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“Amen”, di Chiara Mutti. Lettura critica

Leggendo “Amen”, il nuovo, suggestivo libro di Chiara Mutti, vien fatto di estrarre dalla robusta tessitura dei “racconti”, sospesi tra diario senza date, espresso in terza persona, e poema lirico di frammenti in prosa, dall’impatto poetico-musicale piuttosto che narrativo, una sorta di identikit della protagonista fittizia, Giulia, in cui l’autrice, decidendo per sé un ruolo apparentemente neutro di “io narrante”, sembra con ben altra evidenza sostanziale riconoscersi e riversarsi, in guisa di “alter ego”. Starà poi al lettore comprendere e decidere quanto di Giulia appartenga a Chiara, o viceversa. Quanto cioè Chiara Mutti abbia avuto bisogno di uno “schermo” esterno – come la visiera con cui l’operaio si protegge gli occhi dall’incandescenza della saldatura – per maneggiare e, appunto, saldare i frammenti di un passato traumatico che le brucia dentro, malgrado i decenni trascorsi.
Regge, la finzione di Giulia? È un personaggio credibile, dotato di vita autonoma? Oppure è una mera funzione narrativa, ricavata semplicemente trasformando l’io nella “terzietà” di una prospettiva equidistante, almeno in teoria, tra l’io e il tu, cioè tra lo sguardo interiore e quello esterno proveniente dal lettore? Secondo me la risposta è “sì” per entrambi i corni del quesito: vale sia come finzione realistica, o almeno verosimile, e sia come trasposizione strumentale di contenuti privati che, anche grazie all’espediente narrativo, si pongono e si porgono in senso universale. È un problema di “sospensione dell’incredulità”: sta al lettore credere in Giulia, o vederci Chiara in trasparenza. In un caso o nell’altro emerge il temperamento, forte e fragile al contempo, di una donna fieramente anticonformista, e intendo l’anticonformismo autentico, non quello esibito, per darsi un tono, dai conformisti. Un mix di autonomia, libertà, orgoglio, dignità, volontà di bastare a se stessa. Un retrogusto antico di femminismo anni ’70 dove però gli slogan programmatici e le frasi fatte si sono ormai stemperati nella dolce maturità dell’esperienza e, perché no, in una prima forma di “saggezza”. Una infanzia difficile ha costretto Giulia a farsi da madre e padre, ad essere figlia di se stessa, ma anche a farsi compagnia come “unica amica dei giochi”. Aveva ed ha tuttora una sensibilità diversa: suonava fin da piccola “un’altra musica”, sventolava “una bandiera tutta sua”. Ha uno spirto guerrier ch’entro le rugge: un’anima barricadera che la spinge alla ribellione fin dalle cose più semplici, plasmando la sua volontà di uscire dal “bozzolo rassicurante” delle abitudini, dalla narcosi del tran-tran quotidiano. Ma specialmente una integrità morale che la costringe a non piegarsi, a non arrendersi mai: è persuasa che “la pace non fa saldi” e non può esistere senza giustizia. I vecchi ideali di un mondo che nel frattempo sembra cambiato di secoli, e non in meglio, sono agganciati ai contrappesi di un “disincanto” che è nutrito anzitutto di sano realismo: il coraggio di non raccontarsi favole e non cedere alle facili illusioni – forse per troppe delusioni subite.
