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“Beatle-Magia”, di Valerio Mattei. Lettura critica

“Beatle-Magia” (Jack Edizioni, 2023, pp. 196, Euro 14), il nuovo libro di Valerio Mattei, è parte di un progetto artistico che troverà la sua manifestazione a 360° veicolando in concerti ed eventi anche il libro precedente, da cui questo deriva, cioè “Lo sciamano” (2019), e altre scritture letterarie e musicali in corso o “in procinto di”. Tale dimensione di work in progress è verificabile anche nell’ottica creativa e aperta con cui “Beatle-Magia” è stato concepito da Valerio: sia per tentare nuovi sentieri interpretativi dei Beatles attraverso la sua sensibilità, sia per cercare egli stesso nuove strade artistiche attraverso la storia e, ancor meglio, l’essenza dei Beatles.

Qualcuno potrebbe obiettare: ancora un libro sui Beatles?! Che altro di nuovo si potrà mai dire? Ebbene, Valerio ci dimostra che di qualsiasi argomento, pure il più consumato, esiste sempre qualche sfaccettatura inedita; ma non è questo il punto. Non ci troviamo di fronte all’ennesimo libro sui Beatles, quanto piuttosto ad una “sinfonia” di esplorazioni sul mistero della creazione artistica che nei Fab Four ebbe modo di manifestarsi fulmineamente, segnando per sempre la cultura attraverso la loro “epifania” planetaria. Le chiavi di lettura sono storiche e sociologiche (cita tra gli altri Franco Ferrarotti ed Edgar Morin), ma soprattutto estetiche. Nella fattispecie, un’estetica a vocazione spiritualistica e messianica, escatologica e misteriosofica. Valerio sviluppa la sua ottica da una concezione provvidenziale della Storia: non l’immanenza di un divenire che trova in se stesso le proprie ragioni, ma la trascendenza di un Disegno che appunto nella Storia si attua e manifesta, per cui non esistono coincidenze e nulla di ciò che accade è per caso. L’affascinante ipotesi è che la partitura dell’esistenza si ricolleghi a una grande Matrice olografica universale che incide continuamente la realtà su “nastro” invisibile e la memorizza in archivio: il “Registro Akashico”, cioè il film del mondo. Non è dato sapere se la realtà è una tessitura che accade di attimo in attimo o una tela già tutta ricamata alla quale dobbiamo estendere il nostro sguardo, oltrepassando il singolo dettaglio.   

Anyway, come si spiega l’incredibile avventura dei 4 ragazzi di Liverpool che hanno cambiato il mondo? La loro evoluzione entusiasmante, la loro rapidissima maturazione, la folgorazione creativa che ancora produce la sua fosforescenza ad ogni ascolto? Cos’è che li ha resi e li rende così speciali? Qual è il segreto dei Beatles, il loro carisma, la radice del loro magnetismo, il loro magico ingrediente segreto? Proviamo a sommare i fattori: a + b + c + d + X… E “X” è il quinto membro del gruppo, dove perciò c’è molto più che la somma di Paul, John, George e Ringo Starr. E non stiamo parlando del produttore George Martin… Riflette Valerio: “C’è qualcosa che continua a sfuggire”, qualcosa di intangibile e non riproducibile, altrimenti “quanti Beatles avremmo avuto negli ultimi 60 anni”?

Gli stessi Beatles non sapevano spiegare tutto quel successo:

In una conferenza stampa dei primi anni Sessanta, qualcuno chiese ai Beatles: «Cos’è che fa impazzire i vostri fans?» Paul McCartney rispose con un umile quanto onesto: «Non lo sappiamo». John Lennon invece, geniale e tagliente come sempre, fece esplodere una risata corale dicendo: «Se lo sapessimo formeremmo un altro gruppo e ne saremmo i manager!»

Ma, al di là della Beatle-Mania, da cui a un certo punto ebbero necessità di difendersi, lo sconcerto nasce dal salto evolutivo: da “Love me do” (1963) ad “Across the universe” (1969) c’è un abisso difficilmente spiegabile, oltretutto in così breve tempo! Furono rapiti da una nebulosa creativa che li portò a produrre tanto e a cogliere tesori musicali in rapida sequenza: nella breve ma titanica storia dei Beatles i mesi valgono come anni, tutto è rapidissimo e dà il capogiro.  

Valerio chiama in causa la connessione con una Energia superiore che li avrebbe canalizzati: non è altrimenti possibile “conseguire in un arco temporale così ristretto una evoluzione artistica di tale portata (…). Sembra davvero che i Beatles siano stati infusi letteralmente di una qualche saggezza cosmica”. E ancora: “Non scrivi Yesterday, Imagine, Let it be, Strawberry Fields Forever, Lucy in the sky e altri capolavori perché hai deciso di sfondare nella musica”. Non basta il talento e neppure il genio… (fra l’altro i Beatles non sapevano leggere la musica, erano musicisti istintivi). Per spiegare quanto accaduto occorre la Grazia del trascendente, e questa arriva se è necessaria. Nel caso dei Beatles occorreva al mondo per sincronicità con il momento storico: ebbero semplicemente il “merito” e la “fortuna” di trovarsi al posto giusto nel momento giusto per rivelarsi come risposta planetaria alle istanze dei tempi: speranza, emancipazione, giustizia, pace, amore, libertà, felicità. La loro musica consuona con la rivoluzione giovanile, il Concilio Vaticano II, la Nuova Frontiera di Kennedy, lo spirito beat degli anni ‘60. L’intelligenza cosmica li scelse per incarnare tutto questo e affermarlo simultaneamente in tutto il pianeta. La luce che li accese è una sorta di Big Bang da cui scaturisce il rock e il pop che ascoltiamo ancora oggi. Due esempi: “Helter Skelter” all’origine dell’Heavy Metal, e “Tomorrow never knows” della musica elettronica.

Chiaramente Valerio non tralascia – per cenni rapidi e spigliati che presuppongono vaste conoscenze – la storia dei Beatles, anzi riesce a farcela sfilare davanti agli occhi come un videoclip: gli inizi difficili, tra Liverpool e Amburgo, poi l’esplosione del successo, l’Ed Sullivan Show, il Portale Magico che innesca il vortice planetario, la Comedy Song (per esempio Norwegian Wood o Eleanor Rigby), e infine il rifiuto dello show-businnes, la ribellione salvifica alla standardizzazione commerciale, al consumo distratto, alla cultura come oppiaceo. Succede così che nel 1965, soffocati dalla prigione dorata del successo, i Beatles obbediscano al richiamo dello Spirito che bussa alle loro porte: aprono appunto le “porte della percezione” e accolgono i doni della trascendenza, del sogno, delle visioni psichedeliche. Ecco la spiritualità, la meditazione, i testi metafisici, la coscienza cosmica, le culture orientali, l’utilizzo del sitar e il viaggio in India. I Beatles muoiono alle proprie “maschere” e così diventano davvero immortali. Ma restano fedeli alla propria natura, ora più che mai: si tratta di evoluzione organica, benché per certi versi inspiegabile su un piano umano. Il loro sound resta immediatamente riconoscibile anche in questa fase sperimentale. Bellezza e semplicità: melodie indimenticabili che nascondono diversi livelli d’ascolto e tentazioni sinfoniche, già ispirate a suo tempo da George Martin. I Beatles seppero ampiamente dimostrare la possibilità di conciliare qualità e popolarità, cultura alta e cultura di massa, spessore di contenuti e accessibilità di forme.      

