Tre pensieri sulla Donna (da “Nuvole strane”, 2018)

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Si riproduce sempre e in ogni luogo. L’eterno femminino, che manifesta la grazia del mondo. La bellezza irresistibile delle donne. Il potere della loro seduzione. La malia del loro sorriso enigmatico, che guarisce il male e blocca la mano alla morte. La luce vellutata e calda che splende nei loro occhi, sorgenti di un’acqua che rinfresca la gioia di essere e di amare. L’anfora generosa del loro corpo: spandono la vita tutta attorno (quando arriva una donna, un luogo si riempie di anima). La tenerezza calda del loro seno, porto di dolcissimi sospiri. Il profumo delizioso del loro collo. Il miele speziato delle loro bocche. La loro pelle liscia, lucida, ambrata, tutta da baciare e da abbracciare. Le ginocchia tonde, le forme che ricordano la terra. Il mistero sacro delle cosce che – da sole – bastano a dimostrare l’esistenza di Dio. Donne: intuitive, curiose, sensibili; languide, sensuali, appassionate; morbide, liquide, burrose. Donne, semplicemente donne, meravigliose donne!   

Se ami la vita, non puoi non amare le donne. Solo loro che ci mettono (e ci rimettono) al mondo. Le donne sono sacre. Chi le odia e le maltratta, firma con ciò stesso la propria condanna: è amico della morte, e la vita prima o poi lo punirà.

Il mistero sacro di ogni donna. Tra il seno, le spalle, il cuore. Bere la vita, gustando il sapore del mondo, dalla sorgente della sua bocca dolcissima. Accarezzarle il viso. Accendere la luce dei suoi occhi. Palpare i fianchi dell’anfora divina. Abbracciare la terra intera abbracciando lei. Passione struggente, languida sensualità. Ogni donna è un universo a parte: ha un fascino diverso da scoprire. Ciascuna, unica. Offerta ambulante di delizie. Scrigno segreto di gioie. Incrocio labirintico di possibilità. Fermarsi a una, d’accordo. Ma come rinunciare al dono delle altre? Amarle tutte: perché tutte esistono per essere amate. E l’uomo per amarle.

Marco Onofrio

“La nostalgia dell’infinito”, letto da Maria Teresa Armentano

Nell’Introduzione l’autore annuncia che questa antologia racchiude le poesie di un “itinerario poetico” che qui, però, risulta cronologicamente discontinuo, ed è così voluto proprio per accostare temi secondo un “tracciato ondulatorio”; ma forse, aggiungo io, per il lettore sarebbe preferibile seguire l’evoluzione del cammino poetico di Onofrio ordinatamente, per comprendere il mutamento e le trasformazioni del suo sentire. Leggendo l’insieme di poesie del 2002, tratte dal volume di esordio Squarci d’eliso, si comprende il perché del titolo.

La “nostalgia dell’infinito” è la dimensione di un cielo senza confini a cui aspira il poeta e che è ancora in nuce in questi primi versi. Nostalgia è parola greca in cui il ritorno è intriso del dolore nato dall’emozione di una condizione della mente appena intravista, come scrive l’autore in “Eppure”: il volo senza fine della mente / integralmente / nel misterioso cuore del silenzio, / dopotutto qualcosa / riuscirebbe a vedere, / forse. Quel qualcosa di indicibile che il poeta scorge appena come una scintilla di una luce incerta che sfugge, mentre nel profondo del cuore   si radica la parola “forse”. Tre anni dopo, con Autologia, c’è un salto, nel senso che i versi assumono un ritmo più ampio e disteso e si fa strada una convinzione; il sentirsi nulla si confonde con la vita, sebbene confinata nel vuoto di un amore finito, di una privazione di senso, che si esprime con completezza nell’Inedito dal titolo “Disincanto”: Provai a vivere: / la vita amaramente mi respinse. / (…) Dallo specchietto rotto del mio sguardo / bagliori fuggitivi di una luce. / Ma io passo, attraverso le nuvole/ col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso…

Con D’istruzioni (2006) siamo ancora nel solco cronologico del viaggio intrapreso dal poeta che non chiude il cerchio iniziale: rimane aperta la domanda di sempre, espressa in “Esistere”: che cosa siamo? Se in Squarci d’eliso la risposta guardava al cielo, in D’istruzioni guarda all’abisso che è dentro di noi, tanto che il poeta sente la necessità di intercalare due poesie inedite di anni precedenti, entrambe intitolate “Essere”, che sono perfettamente in linea con le velate risposte di una lirica senza titolo: Colui solo può conoscere di luce / quel che torna dal profondo / per l’oscurità. / (…) Il giorno sfolgorante è nella notte / che lievitando cova la sua alba / nell’abisso, dentro il mare. E il ritorno si compie ed ha un senso in solo due poesie tratte da Antebe. Romanzo d’amore in versi in cui si adombra solo nel ricordo-rimpianto la figura evanescente di una donna senza forme e senza volto. Appena accennato il tema dell’amore, in questa antologia, e certo non dell’amore che è tripudio e gioia dei sensi ma solo un passaggio a un amore universale, tramite per tornare nuovamente al tema preferito: la luce che lotta contro il buio e la notte che, nella raccolta È giorno, trova il suo compimento. Sempre più forte l’anelito del poeta verso il cielo e l’Infinito, verso un Assoluto che è amore per il mistero, il creato e l’armonia divina che si percepisce appena, e se si guarda dentro sé si ritrova nella vita misteriosa del cuore: Tutto vibra palpita respira / in ferma compiutezza / in armonia. / È la divina, mistica euritmia. (“Alba”)