Per Giulia la realtà è un baratro immenso e vuoto, come il “buco in fondo all’anima” dove cerca sempre la sua voce; il dolore è buio che illumina, svelando inganni e ipocrisie; l’esistenza è un desolato magazzino di depositi (scorie ricordi traumi ferite squallori): “migliaia di immagini… Non tutte comprensibili, ma ognuna sembra racchiudere una importanza vitale” – così scrive Chiara. Il fatto è che l’artista, quando lo è davvero, è “abitato” da visioni inconsumabili che nelle opere cerca di circumnavigare, comprendere, esorcizzare: le insegue per tutta la vita. Sono i miti personali: le scene che continuano sempre ad accadere, per esempio dopo l’ultima lite col padre “la porta sbattuta così violentemente da continuare a sentirne le vibrazioni per tutto il resto dei suoi giorni”. Essere artisti è un crisma che unisce benedizione e dannazione; il rovescio della medaglia che il dono comporta è il disagio esistenziale, cioè la difficoltà di adattarsi al mondo, alla comune socialità, alla comunicazione banale e insincera che domina i rapporti umani. Ecco quel tipico stato di sospensione e impaccio: la sensazione costante di “aver rimandato qualcosa di molto importante” o di essere “sempre in ritardo di qualche minuto sulla vita”.
La parola per Giulia è il surrogato di “un’altra via di comunicazione” che segue “strade impervie e misteriose”, “percorsi siderali” entro cui “chissà dove si perde e chissà quando poi si ritrova”. Le è connaturale il mutismo, cioè il silenzio che, come il bianco i colori, contiene tutte le parole. È, per così dire, taciturna anche quando parla: preferisce parlare con gli occhi o completare le parole con gli sguardi. Di conseguenza, Chiara scrive di lei per sottrazione: ma questo, anziché attenuarla, amplifica la forza della parola così come, proprio quando si vuol far piano, i gradini di una scala di legno scricchiolano più del normale o del necessario… Il rapporto sofferto e combattuto che anche Chiara intrattiene con l’imprecisione riduttiva della parola trova un compromesso accettabile nella parola scritta, che (al pari della fotografia) “salva” le cose estraendole dal flusso del tempo, ed esime dall’obbligo della presenza perché continua a parlare anche quando chi ha scritto non c’è, o non c’è più. La scrittura viene onorata e praticata come rito ancestrale di sprofondamento nelle umane radici, attraverso una dinamica biunivoca dal particolare all’universale e viceversa. È una “terrazza aperta sulla notte e sui segreti del cielo” dove hanno modo di svelarsi e apparire, come i punti luminosi di una figura archetipa che riemerge dai canali aperti dell’immaginazione, i significati profondi e originari dell’esistenza. Da qui, la concentrazione tipicamente “poetica” di questa prosa, orchestrata sulle potenzialità di una scrittura tesa, tagliente e lucida come l’aria dell’inverno. Vale, per la Chiara Mutti prosatrice, il monito di Lalla Romano: stringere un libro intero nella pagina, la pagina in una frase, la frase dentro la parola.
Se intendiamo “poesia” anzitutto come “intensità” dello sguardo, dimensione dello spirito e stato della mente, “Amen” è un libro di poesia trafugato in pagine di prosa che dalla dissimulazione del focus traggono motivi di efficacia più sottile e, proprio per questo, ancora più incisiva. Anche per la sfuggevolezza del senso, che obbliga talvolta a tornare indietro per ripetere la lettura: ed è tutt’altro che un difetto, penso ai “Canti Orfici” di Dino Campana, a “Biografia a Ebe” di Mario Luzi, ai libri di Carmelo Bene… La dimensione poetica veicola naturalmente una tonalità melanconica, di inquietudine struggente e di atroce nostalgia (soprattutto di ciò che non è stato). Lo scrittore turco Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006, ha notato in un suo libro di preziose riflessioni sull’arte del racconto, dal titolo “La valigia di mio padre”, che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Sono ferite che non cicatrizzano mai completamente, e infatti il poeta è un essere scorticato, come ci ricorda Rainer Maria Rilke.
