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“L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” letto da Valerio Mattei

La definizione di “introduzione al personaggio” o “all’opera di”, riferendosi a L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffia, a cura di Marco Onofrio (EdiLet, Roma, 2018, pp. 88, Euro 13,00), è talmente riduttiva e fuorviante che nella presente recensione non si proverà neanche ad usarla. Questo libro, miracolosamente agile, data l’enormità dei contenuti che veicola, è un prodigio di sintesi, introspezione, speranza e nostalgia, carne e spirito, eterno e quotidiano e tutta un’infinità di categorie opposte, ma tali solo alla povera percezione della nostra umile mente lineare. La stessa che non sente mai che la Terra gira a velocità inimmaginabili, che crede ancora al tempo tic-tac tic-tac, che crede ancora che le cosiddette “cose” realmente entrino in esistenza una dopo l’altra solo per il fatto che la nostra limitata percezione mentale e cosciente ci arriva sempre e solo lentissimamente, così come un moscerino, posandosi su un libro in un pigro pomeriggio d’estate, potrebbe leggerne le parole di una singola pagina. Bene, L’uomo che parla ai libri va aperto con cautela perché rappresenta un vero e proprio vortice che all’improvviso ti risucchia in un panorama multidimensionale impressionante in cui la tua povera mente lineare non capisce più, non “sente” più la demarcazione tra ciò che è (sempre secondo lei ovviamente), ciò che è stato, e ciò che sarà. In queste pagine l’immagine di disperazione per una mamma inchiodata alla sedia da una tragica malattia, quando Maffìa era ancora un bambino, convive con il magmatico pulsare di tensioni innegabili (e candidamente innegate) intrise di amore, sensualità, sessualità vissuta al massimo dell’autentico e del trascendente, come trampolino verso lo spirito, verso l’assoluto.

Il diario di un uomo, prima e oltre che di un artista, di una persona sì, ma non al modo dei latini, anzi del tutto priva di qualsiasi maschera. Un uomo che ha vissuto sempre con il cuore sulle labbra e la poesia tra le dita. Un essere umano sapientemente corteggiato, svestito e poi ancora amato dall’altrettanto sapiente e sottile sentire di Marco Onofrio, che va aprendo inesorabile, una dopo l’altra, le 110 stanze di “Palazzo Maffia”, dell’imponente edificio culturale, spirituale e profondamente umano rappresentato da questo straordinario uomo d’ingegno, con la delicatezza di una colf esperta che ormai conosce tutto della famiglia che la ospita, apparentemente al mero servizio di un Maestro contemporaneo (e naturalmente della propria opera, “a cura di”), ma che in realtà svolge un ruolo indispensabile alla perfetta riuscita del libro e della sua incredibile autenticità mozzafiato. Non davanti a tutti infatti, il grande poeta, scrittore, saggista e molto, molto altro, Dante Maffìa, avrebbe messo a nudo la propria anima, la propria vita, fino ai più remoti recessi della coscienza, con un senso di relax tale che sembra proprio di partecipare a uno dei tanti convivi che Lui ama tanto.

Si provi ad immaginare un artista insignito della Medaglia d’Oro alla Cultura direttamente dal Presidente della Repubblica, un autore candidato al Premio Nobel da tutto il Consiglio Regionale (all’unanimità!) della propria Terra di origine (la Calabria) e da molte Università, Fondazioni e Comitati, in Italia e all’estero, uno scrittore tradotto in oltre venti lingue in tutto il mondo e che può vantare un’infinità di altri titoli e riconoscimenti, per non tralasciare una lunga e onorata carriera di insegnante che da sola giustificherebbe più di una vita intera. Ecco, dopo aver immaginato questo, si pregusti la sorpresa, la gioia disarmante, il sorriso beato che si schiude sulle labbra del lettore quando inizia a notare che la conversazione vira vorticosamente su… cosce femminili e sensualità! Ma anche sull’impellenza della scintilla divina alla base di qualsiasi opera, che altrimenti è pura ginnastica di polsi. Sì! Dante Maffìa, come Marco Onofrio, è “uno vero”, come si dice in questi casi. Sono entrambi ambasciatori della Luce, della Verità, della Magia! Nel senso che mai priverebbero una propria opera dello slancio, del fragore e della fragranza che solo un’esistenza profondamente calzata, gustata, leccata fino in fondo al piatto della quotidianità, può sprigionare.