Nella seconda parte del libro, più vicina all’oggi, preponderanti sono le liriche di Ora è altrove che si alternano a inediti intorno al tema del mare e di ciò che rappresenta, nella bellezza di superficie e nel mistero delle sue profondità. Al mare sono legati il mito e il ritorno, in questo caso a se stessi, alla propria interiorità, che Onofrio ricerca nel respiro delle onde. Indosso il suo vestito d’acqua e sale: / è un saio di freschezza nella luce. (“Come l’onda”). E ritornano le nuvole, presenti nelle liriche all’inizio del percorso, in “Ai bordi delle nuvole”. Ora non sono più evanescenti giochi del cielo ma strumenti di un invisibile che si sente vicino: ai bordi delle nuvole i sentieri / le strade che cominciano nel vuoto / e sfumano nel vento… // Io vedo l’invisibile / io sento. Il cammino di Marco Onofrio diventa più arduo nell’avvicinarsi al mistero, al palpito di una natura che lo attrae e lo confonde per la sua bellezza, che lo affascina e lo conduce in un fasciante silenzio alla scoperta del proprio Io. E m’incanto / dinanzi a una bellezza / così grande da comprendere / così tremenda da sostenere. (“Incanto”) 

C’è nelle più recenti opere di questo poeta una ricerca assillante che attraversa anche il ritmo interno dei versi, lo rende nella ricerca delle assonanze più morbido e nello stesso tempo più stridente con le parole sconvolgenti che ne trasfigurano il senso. La parola dice come una folgore e poi nel suono ammorbidisce l’immagine angosciante evocata in una continua contrapposizione tra affermazione della bellezza del cielo e negazione della bellezza come vuoto eterno che assorbirà ogni tentativo di esistere. Nelle poesie degli anni 2013-2015, sia inedite sia nel testo Ai bordi di un quadrato senza lati, riappaiono tutti gli interrogativi: Riuscirò, un giorno / a volare in carne e ossa / senza ali? A tuffarmi / nell’immensità? si chiede il poeta, e trova una risposta seducente anche se incerta: afferrarsi al mondo, riscoprire in sé quell’immensità che lo lega al creato, il vuoto che si sostanzia di quel che dentro di noi cresce e lo annulla e consente di dimenticare tutto e rinascere finito ma libero. Dopo i due personaggi, Edipo e Amleto, segnati dal dubbio e dall’assenza di sé, scelti come emblemi dell’essere in conflitto col non essere, l’autore sceglie come inizio di un nuovo ciclo Icaro, e in un bellissimo Inedito lo celebra come l’uomo che sfida il mistero. Navigherò nel vuoto oceanico / per conquistare i segreti più remoti / dello spazio / i luoghi più nascosti / del mistero. Ritornano due parole, Nostalgia e Infinito, a chiudere il ciclo iniziato con il titolo dell’Antologia; ora, compiuto il cammino, il buio e l’abisso vengono sconfitti, assumono senso non più negativo perché la fine si congiunge a un nuovo inizio. L’invisibile ritorna e anche il tempo corruttore diventa una variabile se sulla carta resta la parola che diventa scrittura della vita e del mondo, la dimensione di immortalità del poeta.

Maria Teresa Armentano

“Anatomia del vuoto”: la recensione di Giorgio Taffon (dal blog “Poetarum Silva”)

Anatomia

Marco Onofrio, Anatomia del vuoto (rec. di Giorgio Taffon)

Credo di non sbagliarmi se affermo che la raccolta poetica di Marco Onofrio Anatomia del vuoto (Milano, La Vita Felice, 2019) assume un rilievo esemplare per quanti scrivono, leggono, o svolgono attività critica oggi in Italia. Quelli di Onofrio non sono versi che indulgono nel sentimentalismo di eventi privati, o nel minimalismo della vita quotidiana, o nel puro sfogo psicologico, o nel descrittivismo e colorismo della realtà naturale; Onofrio affida alla sua scrittura lirica il compito di indagare le zone più misteriose del nostro vivere; di immaginare la realtà delle cose, dell’universo oltre gli aspetti immediati ed esteriori che possiamo percepire; di esprimere sentimenti religiosi e mistici nel considerare i legami che s’intrecciano fra le vite, e con la Divinità. In diversi componimenti è facile riscontrare un certo mood, e un certo andamento prosodico tipici di alcune originarie modalità espressive di antiche scritture, anch’esse in versi: alcuni Libri biblici; o componimenti della poesia Zen (Hakuin, ad esempio, maestro del XVIII° secolo); e, ancor più lontani nel tempo, brani cosmogonici dei poeti greci e di un Lucrezio. Ad una tale arditezza di ideazione immaginativa, con un linguaggio lessicalmente piuttosto semplice, tra l’altro, non ci si arriva d’emblée, occorrono esercizio, tempi lunghi di riflessione, profondità di letture.