Il cuore di questo libro è, ripeto, l’ipotesi trascendente di creatività canalizzata: canzoni come gemme sfavillanti ricevute in sogno. Ecco come John Lennon descrive il processo creativo:

È come essere posseduti, come un medium. La cosa deve saltare fuori. Non ti lascerà dormire, così devi svegliarti, trasformarla in qualcosa, e a quel punto avrai il permesso di dormire.

Anche Bono degli U2 nel suo recente libro autobiografico “Surrender” descrive il momento sciamanico in cui sente che la canzone sta cantando lui, non viceversa. E così accade allo scrittore quando viene scritto dalla pagina che scrive. L’artista, nella visione alta di Valerio, è sciamano e sacerdote dell’assoluto, è colui che risveglia e rivela. Come lo shammàs del candelabro ebraico, il nono lume, posto più in alto degli altri 8 per accenderli. Questo è l’artista: un “servitore della Luce” che apre in noi una potente connessione con la scintilla divina e ci sintonizza sul fatto che siamo “esperienze naturali ispirate da Dio” (che tradotto in inglese forma non a caso l’acronimo della parola IMAGINE).    

Il libro di Valerio “vuole essere principalmente un omaggio all’insondabilità della materia artistica” e del mistero creativo, per cui non solo i Beatles racchiudono in sé esperienze mitiche millenarie come quelle di Icaro (si sciolsero all’apice del successo), Proteo (erano in metamorfosi costante) e Prometeo (donavano un nuovo fuoco agli uomini), ma la stessa Beatle-Magia si configura come un principio creativo metastorico che opera negli abissi dell’Inconscio collettivo, manifestandosi attraverso i talenti più disparati, alcuni dei quali, evocati da Valerio, si affollano attorno alla potenza magnetica dei Beatles, come in un doppione ideale della copertina del loro album più iconico, il Sergeant Pepper.

Un libro molto ispirato e gestito benissimo, con grande lucidità e maestria comunicativa, che non solo è illuminante perché toglie un po’ di veli agli sguardi opachi di chi legge, ma si lascia fruire come un racconto piacevole, di ottima divulgazione e non comune profondità.

Marco Onofrio

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“Con altra voce”, di Sabino Caronia. Lettura critica

La silloge “Con altra voce” (Edizioni Nemapress, 2019), di Sabino Caronia, raccoglie 30 poesie che paiono scritte con la bocca amara, le labbra deformate nella smorfia di un gusto aspro che tenta di nascondersi sotto il velo brillante dell’ironia ma che in altri momenti, al colmo del malincuore, può lasciarsi andare apertamente nel sarcasmo. L’opera si dipana tra “diario di assenze”, giocate tra non più e non ancora, e “naufragio di amori” mai consumati, soltanto sognati, finiti sul nascere o al primo apparire della loro potenzialità. Dalla “ferita del possibile” qui si passa alla “ferita nell’esistere”, giacché l’esistere stesso è e produce una ferita che langue in silenzio e «tutt’a un tratto» può risanguinare. Caronia guarda da spettatore passivo al destino che muove da dentro l’evoluzione delle cose, governandone e determinandone gli incontri, gli scontri, le separazioni, fino alla chimerica «forma segreta» della loro essenza. Ad esempio il vento che «corre all’appuntamento con le foglie», o le nubi che passano in cielo «messaggere di lutto», oppure la cometa che fugge «chissà dove / da chissà quale terribile dove / e silenziosa nella notte» va «sempre obbediente ai calcoli del cuore». La voce “altra” della poesia scaturisce dalle crepe sul muro compatto dei sogni, fratturato dalle esperienze, dalle delusioni, dai dolori. Da cui, conseguente, la constatazione del nulla in cui siamo immersi e a cui siamo destinati, a dispetto del nostro inutile sforzo, e quindi anche l’incomunicabilità, «la coscienza d’essere vivi in un mondo di morti» e, talvolta, la vergogna «d’essere un uomo».

Cosa resta di noi, di queste nostre
vite senza memoria, cosa resta
di questa solitudine infinita?
Soli, come Franz Kafka, dentro un treno
che corre per deserti alti di neve.

La vita è come un viaggio in un mattino
freddo, nebbioso, triste, senza luce
che ci conforti e ci riscaldi il cuore.  

Infatti il cuore è freddo, ed è freddo perché troppo ha compreso, facendo di persone, cose e situazioni «specchio di me vivo e profondo» fino alla vertigine dell’inesistente. L’intelligenza (intus legere) è in certi casi una condanna, si vorrebbe avere meno consapevolezza – o almeno un senso meno vivo e straziante – di ciò che accade dentro e intorno a dove siamo.

Questo è morire, sai: guardare dentro.

L’esistenza è il dolore sconsolato di capire che «dietro quella finestra c’è la notte» e che siamo tanto fragili: «Domani il vento ci porterà via». A questo freddo, che in ultima ipotesi può anche essere eterno («quando i vermi un freddo pasto / faranno alfine del mio corpo»), Caronia oppone il potere consolatorio offerto – soprattutto nella prospettiva malinconica del post factum – da lacerti episodici di vita, attimi irripetibili, rare luminose epifanie, attraverso la mediazione salvifica della Donna: le sue mani sulle mani innamorate, il «calore delle dolci labbra» che scalda ancora le sue, gli occhi grandi «dove amore fa nido», gli «occhi di cielo» dove ritrova la «fuggiasca fecondità», i pensieri dove vorrebbe vivere, la «promessa di futuro / che ritorna da un tempo ormai lontano / e il cuore scalda e l’anima innamora», ecc. L’amore che nutre i frutti della vita e la poesia che li raccoglie possono opporre un argine di salvezza al baratro eterno in cui tutto prima o dopo è destinato a dissolversi. Lo scrittore è come colui che «accende fiori di solarità» posandoli in offerta votiva «sul nero del dolore», e Caronia ricorda il girasole che Plinio Perilli portò in dono al funerale del caro Elio Fiore. Si tratta insomma di poesie pervase da un disperato bisogno di felicità, in attesa di un appuntamento «dove non c’è miseria né dolore» (come quello sospirato da Don Fabrizio Salina quasi alla fine del Gattopardo, “un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza”), qualcosa che dunque ci liberi dal gioco trito e tristo dei giorni in cui siamo impelagati. L’opzione di un’altra voce (che è, infine, la poesia stessa) apre universi alternativi, scenari che si affacciano su dimensioni diverse da quelle ordinarie, per limpidezza, lucidità ed intensità percettive, benché ad esse parallele e in qualche modo adese, forse concentriche. Un esempio di questa realtà poeticamente rinnovata e “salva” è nella bella composizione “Sotto diverso cielo”:

SOTTO DIVERSO CIELO

Il vivissimo fuoco
dei tuoi verdi occhi chiari
come lama sottile
mi ha frugato nel cuore,
sotto diversa luce,
sotto diverso cielo,
su prati di smeraldo,
dentro una pioggia d’oro.