Analizziamo lo sguardo melanconico di Giulia: da un lato il miraggio fugace della felicità nell’“urgenza di volersi e di sentirsi eternamente vivi”; dall’altro il grido disperato delle cose inghiottite dal vuoto, la fine irredimibile che incombe e lo strazio sottile del pianto universale (sunt lacrimae rerum), per esempio il grido gioioso e grottesco che alla fine, espressionisticamente, coincide con quello stesso del cosmo, dal cielo “colmo di stelle”. A fronte della ineludibile realtà tragica, ecco il colophon da Montaigne, dedicato all’attrazione per gli inizi: «La nascita di tutte le cose è debole e tenera; e quindi dovremmo avere i nostri occhi dediti agli inizi». L’impatto di questa debole tenerezza si traduce e si declina in forza come slancio retroattivo e regressivo, ricerca dell’origine dei giorni: il tempo perduto da ritrovare e il mistero sconosciuto che palpita al centro del conosciuto “ordinario”, anche come improvvisa rivelazione. Ed ecco, subito, il secondo colophon, da Pasolini: «Quando si scrive senza pensare di rivelare un segreto, cioè sinceramente, ci si accorge di rivelare un segreto che non si sapeva di avere». La crisi è sempre opportunità di un nuovo inizio, a patto di esercitare la tanto decantata “resilienza” che però in “Amen” non è la parola oggi tanto di moda, ma la forza autentica di sormontare gli ostacoli (nella fattispecie di Giulia abbracciano ad arco filiere di traumi dovuti a disgregazione familiare, miseria, fame, collegio, esclusione, solitudine, e in una sola parola riassuntiva: disamore), cioè la prodigiosa capacità di estrarre armonia dal caos più nero e doloroso di una vita non proprio fortunata.
Grazie al processo alchemico attivato nel corpo della rigenerazione creativa e poetica che Chiara opera in nome e a favore di Giulia, la musica del pensiero e l’intensità del cuore articolano il centro unitario da cui irradiano le suggestioni del libro: la pulsione che muove e commuove la scrittura verso un indefinibile “oltre” umanamente alto, qualcosa di diverso e più profondo, da cui procede il riscatto “postumo” delle energie negative prodotte, anche dopo molto tempo, dagli eventi. Chiara riesce ad estrarre la radice del mondo nella vita di Giulia, e la radice della vita di Giulia in mezzo ai fili molteplici del mondo. Non è dato sapere quanto travaso personale immetta nell’opera di trasduzione, ma è certo che nell’osmosi consente a Giulia di vedere il fondo delle cose attraverso la loro dolorosa opacità. Un fondo che spesso si rivela doppio, tanto che parla esplicitamente di “dicotomia d’immagine” a cavallo tra onirico e reale. Ma che cos’è reale? La realtà stessa è forse sogno? O il sogno è realtà? Una delle rivelazioni offerte dal percorso è che le cose più “normali” sono, a ben vedere, quelle più oscure e misteriose: come nel racconto di atmosfera kafkiana dal titolo “Il faro”. Realismo e simbolismo sono in effetti le due cifre estetiche in cui vanno a collocarsi le due forze motrici del libro, una centripeta (la paura) l’altra centrifuga (il desiderio): la paura tende al realismo, il desiderio al simbolismo, ovviamente con tutto l’arco delle gradazioni intermedie e degli impasti reciproci. Il grande dono offerto alla fine del percorso è la catarsi, che consente uno stadio di possibile guarigione e liberazione dal dolore, secondo il principio che tutti i grandi medici furono dei grandi malati, e ogni malato, se guarisce, può guarire a sua volta gli altri. Amen significa allora fare i conti col passato: perdonare e soprattutto perdonarsi per buttare giù la diga che opponiamo allo scorrere eterno delle cose, e che in realtà “non è altro che la nostra paura di vivere”. E allora imparare anche ad arrendersi, accettare che la vita faccia il suo corso malgrado noi, i nostri limiti, i nostri sforzi disperati di resistere e sperare.
