C.). L’Impero d’Occidente, sconvolto da una situazione caotica e minato gravemente nelle sue strutture, non poté resistere a lungo alla pressione sempre più incontenibile dei Barbari. Roma finì con l’essere saccheggiata (dai Visigoti di Alarico, nel 410 d.C., e dai Vandali di Genserico, nel 455 d.C.), mentre l’Impero d’Occidente si avviava convulsamente alla caduta, che si materializzò, infine, allorché Romolo Augustolo fu deposto dal barbaro Odoacre (476 d.C.). L’Impero d’Oriente, invece, forte di una cultura scaturita dalla sintesi della tradizione ellenistica e della civiltà romana, poté sopravvivere alla marea delle invasioni barbariche e, mantenendo intatto il suo splendore, esercitare ancora per molti secoli (fino al 1453) la sua importante funzione storica. La cultura orientale, peraltro, già da secoli aveva improntato di sé il mondo romano, ad esempio con il fascino dei riti misterici, con la diffusione del Cristianesimo (poi religione di Stato), e con il fastoso modello teocratico, adottato da parecchi imperatori.
A valutare quanto l’Italia sia stata fin da tempi antichi ponte e crocevia tra Oriente e Occidente, basterebbe esaminare la storia e le vestigia di città come Ravenna (dove Onorio trasferì, nel 402 d.C., la capitale dell’Impero) o come Venezia e, in genere, delle coste bagnate dall’Adriatico (vero e proprio “cuscinetto” tra due mondi), dirimpetto alla sponda levantina. Sempre da Oriente giungevano i pirati saraceni, per compiere le loro scorrerie lungo le guardinghe coste italiane; mentre in direzione opposta si mossero i Crociati per la conquista della Terra santa, e i viaggiatori come Marco Polo, per la scoperta di nuovi mondi. L’Italia è piena delle tracce dei popoli passati sul suo territorio, avvicendandosi – secolo dopo secolo – al dominio delle sue genti. Terra di conquista e di guerre, sì, ma anche di incontri, dialoghi, viaggi (fu meta immancabile del Grand Tour). Senza scomodare Roma, sistema vivente di tutte le sue innumerevoli rovine, basti pensare ai mille volti che connotano una città significativa come Palermo: fenicia per le origini, greca per il nome, romana per i mosaici di Villa Bonanno, araba per alcune chiese eredi delle moschee, sveva per le tombe degli Hohenstaufen, francese per i monumenti angioini e borbonici, spagnola per le architetture memori dei tre secoli di governo vicereale… In una sola parola: “italiana”. Già, perché è proprio dell’Italia, ovvero congeniale alla sua natura profonda, alla sua storia, questo essere crogiolo e memoria di civiltà eterogenee, attrattevi dal diverso favore delle circostanze e dall’inevitabilità, per così dire, della sua posizione geografica. L’unità d’Italia (1861) sovrappose una vernice di coesione politica all’estrema frammentazione storica del nostro territorio, che, nel suo sviluppo, aveva proceduto per “sacche” autonome e spesso incomunicabili, da regione a regione e, spesso, da zona a zona. Anche se la scolarizzazione diffusa e la prepotente invasività dei media tendono a omologare il costume nazionale (in senso europeo ed occidentale globalizzato), eliminando le differenze più vistose e macroscopiche, un siciliano e un piemontese, ad esempio, sono ancora oggi molto diversi, quanto a mentalità, cultura, modo di intendere la vita. Esiste tuttavia una comune e condivisa “identità italiana”: un quid che nasce dalla nostra stessa storia, e che ci rende “popolo” (nazionale di calcio e lingua a parte).
Proprio per questa vocazione mediterranea e multietnica – che fa degli Italiani, tra le altre cose, un popolo di “navigatori” – il nostro Paese è in grado di porsi e proporsi come mediatore di incontri, come risolutore di controversie internazionali, come operatore di pace. È nel DNA storico dell’Italia tale imprinting umanistico: l’apertura ai principi democratici del dialogo, dell’accoglienza, della tolleranza, che rendono il nostro Paese quanto mai atto ad agevolare l’incontro e lo scambio osmotico fra popoli e culture anche profondamente diversi. Ed è in grado di farlo senza perdere nulla della propria identità culturale: proprio perché è questa l’identità culturale in cui gli Italiani possono meglio riconoscersi, la civiltà congeniale alla loro natura. Pertanto, risultano estranee all’ethos italico più autentico – oltre che speciose e pretestuose – le manifestazioni di xenofobia, intolleranza razziale ed esasperato nazionalismo che spesso accompagnano il pur delicato processo di integrazione, conseguente ai flussi migratori di cui è oggetto fra gli altri il nostro Paese, ormai da decenni, da parte di cittadini extracomunitari in cerca di lavoro e di fortuna. Non c’è dubbio che le dinamiche di accoglienza dei migranti – ancorché incondizionate dal punto di vista umanitario, specie nel primo soccorso, tanto più che l’Italia ha salde radici cristiane – dovrebbero essere regolamentate in ragione delle effettive possibilità di integrazione nel nostro tessuto economico e sociale, anche in sinergia con gli altri membri dell’Unione Europea, i quali dal canto loro non possono demandare all’Italia, solo perché protesa nel Mediterraneo, tutto l’onere di sostenere l’impatto del fenomeno migratorio, anche e soprattutto dopo le doverose e sacrosante pratiche di “prima accoglienza”. Ciò per un duplice ordine di motivi fondamentali: 1) sulla migrazione umana non deve speculare nessuno, né le mafie, né i politici, né le ONG, né gli imprenditori disposti allo sfruttamento; 2) i migranti non lasciano i loro Paesi di origine, affrontando il mare a rischio della vita, per poi continuare a fare i profughi, emarginati e disadattati, anche nel cosiddetto “primo mondo”, o diventare mano d’opera a basso costo, o essere cooptati dalla criminalità e ritrovarsi a delinquere.