Il mondo visto con gli occhi di un trapassato, che finalmente ha visto svelata “sotto diversa luce” la verità del mistero, implica la salvezza ultima della fede religiosa, del credere in ciò che non si è visto e del sapere con tutta l’anima che «Cristo è Cristo», ossia che fedele e saldo come Lui al mondo non c’è e non ci sarà mai nessun altro. Cristo infatti è «infinita speranza che non muore» ed è Lui lo scoglio sicuro che può offrirci l’«appiglio» dove resistere al naufragio ininterrotto delle cose. La ricerca del divino che è in noi non deve languire nell’abitudine dei fatti scontati, ma essere pungolata dalla sete viva dell’assoluto, ed è ciò che si afferma nella prima composizione – quasi un segnavia, una stella cometa deposta a splendere proprio all’incipit del cammino – che peraltro ritengo la migliore, anzi la più memorabile delle trenta:

COME L’ACQUA

Poiché l’acqua è insegnata dalla sete
non ci resta che prendere la sete,
per maestra, per guida d’assoluto,
nei cammini dell’anima inquieta.

Marco Onofrio

“Dentro il muro”, poesia inedita. In memoria di mia madre

DENTRO IL MURO

Liberarmi di tutto
anche di me
in te precipitato
fino al pensiero senza più parole
che scioglie il sentimento
il non evento
del fato universale:
dice non dice
e disammanta il velo
che ricopre chiaro
il suo mistero.

Ho soltanto perso
uno dei corpi che abbiamo,
quello toccabile di carne.
Era morituro.

Lo so, mi manca appunto
toccarti vederti
sentire la tua voce.
Sfondo porte aperte
dentro il muro
che t’incarna nella voce
delle cose,
luce del tempo
forma invisibile del vuoto
limpida visione
che dilegua
amnesia divina
strazio e compassione
ai vertici del senso
e del profondo.

M’impiglio con i piedi
sulle nuvole,
saltimbanco indegno
del silenzio.

Chiudo gli occhi e sento
lo Splendore
a cui ora appartieni.

Traccio ponti di fiori nel cielo,
li percorro fermo a testa in giù
e dormo beato
fra le tue coltri d’acqua
mentre abbracciati cantiamo insieme
madre dolcissima
i tramonti che non vedremo più.

Marco Onofrio






“Dolce di sale”, di Antonella Caggiano. Lettura critica

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“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.

Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.

Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.

Sii il profumo che vuoi intorno.

Tieni la testa
al sole
come i girasoli
che l’abbassano
solo per seminare il terreno
di nuova vita.

È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.

Il Mare
qui
ora…

E ancora:

se dovessi pensare alla
Bellezza
vedrei l’istante esatto in cui
i petali si schiudono
nella promessa dell’alba.

La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:

Aprila!
scorgi il cielo che ti soffia parole
di cura.

I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:

Vorrei essere
piuma
in un cielo fermo
d’estate
e
piroette e volteggi
disegnati
nel sole
posarmi a terra.

Nient’altro.

Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.

Arriva al centro
delle cose
del mondo,
quelle per cui si è ciò che si dona.

Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia?  “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.

Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:

Attenzione a come mi guardi
potrei andare in frantumi.
Parla sottovoce ché l’anima
ha pelle di acqua
scivola
senza ricordo.

(…)

Siamo soffio
non chiedere il peso
la misura.
La spuma divina
ci accende.
Un volo
di fiori d’angelo
ci disperde.

(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:

Come posso
dire cose?  

È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.

 Marco Onofrio

“Distrazioni”, di Cristina Polli. Lettura critica

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Se già la silloge di esordio, “Tutto e ogni singola cosa” (2017), aveva dato la netta sensazione di inaugurare una voce poetica di vaglia, con il terzo libro (dopo il poemetto “Quando fioriscono le tamerici”, 2020) Cristina Polli conferma e anzi migliora quanto di buono realizzato in precedenza, giungendo alle soglie di una prima e robusta maturità espressiva che le consente di precisare meglio i traguardi e gli strumenti del suo percorso. 

Direi che il fulcro di questo “Distrazioni” (EdiLet, 2021, pp. 80, Euro 12) è la soglia sottile che unisce-separa l’Ordine dal Caos, quindi il controllo razionale del mondo (o l’illusione del controllo) e l’abbandono alla sua forza. Come arriva più lontano il volo di un uccello: remigando gagliardo nell’aria o lasciandosi portare dalle correnti? Il principio dell’aereo o dell’aliante? Molte parole-chiave segnalano tale metamorfosi di pensiero e di approccio: dal controllo che aggredisce e disperde, al dono che si coglie nell’abbandono. Resa, attesa, desistenza, caduta, spoliazione. E due verbi emblematici come precipitare e sciogliere. “Il tempo dell’attesa” è, peraltro, il titolo della prima sezione del libro. Leggiamo versi come, ad esempio, «Ho posto l’attesa a governo dell’ora», oppure «l’inquieto trasalire dell’attesa». Attesa di che? Del rivelarsi spontaneo dell’Essere, nel «bagliore dell’attimo» che esplode.

L’ANGELO MI RICONOBBE

L’angelo mi riconobbe dal segno
che mi aveva lasciato:
graffi di una lotta impari
impressi sulla pelle.
Tornò a chiamarmi
e nel bagliore dell’attimo mi apparve
il margine e il dirupo
lo stacco del volo e la vertigine.

Insomma il mistero, se aggredito, si nasconde; se lasciato manifestarsi, si rende disponibile alla rivelazione. È qualcosa che erompe con i suoi tempi (ecco l’importanza dell’attesa) se è giusto e armoniosamente “aperto” l’incontro con l’alterità. Quindi, a ben vedere, è una questione di dialettica tra riduzionismo e complessità. Vogliamo ridurre tutto alla nostra portata per esercitare un controllo sulle cose: un controllo che sa di dominio utilitaristico. Così funziona il pensiero occidentale, il tempo unilineare che guida il progresso della storia. E abbiamo il fegato, per assorbire il veleno di questo incontro continuo con il pugno duro della realtà. Ma l’«innocenza crudele» della Vita è un avvoltoio che scarnifica ogni giorno il fegato (come l’aquila lo divora a Prometeo incatenato sulla roccia) per impedirci di sottrarre la nostra coscienza all’autenticità dell’incontro.