Difatti la raccolta su cui sto scrivendo, è stata immediatamente preceduta dai e preparata coi pensieri e gli aforismi di un prezioso libretto, Nuvole strane, edito nel 2018 (Roma, Ensemble), e da un’altra raccolta poetica, costituita da brevi “poemetti”, Le catene del sole (Roma, Fusibilialibri, 2019; da me, assieme ad altri, presentata a Roma nel giugno dell’anno da poco passato). In queste prove s’individuano immediatamente i tratti decisi e decisivi di una scrittura poetica di carattere filosofico e anche metafisico; e non solo, perché nei pensieri del primo libretto, come nei versi della raccolta si intuisce come implicitamente l’autore è in grado di tener conto delle teorie scientifiche sottese alle immagini di natura cosmologica e astronomica (dalla relatività alla fisica quantistica). Per coerenza intrinseca, per profondità di pensiero e per capacità di passare da una struttura prosastica e riflessiva a un costrutto del discorso in versi, con precisione di ritmo, di sillabazione e di rima, Anatomia del vuoto costituisce un grande risultato creativo e mitopoietico, davvero piuttosto raro nella nostra cultura letteraria. E non ci si lasci ingannare dal titolo, che suona certamente ossimorico, contraddittorio. Il “vuoto” che il poeta vuol notomizzare non è il Nulla tipico dell’ontologia razionalista continentale; il Vuoto è inteso secondo le nuove intuizioni cosmogoniche dei fisici d’oggi, i quali tendono a pensare che il Vuoto cosmico prima del Big Bang abbia generato la Materia; e non solo, direi che Onofrio è anche vicino alle concezioni orientali, in particolare a quella buddista, in cui nulla è assoluto, tutto è relazionale, per cui il Vuoto è contemporaneamente rapportabile al Pieno, e tutte le cose, tendendo al Nirvana, si annullano l’una con l’altra sciogliendo le contraddizioni non solo dal punto di vista ontologico (per cui si dovrebbe parlare di Vacuità, cioè di caratteristiche materialmente date ad ogni aspetto ed ente).

D’altra parte la stessa venuta al mondo della Persona è un provenire da quello che ab initio è il vuoto del seno materno (“il vuoto della madre”). Questo vuoto lo si riscontra a metà circa della raccolta, nel componimento che da il titolo alla silloge, “Anatomia del vuoto”, che, assieme a quello successivo, “Amleto”, costituiscono il centro irraggiante della raccolta stessa. Nel primo è il personaggio di Edipo a tenere la scena, mentre nel secondo appare Amleto: Edipo, ormai cieco, “per non vedere più \ il vuoto orrido del mondo”, si richiude in se stesso, nel “mondo misterioso dentro sé”, per ritrovarsi libero e innocente (p. 36). Poi, e siamo nel secondo componimento, Amleto, il personaggio fatto ormai emblema della Modernità, e mi pare richiamante qui l’Oreste pirandelliano che d’improvviso scopre un buco nel cielo di carta perdendo così il suo carattere tragico, Amleto trova il suo buco, non in alto, ma in basso, ai suoi piedi: “appeso \ ai fili del silenzio, il cielo \ diverso ogni volta che lo guardo \ mi apre un grande buco \ sotto i piedi. E inutilmente \ penso, sono stanco.” (p. 37). Ma inutile non è il pensiero del nostro poeta, che articola le denominazioni e i significati del vuoto, lungo la sua metaforica e non cadaverica dissezione, in svariati modi e accezioni, con visioni, immagini, illuminazioni davvero spettacolari: uno spettacolo della mente del poeta, affidato alla mente del lettore. Allora il vuoto è sì uno spazio, ma in esso “Ascolta il grande suono della vita”: come accennato più sopra è tutt’altro che uno spazio nientificante.