Una cosa è certa: se l’Africa fosse degli africani, se cioè non fosse stata depredata negli ultimi secoli dall’Europa e dal suo rapace imperialismo, oggi sarebbe forse (e toglierei forse) il primo continente del pianeta, il più ricco e autonomo, e milioni di persone non avrebbero bisogno disperato di migrare; accadrebbe, semmai, il contrario. Ricordiamoci di quando eravamo noi, pezzenti e malnutriti, a migrare nelle Americhe e negli altri Paesi europei!
Marco Onofrio
“Le segrete del Parnaso” recensito da Palmira De Angelis su «Voce Romana»

Nel suo ultimo libro “Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia” (Terra d’ulivi edizioni, 2020), Marco Onofrio descrive i meccanismi di selezione nell’industria culturale italiana. Ci spiega come gli editori scelgono i manoscritti per la pubblicazione, come il testo stampato arriva nelle librerie e come gli scrittori riescono a farsi pubblicità sui quotidiani nazionali e in Tv, rilasciando interviste e aggiudicandosi premi. Parallelamente, attingendo alla propria esperienza, apre una finestra sul mondo universitario, il luogo per eccellenza dove la ricerca ha lo scopo di far avanzare il sapere e permettere che venga condiviso. Non si dovrà però credere che il testo sia un manuale informativo. Tutt’altro: si tratta a tutti gli effetti di un libro politico, nel senso originario e proprio del termine, perché rappresenta ambiti che appartengono alla dimensione più alta della vita civile indicandone impietosamente i vizi.
L’autore si augura di raggiungere un pubblico di lettori ampio, che includa anche quella “gente comune” generalmente disinformata e spesso indifferente alle modalità di produzione e diffusione della cultura per la convinzione che tali argomenti interessino solo gli addetti ai lavori. C’è una motivazione etica che lo spinge: vuole mettere nero su bianco quanto avviene nella realtà italiana perché, ci ricorda, la cultura è linfa vitale nell’esistenza di ogni individuo per come viene fruita, assorbita e ricreata in ogni atteggiamento e in ogni decisione; quindi, ciò che risulta disfunzionale nella fase di produzione e diffusione, nell’editoria come nell’accademia, non può che danneggiare ognuno di noi.
Scrittore prolifico egli stesso, consulente editoriale, recensore, ideatore di eventi culturali, Onofrio ha la possibilità di osservare quanto descrive da un punto di vista ravvicinato, tanto da poter affermare senza velature che molti e gravi sono i problemi e i danni. Manca la meritocrazia, il coraggio, la lungimiranza, proprio in un settore che non dovrebbe volere altro per alimentarsi. Al loro posto abbiamo cooptazione e baronaggio. Da tanto tempo ormai siamo in una condizione di stagnazione, se non di propria regressione, perché non si promuove chi più vale, avendo come obiettivo il rinnovamento e l’avanzamento culturale e scientifico. Si preferisce, al contrario, ignorare il talento e la preparazione, per accogliere i soliti figli e figli di amici e amici di potenti che restituiranno il favore. E ciò su larga, larghissima scala.
Storia vecchia? Annosa questione? Assolutamente sì, se è vero che gli scrittori che hanno mantenuto l’integrità morale, i ricercatori che faticano a farsi riconoscere, gli insegnanti più impegnati intellettualmente ne parlano, eccome, ma ormai quasi sempre sottovoce, con la rassegnazione che arriva dopo anni di battaglie perdute, oppure con la rabbia degli esclusi. Da tempo si è smesso di denunciare e di informare. E di sperare. Sono lontani quegli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, gli ultimi in cui ancora si voleva credere alla possibilità di un cambiamento e di una rigenerazione. Nei decenni successivi, fino ai nostri giorni, i metodi di cooptazione si sono progressivamente affinati, rafforzandosi e invadendo ogni ramificazione dell’industria culturale.