RIPETIZIONE

Si è aperto tra i rami il giorno incerto
ho destinato alle carte la mia poca energia
il resto l’ho dato in pasto all’avvoltoio
che non sa perché mi scarnifica il fegato
ma mi guarda e ha negli occhi un’innocenza
crudele e mi presta cure per dilaniarmi ancora.

Non dobbiamo opporre difese e resistenze, se vogliamo giungere al cuore della verità. È una specie di principio omeopatico della conoscenza. Qualche esempio? Ci muore una persona cara: rimuovere il dolore non consente di elaborare il lutto. Dante non può arrivare al Paradiso se prima non attraversa la tenebra dell’Inferno. L’alba non sorge senza la notte che la precede. E così l’attenzione: per giungere al frutto supremo ha bisogno di approfondire ciò che la distoglie dall’oggetto. Quindi la vera attenzione nasce dal perfezionamento della distrazione, per abbandono totale all’avventura che apre nel mondo e all’accoglienza dei segreti che libera alla luce. Ecco il titolo del libro! Le “distrazioni” si rivelano il modo migliore, cioè il più poetico, per conoscere l’essenza delle cose. 

Gli animali sono parte del concento universale, sono naturalmente attenti nella distrazione. Mentre ognuno conosce «la sua parte a memoria», l’essere umano è l’unico animale che deve costruirsi un mondo ricavandolo razionalmente dall’universo, derivando cioè il cosmo dal caos. «Ecco che misuro / i miei passi sulla strada» scrive Cristina Polli rievocando il vo mesurando a passi tardi e lenti di Francesco Petrarca (Solo et pensoso, sonetto 35). Ma per giungere alla realtà vera non bisogna misurare i passi! Occorrono «rotte scomposte» che consentano di uscire dai cardini razionali, il deragliare di un «io che si discosta in transito». L’io che si discosta, che cioè si fa da parte, è la derealizzazione del soggetto come centro irradiante di coscienza.

Dispersione è un’altra parola-chiave. Essere in un luogo e contemporaneamente altrove: «svolto angoli come se dovessi / in un istante / comparirmi altrove». Dunque perdersi per ritrovarsi: «mi slaccio / mi tramuto e sperdo». Spogliarsi delle abitudini che ci fossilizzano e ci addormentano.

CHIEDO IN PRESTITO

Chiedo in prestito una veste
da indossare come un gioco sconosciuto
per non essere io per un istante.
Chiedo di dimenticare il gesto appreso
di sorprendermi quando alzo lo sguardo
trasalire e perdere la presa della cima
tra la mano e l’oggetto
la distanza.

Se «il pensiero è sponda dello sguardo», serve uno sguardo diverso «per sorprenderci / veri in questa spoliazione». Essere pronti per una caduta senza appigli a cui afferrarsi: affacciarsi «a un vuoto / di mura sgretolate». Il soggetto come centro irradiante di coscienza non può per definizione cogliere la coscienza irradiante del mondo: è troppo auto-centrico e presuntuoso per riuscirci. Ecco ad esempio la meravigliosa sospensione epifanica de “Le tre del pomeriggio”:

Ringrazio la solitudine delle tre del pomeriggio,
il caffè e le ali d’ombra
tra le nuvole e la mia finestra,
i rumori lontani e la bambina dei vicini
che non piange.
È richiesto uno sforzo di oggettivazione
          − una domanda sul senso dell’agire,
ma siedo inerme, solcata di passaggi
e urla e risa e occhi.
Invasa.

Basta sapersi mettere in ascolto autentico del mondo, oltrepassando lo «sforzo di oggettivazione», ed emerge il suono stesso della realtà, la «nitida madre d’eterno» con la sua «tenue cantilena dell’indugio». Attenzione, però, niente di sovrannaturale: l’epifania emerge dalla realtà più ordinaria, aprendosi al «rendez-vous / di suoni e segni» che ci attende in strada (spesso nella tristezza acida della città, soprattutto d’autunno e d’inverno, ad esempio la «luce di lampione sulle pagine», le «ombre che rincasano», «i fanali in coda», le «luci / riverberate in corsa / sull’asfalto»…) Ma è proprio dentro il quotidiano apparentemente più grigio e trito che si aprono le feritoie rivelatrici, le «magiche finestre». Il varco di montaliana memoria può essere un mutamento impercettibile di luce, o la bellezza che trascende il fato della dissolvenza, o una preghiera che vibra in una «crepa della voce». Basta un lampo di miracolo («il lampo che / fa chiara la parola» nella trasparenza della poesia) e la fermata dell’autobus «si trasforma in un bosco. / Il luogo è lì», il «mistico luogo dell’intesa».

Emerge così, senza averla cercata con l’intelletto, la rete infinita delle connessioni, «le intersezioni dei gesti / e degli eventi», i nodi che legano e trattengono la struttura nascosta del mondo: ecco lacerti come «mi irretisce», «intorno mi trama», «mi intesse rete», nella coscienza complessa del cosmo-labirinto circostante. «Cos’hai visto nella tela del ragno?» si chiede e ci chiede Cristina Polli. Magari scomporsi tra i rami «l’iride del giorno / luce e forma d’intessuta levità». Ovvero fruscii, tremori, rumori lontani, «ogni volo, ogni battito d’ali», insomma, ancora tutto e ogni singola cosa

È il mondo stesso che suona la sua musica, come le «parole» dell’acqua con «accenti che non so». La corrente della Vita «rimesta passaggi» anche sottopelle e squarcia la superficie del tempo, producendo la lacerazione tra centro e periferia, perché forse è in periferia che accade l’essenziale. Immaginiamo di guardare una partita di tennis al contrario di come viaggia la pallina. È così che, al di là dell’abitudine acquisita, scopre l’insolito il poeta: nei dettagli apparentemente insignificanti che racchiudono – e per questo possono svelare – gli accenti più sinceri della verità.  

Il divenire del mondo si manifesta, com’è ovvio, attraverso la dissolvenza delle forme che «mutano» continuamente «sotto il cielo», e quindi non si afferrano perché non trattengono la dispersione, come le «labili tracce» delle orme sul bagnasciuga del mare:

ORME

L’onda a suo piacere
ti disegna un manto
decide a capriccio la curva della luce
sabbia di silice sgranata
traversata da un orlo di marea
che ti compatta lucente sentiero
d’orme
labili tracce velate
da nuova
bianca schiuma
ricordi della rena
che le accolse.