Senza anticipare troppo, si legga per esempio la domanda n. 104 e la dissacrante chiusura della relativa risposta! E si pensi, inoltre, che un creativo tanto riconosciuto e acclamato si propone ancora oggi (domanda n. 108) “di far sentire i brividi di un bacio alle persone che sono state dissestate dall’aridità della carriera, del danaro, del potere”. Quei brividi si avvertono già solo a leggere una frase del genere! In epoca di mobbing, di guerre, di pandemie, in una società suicida sull’altare infame dei numeri e del soldo, ecco finalmente ergersi coraggiosa una voce che ancora osa parlare di Amore in concreta sincerità. E ancora, con affascinante candore si apprende alla risposta della domanda n. 109 che il suo più grande sogno, pure in un percorso così indiscutibilmente brillante, è ancora oggi “che qualche mio verso, che qualche mia frase o pensiero, venissero pronunciati anche senza il mio nome, come patrimonio che è stato acquisito dall’umanità.

Si chiude l’ultima pagina di questo libro con un senso di affezione, come se si fosse trascorso un lungo weekend al mare con entrambi gli artefici di un’opera così straordinaria. Quelle di Marco Onofrio non sono domande. Sono perle di una collana magica che fin dalla prima pagina, ivi inclusa la preziosa introduzione di Rino Caputo, si ha la sensazione di indossare per prendere parte a un rito, un viaggio dentro e attraverso la vita di un interprete sublime del Libro Totale che la vita stessa rappresenta. Interprete talmente sublime che la Sua vita assurge a simbolo e metafora della vita stessa di ogni uomo. Un sentito grazie a Dante Maffìa per averci ospitato al banchetto della propria anima e del suo Mondo, moglie, figlie e nipoti inclusi, di cui traccia un quadro a dir poco commovente. E naturalmente grazie a Marco Onofrio per aver dimostrato ancora una volta che colui che si offre al servizio di un’opera con coscienza pura e devota, incarna ciò che Sting (ricordo che Marco Onofrio è anche un fine critico musicale, oltre che scrittore, poeta, saggista, ecc.) scriveva nel capolavoro dei Police, la mistica “Wrapped Around Your Finger”:

Devil and the deep blue sea behind me
Vanish in the air you’ll never find me.
I will turn your face to alabaster,
Then you’ll find your servant is your master.

(Il diavolo e il mare blu profondo dietro di me
Svaniscono nell’aria non mi troverai mai.
Trasformerò il tuo viso in alabastro,
Allora scoprirai che il tuo servo è il tuo padrone).

Valerio Mattei

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“L’ingegnere del silenzio”, letto da Dante Maffìa

ingegnere

Qualche maligno credeva, quando affermavo che Marco Onofrio è un grande poeta, che erano sparate, esagerazioni mosse dalla profonda amicizia che ci lega, e non da una lettura oggettiva dei suoi versi. Sono felice che, a distanza di anni, anche un critico colto e competente come Plinio Perilli, a sua volta poeta, sia giunto alle stesse conclusioni, perché è notorio che Plinio non è mai sceso a patti con la mediocrità, con i faccendieri della poesia.  Ha sempre volato fior da fiore e ha dato il suo consenso solo quando si è reso conto di avere davanti scritti sostanziali e sintetici di lavoro, di letture, di emozioni, di tecnica e di accensioni che vanno oltre la pagina e accendono le sfere del sentire profondo, della poesia alta.

Perilli, nel suo puntiglioso, dotto e largo studio introduttivo ha saputo condensare, con una lucidità e una profondità inaudite, tutti gli aspetti della poesia di Onofrio, e ne ha evidenziato il valore e la possanza espressiva, riequilibrando “tra forza e semplicità, vitalità e sano, istintivo turgore esistenziale”. Basterebbero queste parole per capire che ci troviamo di fronte a poesie che hanno saputo scavare nell’essenza di una liricità che ha trovato la luce con colpi di accetta nella cultura, nelle esperienze della vita quotidiana, nelle emozioni, nelle esaltazioni e negli scontri con i mondi che l’hanno preceduto, per poter essere voce libera e autonoma, ferma nel suo dettato, armonioso pentagramma di una conquista complessiva che ha qualcosa di pantagruelico ma senza mai cadere nello strafare.

Ho seguito Marco Onofrio libro dopo libro e ho potuto vedere, concretamente, non come impressione superficiale, lo spessore della sua crescita umana che è diventata spinta stilistica di primissimo piano. Ogni suo verso è distillazione di una verità che lo tormenta e lo porta all’interno del senso per estrarne il fuoco che servirà ad accendere le sublimi verità del non risaputo. Voglio dire che nella poesia di Onofrio si è sviluppata di pari passo la tensione linguistica e l’immersione nel pensiero, al punto che ogni poesia esprime una visione della vita e suggerisce accensioni dialettiche che entrano ed escono dalla filosofia però senza mai incastonarsi in teorema. Lui non si è improvvisato piccolo scrivano del minimalismo o del qualunquismo letterario. Un solo esempio, eccezionale, in “Sapienza e natura” per dimostrare che la mia lettura è frutto dell’impatto coi testi:

Arde dall’interno la visione
cosa tra le cose auto-cosciente
corpo di presenza è la scrittura
voce che rimbalza tra la gente
elicoidale immagine, fattura
sensitiva, magica, animale
sintesi: a regole di numeri e alfabeti
a spazi articolati vocazioni
sedimenti suoni ordinazioni
dentro fuochi di agglutinazioni
io chiamo questa voce che non sa
l’ultimo verso a dire l’impostura
se dice il primo verso verità…
ché più della sapienza può natura.