Cosa c’è dunque di nuovo?
C’è anzitutto che la situazione si è incancrenita: ormai le storture sono diventate sistema, non c’è nemmeno più camuffamento, forse nemmeno più consapevolezza del danno che si provoca. La rassegnazione e lo scoraggiamento di chi viene tenuto fuori dalle “segrete del Parnaso” è tale che più spesso si rinuncia, con una perdita per il paese nemmeno immaginabile, perché il genio e l’unicità non si possono immaginare.
Avviene, inoltre, che il ruolo stesso dello scrittore sia ormai cambiato drasticamente. Non è più maestro del pensiero, ma giullare dei media e dei social, tanto che, scrive Onofrio, «la letteratura ormai si fonda più sul presenzialismo, le pubbliche relazioni e l’uso spregiudicato delle virtù sociali, che non su ciò che davvero si scrive, pagine alla mano». Lungi dal dissociarsi da tale asservimento, molti sono caduti nella trappola: «Amano più se stessi e il proprio successo, appunto, che la propria arte». Del resto anche i lettori li stimano solo se li vedono in Tv, magari invitati ai talk show per parlare di tutto fuorché del loro lavoro.
Ciò è la prima conseguenza del fatto che non ci viene offerto alla lettura il meglio che potremmo avere, ma per lo più opere mediocri e non originali, «la fotocopia di una fotocopia, che a furia d’esser riprodotta si sbiadisce sempre più». Se il valore del prodotto culturale è sempre più basso – la diffusa sciatteria nell’uso della lingua accompagna la superficialità della visione – anche il gusto del pubblico si degrada e non riconosce più il letterario. Ci si diletta del libro come fenomeno effimero, accessorio patinato e semplice passatempo.
In questo panorama desolante sta a noi fare qualcosa di nuovo: abbandonare l’acquiescenza e la rassegnazione opponendoci apertamente a questo sistema. Da qui l’importanza di informare quanti non sanno. Onofrio ci prova nella speranza che il suo j’accuse renda «edotti anche e soprattutto gli autori, esordienti e non, che ingenuamente credono ancora nelle favole, quelle partorite dalla loro immaginazione e quelle propinate dallo stesso sistema corrotto». Non perché si scoraggino, ma perché affrontino con più strumenti la loro personale battaglia. Nel contempo, ci dice, l’obiettivo potrà e dovrà essere più ampio, e sarà quello di far comprendere come la cultura, la sua produzione e il suo uso, siano aspetti essenziali nella vita del paese perché toccano «ambiti da cui sono coinvolti i problemi della libertà, della democrazia, della vita civile, della storia».
Palmira De Angelis
Dreams of Italy… decalogo di possibili utopie

I have dreams… Sogno un’Italia capace di risvegliarsi dal coma farmacologico, in cui vegeta da decenni, per tornare al centro della propria imprescindibile essenza costitutiva, di faro umanistico per gli altri popoli – europei e non solo – nella misura in cui detentrice e custode del 70% del patrimonio artistico e umano del pianeta. Sogno un’Italia non più sottomessa al prepotere finanziario e politico di questa Europa, pensata e organizzata (dietro i velami seduttivi delle belle parole ipocrite, cioè dei propositi unitari e solidali) a mo’ di “bisca clandestina” appannaggio del Nord, in primis naturalmente la solita Germania. Sogno un’Italia capace di emanciparsi dal provincialismo e dall’esterofilia, senza per questo diventare sovranista, razzista, fascista. Sogno un’Italia capace di riappropriarsi serenamente della propria storia dimenticata, della propria identità smarrita, della propria natura contaminata. Sogno un’Italia capace di riscoprire la missione civile che il cammino dell’Uomo le ha conferito lungo i millenni: indicare al mondo le vie ecumeniche della pace, del dialogo, della mediazione, della cultura. Sogno un’Italia capace di tradurre in ricchezza equa e condivisa le risorse inesauribili del proprio genio e quelle sconfinate dei suoi mille patrimoni. Sogno un’Italia capace di sconfiggere il cancro massonico che soprattutto oggi ne corrode la meritocrazia e ne limita fortemente le potenzialità. Sogno un’Italia libera finalmente dal potere occulto delle mafie e dalla demagogia dei menestrelli che – prezzolati dai competitors europei – affermano il falso sapendo di mentire e di tradire. Sogno un’Italia capace di riabbracciare la sua naturale vocazione mediterranea e talassocratica, quella stessa che fece grandi le repubbliche marinare. Sogno un’Italia di nuovo solida e cosciente dei propri mezzi, al punto da proporre e promuovere in seno all’Unione Europea una Confederazione di Popoli Mediterranei comprendente appunto Italia, Portogallo, Spagna, Francia meridionale, Slovenia, Grecia, Malta, con statuti speciali e moneta particolare (potrebbe chiamarsi Medeuro, o Euro mediterraneo?), non più pesantemente soggetta al dominio delle oligarchie di Berlino e Strasburgo ma relativamente autonoma nel dialogo culturale e commerciale con le altre sponde del mare comune (dal Nord Africa al Medio Oriente) e con le grandi potenze mondiali (Cina, Russia, Stati Uniti); il che – a 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e a 30 dalla fine della guerra fredda – porterebbe anche a una ridefinizione di rapporti e obblighi all’interno di un Patto Atlantico non più così vantaggioso, per noi, com’era un tempo… Sarebbe molto bello accendere a Sud il fulcro di un’Europa altra, peraltro già esistente anche se con poca voce in capitolo, guidando uno sviluppo di connessioni politiche e socioeconomiche che ci porterebbe a non essere più i terroni del Continente, ma i promotori e i mediatori di un nuovo Rinascimento, in un’area geopolitica di cruciale importanza tra Europa, Africa e Asia… Dreams, dreams of Italy.