Il vuoto può apparire smisurato, “oceanico”: “Così, ciascuno di noi, dentro l’oceano \ del vuoto che un giorno inghiottirà \ le nostra ossa. In quale pieno \ è già scavata, la fossa \ che ci accoglierà \ per scomparire?” (p. 12; corsivo mio, per ricordare la relazionalità fra vuoto e pieno, succitata). E, lungo la dorsale Schopenhauer-Buddismo, si legga: “Tutto vola, tutto rotola nel vuoto. \ Anche il vuoto. \\ Vuoto che ricade dentro vuoto. Vuoto su vuoto, silenzio su silenzio.” (p. 16). Naturalmente vi sono momenti in cui il pessimismo razionalista ha i suoi cedimenti: “Nulla si perde perché \ tutto per sempre è registrato. \\ E allora dove stanno, ora, le cose \ che non sono più? \\ Tu chiedilo al silenzio, \ chiedilo: la risposta è il vuoto.” (p. 22). E se dal vuoto è sgorgata in un tempo inimmaginabile la materia del cosmo, come i fisici pensano oggi, il poeta può ben affermare che: “La sera, nel cielo sfolgorante, \ sbocciano stupori di bellezza \ come sguardi, dagli occhi del mondo \ spalancati all’intero tempo \ non domato: eternità \ chiusa nello spazio nero \ di un silenzio alto che non muta. \\ Le radici del vuoto sono qui, \ nello spazio trasparente \ in cui mi cerco.” (p. 43; corsivo mio). Sia chiaro, anche i fisici, gli astronomi, viaggiano ai limiti del Mistero, per cui, con immagini straordinarie che ci portano a scomodare il nome stesso di Dante Alighieri, “Atomi di spazio interstellare \ rivelano le saghe dei primevi \ nel bulbo della rosa che si apre. \\ Inquietudine, malinconica gioia \ ombra inafferrabile: mistero \ vuoto che mi divora al centro. \\ Ѐ un fiume che si rovescia dentro \ e inonda la mia inconscia eternità.”.

Afflati religiosi prendono presenza in questa articolazione della semantica del “vuoto”. Ed infatti, consapevole che l’amore è qui e ora, e non va rinviato a un dopo, un dopo-vita, così scrive Onofrio: “un infinito vuoto, ovunque, \ accanto a dove siamo \ ci separerà: per sempre.\\ Abbraccia, dunque, le persone che ami \ finché sei in tempo! Il calore umano \ si disperde rapido nel gelo \ del mistero: lo divora \ la profonda immensità. \\ Il gesto va compiuto sul momento: \ non vergognarti, non lo rimandare. \ Tutta la vita che non traduce amore \ sarà perduta, si rimpiangerà.” (p. 57). Afflato che si fa mistico, tutto espresso dalla visione di un “terzo” occhio, e dalla fede in un compimento finale di tutte le cose: “e mi pare di splendere \ alla foce mistica del cielo \ nell’immensa luce \ del tramonto, \ quando affiorano improvvise \ dal vuoto dove erano scomparse \ le cose care della vita mia \ intatte o finalmente risanate.” (pp. 73-74). E ancora si legga in Il suono del vuoto: “C’è il soffio di una vita superiore \ nell’alleanza mistica e profonda \ che unisce le sorgenti della vita. \\ Quante misteriose verità \ dentro l’altezza! Dalle divine sedi \ il suono che fa il vuoto, il primo canto: \ l’immensa solitudine del cielo. \ Ѐ sacra la scintilla della luce \ eterna e ogni attimo immanente \ riempie tutta l’aria \ di dolcezza.” (p. 54).

E qui, a questo punto, credo di poter lasciare al lettore il gusto, il desiderio ed il piacere di continuare a scoprire e a leggere le tante altre magnifiche declinazioni dei significati cosmici e spirituali che questa raccolta di Marco Onofrio ci regala con gran sapienza di scrittura, ma citando prima gli ultimi e forse ultimativi versi della raccolta: “Così, sperimentando il vuoto, \ siamo tutti anime in cammino \ verso la pienezza \ dell’eternità.” (p. 81).

Giorgio Taffon

Fiera “Più libri più liberi” 2019 a “La Nuvola Convention Center” di Roma-Eur: i libri di Marco Onofrio in esposizione

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Saranno esposti i seguenti titoli: 

Diario di un padre innamorato: casa editrice Città Nuova – Stand E 49

Anatomia del vuoto: casa editrice La Vita Felice – Stand A 23

Nuvole strane, La nostalgia dell’infinito: casa editrice Ensemble – Stand B 35

La Trilogia di Lina Raus, Roma vince sempre, Non possiamo non dirci romaniI Castelli Romani nella penna degli scrittori, Il graffio della piuma, Giorgio Caproni e Roma, Ungaretti e Roma, Nello specchio del racconto, Senza cuore, Emporium, Il primo bacio (a cura di), Roma raccontata da venti scrittori (a cura di): casa editrice Edilazio – Stand D 68 

“La nostalgia dell’infinito”, letto da Paolo Corradini

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Possiamo perdonare tutto alla bellezza purché ci seduca. Spiegare perché il Bello ci rapisce è impossibile quanto sapere dove ci conduce. Rimane l’inquietudine di un mistero giocato fra luce e tenebra. Vale anche per l’opera d’arte. Accostandomi a “La nostalgia dell’infinito” (Ensemble, 2016), di Marco Onofrio, sono stato afferrato dal suo potere immaginifico, che non esclude tuttavia la struttura del pensiero. La sua visione poetica si affida a una musica che proviene dalla pianura della Verità.

Ho sete di bellezza e verità.
Ti lascio, amore, questo
appuntamento.