E ancora:

MARE

Balsamo al mio spirito inquieto
è l’onda che torna
s’infrange
riprende
s’adagia ineguale
dilegua il colore
e le orme
e in bianca spuma tramuta
il moto profondo dell’acque
s’accorda coi moti dei mondi
in specchi cangianti d’opale.

La poetessa si vede «come una bambina distratta» che impara a costruire un nido sulla «trama delle crepe», cioè a «trarre di sé i resti» (fra l’allegria del naufrago ungarettiano e il vecchio marinaio di Coleridge) per usare il margine interiore della parola-soglia, nella «stasi silente» del suo canto, dove purificare il fiele e il sale dell’esistenza, oltre tutte le incrostazioni dell’esperienza.

Questo libro è un cammino di conoscenza essenziale: vuole aprire le gabbie della ragione per affidarsi e affidarci alla forza sacra che «scioglie in acqua a scorrere / le cose come sono», fino alla capacità di leggere in modo nuovo il libro del mondo, arrivando a vedere l’invisibile, ed accade per esempio nella splendida “Calligrafia del silenzio”, riportata in quarta di copertina:

È caduta per me
la foglia sull’asfalto.
Non so la foglia
o l’albero esile
da cui si è lasciata prendere
scrivendo un volteggio
senza vento.
Calligrafia del silenzio
che di bellezza muta
mi attraversi.

Marco Onofrio

“Azzurro esiguo”, letto da Stefano Vitale (www.ilgiornalaccio.net)

Azzurro esiguo cop-2

L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìa che lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.

Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…

“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».

L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.

La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.

I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.

È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).

In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.

Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).

Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.

Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.

Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.

Stefano Vitale

“Azzurro esiguo” letto da Emanuela Dalla Libera

Azzurro esiguo cop-2

Ci sono il finito e l’infinito, l’immenso e il circoscritto, il cielo e la terra, la vita e la morte, “l’azzurro esiguo e l’universo tutto nero”, c’è insomma la vita in tutte le sue sfaccettature in questa nuova raccolta poetica di Marco Onofrio, Azzurro esiguo. C’è un viaggio nel vivere, orizzontale e verticale insieme, un viaggio della coscienza cui è sotteso un già compiuto viaggio nella conoscenza, quella acquisita nel tempo vissuto che diventa luogo di partenza e di ritorno in un circolare movimento che parte dalla nascita di sé e dell’universo e approda alla morte, di sé, attraverso il padre (“io sono in te un’unica persona”, “abiti ogni mio respiro”) e, ancora, dell’universo. Da tutto questo emerge costante un “resistere e sperare” in cui si sostanziano lo sguardo, il canto, l’amore. L’amore soprattutto perché “il tuo amore è un’arca” e nella precarietà e talora insensatezza del vivere compare a caratteri cubitali “solo una domanda: HAI SPESO LA TUA VITA PER AMARE?”. E una risposta “È soltanto per amare / che abbiamo avuto un corpo, / che esistiamo”. E ancora: “Abbiamo bisogno di amore”. E se l’amore è l’àncora del nostro vivere, non mancano nella poesia di Onofrio momenti di dichiarata incertezza in cui il vivere è percepito con una precarietà costante, con una incolpevole incapacità di comprendere (“la bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”) e l’universo viene sentito come “un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia” e “ogni mattina il mondo esce, stentatamente / da un oceano impenetrabile di nebbie”. Il dolore finisce per essere l’unica certezza che appartiene all’umanità e all’intero universo (“dirompe dentro gli alberi il dolore”), un dato inconfutabile che permea l’esistenza intera e sembra approdare a un pessimismo cosmico di leopardiana memoria (“Ecco la storia del mondo! / È il cimitero dei sogni / questa montagna altissima / di cenere / a cui ci aggiungeremo dopo morti”), lenito appena da una fievole bellezza (“La galaverna traccia i suoi ricami”). Al dolore conduce necessariamente anche il carattere effimero dell’esistenza (“Neanche il tempo di aprirsi / e si inceneriscono le rose”), la frammentarietà delle realtà e il loro inesorabile finire (“Il guscio trasparente dello spazio / si rompe nel polverio dei giorni”). Da qui il nascere di una forte tensione spirituale, l’ansia di possedere la verità del mondo (palese in CHI È?), la ricerca di un varco (Varco, appunto è il titolo di una delle poesie) che porti al superamento della materia, a possedere l’irraggiungibile (“Che voglia di vedere all’orizzonte!”), tensione spirituale che si scioglie in un atteggiamento estatico perché “l’aria squillante di sole / mi piove dentro l’anima / e mi cura” e “il sangue () / riempie di ringraziamento / il canto senza tempo / del mio amore”. Il superamento della condizione terrena si materializza nel sogno perché solo nel sogno si può arrivare “al centro inabitabile del cielo”: solo lì sarà possibile possedere il delirio sfrenato / che mi rende insaziabile di gioia / e grato di appartenere al mondo” e “vedere l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità”. C’è ancora, nella poesia di Onofrio, una sorta di religiosità, di sentimento del sacro, che si sostanzia nella certezza che “l’anima non va dispersa”, nella fede nella bellezza, bellezza che è anche della stessa poesia perché “la poesia ci consola / delle parti di noi / che non tocchiamo più”, e l’amore per la vita diventa “sconfinato”. Bellezza è la felicità che sta “nelle cose minime essenziali”, e che non sempre riusciamo a cogliere (“Troppo spesso siamo già felici / e non lo sappiamo”), ribadendo ancora con questo il nostro angusto e imperfetto vivere. Nella precarietà e indefinitezza del tutto, nel carattere ingannevole di ogni cosa, (“È tutto illusorio, / tutto perdutamente vero/ ciò che esiste”), c’è infine l’anelito all’eternità, al pensiero, che diventa bisogno, che tutto si ricomponga in un altrove, se non di questo mondo, almeno del nostro sentire, perché è nel nostro sentire che le cose sfuggono alla tirannia del tempo e alla loro caducità. L’eterno esiste e ha una porta a cui bussare, esiste nei sospiri d’amore che nella memoria si ricompongono e cessano di essere separati, esiste nella foto del padre, struggente modo per dichiarare che nulla finisce davvero se anche solo un’immagine riesce a perpetuare negli altri un tratto del nostro cammino in terra.

Emanuela Dalla Libera

“Appello” (a Dante Alighieri)

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APPELLO (a Dante Alighieri)

…ma non erano da ciò le proprie penne
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne…
(Paradiso – 33, vv. 139-141)

… Inesorabilmente, da quel cielo
nel suo perenne lumine irradiato
atterrò d’un attimo il mio ciglio
ché ancora non ardivo ricercare
la fonte del più nobile consiglio.
E lì si aperse il velo, innominato.