Marco Onofrio
Dissanguare i popoli e grugnire i privilegi

Il destino della Terra sembra ormai avvitato in una spirale irreversibile, dall’esito presumibilmente disastroso. Le risorse finanziarie e naturali sono quasi tutte nelle mani di pochi “maiali” ingordi e incontentabili (mi perdonino i maiali per l’offensivo paragone!) che perseguono senza scrupoli di sorta il loro patologico interesse, a discapito di persone, animali, cose, contesti, patrimoni, riserve, ecosistemi, tutto. Come se non ci fosse (e non dovesse esserci) un domani. Come se loro stessi non facessero parte di questo pianeta, e dunque potessero permettersi di devastarlo e consumarlo senza pagare in prima persona. Hanno forse già pronto un pianeta di riserva? Si faranno ibernare e, poco prima della fine, partiranno con le astronavi alla ricerca di nuovi mondi da colonizzare e distruggere? Non fanno parte, invece, dello stesso equipaggio in bilico, attraverso i millenni, sull’unica barca che abbiamo a disposizione?
Scrivevo, preconizzando la catastrofe, nel mio Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008): «Mentre la forbice aumenta l’apertura: / i poveri sempre più reietti / i ricchi sempre più indecenti»… Hanno avuto bisogno, i “maiali”, di annientare la classe media, cioè di accentuare la distanza tra il potere megalomane e quasi onnipotente dei pochissimi privilegiati, e la stragrande maggioranza degli “iloti”, cioè i sottoposti, gli oppressi “sotto-uomini”, affannando questi ultimi nei cavilli di un’esistenza sempre più complicata e difficile, ai bordi della sopravvivenza, tra sopore alienato e disperazione. Conclusa la guerra fredda con l’ammainabandiera del Cremlino, baluardo simbolico della resistenza dei popoli (26 dicembre 1991), i “maiali” hanno avuto il via libera per la riprogrammazione del mondo in ragione di un Nuovo Ordine che poi lo sviluppo tecnologico e informatico ha reso in pochi anni globalizzato. Le lancette della storia sono state portate indietro di secoli. Le democrazie sono state esautorate dall’interno, attraverso reti piramidali di massonerie, dai vertici occulti, che lavorano h24 per corrodere le posizioni conquistate dai popoli in 200 anni di sanguinose battaglie, tutelando e rafforzando, viceversa, gli interessi e i privilegi dei “maiali”. Il disarmo ideologico degli anni ’90 ha certificato il trionfo del relativismo nichilistico postmoderno, funzionale a una “società liquida” dove vale tutto e il suo contrario, e dove il fluido scintillio della superficie spettacolare è soltanto l’escamotage per rendere invisibili i giochi sporchi di chi investe miliardi per plasmare il mondo a propria immagine e ottenere costantemente il massimo profitto. Ogni cosa è stata di conseguenza de-realizzata, adulterata, privata del suo centro costitutivo, cioè investita e truccata per rappresentare il contrario di ciò che è. Un caleidoscopio di apparenze prismatiche e cangianti dove, a bella posta, è praticamente impossibile orientarsi. Di fatto: tanti cavalli di Troia per meglio intaccare l’autenticità del mondo “di prima”. Branchi di lupi travestiti da agnelli. Schiere di falsi predicatori. Plotoni di intelligenze assoldate e pagate per mentire. Politici radiocomandati dai banchieri. E dappertutto una vernice di libertà democratiche per attutire o silenziare i grugniti dei “maiali”, nascondendo le impalcature di una società mai così ferma negli ultimi 50 anni, e quindi gli intrallazzi di una dittatura tra le più pericolose di sempre, poiché per la prima volta nella storia planetaria e occulta, o meglio non evidente e immediatamente percepibile, nella quale siamo tutti avviluppati.