Voglio concludere queste note evidenziando una straordinaria e forse non casuale assonanza tra il racconto “Pietra” e il pasoliniano “Teorema” (1968), film e romanzo. Leggiamo dal racconto di “Amen”: “La figura di sua madre si stagliava nitida contro il sole, stava rigida, inginocchiata come in un antico rito di adorazione, statua pagana nel mezzo dei prati brulli di fine estate”. La madre di Giulia, Giulia stessa e suo fratello maggiore sono usciti a passeggio per i prati del Tiburtino, dietro gli squallidi palazzoni, all’altezza del civico 613. La madre dei due bambini è malata di mente, preda di fissazioni mistiche e manie di persecuzione. Si pensa subito all’Emilia di “Teorema”, nel film interpretata da Laura Betti. Leggo passim dal romanzo di Pasolini: «Emilia (…) si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole. (…) piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia. (…) I due bambini (…) sono sul prato davanti alla casa (…). Infagottati nei loro vestiti da contadini a modo, già quasi simili ai borghesi, raccolgono le ortiche in silenzio, diligentemente. Solo la bambina, ogni tanto, si lamenta un po’ perché le ortiche la pungono. Il pentolino lo tiene in mano il maschio. (…) E intorno, quasi vertiginosi per quel loro verde, si stendono i prati (…). Emilia immobile (…) È davanti a lei che i due bambini si recano. A debita distanza, si fermano, e, coi gesti dell’abitudine (…) depongono il pentolino di coccio pieno di ortiche. (…) Emilia, assorta altrove, con gli occhi foschi che non guardano nulla, mangia a lente cucchiaiate il cibo verde della sua scandalosa penitenza».
Torniamo ora a “Pietra”. I due bambini si tengono un po’ distanti dalla madre “inginocchiata, le mani giunte, lo sguardo fisso verso il sole”, poiché temono che sopraggiunga qualcuno a cui dover dare spiegazioni. Così accade: “A un tratto spuntò come dal nulla un uomo magro, alto ed elegante, il soprabito scuro svolazzante nell’aria quasi autunnale”. L’uomo si ferma, ipnotizzato dalla visione, e poi chiede ai due bambini se conoscono quella donna. I due bambini rinnegano la madre: alto è il rischio d’essere affidati ai servizi sociali, e perciò divisi. “Dopo minuti che sembrarono interminabili l’ospite indesiderato andò via, con il suo agile passo lungo, tornando a voltarsi e a guardare di quando in quando; loro fecero finta di giocare, fino a che fu sparito all’orizzonte”. Ora, considerando che da quelle parti – all’altezza di Casal Bruciato, nei pressi degli stabilimenti cinematografici della De Paolis – era praticamente di casa, ho il fondato sospetto che l’uomo dall’“agile passo lungo” fosse nientemeno che Pier Paolo Pasolini, e che abbia guardato avidamente quella scena strana, tragica e a suo modo ieratica per appuntarla mentalmente e poi riversarla (mutatis mutandis, per esempio trasformando i prati del Tiburtino nelle campagne della pianura padana) all’interno del film “Teorema” e del conseguente romanzo, dando così vita al personaggio della mistica Emilia. È da escludere una suggestione al contrario, poiché Chiara Mutti quando scrisse “Pietra” non aveva ancora letto né visto “Teorema”, e d’altra parte ha narrato un episodio, a quanto pare, realmente accaduto. Sarebbe peraltro da verificare la coincidenza temporale tra l’episodio stesso e “Teorema”, sempre tenendo conto che il multiforme ingegno pasoliniano aveva tempi rapidissimi di metabolizzazione, sintesi eidetica e scrittura. Insomma, era davvero Pasolini? Non lo sapremo mai, però a me piace credere di sì, e che in cambio della scena, così misteriosamente carica di simboli e significati, egli abbia trasmesso in dono a Giulia, quel giorno lontano nella polvere assolata della periferia romana, lo stigma e la dannazione della poesia autentica; e che di conseguenza Chiara Mutti li abbia ereditati, per Giulia, per sé e per noi tutti.