E un appuntamento è l’intera raccolta lirica, dell’anima con la totalità, da cui nel nascere è stata separata, cacciata ma non abbandonata, come direbbe Paolo di Tarso, atterrata, ma non uccisa. Teologica nostalgia del ritorno. In Platone per primo echeggiò questo richiamo al ricongiungimento dell’uomo al divino, della forma allo spirito, della parte al tutto. Onofrio affida alla poesia questo viaggio. Alla poesia che è tragica parola conchiglia del Silenzio, tesa a evocare nella finitudine l’infinità, sfiorare l’indicibile senza mai poterlo raggiungere, trasformare il brivido dell’impotenza nella vita del cuore pulsante. E più tragica è la poesia quanto più è alta, quando diventa musica, la forma che più si avvicina allo spirito senza poterlo afferrare, rimanendo nostalgia.

Salire, sulla scala delle evoluzioni
verso qualcosa di più puro e profondo
in cui specchiarsi interi , ma non morti.
Un volto che non riesco a precisare
l’impresentabile, l’irriconoscibile
al fondo del dolore che io sento.

Questi versi struggenti, del salire amoroso nella tensione mistica, impattano la notte oscura dell’anima i cui simboli sono il silenzio e il vuoto. La nostalgia invece che essere nostimos-soteria, la salvezza del ritorno, finisce per precipitare in una dimensione indeterminata, un tempo aoristo dello spirito. L’anima si atterrisce e rimane sospesa senza più una dimora celeste né terrena. È un punto cruciale che emerge con prepotente angoscia nella poesia di Onofrio.

La morte incombe universale.
Tutto congiura al nulla
tutto crolla, si sfalda inesorabile
e scompare: come la sabbia
dei castelli in riva al mare.
Le nostre braccia stringono il vuoto
fin dove noi tocchiamo con le mani…
Con quale arbitrio confidiamo
in un domani?

E ancora:

Esploro la più amara oscurità:
sono un clandestino, brancolo
nella cabina chiusa a chiave
di una nave abbandonata
in fondo al mare.
quanti sorsi d’angoscia
dentro questa scatola abitata
dal suono permanente senza età.

Il buio si agita e smania
come un animale:
lo scosto con la mano
e vado avanti.

Ma liberazione ancora non è. È invece una tenaglia che fa gemere. Mi ricorda la Cura nella mezzanotte dell’atto quinto del Faust: “Quando ho qualcuno in mio potere / il mondo gli diventa inutile. / Su di lui cala buio eterno, / sole non si alza né tramonta. / Può respirare eppure soffoca, / non soffoca eppure non vive.”

Vuoto e silenzio quindi da attraversare. Ma come?

Mi sia permesso un inciso che forse non dovrei, ma ritengo pregnante. Marco Onofrio è una voce squillante della poesia ed è un poeta giovane con un orizzonte temporale ancora vastissimo. In lui è quindi forte la potenza immanente della vita biologica e psichica che “resiste” con forza ad una invasione da parte del “non io”. Si tratta di una energia agglutinante di conservazione che si oppone allo sconfinamento. Diverso è per un uomo, poeta o non, che ha già compiuto gran parte dell’esistenza e matura più docilmente la presenza dell’oltre. Questo per evidenziare quanto la coppia oppositiva – sé e altro da sé – si esprima con particolare magnitudo. Ma in Onofrio la spinta verso l’alterità è fortissima: è un poeta. Non è la vita reale a vincere sulla fantasia, ma è la fantasia a prevalere sulla vita:

È deciso, parto per il cielo:
ho la nostalgia dell’infinito.
Vieni, ora, schiudimi la porta,
strappami alla forza elementare
che mi rende corpo con un peso:
scioglimi dal laccio della madre.

Quì la madre è appunto la forza viscerale della natura che trattiene a sé la propria sostanza proprio come la Regina della notte si oppone al viatico di Pamina che anela a divenire nuova creatura. E se riesce a liberarsi dal laccio della madre è in virtù della musica del flauto magico. Flauto magico della poesia che soccorre anche Marco Onofrio.

Come riuscirà allora, se mai è possibile, animula vagula blandula a superare quei loca pallidula rigida nudula al di là dei confini conosciuti? Direi che questo è il nodo più cogente che emerge dalle ultime liriche. Il tema è antichissimo ben antecedente all’imperatore Adriano. Già Omero sfiorò nella poesia quel regno delle ombre da cui Achille vorrebbe risalire. Pure il nebuloso giardino delle Eumenidi in cui svanisce Edipo è alla fine una regione dell’ombra. Virgilio narra che l’anima del re Turno cum gemitu sub umbras fugit. Bisogna arrivare a Dante perché l’“oltre” appaia come approdo nella visione lirico-teologica della luce.

Il primo balzo lo compie Onofrio trasformando il conflitto luce-tenebra in osmosi:

è ovunque intorno a noi,
è dentro a ciò che siamo,
è in ogni cosa. Anche le stelle
più lontane sono qui.
Il cielo inizia a un pelo dalla terra
perché la terra è nel cielo.

Non c’è niente da fare, è Dio che preme, perché come dice Eckhart non esiste separazione tra Dio e tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose: è più intimo ad esse di quanto non lo siano a se stesse. Risuona Agostino: interior intimo meo, superior sommo meo.

Il secondo balzo è in fondo una capriola: morire in una vita per nascere in un’altra. Perdersi per trovarsi:

Ci aspetteremo fuori,
finalmente dentro
in ogni cosa.