Se dunque si volevano punire i popoli per aver così sfrontatamente alzato la cresta, conquistando con il sangue e il sacrificio libertà civili e democratiche che fino a trent’anni fa si ritenevano acquisite e ormai definitive, occorrevano due cose fondamentali: 1) corrompere in toto la politica, cioè eliminare per sempre l’etica degli statisti e sostituirli tout court con docili e intercambiabili funzionari del Nuovo Ordine (meglio se qualunquisti e improvvisati, privi di specifica preparazione e di spiccata personalità, destinati come sono al ruolo di burattini); 2) elidere i margini critici del dissenso, cuocendo le persone a fuoco lento, anestetizzandole, frollandone pian piano i cervelli, spegnendone gli sguardi, facendone dei pugili suonati prossimi al KO. Quindi da un lato precarizzare e parcellizzare il lavoro, rendendone sempre meno solidi e certi i diritti; dall’altro rendere inutilmente complicata e al limite impossibile fino al suicidio l’esistenza quotidiana dei “sudditi” ex cittadini; dall’altro ancora, riempire la loro vita insulsa di futili soddisfazioni (gli acquisti a rate, i mutui, le vacanze, le crociere, gli status symbol con cui illudersi di elevarsi socialmente, i “circenses” settimanali come i riti del calcio e le vie crucis ai centri commerciali, o le altre innumerevoli droghe escogitate per tacitare le coscienze e imbrigliare le energie creative degli individui) nonché le loro mani, viceversa potenzialmente pericolose, con un aggeggio-catalizzatore per tenerli buoni, un oggetto che – anche lì, come per gli altri aspetti del mondo contemporaneo – finge di connetterli ma in realtà li isola e li aliena: l’onnipresente i-phone. E certo l’abnorme sviluppo tecnologico degli ultimi due decenni è stato auspicato e finanziato dai “maiali” anche e soprattutto per ottundere le coscienze delle persone, distraendole dal pensare alle cose realmente importanti e disinnescandone sul nascere ogni velleità di cambiamento. L’informatica ha steso la rete globale del Nuovo Ordine, consentendogli di attecchire e proliferare.
Ma il capolavoro dei capolavori sarebbe stato a quel punto creare e finanziare una falsa sinistra con cui cornificare e mazziare gli ideali delle passate generazioni, frodando meglio i popoli. Mascherare la destra più biecamente retriva sotto i panni amichevoli della sinistra in apparenza più democratica e populista. Una sinistra “postmoderna”, agile e funzionale, attenta ai mercati più che agli stati, disponibile a traviarsi e a traviare senza rispetto autentico per i principi costitutivi della sua stessa ispirazione. In cambio di questo tradimento i “maiali” avrebbero assicurato potere, aderenze massoniche e soldi, tanti soldi. Così è accaduto in Italia con il PD, che appunto rappresenta la sinistra disposta a vendersi l’anima. Come uno scrittore che accetta di farsi riscrivere il libro pur di pubblicare con il grande editore e vendere milioni di copie. Il PCI risorto dalle ceneri qualche anno fa è invece come lo scrittore idealista che rinuncia alle lusinghe del facile successo, pur di non tradire la propria voce e non perdere la propria inimitabile originalità. Naturalmente l’Europa dei “maiali” aborre il PCI e auspica un sempre maggiore rafforzamento del PD, in quanto grimaldello e ingranaggio delle proprie dinamiche finanziarie, a matrice oligarchica e antidemocratica. Anzi: il binomio con il M5S conferisce al PD un passe-partout populistico e qualunquistico che lo rende ancora più gradito e sostenibile. Ora arriveranno gli oltre 200 miliardi di euro del recovering found anti-Covid, ma l’Europa dei “maiali” non elargisce soldi a vuoto: più soldi prendi, più ne diventi schiavo, più le dovrai obbedire. Ieri al referendum ha vinto il sì, ed è stato un nuovo, ennesimo affronto alla sacralità – da tempo non più inviolabile – della Costituzione. La sinistra autentica era per il no; il PD, naturalmente, era per il sì. Adesso infatti Zingaretti gongola perché “questo è il primo passo di una serie di riforme” che in realtà, al di là delle belle parole di prammatica, intendono scardinare e demolire l’Italia della Resistenza, da cui appunto la Costituzione è stata partorita. Quell’Italia – l’Italia dei nostri padri e dei nostri nonni – va evidentemente cancellata. Ce lo chiede l’Europa! Pare di sentirli, i grugniti giulivi che salgono dalle segrete dei potentati e delle logge massoniche… I club esclusivi, modello Bilderberg, che hanno costante e insaziabile bisogno di carburante populistico per alimentare i meccanismi politici e pseudo-democratici con cui umiliare e triturare i popoli, assieme alle loro “sciocche” rivendicazioni. Quella stessa Europa che – con l’incredibile beneplacito del PD – ha parificato i simboli del lavoro (la falce e il martello) alla svastica nazista…
Dopo 40 anni di logorio ai fianchi e bombardamento neuropatologico quotidiano (le tv private, la pubblicità martellante, i videogiochi, internet, i telefonini…) la coscienza critica, etica e popolare degli italiani è ridotta pressoché allo zero, mentre aumentano a dismisura l’incultura, l’alienazione, la solitudine, l’odio, l’intolleranza, la violenza… Siamo ormai un Paese di pecoroni e rincoglioniti, facilissimo da turlupinare, dove i politici trovano sempre meno resistenza nel procacciare gli interessi dei loro burattinai… Occorre darci presto una svegliata, e il PCI dovrebbe – approfittando anche del prossimo centenario – porsi a capofila di un vasto e compatto movimento di forze politiche eterogenee, di sinistra autentica, per contrastare la deriva reazionaria che, fra un tradimento e l’altro, sta riconsegnando al nemico terreni di civiltà conquistati a prezzo di sacrifici altissimi e non dimenticabili.