Lui m’induceva a dire come figlio
che domandato al padre si confessi
temendo di non reggere l’acume
nell’acqua trasparente dello specchio
ove polire, a forza di speranza
le brume incatramate degli abissi
e solvere l’enigma dell’andare
eterno che contiene l’esistenza.

Mi rischiarai la voce titubante
che più sottile in punta della gola
il brivido impediva nell’uscire
ghiacciato dall’aguglia che le vene
appinza, e a porgere quel dire
brillava la mia fronte di sudore.
Allora m’ersi, vocai tutto l’ardire
forse l’ultima possanza che restava
e nel silenzio, madido di luce
come appena mormorando
cominciai:

“Dante, i’ vorrei che la tua voce
amara sì non fosse messaggera
di ciò che in questo giorno
mi riserva ad essere la sera.
Ah, saperti pareggiare
nell’eletto idioma che mi degni!
Mi mancano parole, e non poeta
né retore sono, ma giovane confuso
che ha perso la sua strada, se la ebbe
e ritrovar vorrebbe, fin da ora
la più alta dimensione
della vita, quella da cui nacqui
e arriverò passando, come spetta
per corso naturale ad ogni uomo.
Sdegno infatti l’ardimento
di guardarti aperto, ché ritengo
di perdere la vista al tuo splendore
meato dall’interno del diadema
che cinge la tua testa, t’incorona.

La tua sostanza prome d’intelletto
e della mente il seme a un punto tale
che favellar, tacere o contemplare
l’amore ch’arde vivo in chiara amanza
e da se stesso aumenta e si mantiene
non reca giovamento a quel suo male
o passo decisivo alla salute,
ma sì piuttosto danno e non rimane
l’onnipresente danza che l’involve
al divenir del mondo e del suo fare
ché ne basisce il labbro al verbo muto
e impallidisce in volto il colorito
allor che d’esta ardenza colmo il cuore
e intriso il sentimento di tremore
come un cavallo zoppo al dir mi pongo:
troppo parvo sònti nel cospetto
e prego la tua guida pel cammino
che nel destino ignoto s’apparecchia
e chieggo della luce il senso oscuro
che fa sotteso darsi a questo viaggio
dovere universale che c’impelle
assiduamente a scegliere la vita
la grazia e la portata del suo velle.

Che significa lo spazio circostante
dove muore, spegnendosi nel vuoto
la forza palpitante dentro il cuore?
Che cosa ci vuol dire dai primevi
il tremolio silente dei notturni?
Questo cielo inascoltato
che non ha contorni?

Donami un segno, un simbolo del vero
e che una volta la favilla dell’uscita
baluginando sorga dall’oscuro,
non sia fata morgana
la chiave-gibigiana del mistero
caduta da millenni in fondo al mare;
abbracci la tua mente queste spalle
e rampi verso l’anima giocondo
di fulmini al galoppo il palafreno
ed illeonito rugga il mite agnello:
s’incieli nel silenzio del profondo
l’aquila ghermendo la saetta
seguendo tra le stelle l’alta rotta
e insieme negli artigli il ramoscello
argento-verzicante dell’ulivo
e un giglio immacolato come emblema
che nel mio cuore scopro: sono vivo!
perché la vita amo e dono amore
copiosamente attorno, senza tema
come fosse la suprema
verità – sapienza et umiltà
dinanzi al pergamo del mondo
dico – certo tu m’intendi –
di quello spirito sognante che matura
nell’incubo del giorno più importante
e che gravarmi sento nell’esteso
e non evolve l’ombra persistente
questa mostruosa immensa allucinante
di vuoto apocalisse e spazio nero…
deh, sveglialo, bardalo, frustalo se vuoi
o eletto capitano e marescalco
fammi da mossiere alla partenza
spronalo al volo, tornalo al creatore
all’infinita fonte del potere
come il fiume che divalla verso il mare;
siimi padre, consigliere, amico
e solo che lo sforzo non sia vano
all’alba del risveglio, te lo giuro
potrai vedermi ridere nel sole
nella stupenda luce del mattino
alunno fiducioso più che figlio
sul misterioso, semplice cammino
che proprio dal tuo cenno
avrò intrapreso”…

Marco Onofrio

Tre pensieri sulla Donna (da “Nuvole strane”, 2018)

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Si riproduce sempre e in ogni luogo. L’eterno femminino, che manifesta la grazia del mondo. La bellezza irresistibile delle donne. Il potere della loro seduzione. La malia del loro sorriso enigmatico, che guarisce il male e blocca la mano alla morte. La luce vellutata e calda che splende nei loro occhi, sorgenti di un’acqua che rinfresca la gioia di essere e di amare. L’anfora generosa del loro corpo: spandono la vita tutta attorno (quando arriva una donna, un luogo si riempie di anima). La tenerezza calda del loro seno, porto di dolcissimi sospiri. Il profumo delizioso del loro collo. Il miele speziato delle loro bocche. La loro pelle liscia, lucida, ambrata, tutta da baciare e da abbracciare. Le ginocchia tonde, le forme che ricordano la terra. Il mistero sacro delle cosce che – da sole – bastano a dimostrare l’esistenza di Dio. Donne: intuitive, curiose, sensibili; languide, sensuali, appassionate; morbide, liquide, burrose. Donne, semplicemente donne, meravigliose donne!   

Se ami la vita, non puoi non amare le donne. Solo loro che ci mettono (e ci rimettono) al mondo. Le donne sono sacre. Chi le odia e le maltratta, firma con ciò stesso la propria condanna: è amico della morte, e la vita prima o poi lo punirà.

Il mistero sacro di ogni donna. Tra il seno, le spalle, il cuore. Bere la vita, gustando il sapore del mondo, dalla sorgente della sua bocca dolcissima. Accarezzarle il viso. Accendere la luce dei suoi occhi. Palpare i fianchi dell’anfora divina. Abbracciare la terra intera abbracciando lei. Passione struggente, languida sensualità. Ogni donna è un universo a parte: ha un fascino diverso da scoprire. Ciascuna, unica. Offerta ambulante di delizie. Scrigno segreto di gioie. Incrocio labirintico di possibilità. Fermarsi a una, d’accordo. Ma come rinunciare al dono delle altre? Amarle tutte: perché tutte esistono per essere amate. E l’uomo per amarle.