Marco Onofrio
“Azzurro esiguo”, letto da Gabriella Maggio
Ho letto più volte “Azzurro esiguo” di Marco Onofrio, edito da Passigli nel 2021. È una poesia difficile, che richiede tempo e dedizione per coglierne l’incanto. Lo ha ben visto Dante Maffia nella sua bella prefazione: “La poesia di Marco Onofrio non è stata mai di facile lettura”. Le cose belle sono sempre difficili, secondo Platone. L’intensità dei sentimenti e delle emozioni, s’intreccia a vaste letture e dà alla ricerca poetica di Marco Onofrio il carattere della complessità, il senso di un’esperienza che investe la mente e il corpo in un percorso circolare che abbraccia anche la natura: stelle, nuvole, mare, santuari e luoghi di protezione del poeta, emblemi del suo stato d’animo. Le ricorrenti immagini marine mi hanno fatto ricordare alcuni versi di Mallarmé: “Noi navighiamo, o miei diversi /amici, io di già sulla poppa / voi sulla prora fastosa che fende / il flutto di lampi e d’inverni…” (“Brindisi”, da Poesie, trad. L. Frezza, Feltrinelli) che ben rispecchiano il modo tutto personale di Onofrio di assimilare la tradizione poetica da Dante a Luzi, i suoi diversi amici. Anche la poesia di “Azzurro esiguo” è un’avventura rischiosa tra lampi e inverni verso il mistero e il suo silenzio, affrontati con la determinazione di chi compie una “oltranza” per estrarre le parole dalle cose, la loro verità segreta oltre il visibile per giungere a afferrare l’ombra del sogno rivelatore prima che si dilegui, per serbarne dantescamente almeno il sentimento. Verso l’origine della verità… dove tutto è libero e infinito…t ornare alle emozioni primordiali… percepire il ritmo della terra, il mistero verde blu del mare, sono le parole con cui Marco Onofrio esprime il suo streben e la sua sensucht. Due termini forti eppure adeguati ad esprimere la sua concezione della vita e della poesia come sforzo incessante, tentativo continuo di superare il limite materiale e spirituale, unito ad un senso acuto dell’irraggiungibile meta: camminiamo sul bordo / di un davanzale piccolo e scosceso / da cui scivola tutto / prima o poi (“La verità più vera)”. Il poeta può intuire non decifrare i segni di scritture/ incomprensibili / lasciate non sai quando / né da chi. Ineludibile è lo scacco: Ma io passo, attraverso le nuvole / col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso: non credo più alle favole… ho finito di essere un’allodola, quella che secondo Baudelaire plana sulla vita e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Lo scacco non intacca l’amore per la vita, che ne esce rafforzato dalla consapevolezza che è possibile la felicità, se si accetta il limite stesso della vita, apprezzandone le cose minime essenziali, perché troppo spesso siamo già felici / e non lo sappiamo. Non s’arresta però la ricerca dell’oltre, il desiderio di oltrepassare il limite per comprendere / la creazione infinita/ del mondo e la bellezza inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato. /…disfarne il nodo… Trascendere il visibile apparente. Questo è il compito dell’uomo-poeta espresso nella poesia che apre la raccolta, “Il compito”. In questo dramma interiore pieno di tensioni emerge lo scopo della poesia: La poesia ci consola… con l’invisibile pensiero / del mondo senza fine / dentro il cuore. / È la dolcezza amara / della profondità: / fa più lieve, luminosa e cara /la vita che dobbiamo sostenere (“Il balsamo sublime”). E la vita con i suoi errori si riscatta nell’amore per il padre, per la figlia, per la donna amata. L’ultima poesia del libro “Azzurro esiguo”, dà il titolo all’opera e riannoda le fila del viaggio interiore che Marco Onofrio ha affrontato ed espresso nei suoi versi, trattando i grandi temi della vita e della morte: come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero?… la nostra casa è lo sguardo /i l canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. L’azzurro, il colore del cielo e del mare, anche se debole, esprime la tensione inesauribile verso la libertà e l’infinito nonostante la fatiscente basilica del mondo.
Gabriella Maggio