Marco Onofrio
“Da agosto a settembre”
Ho sempre odiato agosto. Non solo per l’atmosfera da “ferie forzate”, con l’assalto in massa a tutti i luoghi di villeggiatura; ma anche e soprattutto perché rappresenta l’ultima vampata di un grande, bellissimo fuoco. Le giornate si accorciano visibilmente. La luce è ancora “augusta”, però – se guardi bene – tutta ramificata di brividi autunnali. Il meglio è ormai passato. Mi ha sempre fatto pena veder morire una cosa tanto stupenda come l’estate. E allora si ha bisogno di salvare quello splendore, di renderlo imperituro: ma già sta svanendo, già è condannato a incenerirsi. Solo le cicale si ostinano a ignorare lo sfacelo. Le belle giornate diventano improvvisamente più preziose: non ce ne saranno ancora tante altre. Viene meno il senso di pienezza che esaltava i giorni lunghissimi di fine giugno, e di luglio inoltrato, quando anche la “visione” di un futuro era impedita dalla forza gigantesca del presente: tutto sembrava destinato a rimanere eterno, a non morire mai. Tutto, di conseguenza, sembrava scontato: i cieli azzurri, le ore di luce, la libertà di essere e di fare. Agosto rimette in moto la macchina del tempo che scaccia gli uomini da questo eden illusorio. Il torrente incantato riprende a scorrere. L’uovo dell’eternità si spacca sulle rocce della storia. In mano ci rimangono i frantumi di una gioia scorsa, e il rimpianto di una dolcezza che – almeno per un anno – non ritorna. E comunque, mai più come prima. Per uscire indenne da questa lancinante decadenza, che da bambino mi struggeva fino alle lacrime (“sentivo” il pianto dell’estate che capiva di essere invecchiata e intuiva prossima la fine), ho sempre avuto bisogno di evitare la conclusione brusca delle vacanze, aumentandole di qualche giorno non programmato, e, al tempo stesso, di immaginare cose nuove e belle da fare al rientro, piacevoli cambiamenti con cui medicare la malinconia. Anche per questo, forse, arriva da un giorno all’altro il fresco di settembre, che ritempra la voglia di vivere e annuncia l’oro antico dell’autunno, le sue ultime, dolcissime sorprese. A settembre chiediamo “clemenza”: che sia più generoso degli altri mesi. Gli “concediamo” – obtorto collo – di spegnere i colori della luce estiva, ma in cambio pretendiamo un certo numero di consolazioni.
Marco Onofrio
(da Nuvole strane, Ensemble 2018)
“I cinque pilastri della stoltezza”, di Aldo Onorati. Lettura critica
Con questo brillante e piacevole saggio (“I cinque pilastri della stoltezza”, Roma, Armando, 2003, pp. 125, Euro 12), Aldo Onorati – rovesciando un celebre titolo di Lawrence d’Arabia, “I sette pilastri della saggezza” (1922) – invita a riflettere sulla consistenza e la portanza strutturale del nostro edificio cognitivo: la Weltanshauung che plasma la cultura occidentale di cui siamo eredi e, insieme, parte attiva. Una cultura che, dopo Platone, si afferma e caratterizza come uso del sapere a vantaggio dell’uomo e a scapito del mondo circostante: attività manipolatrice che si incunea nella natura per trasformarla, antropizzarla, civilizzarla, rendendo man mano più sensibile il divario fra i “tempi storici” e i “tempi biologici” di cui parla l’ecologo Enzo Tiezzi in un libro fondamentale. La storia stessa nasce come distacco del tempo dell’uomo dal grande grembo del tempo della natura: una frattura che F. Nietzsche anelava a ricucire in ripristinata unità mediante lo “spirito dionisiaco”: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco», cito da “La nascita della tragedia” (1872), «non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente».