Potremmo discutere a lungo su questi versi che si muovono come il suono d’una orchestra che passa rapidamente dal liscio al rock, ma l’intento del poeta era soltanto dimostrare che le parole sono magie che si aprono all’infinito e che comunque alla fine è il dono che conta, è nel saper raccogliere la freschezza del senso rubato alle stelle e ai “sedimenti”, ai “suoni”, alle “ordinazioni”. Sono le parole d’ordine di una visione del vivere, del fare quotidiano che dimostrano come Onofrio abbia raggiunto una dimestichezza straordinaria con le visioni e con le coordinazioni tra pensiero e scrittura. Problema che fu molto acceso sia dopo l’esperienza della poesia romantica e sia dopo l’esperienza della poesia ermetica. Onofrio ne prende atto e poi si crea una sua misura che vuole sciogliere gli stilemi abusati in abbandoni e corteggiare il senso che arriva a valanga e fugge, lasciando però la traccia necessaria a ricomporre la verità del divenire.

Questo modo di porsi davanti alla realtà e alla scrittura ha messo Onofrio nella condizione di diventare angelo e demone di ciò che afferra e palpa, permettendogli di leggere “L’alfabeto della luce”, e di constatare che “Eterno è solamente / il dileguare”. Non bisogna comunque dimenticare le tante poesie nate dagli affetti familiari e dall’amore. Marco, anche nei versi dedicati alla morte del padre (ma le citazioni dovrebbero essere molte), alla donna amata, ai miti, a Roma, insomma agli aspetti della vita quotidiana, non ha mai spento il suo ardore che sa appropriarsi degli aspetti di ciò di cui parla e farli diventare impasto azzurro esiguo, cioè piuma di senso, approdo “oltre la maceria”, perché “La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola”.

Un’antologia preziosa che dà magnificamente il ritratto di una personalità poetica fuori dal comune, di un poeta che scalpita e brucia senza sosta cogliendo avvertitamente gli ori delle parole che, in un momento di estrema consapevolezza gli fanno scrivere:

Saprò bene di vivere, non solo
di esistere natura, fin quando
uomo, di senso umano, serberò
la forza della gioia nelle mani
per costruire amore
e intatto nei miei occhi lo stupore
dato in ogni cosa quando aperta,
seppure la più esigua e più “normale”:
e dentro quella dolce meraviglia
per il nuovissimo e sempre
più importante miracolo di vita.

È morto chi si abitua al suo respiro.

Dante Maffìa

Plinio Perilli su “L’uomo che parla ai libri”, a cura di Marco Onofrio: Dante Maffìa a ruota libera. Dialogo sincero, libero e visionario tra versi e prosa…

“Letteratura come vita”, teorizzava Carlo Bo sul finire degli anni Trenta. E fu presto quasi il manifesto dell’ermetismo, almeno quello fiorentino, che sotto gli auspici di Montale, allora aulico residente nella città gigliata (dirigeva il Viesseux), incoraggiava le giovani forze, a  loro modo resistenti alla dittatura e all’appiattimento; Mario Luzi su tutti: “Amici, dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida”…

Per tutta la lunga, ma anche agile e cadenzata intervista di Marco Onofrio a Dante Maffìa (L’uomo che parla ai libri, Edilet, Roma, 2018, pp. 88, Euro 13,00), la verità insieme della vita e dell’arte, procede intrepida. Della vita nell’arte, e viceversa, in un dialogo smaccatamente sincero, libero e visionario tra versi e prosa, innervato da tutti i problemi, le ansie, per fortuna anche e soprattutto le gioie, le curiosità, le goloserie, i giochi e le perdizioni che davvero animano la vita reale poi trasposta e testimoniata sulla pagina, in fervore di fantasia e acutezza sensibile:

“Personalmente credo che la letteratura serva a veicolare dosi omeopatiche di sensibilità sui mille problemi dell’esistenza, da quelli amorosi a quelli politici, da quelli del lavoro a quelli spirituali. Cerco di spiegarmi più esplicitamente e naturalmente fuori da ogni tentazione moralistica: una poesia, un racconto, un romanzo sono modelli che ci vengono proposti e che ci vengono incontro a viso scoperto senza nessuna intenzione e senza nessun progetto. Si tratta di semplici incontri, e gli incontri presuppongono simpatie, scomodità, bellezze dei luoghi, sentimenti, sospetti, illusioni, insomma tutto ciò che circola nei rapporti umani.”