È la prova dell’acqua e del fuoco che Pamina e Tamino compiono nella musica di Mozart, la stessa di Dante alle soglie del cielo infinito, l’ultimo laccio dell’immanenza dei sensi. La sola, vera prova di fede che è anche la più alta visione a cui l’uomo può ardire: quella della trasfigurazione.

Ci riconosceremo.
Sarà come prendersi per mano
e ritrovare insieme
la strada del ritorno.

Ma questo riconoscersi diventa il riflettersi in una pupilla che non è più dei nostri occhi, non è più il riverbero di sguardo che muore. E accanto alla trasfigurazione della forma è la metamorfosi della memoria. La nostalgia dell’infinito, oltreché infinita nostalgia, diventa dell’infinito memoria e incanto.

E m’incanto
dinanzi a una bellezza
così grande da comprendere
così tremenda da sostenere.

La chiave è la bellezza, misterium fascinans et tremendum, che per sinestesia diviene anche la voce del cielo:

Ascolta la voce del cielo, è lì.
Ci chiama – lassù. Ci ama.
Lo sfolgorante blu sopra le nuvole
irradia la presenza. Musica.

Come un grande sì.

Al termine della lettura di questa antologia poetica, ho raccolto il connubio fra il prendere senso e il perdere senso, lo spirito che si incatena alla materia e le imprime una forma che anela rientrare nella propria essenza. Una bellezza umana che vela e rivela il divino, terra promessa d’infinito. E l’anima, che per raggiungerla sarebbe pronta a spogliarsi di tutto, teme che questa nudità, priva dei conforti del mondo, la precipiti nella solitudine e nell’abbandono. E resta così, timida e tremula sulle soglie dell’abisso con vertigine d’eternità. Marco Onofrio questo abisso lo interroga, non parla di lui, ma parla con lui. E nei momenti in cui la nostalgia diventa insostenibile lo chiama, in un sogno incarnato, a far parte della comunione amorosa, che muore e si rigenera nella bellezza.
Come Saffo: “ho parlato in sogno con te, Afrodite”.

Paolo Corradini

 

“A parte i colori”, racconti di Palmira De Angelis. Lettura critica

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Questo secondo libro di racconti di Palmira De Angelis, dieci anni dopo il felice esordio di Ultimo banco, è bello anzitutto perché ben scritto. E non è poco; in tempi di sciatteria letteraria istituzionalizzata, riporta in auge la scrittura come “composizione” equilibrata di elementi: contenuti, dettagli, simboli, sfumature, orchestrazione sinfonica dei periodi e “alchimia musicale” nell’incontro delle singole parole. Insomma, un prodotto narrativo consapevole dove finalmente la scrittura non gira a vuoto su se stessa intorno a un cardine inconsistente, ma nasce dalla Vita come estratto quintessenziale dell’esperienza.

Qualcuno ha coniato il neologismo “scrivivere” per segnalare la necessità assoluta di scrivere che impregna e impegna la vita di uno scrittore: la sua vita “è”, integralmente, la scrittura. La scrittura della Vita, rivissuta, pensata e immaginata a partire dalla propria esperienza. Quelle cose, chi scrive, non può non dirle: lo scelgono per dirsi e lui se ne fa strumento pur di portarle alla luce.

A parte i colori (Ensemble, 184 pagg., 15 euro) racchiude in volume 15 racconti che nascono dalla Vita: la vita di Palmira De Angelis e di ognuno di noi. Della Vita l’autrice ci fa sentire tutto il lato problematico: l’impaccio, lo sgomento, lo sconcerto, la vergogna di essere, e i tentativi spesso patetici di arginare il vuoto e oltrepassare il dolore, ingegnandosi per essere felici. Sono racconti che spesso nascono da “qualcosa di luttuoso”: una “sensazione di tetraggine” e di paura, “come trovarsi sull’orlo di un burrone” verso uno “sprofondo di morte”. C’è qualcosa di non detto perché indicibile, un “trauma originario” di cui il racconto è reperto e risvolto, ellittico del suo nucleo di verità. Una frattura del tempo che ha prodotto lacerazioni invisibili e permanenti: dopo di allora nulla è più stato come prima.

La Vita grazie a Dio è ricca di cose bellissime (l’autrice lo sa: “c’è anche la gioia”, scrive nelle ultime pagine del libro), ma qui dispiega il suo “fado” e il pensiero stesso della sua musica soprattutto come sforzo, patimento, afflizione, immensa fatica e noia del suo trito grigiore.

E quindi leggiamo:

“Vissero felici e contenti: ci si ferma sempre qui nelle favole perché non puoi mica raccontare tutto il tran tran delle giornate”;

“C’erano stati solo giorni e giorni, tutti uguali, giorni che erano l’unità di misura della sua vita, uno dopo l’altro, uno dietro l’altro, come tanti vagoncini di un trenino merci pieni fino all’orlo, di un trenino veloce che non si fermava mai”;

“Uscivi la mattina e tornavi la sera. In mezzo c’era la vita. Quand’è che s’è spezzato, s’è rovinato tutto?”