Il cammino della civiltà occidentale è infatti configurabile come un continuo e progressivo distacco dalla “physis”, e quindi dalla percezione stessa della natura primigenia e indistinta. L’homo sapiens sapiens, in cerca di terre sempre nuove da esplorare e colonizzare, si è armato di una sorta di corazza culturale, astratta e artificiosa, che lo rende estraneo e, per così dire, “indigesto” al grosso del mondo animale. Tra i molti miti dall’uomo elaborati, da brandire come torce o spade lungo il cammino senza fine verso Utòpia, c’è sicuramente quello più pericoloso, una sorta di dono ancipite – come il fuoco rubato da Prometeo, che riscalda, sì, ma che se sfugge al controllo può anche ridurre in cenere: il progresso.
Il progresso ha finito per diventare surrogato del dio che abbiamo perduto lungo la strada del nostro non trovarci più di casa a questo mondo, smarriti a nostra volta tra la nostalgia del “non più” e l’angoscia del “non ancora”. Scortato da una schiera di sentinelle mitiche, quali la Ragione, l’Intelligenza, la Civiltà (altrettanti squilli di tromba che il sapientissimo uomo, invischiato nel suo soliloquio, utilizza per autoincensarsi, per rimuovere la cattiva coscienza e per neutralizzare gli inquietanti segnali che, malgrado tutto, continua a mandargli da dentro la belva primordiale), nonché giustificato dal profitto economico (che non a caso viene elevato a sistema e promosso al rango di “etica” dal momento in cui, col Protestantesimo, viene meno il ruolo del sacerdote come intermediario tra al di qua e al di là), il progresso assurge a orizzonte e focus della scena, e, abbracciando la pretesa di auto-fondarsi come unica via praticabile, senza più interlocutori, libera tutto il suo potenziale distruttivo. La cultura e la “civilizzazione” tipiche della modernità si sono poste dunque a servizio di questo mito di conquista e colonizzazione eurocentrica, in un grandioso progetto che si risolve e accende nel progresso, laddove comincia e finisce la “grande corsa” dell’uomo occidentale. Che poi alle tentazioni eurocentriche siano subentrati i connotati informi di un mondo globalizzato “all’americana”, coi relativi squilibri, non cambia la sostanza delle cose: l’uomo continua noncurante a utilizzare il pianeta a mo’ di pattumiera, mentre il pianeta gli muore sotto i piedi minacciando di ucciderlo a sua volta.
Quali sono i falsi miti con cui l’homo sapiens sapiens ha puntellato il suo progetto di conquista del pianeta?
Eccoli:
1) che l’intelligenza sia prerogativa (esclusivamente) umana;
2) che l’uomo sia l’unico essere vivente dotato di razionalità (la dea Ragione);
3) che solo l’uomo abbia l’anima;
4) che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza di Dio;
5) che l’uomo sia il re del creato.
Questi i cinque pilastri della presunta “saggezza” individuati, attraverso la natura e la storia dell’uomo, come radice maligna della sua vocazione autodistruttiva. Onorati si diverte con riso amaro a rovesciarli, uno ad uno. Li smonta, dunque, e ne smaschera la fallacia con la forza della sua humanitas, cioè di una cultura nutrita di buon senso ed equilibrio, e non antagonistica, bensì accordata alla natura, in armonia con il Logos della vita, la legge interna delle cose. Non è un caso che a farlo sia un figlio e un testimone diretto della civiltà contadina, ormai fagocitata dai mostri del progresso: Onorati ha nel sangue il plasma di quella cultura che, lungi da ogni “oltracotanza”, aveva un senso naturale e pratico della realtà e, pur contemplando l’uomo come agente trasformatore della natura, faceva sì che la Terra potesse ancora tollerarlo come accidente sostenibile, nella misura in cui ingranaggio funzionale degli ecosistemi, e non come aberrazione o variabile impazzita. L’uomo un tempo sapeva per istinto quale fosse il suo posto all’interno della natura: aveva il senso naturale del limite, del posto a lui assegnato, oltre cui è pericoloso spingersi. Aldo Onorati è semplicemente uno che, a differenza di tanti suoi colleghi scrittori (ai quali la corona da re non basta neppure), ha il coraggio di affermare che “il re è nudo” poiché vestito di fumo e di nulla; e poi, non pago, cerca anche di scuoterlo, di urlargli in faccia per svegliarlo dal torpore. Ma l’uomo procede per forza d’inerzia, come un sonnambulo o un condannato, incontro a un destino che sta facendo di tutto per trasformare in fato. La società di massa, vero e proprio teatro dove il progresso, come nel ballo “Excelsior” d’inizio ’900, celebra e immola i propri trionfi, ha scisso e parcellizzato l’individuo, sia al di fuori sia all’interno: ciascuno di noi è una monade schizofrenica dentro un insieme di solitudini. Ogni individuo è un Io senza Noi. Abbiamo perso quell’identità collettiva di valori e di appartenenza che caratterizzava la civiltà preindustriale come una ben più umana e accogliente “comunità”. Una comunità è una società dove ciò che accade a uno riguarda tutti. Proprio perché non si sente più membro di una comunità, l’uomo oggi crede di potersi permettere la suprema idiozia di ridere mentre la nave di cui egli stesso è passeggero affonda: come il pazzo che, a chi gli domanda il motivo di quel riso, risponde: “Tanto la nave non è mia”. Né poi la generica appartenenza all’umanità è vissuta come reale “vincolo comunitario”: abbiamo ancora bisogno dei confini, dei campanilismi (se non ci sono, ne creiamo di sempre nuovi), e obbediamo inconsciamente al concetto, ormai superato, di “nazione sovrana”. L’umanità sta perpetrando il più assurdo ed efferato dei delitti: stiamo tradendo i nostri discendenti, impedendo loro di avere un futuro. Le conseguenze del nostro vivere “civilizzato”, infatti, non sono immediate. Peraltro il pianeta, avviluppato dal nostro gorgo e disturbato dalla nostra invadenza, sta assorbendo la frenesia convulsa dei tempi che gli imponiamo ogni giorno di più, snaturandolo e privandolo dei suoi delicati equilibri, per cui «quello che non è accaduto in millenni, oggi accade in decenni».