Che splendida sequela di vicende umane, accadimenti pubblici o privati, implosioni, crescite, transustanziazioni – insomma – dalla prosa della vita alla poesia dei valori, degli accenti, delle sacrosante impennate liriche! Maffìa è un poeta autentico, semplice e sublime, realista e immaginifico quanto basta per giungere alla schietta saggezza dell’esistere, e poi dello scriverlo: “Se ciò che leggiamo (viviamo) nidifica in noi avremo a quel punto il lievito (!) necessario per poter leggere il mondo in maniera diversa e più profonda di come lo leggevamo prima e di come solitamente si legge.”

Accompagnato, catechizzato in esaustivo dialogo con un (più giovane) poeta e scrittore anch’egli, Marco Onofrio, Dante Maffia, che è sempre scrittore ispirato, vigoroso, duttile o anche impennato, fra versi e prosa, poesia dialettale e valenza d’esegesi, anche una produzione saggistica feconda e cadenzata, ci delizia con interventi e risposte a tutto campo; una fervorosa, magistrale e sapida discettazione su tanti aspetti della scrittura e dell’esser poeta: in cui qui eccelle proprio la specificazione o meglio “variante”, diciamo, “psico-sociologica”, zeppa di distinguo e finanche aneddoti, ma sempre aguzzi e disinibiti, sapienti e spassionati in pari misura:

– Sei d’accordo con me che invidia e maldicenza sono tra i peggiori mali della letteratura (e della società in genere)?

– E me lo chiedi? Un tempo tra poeti e scrittori si collaborava, ci si aiutava, il caso Pound-Eliot dovrebbe insegnare qualcosa, ma adesso, forse perché ci si aspetta di diventare ricchi con la letteratura (non si sa mai che imbrocco un best-seller o mi dànno un posto di comando in una casa editrice), si fanno sgambetti di ogni genere.

È a questo punto che entra in scena un concetto, quello della dissolvenza e la fine dell’arte di cui Dante si serve con molto estro e anche aderenza per spiegare – divinare e insieme decrittare – il vero ruolo della poesia:

“… La dissolvenza trionfa su tutto, è padrona assoluta delle vicende umane e quindi le cose spariscono senza battere ciglio, nella naturalezza della dispersione. Non c’è lotta che valga, il risultato è la fine di tutto. Forse per ricominciare, forse per dare l’illusione dell’approdo. Ma la cenere può essere considerata un approdo?  Il mio rapporto però con la dissolvenza non è né tragico né drammatico, io ci convivo e trovo che sia bello e giusto che tutto si polverizzi senza lasciare una piccola traccia. Ciò mi dà la certezza che il Potere, quale che sia, non è eterno e non può nulla, come la povertà e l’irrilevanza.”

Marco Onofrio (di cui, fra le cospicue opere creative, ricordiamo almeno le recenti, notevoli poesie di Azzurro esiguo – Passigli, 2021 –, elogiamo ispirate monografie novecentesche su Ungaretti, Caproni, lo stesso Campana) gli è fedele compagno, sodale, nell’intavolare questo dialogo minuzioso, ricco di raffronti e notizie storiche, divagazioni di costume, ma vieppiù di domande cruciali, di illuminazioni da raccontare (destrutturare?) senza arzigogoli o mistificazioni, ex abundantia cordis, dicevano i latini.

Che cosa provi  davanti al cielo stellato?

– Le rare volte che mi càpita di guardare il cielo (al paese lo facevo quasi ogni sera) provo un immediato smarrimento, come se lo scoprissi in quell’istante. E penso subito che troppe cose della mia fanciullezza sto dimenticando o trascurando. La realtà senza cielo è colma di tristezza, l’hanno dimenticato tutti, e appiattisce il rapporto con la quotidianità. Le grandi città fagocitano, hanno la vocazione alle fogne e mi dispiace che mi sia lasciato carpire la mia bella consuetudine.

Ma tanti, tantissimi i temi cruciali, accattivanti per una bel diversa visione d’insieme, anche antropologico-culturale, della nostra nazione, e insieme anche letteratura (seguaci come anche noi sempre siamo della grande, patriottica visione del De Sanctis)

Risorgimento e Meridione: una storia da riscrivere. Che ne pensi?

– Quella del Risorgimento è una pagina vergognosa della nostra storia, durante la quale il Mezzogiorno ha dovuto subirne di tutti i colori grazie a quattro venduti, tra cui il massone Garibaldi. Conquista, annessione? Conquista prepotente, che mortificò Mazzini, l’unico politico che ha saputo parlare dei doveri degli uomini e non solo dei diritti

E ancora, inseguendo la forte vocazione di Maffìa ad essere e sentirsi un fiero, proboviro, nonché “figlio della Magna Graecia”… E “tale voglio restare, perché si tratta di un valore che mi ha dato una identità forte e consapevole, un portamento al quale non sono disposto a rinunciare in tempi di maledetto qualunquismo come quelli che stiamo vivendo.