Marco Onofrio

“In una notte lunga di un giorno che non conta”, di Antonella Antonelli. Lettura critica

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Bello e poderoso questo “In una notte lunga di un giorno che non conta” (Tracce Edizioni, 2013, pp. 152, Euro 13), di Antonella Antonelli: un tronco di esistenza intricato di rami divergenti (come le numerose tematiche attraversate, con le relative simbologie) dove ricordi e pensieri sono «impigliati in gomitoli di filo spinato», e il compito dell’autrice è appunto di scioglierli e riannodarli pazientemente. La premessa compositiva da cui nasce il libro mi pare una disposizione innata alla franchezza e alla sincerità incondizionate, che appartengono anche alla Antonelli come persona. Scrive a margine dell’esperienza (i «vissuti dell’animo») e, come il «cantastorie muto» che «si fida della luna», dice sempre la verità. Quindi mai ciò che non prova o non ha vissuto personalmente; in quei casi preferisce non scrivere. Per questo è una poesia sempre calda, cioè non immediata ma appena raffreddata dall’incandescenza del momento, e spesso intrisa di rabbia filtrata nella macerazione: preferisce senza dubbio il ruggito che prorompe, al lamento che unge. La poesia è uno spazio di sospensione cogitante dalla pesantezza degli anni che ci impongono lo sguardo a terra, schiacciati dalla «muraglia» metafisica che «si posa su tutti». La vita, d’altra parte, è l’evoluzione inafferrabile tra «l’ultima cosa che ho pensato» e il «ma» che apre e sorregge il movimento del non aver concluso, cioè tra l’essere e il doverlo dire. Un rifugio di osservazione post factum (appena un po’ dopo il manifestarsi dei fenomeni e l’evoluzione degli eventi), per cui si rivive quanto accaduto almanaccando «sotto coperta», tra i disegni della mente e le «perdite / del cuore».

Le parole aprono un «cancello / che dà sul nulla». Alla presa in carico corposa e concreta dell’esistenza, ispirata alla penna fulminante di un Raymond Carver – per esempio nella flagranza del “qui e ora”: «Sono le sei / e un sabato pomeriggio / rallentato e limpido. // Le campane suonano / proprio davanti a me») –, contrappone una percezione corpuscolare della realtà atomizzata, per cui la vita vibra nei suoi pulviscoli e anche i ricordi sono «silenziosi granelli» che attraversano, come in una clessidra, la «misera fessura» dell’attimo presente. Ha lo sguardo che tende a una dimensione astratta, leggera di sottili trasparenze: da lì coglie i gesti e i fatti più impercettibili, e modula le sue «geometrie alate», come quelle dei pensieri che fuggono in «giravolte musicali». Uno dei suoi compiti poetici è di custodire l’inconsistenza, per esempio catturando il «tremolio dei germogli» e il fragile apparire del nascente, o salvando la goccia di luce quando brilla, o bevendo la lacrima prima che cada, o raccogliendo la rugiada prima che il sole la faccia evaporare, e insomma rubando dalle cose l’«equilibrio sospeso» nell’ambivalenza dei contrari. Non a caso a un certo punto, quasi alla fine del libro, appare il nomen-numen di Giano bifronte «dietro la porta chiusa / ed i tuoi tanti giorni / di sospirato sole» come chiave del Logos che regge tutto quanto dall’interno. Antonella Antonelli rifiuta le divisioni nette, le zone proibite, le fronde manichee: preferisce l’«ombra ristoratrice» tra gli occhi e l’infinito, anzi la penombra «ché troppa luce / sfida la tenerezza», e del resto luce e ombra sono sempre mescolate. La percezione corpuscolare volge talora allo struggimento “crepuscolare” delle sere dai larghi tramonti, quanto tutto – anche il dolore – diventa più dolce e consola dall’amaro della vita. Ma è una dolcezza strettamente legata alla coscienza della caducità («siamo girasoli, / girasoli al tramonto»), giacché la morte – dalla quale, come dice Francesco d’Assisi, nullu homo vivente po’ skappare – ha una potenza terribile, penetra ovunque, «rapisce / anche il più piccolo uccello / nascosto in una gabbia», e questo rende il mondo «traballante» come un «guscio di schegge». Ecco dunque il raspo d’uva «che fu linfa» diventare «tra le mani scheletro», mentre la pienezza organica dell’amore diventa «rugosa / secchezza». Scrivere è un po’ un modo di «assemblare il puzzle / dei miei mille pezzi». Ma la frantumazione del soggetto ha, al contempo, radici profonde: «ogni briciola / scheggia / frammento / è forte di millenni». La poesia dunque si produce soprattutto come esplorazione del silenzio, della materia oscura, delle parti che mancano all’appello. Il silenzio può essere «ostinato / vibrante / demoniaco», o rappresentare l’«afono grido» di una stella, o il fondo inattingibile dei discorsi («C’è qualcosa che / non riesco a dire») perché la maggior parte resta «pianto recluso» e «voce intrappolata» dentro il cuore «imballato» e «sigillato».

La poetica di Antonella Antonelli tende a inseguire il «linguaggio / di sensazioni chiuse» dove si annidano i significati più profondi, ripercorrendo il processo generativo che estrae la luce dalle tenebre, come accade anche nel parto. La poetessa romana, così, scrive «parole / nel buio» e ne cerca che salgano «dal basso» per liberare il grido dell’utero: sa che «si toccano nell’intimo / lo stomaco ed il cuore», per cui si digeriscono anche i sentimenti e si ama anzitutto con la pancia. È divisa fra una tensione centrifuga che la spinge alla fuga, e una centripeta che la spinge al ritorno. Da un lato la vediamo refrattaria alle regole sociali, alle convenzioni, all’ipocrita decenza dei «devi non devi», e quindi irriducibilmente e pericolosamente libera («ho perso il paradiso / ma non la voce, / la strada / ma non i piedi»); dall’altro bramosa di stabilità e di un approdo sicuro dove restare, per poi meglio ripartire («Desidero fuggire / ma tu ascoltami, / tienimi stretta. // Dissuadimi / con la tua fantasia, / con i tuoi sogni / fermami»). La dinamica di chiusura può dipendere o dalla frustrazione del non più, e quindi la passione incenerita, i progetti che svaniscono, il fuoco spento dall’«opaco egoismo»; o dall’inerzia del non ancora, e quindi le potenzialità inespresse («Io, chicco di grano sepolto, / se non arrivi, / sarò mai il tuo pane?»), e ancora l’accidia, l’ignavia di preferire non avere piuttosto che perdere, e di restare sempre «al sicuro» nella «bolla / delle cose sospese»… e invece provare la tentazione di bucare la bolla, e di saltare nel vuoto in cui, o si precipita, o si impara a volare. L’amore è la scossa decisiva che disinnesca ogni processo di chiusura e di auto-esclusione; per questo il suo tempo è «così diverso», tanto che solo quando arriva si comincia a respirare davvero. Ecco allora il processo opposto di espansione dionisiaca, dai «nobili battiti danzanti», e quindi anzitutto l’eros felice, la corporea terrestrità come fluido scambio di energie ed elevazione cosmica del senso primordiale, oltre gli abiti di ogni moralistico pudore: «Gemo / mentre mi serri / con le cosce i fianchi. // Fremono i seni / sul letto disorientato / cercano il tuo calore confusi. // Mi volto / e mi prendi / e ti volto / e ti prendo. // Un unico orgasmo / avido / ci mescola i corpi». E ancora, poco dopo: «È un vortice / d’abbraccio / mi sdoppio nei tuoi occhi. / Io, / non ho più confini. // Liquefatta in te».