L’unica salvezza è riposta nell’ethos di una “morale cosmica” da acquisire con urgenza apocalittica: ognuno dovrebbe comportarsi come se il futuro di tutta l’umanità dipendesse da lui, da ogni singola scelta, dai gesti quotidiani. Agli scrittori è demandato il compito di costruire la “memoria del futuro”: non sterili cassandre o apocalittici profeti, ma attenti stimolatori delle coscienze e umili ricercatori della verità. È quanto si impegna a fare Onorati in questo libro che è insieme un grido d’allarme ecologico e una risposta filosofica al problema dell’esistenza. Opera che nasce da un bisogno di chiarificazione e ricapitolazione nei confronti anzitutto dell’uomo, inteso come «indecifrabile errore della natura» dove «ogni vizio capitale, ogni inganno, ogni limite, ogni obbrobrio risiedono (…) insieme a un misterioso congegno geniale e apparentemente libero che fanno di lui una meraviglia e insieme un mostro del creato mondo».
Onorati è mosso da una sincera ansia di verità. Egli avverte che questa in particolare è l’epoca dei simulacri, dei falsi miti: un’epoca di cecità, nel profluvio insipiente delle immagini; di solitudine e incomunicabilità, nel trionfo apparente della comunicazione; di stoltezza mascherata da sapienza. Infatti è più che possibile, anzi è probabile, che la verità si trovi altrove dai “luoghi comuni” deputati ad accoglierla: non può bastare, a colui che cerca il vero, l’inganno della forma. Per questo il sottotitolo del saggio è “considerazioni di un immorale”: Onorati è cosciente che il suo è un pensiero “ex lege”, che attraversa e oltrepassa il muro delle convenzioni, ponendosi liberamente “al di là del bene e del male”. Ecco allora che, scattando queste cinque fotografie all’uomo (come nota Bruno Benelli in Prefazione), il suo obiettivo penetra nell’essenza che la forma delle cose nasconde, alla ricerca del loro senso autentico. Il pensiero s’incunea nelle pieghe della realtà e si appunta alle sconnessioni dell’intelligenza, sempre affilando la sua lama sul «dubbio fecondo e l’umiltà salvifica» (così Onorati li definisce) – il che, fra l’altro, gli consente di evitare posizioni manichee, e lo rende immune da tentazioni facilmente censorie o moralistiche. Onorati sa benissimo, e lo scrive, che le cose sono molto più complesse di come appaiono, che «bene e male, menzogna e verità» sono mescolati e spesso indiscernibili nell’uomo: che ad esempio lo stesso progresso, che tanti squilibri procura, ha per altri versi recato innegabili e ormai irrinunziabili benefici alla qualità della nostra vita.
La Vita, infine, è il nucleo essenziale del saggio: un “miracolo” di cui Onorati si dichiara stupefatto ammiratore; la forza che tutto domina, infinitamente superiore alla tronfia ragione umana. Con questo libro egli leva una sorta di grande preghiera laica: un inno di lode in cui ama la natura fino alla commozione e celebra la vita nelle sue infinite, prodigiose manifestazioni. Allora forse la verità essenziale che Onorati cerca, fra tanti rumori di sottofondo, è la legge stessa del Logos, ovvero quella che nel libro è definita «necessità strutturale insita nella legge dell’esistenza»; ciò stesso che rende la vita una «unità inscindibile» e un caos pieno di armonia. La sola legge alla quale l’intelligenza umana, per ritrovare la sua giusta misura, dovrebbe affidarsi (con buona pace dei tanti “sapienti” oggi conclamati e pubblicamente riconosciuti) poiché, come scriveva Francesco Bacone, è soltanto obbedendole che l’uomo comanda la natura.
Marco Onofrio