– Il  Mediterraneo mi ha sempre suscitato sogni, tensioni interiori, è stato innanzi tutto Omero. L’isola di Ogigia è al mio paese. Ma la storia accavalla fiumi di circostanze perfino tra loro contrastanti e mischia le carte a volte in modo frenetico, fino a cambiare volto anche alle situazioni più acclarate, fino a fare diventare il Mediterraneo la culla di migliaia di morti, la via per andare al di là della disperazione. Però a un certo punto non ho capito più che faccia avesse il Mediterraneo, se quella della vera disperazione o quella della delinquenza organizzata che commercia dolore, e i miei miti si sono mortificati, hanno perduto la loro iridescenza.

Decisive però anche altre interrogazioni, altre suggestioni per quesiti diremmo ancestrali, adesioni incarnate… Di archetipo in archetipo, divagando sull’essenziale…

Il tuo rapporto con il cibo. I tuoi piatti preferiti.

– Il mio rapporto con il cibo è identico a quello che ho con la donna e con la poesia. Totale, senza remore, nel quale il sapore deve avere quella divinità primordiale che le sofisticazioni dei cuochi parvenu gli hanno tolto. Mangiare per me è orgasmo puro, se però sento in bocca la pasta condita con basilico e pomodoro, se sento l’arrosto senza aggiunte di fantasie estranee. Non amo il pesce e perciò preferisco i capellini o i rigatoni aglio, olio e peperoncino, e per secondo salsiccia arrosto o bistecca di collo di maiale. Non guastano mai tre o quattro fette di provola silana o del Pollino, con pane di Cerchiara o di Donnici.

E si continua sul filo dei valori apparentemente più semplici, che poi in realtà sono quelli più assoluti…

Che valore dài all’amicizia?

– Un valore immenso, perché l’amicizia permette la gestione del quotidiano nella serenità più bella, rende i giorni pieni, ricchi di quelle piccole attenzioni che sono il sale necessario per sentirsi “protetti”, parte di un gregge.

Ma il libro vale anche per la compattezza e la qualità dei ricordi – ivi compresi certi approfondimenti assai colti e giusti sulle vere radici dell’arte moderna, fuori dai troppi luoghi comuni, da una vulgata che dovrebbe invece sempre registrarsi, incentrarsi sulla forza delle radici, cioè delle prime, catartiche innovazioni verso il Moderno.

– Sono molto legato alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento. Cézanne, De Chirico, credo che siano il lievito (vedi che la parola ritorna?) di quel che si è sviluppato in seguito. Non ho però mai amato i fenomeni da baraccone, le trovate. La grandezza della pittura è stata proprio nella scommessa venuta dopo l’invenzione della fotografia; quelli che invece hanno divagato cercando strade fuori dai pennelli mi fanno un po’ sorridere, come mi fanno sorridere quelli che fanno le installazioni. Lo so, secondo loro devo abbandonare il concetto di arte come museo o come perennità e scendere a patti con le misure dell’effimero che appare e dispare.

Commoventi, poi, certe rimemorazioni dei tempi in cui anche una presentazione letteraria – magari in una famosa libreria del centro, come a Roma quella di Remo Croce – diventava una palestra d’intelligenza e anche una sana, orchestrata dialettica tra libere e nobili voci…

– … Io invece ricordo che negli anni settanta-ottanta si discuteva dei libri cercando di essere obiettivi, basterebbe andare a sfogliare le cronache del tempo per vedere la dialettica che si metteva in atto tra Cassieri e Spagnoletti, tra Carlo Levi e Rafael Alberti, tra Carlo Laurenzi ed Ettore Paratore, tra Asor Rosa e Bassani, per ricordarne un po’.

Per questo ci piace sottolineare la giustezza della chiusa fortemente dedicata all’importanza, alla necessità di un nuovo umanesimo. Vecchio e sempre nuovo tema che ci appartiene e ci abbisogna, specie quale fulcro di una cultura che non può farcela solo privilegiando le potenzialità del digitale o le virtù esatte, la sapienza tecnologica e insieme sconfinata della Scienza (delle Scienze!)…

“… Dovrebbe obbedire a una esigenza perenne dello spirito umano perché al di là della storicizzazione che se n’è fatta – quando ha assunto la preminenza assoluta per preparare il Rinascimento – nessuno scrittore può avere una sua opera compiuta e accettabiled se non è intrisa, magari poco poco, di umanesimo perenne. Uso le categorie delle storie letterarie per dire che è l’uomo a scrivere per gli altri uomini. Quando saranno i robot a farlo sarà comunque per i robot.”…