L’eros non è solo il dio delle alcove, ma anche e soprattutto un modo di guardare alle cose, una predisposizione a godere del mondo e della sua sconfinata bellezza con golosità vorace e insaziabile, quella di chi dopo ‘l pasto ha più fame che pria (Inferno, I, 99). E infatti scrive: «voglio prendere a mani piene / i profumi più intensi» imparando a muoversi tra le spine per «inseguire poi catturare / il sole». Il che la porta a raccogliere, giorno dopo giorno, segnali di vita che hanno il peso e il sapore della rivelazione, come il respiro settembrino «carico di promesse conosciute / e tentate», o il giugno fresco e limpido con il suo «vento spumante» che «semina chiacchiericcio / tra i nostri panni stesi. / Finestre allegre di sera / voci e basilico. / Ci si ama, / di un giovane mese stupito». È molto viva, nella poesia di Antonella Antonelli, la predisposizione a metaforizzare il quotidiano in apparenza più banale: per esempio la voce del «penultimo arrotino» («arrotinoooo») che diventa «un’eco, mitico / suono» e «vola fino alla luna / e poi ricade»; o il treno che va «senza sapere dove / potesse, per una volta sola, / cambiare la sua strada». Ci sono momenti di pura fantasia («Mangerai una nuvola / e con l’arcobaleno / farai un paracadute. // Io, scivolerò / sulla gobba dell’iride») che confermano la vocazione surrealistica tipica del suo universo creativo, che lei stessa definisce efficacemente come «circo onirico». La trasfigurazione magica del reale la porta a una specie di dominio cubistico dello spazio «fino alla linea / che gira dietro al mondo» per cui crede davvero di «tener fermo il mare»; ma poi, quando svanisce l’attimo sacro in cui tutto diventa «più chiaro», invece del mare si trova «di nuovo / davanti a una pozzanghera»… e così, «trascorso il magico / sentire, rimane / lo sgomento di pulcino». La poesia, difatti, risulta inane se commisurata alla totalità dell’esistenza e alle innumerevoli direzioni percorribili: «Che importa un verso / davanti all’infinito?»

È facile sentirsi sperduti «nell’immensa prigione» poiché è «troppo poca una vita / e troppo grande il mare». E tuttavia, come l’amore è comunque maggiore del dolore, e per questo sa trasformare la visione che abbiamo del mondo nel momento stesso in cui compensa l’esistenza dalla perdita che le arreca il tempo, così la poesia purifica il dolore nella dolcezza del ricordo «infinito / sfumato / ricostruito», dove le lacrime che «risalgono alla mente» finiscono non solo per sciogliersi ma sorridono, addirittura, nella potenza della rigenerazione. La poesia è un «ardore rabbioso» di mancata resa, che nasce dal cuore stesso dell’esperienza, al netto dell’ossigeno passato attraverso respiri e sospiri. È «nettare di splendore» secreto dalla tenebra, e «sentire sublime» che sale dal profondo dei lamenti. Il dubbio è il motore della conoscenza, un fiore che vive «negli interstizi / in spiragli e vuoti» dove ramifica la sua «finissima sinapsi». E la poesia stessa, naturalmente, si nutre di dubbi, nella sua attitudine indagatrice: è il «cantico delle domande / che pungono» (e le risposte «forse, / stanno dietro le quinte. / Dietro il rovescio della gran coperta»). Il giorno che scorre ha bisogno di essere «vergine» per trattenere i dubbi che ci bloccherebbero amleticamente nell’inazione: «tira la scintilla / e la dilata» dispiegando lo spettacolo del mondo. La navigazione poi rallenta a sera, quando il giorno cala l’ancora e comincia la danza della notte «ballerina» che gira «su un solo piede l’equatore» e custodisce il mistero inciso nel silenzio delle stelle. La poesia è, come dice il titolo del libro, la «notte lunga» di un «giorno che non conta», cioè la meditazione conoscitiva che trafigge la prosa insulsa dei fatti ordinari (che in realtà sono sempre straordinari). E nel far ciò raccoglie accadimenti cosmici e minuti, articolando lo spazio autenticamente umano tra l’«essere niente» e l’«essere unico», che rende già miracoloso respirare e risvegliarsi ogni mattina. Uno spazio insostituibile di ascolto e di esplorazione della profondità:

Sosterò qui, seduta
a respirarti cielo
ad ascoltare il palpito
del tuo silenzio tondo
a perdermi nel tempo
di singoli bagliori.


Ovviamente alla poesia è preclusa la soluzione definitiva del mistero, ma non per questo il raggiungimento di verità segnanti ed essenziali, come la totalità cosmica della vita («la terra / è l’unica placenta / e l’universo madre») che allaccia in un solo inestricabile legame tutte le creature esistenti o esistite, «dal primo pesce scalzo / all’ultimo vagito»; oppure la circolarità degli elementi, come il gioco eterno del mare («L’acqua rifà il suo giro / e ancora dondola l’onda / e pigramente trascina / rena e sassi»); o la coscienza tragica di essere, tutti indistintamente, vuoti «a perdere». Ogni morte che attraversiamo implica in noi la capacità di risorgere dalle ceneri – post fata resurgo – per una sublimazione che ci faccia sentire granelli («mistica polvere») dentro un infinito meccanismo, e un «trasparente viaggio» che ci porti «oltre il pensiero», vagando con gli astri nell’oceano dell’universo, uniti alle energie fondamentali, come nel seguente, splendido passo dove si sperimenta l’esaltante esperienza spirituale del divenire “altro” dell’altro (che ricorda un celebre frammento di Platone, Antologia Palatina VI/669):

Ancora
e ancora
ho sognato
che il sole mi guardasse
e specchiandosi
in volo, ero io
polvere d’oro.      
   

La trasfigurazione metafisica può essere così scarnificante da raggiungere esiti sepolcrali, di ascendenza e sapore barocchi: «Cosa vuoi che dica amore amaramente, / dietro la tua carezza / il viso, e dietro il viso, l’osso. / È inutile mentire. / Tutto il creato è monade di cenere». Ma ciò non impedisce affatto di vivere, anzi! Preso atto di questa ineludibile realtà, è addirittura «bello» bruciare nel rogo della dissolvenza, tanto che – dopo il silenzio e «su tutto» – «una parola sola» sembra degna di restare: continua…  

Marco Onofrio