In mezzo, appunto, c’è la Vita, che ci scorre davanti agli occhi mentre siamo sempre impegnati a fare qualcos’altro, e che ci sfugge come il ricordo di un sogno lontano, dai contorni imprecisabili. Ed è qualcosa di imperfetto e di incompiuto per tutti: “come una frase cominciata e lasciata a metà”. E ancora: “un discorso che comincia bene e poi all’improvviso s’ingarbuglia”.

Da una parte le aspettative, dall’altra la dura realtà. Inganno e disinganno. Speranza e disperazione. Il mondo delude le nostre aspettative, con la sua realtà furente e feroce “di schifo, di furbi, di puzza e di rabbia”. Il mondo creato dagli esseri umani, beninteso; non la rerum natura, con la “magnifica gloria di ciò che è vivo, immutabile ed eterno”. Per capire l’atrocità dell’uomo, traumaticamente percepita alla luce della sensibilità poetica, c’è una immagine indimenticabile: i pesci che agonizzano al supermercato. «I pesci non erano morti del tutto, avevano la bocca aperta e l’occhio fisso, ma le branchie si muovevano, si aprivano e si chiudevano piano piano. (…) Poi c’era un pesce lungo e nero, come un’anguilla, che ogni tanto provava a srotolarsi, chissà, forse provava a scappar via. (…) Una strage in piena regola. La gente vuole essere sicura che il pesce è fresco, ma è come guardare un condannato a morte mentre viene giustiziato».

Qual è la soluzione? La risposta dello spirito, cioè la Poesia: il vascello fuori posto (un modellino che al supermercato ha funzione pubblicitaria ma che nessuno guarda) viene rubato dai due ragazzi protagonisti dell’omonimo racconto (“Il vascello”), e riportato al “posto d’onore”, cioè nell’alveo della sua “inutile” e per questo autentica bellezza. E dunque: ricollocarci al cardine delle cose essenziali, proprio nella misura in cui il mondo ci trascina altrove.

L’esistenza delle persone è un ciclo inconcludente, segnato dallo sforzo vano: come quello dei tassinari molisani a Roma (sintetizzato nel racconto “I giorni della merla”: una vita ad ammazzarsi di lavoro, per poi arrendersi al cancro) o emblematicamente rappresentato dalle fotografie dei turisti, incorniciate nei salotti del pianeta per mostrare “come si era una volta, prima di ingrassare, dimagrire, prima di ammalarsi”.

Ecco il silenzio dello spazio quotidiano, lo spessore del tempo, gravido di pensieri e ricordi: “In cucina si sentiva solamente il motorino del frigorifero che ripartiva e dopo un po’ si rispegneva, e in queste giornate di tramontana la porta che ogni tanto sbatteva piano”. E quindi l’attitudine all’ascolto che caratterizza i personaggi: “ascoltava ad occhi chiusi tutti i rumori”, si legge ad esempio a p. 38. Che rapporto c’è tra il silenzio della casa e il silenzio della Storia? È sui fondamenti invisibili di questo vuoto che si crea il mondo, e noi ne siamo coinvolti fino a consumarci di “resistenza”.

Il cuore di ognuno di noi è ingombro di fantasmi, e a un certo punto scocca l’insight, la rivelazione, il pensiero che “si affaccia” improvvisamente tra le pieghe del quotidiano, magari mentre si è seduti al tavolo della cucina e si puliscono gli spinaci da lessare per la cena. Dunque si leggono frasi come “all’improvviso ho visto, ho veramente visto”… “gli tornava in mente ora”… “le tornavano in mente le cose del passato come fossero di un’altra vita”… “le è venuto in mente all’improvviso, mentre era sull’autobus”… La vita interiore domina le azioni dei personaggi: è una forza incontrastabile a cui la coscienza deve sottostare: “non poteva evitare che rapidissimamente gli passassero davanti agli occhi le scene”.

Il passaggio dalla Realtà al Sogno, che questi racconti continuamente articolano, parte da uno stato permanente di macerazione (cioè di scansione analitica del tempo attraversato) per arrivare, semmai, alla fosforescenza fuggevole della rêverie, dove può ancora sopravvivere – come in una riserva – l’incanto del mondo immaginario. Sono personaggi, soprattutto le donne, a cui piace pensare e fantasticare. “Penso e ripenso” potrebbe essere il loro slogan. Per esempio, a p. 29: “Questo le succedeva anche quando era ragazza e andava a scuola. Anzi, andava male a scuola proprio perché il pomeriggio, quando doveva fare i compiti, non riusciva a smettere di pensare”. Ed ecco, ancora, la definizione della “lettura divagante”: “È che quando mi metto a leggere la mente comincia a vagare e dopo due ore che sono lì seduta con il libro in mano sono avanzata sì e no di cinque pagine. Ogni parola del libro diventa la prima di un discorso mio che continua, parole mie, i miei pensieri che se ne vanno a spasso”. Questo sono, anche, le parole così come le usa Palmira De Angelis nei racconti: porte girevoli che socchiudono scenari sulla complessità umana dei personaggi, sul loro destino, sulle storie di cui si accenna e si lascia appena intuire. Ad esempio il divano comprato, con le cambiali, nel lontano 1969: “Francesco al liceo non poteva invitare gli amici a casa per quel divano vecchio che avevate, di finta pelle rossa con le molle rotte”. Basta un dettaglio per evocare un mondo. Da cui l’attenzione ai minimi particolari, l’importanza decisiva dei “fattori invisibili all’occhio” che si rendono visibili grazie alla capacità di saper cogliere gli “indizi” e di “frugare bene tra le verità sepolte” per capire “il perché”.