E in esso, a quel bisogno non supplementare ma essenziale, cruciale, esistenziale di ispirazione, di fervore, insomma di dono, senza il quale la poesia è solo mera, magari anche abile, agile divagazione intellettuale, e non invece quella promessa inestinguibile, quella mission ardua e a tratti anche arcana, ma sempre umana, troppo umana, verso il cielo adorato, trasfigurato nell’infanzia (e non per rapimento teologico o teleologico), insomma verso quelle che sulla scorta d’un fortunato verso di Mamiani, Leopardi inseguiva (pronto anche a dubitarne, diffidarne) quali “le magnifiche sorti e progressive”… Lievito e verità: la fiducia assoluta e insondabile – ebbene sì! – nei riti e nel destino della Poesia…  

– La poesia ti è servita concretamente a qualcosa? Rispondo sì, mi è servita a respirare aria pulita, a non infettarmi ogni giorno di mediocrità, mi è servita a volare alto senza offendere nessuno. Mi è servita anche a entrare nella Verità del lievito umano che fa comprendere l’essenza della vita.

                                                               Plinio Perilli

“L’officina del mondo. L’opera poetica di Dante Maffìa”, letto da Vincenzo Guarracino

È stato recentemente pubblicato, presso Città del Sole Edizioni (novembre 2021), un ampio saggio di Marco Onofrio, “L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffia”, che, già fin dal titolo molto eloquente, si annuncia come una guida assolutamente necessaria alla scoperta di una tra le voci più prestigiose della poesia contemporanea italiana, in un viaggio di analisi e critica quanto mai esaustivo tra opere, emozioni, esperienze nel tempo oltre che autorevoli testimonianze critiche.

Marco Onofrio (classe ’71), poeta e saggista romano noto, oltre che per la sua attività editoriale, per la sua notevole produzione letteraria (da citare almeno il suo più recente libro di poesie Azzurro esiguo, 2021, assieme a numerosi contributi critici su autori novecenteschi, in particolare Campana e Caproni), è non da oggi un fedelissimo della scrittura di Dante Maffia, essendosene occupato con costanza prima di arrivare finalmente con questo volume a dare un saggio della sua capacità di penetrare, con acribia critica non meno che “con intelletto d’amore”, nel vivo dello spazio creativo dello scrittore calabrese, partendo da un’affermazione che è frutto di matura e meditata convinzione, e cioè che “Dante Maffia è un grande poeta”, che gode di una schiera vasta di estimatori (quorum ego…), argomentandone l’apparente assiomatica perentorietà con abbondanza di dimostrazioni testuali e chiarimenti critici, con un occhio sempre attento alla comunicazione, al pubblico.

Comincia proprio così, Onofrio, sottolineando come la poesia non sia “un mestiere che si impara da zero”, bensì un modo di essere, un talento innato alimentato da esercizio e studio ininterrotti. In questa linea si innesca tra Poeta e critico una sorta di corpo a corpo, di fecondo scambio di umori che porta il secondo a rintracciare nel primo, negli oltre cento libri da lui pubblicati, ciò che entrambi sentono sul terreno della vita e della poesia, quei valori come l’autenticità, la sincerità, la schiettezza istintiva e la passione (per Maffìa, soprattutto, onnivora e assoluta, per la Parola poetica), che costituiscono la base imprescindibile di ogni Amicizia e che tra i due data ormai da una quindicina d’anni.

È per questo, ma non solo per le date, che il loro è un sodalizio umano e letterario ben consolidato: un sodalizio che permette a Onofrio, senza essere offuscato dalla stima e dell’amicizia che li unisce, di rintracciare ed evidenziare dell’Amico (e Maestro) non solo le abilità letterarie e intellettuali, ma soprattutto la profonda sensibilità che lo contraddistingue. A partire dalle origini e soprattutto, dopo la “Sintesi” iniziale, attraverso l’ampia sezione di “Letture e approfondimenti”, viene ripercorsa in quasi 300 pagine come in una sorta di cantiere aperto tutta l’opera di Maffìa, dal 1974 al 2020, per essere accuratamente scandagliata e approfondita nei suoi interstizi in tutte le sue molteplici sfumature, e farne emergere il dato anche più umano.

È così che “L’officina del mondo” si rivela in tutta la sua necessità (espressiva, filosofica, estetica, civile), ben più che un’antologia di testi, ancorché puntualmente commentati, come un vero e proprio Manifesto (di poetica, di critica), come un laboratorio di sperimentazione e analisi, accessibile a chiunque voglia mettersi in ascolto e scoprirne la bellezza: una vera e propria monografia che pone al centro l’anima non solo del Poeta ma anche del critico che lo accompagna, facendo di entrambi emergere a tutto tondo la Parola in tutta la sua verità.