La verità delle verità, però, resta sempre irraggiungibile: “rimestare nel passato. Per trovare i collegamenti, le cause. Ma più guardi indietro e più dimentichi. Più ci pensi e più tutto cambia”. Per questo Palmira De Angelis ripudia la prospettiva del narratore onnisciente e predilige la struttura “aperta” di una narrazione mai apodittica o viziata di prospettivismo, da cui il lettore uscirà con più domande e meno risposte di prima. La Vita stessa è soggetta all’imponderabile, in una dimensione fluida e precaria dove la fine delle cose è sempre in agguato. Ogni attimo passa per sempre e non ritorna, come scopre con rammarico il ragazzo che allo stadio di Londra, durante Arsenal-Fiorentina 0-1 del 1999, si lascia sfuggire il gol decisivo di Batistuta, e “intanto pensavi che se fossi stato a casa, davanti alla TV, l’avrebbero rimandato subito il gol, quattro o cinque volte, da tutte le prospettive”. Meglio esserci e vivere dal vivo, sia pure con limiti percettivi, o avere della realtà un’esperienza completa ma artificiale (come quella dell’immagine televisiva)? Meglio – senza dubbio – esserci autenticamente, a costo di un’esperienza labile e parziale! Meglio essere allo stadio! Cioè, immergersi nel pathos della Vita in fieri, in attesa del kairòs, l’attimo fuggente e decisivo come un gol, grazie a cui la vita cambierà… oppure no.

A questa imperfezione costitutiva del reale si contrappongono le virtù riparatrici e medicamentose della Poesia, intesa come Poìesis, attività estetica di ricomposizione delle forze del mondo attraverso l’armonia dei suoni. Per questo è possibile parlarne anche in sede di narrativa: a prescindere dal fatto che anche la prosa è una “scatola di suoni” soggetta a regole metriche e ritmiche, Palmira De Angelis dà una perfetta e forse inconsapevole auto-definizione della propria scrittura quando, nel racconto “La signorina Rubì”, mette in scena una inedita e appartata poetessa, ammiratrice di Guido Gozzano, alla costante ricerca della “parola che s’accorda col suono”, legata e piegata al ritmo di un’idea, per cui il tono deve essere colloquiale, il fraseggio compiuto e melodioso, la visione chiara: “tutto deve essere dato, con immediatezza e con semplicità”. La leggerezza nasce da un lavorio intenso e nascosto che ricorda lo “stile dell’anatra” di Raffaele La Capria. Così è, di fatto, la scrittura di questi racconti.

Epperò Poesia è anche “scavare tra una parola e l’altra piccole trincee” dove lasciar trapelare brividi e palpiti inquieti, e soprattutto rovistare tra le immondizie alla ricerca della perla, convinti che proprio là è possibile trovarla. Così anche la realtà caotica di Roma – declinata attraverso toponimi come Testaccio, Castro Pretorio, Piazza Vittorio, Villa Borghese, Tiburtina, Nomentana, Tuscolana, etc. – trova, nonostante il degrado, la sua appassionata trasfigurazione poetica: “E questa è Roma. (…) Ed è amore che sente. Non è lei stessa la prima ad esserne sorpresa? Ama l’aria fresca dopo il caldo afoso nella metro. Ama le automobili, gli autobus, i turisti che ingombrano il marciapiede (…) le colonne antiche sdraiate sulle pietre antiche, i piccioni, l’arco di Costantino, tutto”. In quel “tutto” c’è ogni altra parola dicibile e l’accordo mediante cui entrare in consonanza, perché apparteniamo insieme al mondo umano. E nell’incognita delle occasioni può nascondersi tutto il bene o il male che ci attende, e non potremo mai sapere come sarebbe andata se invece… o come sarà dopo la fine delle storie… un po’ come al cinema quando il film è finito e sei già ai titoli di coda, mentre la gente si alza per tornare alla realtà.

Non è chiaro, insomma, se il timone della vita è nelle nostre mani o tutto accade per conto suo: “Tutto è diverso, eppure tutto è uguale. Non cambia niente. O forse no”. Il libro conclude, peraltro, con la consapevolezza di un tempo meno irreversibile. “Questo ho capito. Si può cancellare e riscrivere. Cancellare e riscrivere”. Come quando si compone un racconto al computer, il che ci dà speranza. È forse in questa capacità di rispecchiamento reciproco tra Letteratura e Vita il valore umano più importante di “A parte i colori”, e uno dei motivi più validi per leggerlo.

Marco Onofrio