Vincenzo Guarracino

“Ricordi futuri. Scritti di Storia, Politica, Società”, letto da Dante Maffìa

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Ho sempre letto i libri di Marco Onofrio, credo tutti, e ogni volta è stato un momento di crescita e di confronto, un viaggio spesso in terre misteriose, da cui sono tornato un po’ diverso, non so se migliore o peggiore. La ragione è semplice: Onofrio, si tratti di pagine di poesia, di narrativa o di saggistica, parte dal calore del suo cuore, transita dalla sua mente attenta e vigorosa e approda su territori inediti, sconosciuti, nonostante la logica serrata del suo programma.

Cioè lui stesso si rende conto che gli approdi sono una configurazione possibile, da cui semmai riprendere a viaggiare, a praticare nuove strade. Proprio quello che ha fatto con “Ricordi futuri”, libro composito, ricco, dettato dalla conoscenza degli argomenti e da una dose di indignazione che corrobora le argomentazioni e riapre spesso a sensi nuovi. A cominciare da “Italia, crocevia di popoli” per finire con l’“Appendice”, composta da dieci letture di testi che hanno il respiro di veri e propri saggi. Una scelta che spazia anche oltre confine e ci dà, immediata, la misura di uno studioso capace di compendiare, anche soltanto occupandosi di un unico libro, la portata di uno scrittore (vedi Günter Grass) e di fare entrare nella pienezza della letteratura d’un popolo.

Insomma Marco Onofrio ha una statura solida e ben visibile di poeta, che sa con naturalezza occuparsi di narrazione e di saggistica al medesimo livello, e di questo non s’accorgono coloro i quali giudicano con i soliti, vecchi pregiudizi. O forse non vogliono accorgersene.

In “Ricordi futuri” c’è anche l’ampiezza e c’è il magma delle infinite letture di Onofrio, la sua attenzione a ciò che avviene anche nella quotidianità, nella cronaca, a ciò che è avvenuto nella storia e nella politica. Infatti questo suo nuovo libro ha il taglio e la ponderatezza di un Indro Montanelli che sapeva cernere il sociale setacciandolo nei minimi particolari e sapeva dare l’affresco di ciò che raccontava senza badare se pestava i piedi all’apparato o se guastava gli altarini delle varie cosche. Sono “colpe” che si pagano, e infatti non escludo che Marco Onofrio stia pagando caramente la sua libertà espressiva, la sua coerenza e il suo rigore morale.

Si legga con attenzione “L’intervista a Marco Onofrio sulla cultura contemporanea, tra fuga di cervelli e meritocrazia” e si avrà l’idea precisa di come egli guarda il mondo, di come lo sa comprendere e ne sa ricavare proposte direi da politico nato. Il tutto dopo analisi certificate, valutazioni sul campo. Una sola delle risposte dell’intervista a cui ho fatto cenno:  

“Quindi, Onofrio, lei parla di un problema trasversale a tutti gli ambiti professionali?”

– “Assolutamente sì, il sistema riproduce ovunque le sue metastasi. Io ho parlato per il mondo che mi compete come scrittore professionista, ma praticamente le stesse denunce potrebbero – e, anzi, dovrebbero – farle gli esponenti di ogni settore (università, giornalismo, avvocatura, medicina, spettacolo, ecc.). Anche il calcio, che pure per sua natura dovrebbe essere meritocratico, soffre delle medesime storture. Si legga per esempio il recente sfogo di Claudio Gentile, indimenticato campione del mondo 1982, la cui brillante carriera da allenatore è stata ‘bloccata’ solo perché incompatibile con la mediocrità e l’ipocrisia indispensabili a fare carriera e ad essere cooptati”.

Un esempio del carattere di Onofrio che non si è mai piegato al potere e che, ripeto, paga pesantemente questa sua autonomia e questa libertà che gli permette di poter dire cose come quella riportata.

“Ricordi futuri” è una fotografia di certo mondo attuale che sanguina, che non riesce a rimarginare le ferite di troppi sconci non riconoscendo a Cesare quel che è di Cesare. Il libro si presta anche a una lettura fatta scegliendo gli argomenti. Personalmente all’inizio mi sono soffermato su “La dittatura democratica”, un ossimoro di non poco conto, e poi “Su l’oblio dell’essere e la necessità della cultura”, poi sulle “Riflessioni sul femminicidio” e poi su “Strisce blu e autovelox”. La disinvoltura di Onofrio nel dire pane al pane e vino al vino è notevole, perfino irritante per i signori che stanno fuori dalle regole e che non sono semplici impiegati o esecutori, ma gente al comando, perfino legislatori. Infine m’è stato impossibile non soffermarmi su tutto, anche sugli scritti finali, pur avendoli letti in gran parte in un blog. A chiusura dell’ultima pagina mi sono domandato il motivo del mio impegno e del mio piacere, e la risposta è stata semplice e immediata. Marco Onofrio tocca gli speroni, le punte avanzate delle ingiustizie, e denuncia le storture con argomentazioni valide e non per motivi di una qualche opposizione ideologica. Guarda la realtà nel suo complesso e nella sua dimensione perfino spicciola.

Il risultato è che la lettura scorre come si si trattasse di racconti, per fare degli apparentamenti, di Mario Soldati o di Tommaso Landolfi, con pagine forse anche un po’ dense e fiottanti come quelle di Luis Ferdinand Céline, grazie a una scrittura tersa, concisa, scandita e mai sorda o stanca. Pregio di grande importanza soprattutto in questo momento in cui stiamo assistendo alla pubblicazione di opere sciatte (ci si scandalizzi in maniera violenta!), perfino sgrammaticate.

Dante Maffia

“Azzurro esiguo”, letto da Gabriella Maggio

Azzurro esiguo cop-2

Ho letto più volte “Azzurro esiguo” di Marco Onofrio, edito da Passigli nel 2021. È una poesia difficile, che richiede tempo e dedizione per coglierne l’incanto. Lo ha ben visto Dante Maffia nella sua bella prefazione: “La poesia di Marco Onofrio non è stata mai di facile lettura”. Le cose belle sono sempre difficili, secondo Platone. L’intensità dei sentimenti e delle emozioni, s’intreccia a vaste letture e dà alla ricerca poetica di Marco Onofrio il carattere della complessità, il senso di un’esperienza che investe la mente e il corpo in un percorso circolare che abbraccia anche la natura: stelle, nuvole, mare, santuari e luoghi di protezione del poeta, emblemi del suo stato d’animo. Le ricorrenti immagini marine mi hanno fatto ricordare alcuni versi di Mallarmé: “Noi navighiamo, o miei diversi /amici, io di già sulla poppa / voi sulla prora fastosa che fende / il flutto di lampi e d’inverni…” (“Brindisi”, da Poesie, trad. L. Frezza, Feltrinelli) che ben rispecchiano il modo tutto personale di Onofrio di assimilare la tradizione poetica da Dante a Luzi, i suoi diversi amici. Anche la poesia di “Azzurro esiguo” è un’avventura rischiosa tra lampi e inverni verso il mistero e il suo silenzio, affrontati con la determinazione di chi compie una “oltranza” per estrarre le parole dalle cose, la loro verità segreta oltre il visibile per giungere a afferrare l’ombra del sogno rivelatore prima che si dilegui, per serbarne dantescamente almeno il sentimento. Verso l’origine della verità… dove tutto è libero e infinito…t ornare alle emozioni primordiali… percepire il ritmo della terra, il mistero verde blu del mare, sono le parole con cui Marco Onofrio esprime il suo streben e la sua sensucht. Due termini forti eppure adeguati ad esprimere la sua concezione della vita e della poesia come sforzo incessante, tentativo continuo di superare il limite materiale e spirituale, unito ad un senso acuto dell’irraggiungibile meta: camminiamo sul bordo / di un davanzale piccolo e scosceso / da cui scivola tutto / prima o poi (“La verità più vera)”. Il poeta può intuire non decifrare i segni di scritture/ incomprensibili / lasciate non sai quando / né da chi.  Ineludibile è lo scacco: Ma io passo, attraverso le nuvole / col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso: non credo più alle favole… ho finito di essere un’allodola, quella che secondo Baudelaire plana sulla vita e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Lo scacco non intacca l’amore per la vita, che ne esce rafforzato dalla consapevolezza che è possibile la felicità, se si accetta il limite stesso della vita, apprezzandone le cose minime essenziali, perché troppo spesso siamo già felici / e non lo sappiamo. Non s’arresta però la ricerca dell’oltre, il desiderio di oltrepassare il limite per comprendere / la creazione infinita/ del mondo e la bellezza inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato. /…disfarne il nodo… Trascendere il visibile apparente. Questo è il compito dell’uomo-poeta espresso nella poesia che apre la raccolta, “Il compito”. In questo dramma interiore pieno di tensioni emerge lo scopo della poesia: La poesia ci consola… con l’invisibile pensiero / del mondo senza fine / dentro il cuore. / È la dolcezza amara / della profondità: / fa più lieve, luminosa e cara /la vita che dobbiamo sostenere (“Il balsamo sublime”). E la vita con i suoi errori si riscatta nell’amore per il padre, per la figlia, per la donna amata. L’ultima poesia del libro “Azzurro esiguo”, dà il titolo all’opera e riannoda le fila del viaggio interiore che Marco Onofrio ha affrontato ed espresso nei suoi versi, trattando i grandi temi della vita e della morte: come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero?… la nostra casa è lo sguardo /i l canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. L’azzurro, il colore del cielo e del mare, anche se debole, esprime la tensione inesauribile verso la libertà e l’infinito nonostante la fatiscente basilica del mondo.

Gabriella Maggio