“Voci sepolte”. Poesia inedita

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VOCI SEPOLTE

Invisibile palazzo della storia:
centomila piani di silenzio
a guardia del suo vuoto.

È immenso il peso dei secoli
sulle rovine mute
degli imperi.

Voci sepolte per sempre,
fatti che nessuno potrà
più recuperare.

Solo lei, l’infame giustiziera
non smette di parlare dentro il pozzo
che brucia ogni momento
la memoria.

Che cosa può mai la gloria
se tutto inesorabile divora
l’enormità del tempo?

Ognuno è solo al mondo
e vive un soffio.
Eterno è solamente
il dileguare. 

Marco Onofrio
(poesia inedita)

“Specchio doppio”, letto da Letizia Leone

Oggi nella quasi totale omologazione, sia stilistica che formale, della sterminata produzione letteraria e d’intrattenimento, spicca il poco spazio riservato al genere del racconto da parte dell’editoria italiana. Eppure il racconto, anzi quella che un volta veniva appellata la novellistica, vanta una prestigiosa e consolidata tradizione nella letteratura italiana attestata già alla fine del duecento con Il Novellino. Il genere della prosa breve non rientra nelle politiche merceologiche dell’industria editoriale. Le motivazioni non sono culturali, bensì economiche, di profitto. Il libro, quale prodotto di consumo, deve rispondere a determinati requisiti di vendita tra i quali la semplificazione, l’intrattenimento e l’appartenenza a modelli destinati a fette di mercato predeterminate. Sebbene poi il racconto, così come la poesia, da questa posizione di marginalità e autonomia tragga linfa per la ricerca espressiva. Lo stesso Giulio Ferroni afferma che il racconto ormai sembra «farsi carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica». Salutiamo dunque con favore libri come questo di Marco Onofrio, racconti brevi ma densamente significanti, parodistici e rappresentativi di una società “borderline”, dove “Le persone normali” (per citare un titolo di Aldo Busi) sotto la superficie della consuetudine rivelano un estremismo esistenziale tutto contemporaneo.

Il titolo e la citazione ad incipit di Giordano Bruno annunciano, nell’immagine prettamente barocca dello specchio, una ontologia dell’essere e dell’apparire, un forte richiamo a certe questioni classiche della doppia identità vita/arte, finzione/autenticità. Questioni già metabolizzate in una modernità pervasa ormai dal virtuale, dal bombardamento mediatico e che va smussando i confini del reale e del riflesso, del contingente e dell’illusionismo prospettico. Tempi di post-verità, ipoverità, fake-news, di illusione di massa dove i fatti indietreggiano rispetto ai pregiudizi o alle emozioni. Il reale e la finzione si mescolano. Istanze sottese a questi racconti. Se lo specchio riflette l’immagine reale e, in una distorsione diabolica un doppio specchio riflette un’immagine di secondo grado, magari con un certo impercettibile livello di deformazione, allora viene spezzato il rapporto biunivoco tra osservatore e osservato. Il doppio specchio di Onofrio, con la doppia rifrazione include osservatore e osservato in una visione straniante e obliqua che potrebbe essere anche una via di fuga dal semplice rispecchiamento. Ma anche il Vuoto e il Nulla sono fili rossi che innervano questi racconti con le variazioni socio-antropologiche dell’inettitudine, dell’inazione, del fallimento. Allora l’intuizione che ci raggiunge dal titolo è un’immagine di riflessione del vuoto che avviene tra due specchi posti l’uno di fronte all’altro, dunque auto-riflettentesi. Scrive R. Barthes: «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso». «Il vuoto del vuoto. Così vuoto da rimpiangere il nulla», scrive Onofrio in un atipico racconto dell’orrore, La vecchia Zerbe. Oppure in Caos: «È il vuoto, sotto e intorno a me. Tutto gira, tutto sfila. Sto cadendo. Precipito ed urlo, ma non sento nulla…»

Il libro è strutturato in dieci coppie di racconti centrati su dieci parole-chiave (La Letteratura, La Carne, La Borghesia, la Morte, Il Caos, Il Sentimento, Il Football, La Politica, L’Italia, Roma) quasi un paradigma di variabili esistenziali dove la vita stessa è incasellata nei suoi aspetti macroscopici. La scrittura di Onofrio si muove con strategie stilistiche che rifiutano la rappresentazione lineare, mimetica. Lo straniamento ne è la cifra stilistica. Quasi tutti i racconti prendono avvio da situazioni di routine quotidiana, viaggi in treno, appuntamenti di studio, esami universitari di dottorato, Onofrio stesso lo dichiara in più punti: momenti di vite qualsiasi. Ad esempio nel racconto Le mutandine: «Una vita qualsiasi, Attilio lo sa, eppure non riesce a lamentarsi anche nella normalità puoi trovare, se vuoi, dello straordinario…». Attilio infatti si è specializzato nelle fantasticherie, come altri protagonisti del libro, tanto che nella “continuità dell’argomentazione logica”, per dirla filosoficamente, irrompe facilmente il surreale o il fantastico, l’assurdo o lo straordinario. Si tratta di rêveries, sogni ad occhi aperti, allucinazioni, esperienze surreali vissute come eventi normali. Fantasmi pubblici e privati. La narrazione di Onofrio ci suggerisce che il “Reale” è precario, incoerente, fluttuante e fluido, aperto alle irruzioni di altre dimensioni magari psichiche o inconsce che si mescolano ai fatti del giorno o della notte. Il principio di realtà ha perso il suo fondamento e l’Io ne esce indebolito e disorientato.

Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte scrive: «Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione, è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia ci sono soltanto dei simulacri.» Non a caso Onofrio parte dalla letteratura con un primo racconto eponimo smaccatamente pirandelliano, Specchio doppio, e lo colloca dentro un mosaico di temi, metafore e allusioni. Autore, lettore, in un gioco di continua interscambiabilità. Nel guardarsi allo specchio (il narcisismo, questa malattia tutta contemporanea!) ci si confonde infine, si entra in un loop, in un gioco di ripetizioni e di scatole cinesi, non si sa più chi è l’autore e il lettore, l’artista e il fruitore, L’Io e l’Altro. In fondo la coscienza e l’identità sono solo un punto di vista, un punto di osservazione prospettico che potrebbe cambiare da un momento all’altro. E l’equilibrio è solo un’illusione. Basta poco, un’impressione, una percezione, un nonnulla…Allucinazioni fantasmagoriche o illusioni ottiche sono ormai piani interscambiabili. L’assurdo e l’inverosimile vengono normalizzati.

La bravura di Onofrio è anche nella sorpresa. La sua narrazione parte da posizioni quasi didascaliche, ad esempio in Roma, dove le descrizioni di un monumento iconico quale il Colosseo vengono dispiegate in memorie storiche e aneddotiche fino ad un’inattesa virata nel grottesco e nell’umoristico con il racconto rocambolesco di un amplesso fantasmatico, finché nell’epilogo lo scrittore ti aggredisce poeticamente alle spalle con un finale che commuove a tradimento chi legge. Così come nel racconto Il grande sogno dedicato alla squadra del cuore, la Lazio, dove  entrano ed escono fantasmi e si può saltare da una parte all’altra della linea temporale con la facilità di una situazione onirica. La memoria è un fatto quotidiano come gli altri, e prendendo un autobus il protagonista può andare a cercarsi nel proprio quartiere a quarant’anni di distanza, magari arrivare dietro la porta di casa e ascoltare la propria voce infantile. Altro tema ricorrente quello del sesso, vissuto in una distorsione straniante, con femmine fameliche e maliarde, con l’immagine grottesca a tratti caricaturale del sesso femminile che ricorda certo espressionismo e deformazioni gaddiane. Non mancano gli affondi nella deiezione: «Indi calarsi le braghe, lentamente o meno – di questo ci si prega. Indi ancora, senza alcuna verecondia, liberamente dare inizio al cago: che ne spurghi le budella, dal gravame dell’attuffo che l’intrippa, e rilasci il ponderoso pegno di ventresca, che più utile riesca alla salute…». Con il cerimoniale scenografico della defecazione nel racconto Festa a tema avviene il ribaltamento grottesco del rito sociale della festa e del perbenismo borghese. Lo scarto fisiologico viene normalizzato a momento conviviale, parodia del trash mediatico in cui siamo immersi. Oppure la ricorsività di umoristiche  descrizioni delle performance sessuali sotto metafora calcistica.  

E se spesso il soggetto subisce una «perdita di realtà», in una conversione umoristica arriva più volte la sberla liberatoria. Come una catastrofe, il rivolgimento giunge alla fine dell’azione e la conclude: «…stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e…PEM…gli assesto un manrovescio coi fiocchi, da farlo rivoltare.» (Il “Dannunziano”) Se il nichilismo ha depredato la realtà di ogni valore facendoci precipitare verso una incognita,  la vita ha assunto una parvenza farsesca. E questa scrittura stride di critica sociale e si dipana sempre un gradino sopra la logica tranquillizzante e la ragionevolezza. Ha detto bene Paolo Di Paolo nella quarta di copertina: «Marco Onofrio poeta nutrito dalla tradizione». Ma non si tratta di epigonismo, bensì di appropriazione per assimilazione cosciente di una tradizione letteraria nell’originalità e individualità propria dello stile dello scrittore Onofrio al quale aderiscono le parole di Ernst Robert Curtius: «Per la letteratura, tutto il passato è presente… Il presente atemporale, caratteristica specifica della letteratura significa che la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente».

Dunque racconti densi di stratificazioni letterarie, fantasmi pirandelliani, disarmonie espressionistiche gaddiane, trappole kafkiane, ironie alla Flaiano. Perché in fondo ognuno di questi racconti potrebbe anche rivelarsi un omaggio ai grandi testimoni della più alta tradizione letteraria, da Pirandello a Pasolini, da Flaiano a Kafka, da Calvino al Dürrenmatt.

Letizia Leone

“Dolce di sale”, di Antonella Caggiano. Lettura critica

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“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.

Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.

Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.

Sii il profumo che vuoi intorno.

Tieni la testa
al sole
come i girasoli
che l’abbassano
solo per seminare il terreno
di nuova vita.

È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.

Il Mare
qui
ora…

E ancora:

se dovessi pensare alla
Bellezza
vedrei l’istante esatto in cui
i petali si schiudono
nella promessa dell’alba.

La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:

Aprila!
scorgi il cielo che ti soffia parole
di cura.

I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:

Vorrei essere
piuma
in un cielo fermo
d’estate
e
piroette e volteggi
disegnati
nel sole
posarmi a terra.

Nient’altro.

Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.

Arriva al centro
delle cose
del mondo,
quelle per cui si è ciò che si dona.

Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia?  “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.

Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:

Attenzione a come mi guardi
potrei andare in frantumi.
Parla sottovoce ché l’anima
ha pelle di acqua
scivola
senza ricordo.

(…)

Siamo soffio
non chiedere il peso
la misura.
La spuma divina
ci accende.
Un volo
di fiori d’angelo
ci disperde.

(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:

Come posso
dire cose?  

È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.

 Marco Onofrio

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone

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Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.

Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.

(Dante Maffìa)

Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.

L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.

La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.

Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».

Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi   suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa. 

Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita.  Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.

Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».

Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.

Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».

Letizia Leone

“Azzurro esiguo”, letto da Stefano Vitale (www.ilgiornalaccio.net)

Azzurro esiguo cop-2

L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìa che lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.

Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…

“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».

L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.

La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.

I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.

È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).

In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.

Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).

Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.

Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.

Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.

Stefano Vitale

Emanuela Dalla Libera legge “Anatomia del vuoto”

Anatomia

Una poesia per chi viaggia nella vita, quella di Marco Onofrio, nella vita e nell’universo, nella totalità dello spazio e del tempo che il poeta riconduce alla muta essenza del vuoto dove si forma ogni cosa. Un vuoto originario e costante in cui confluisce una molteplicità di significati e di forme. Forse il vuoto è lo spazio in cui temiamo di smarrirci dal momento che troppi enigmi rimangono insoluti, o la rappresentazione di una angosciosa ricerca di senso, mai perfettamente compiuta, sempre “in fieri”, perché il vuoto si configura come ricerca, vita, intensità di sentire. Il vuoto è lo spazio primigenio in cui ha origine il nostro esistere, il venir fuori, il prorompere improvviso per inserirci in una realtà data, modificarla e nel contempo esserne modificati. È, questo vuoto, spazio infinito di osservazione, riflessione, indagine che coinvolge ogni realtà vivente, ogni cosa costituisca l’universo, da quelle note e minuscole (la cicala, il ramarro) a quelle misteriose e gigantesche (le cefeidi, le comete), tutte abbracciate insieme a costituire un unicum negli arcipelaghi del tempo in cui tutto cambia, / tutto finirà, di cui anche noi siamo parte e al quale non possiamo sfuggire. Ma allora cercare un senso è doveroso a giustificare la divinità della nostra natura umana perché l’imperfezione è sacra, e a comprendere la nostra continua ricerca di un centro in cui rappresentarci, in cui credere di essere mentre continuamente ci sfugge (tu che ti credi il centro del mondo / e invece sei un relitto in mezzo al mare).

Il vuoto è quindi lo spazio in cui cercare, è l’infinito che non si esaurisce perché il divenire è perenne e ogni forma esiste solo perché è in perenne mutazione nella forza assoluta e tremenda / che spinge la ruota del cielo / l’eterna metamorfosi dei giorni. Il vuoto ci è necessario quindi, è l’humus in cui prendiamo forma la prima volta, in cui esistiamo e continuiamo a vivere. È vita, movimento, dialettica necessaria a comporre ogni nuova tessera di un mosaico in continua espansione al cui compimento cerchiamo costantemente di sfuggire, attratti da un irresistibile desiderio di vita, di amore, alimentati da una speranza che è intrinseca al nostro essere perché è possibilità, occasione, imposta chiusa su cui batte il giorno per svelare il segreto dell’amore. La compiutezza, il pieno finiscono per configurarsi come fine, soluzione ultima di ogni nostro gesto (In quale pieno / è già scavata, la fossa / che ci accoglierà / per scomparire?) e il nostro interminabile travaglio / avrà pace, un giorno, / tra le braccia apocalittiche / del Padre.

La scrittura di Marco Onofrio è ricca, coinvolgente, fortemente capace di muovere emozioni e far nascere pensieri, le parole sono intense, intrise di profondo spessore, calamitano la nostra sensibilità con immediatezza, proiettandoci in dimensioni sfuggenti, spesso trascurate, ad aprirci varchi in cui il vuoto si riempie di visioni cosmiche ma anche di visioni dell’anima in cui perderci e bearci (Così si dovrebbe morire / – pensavo: non di consunzione / o triste inedia, / ma nella pienezza irripetibile / della felicità). E naufragare in questo vuoto, mare inarrivabile / del mondo, è dolce, esattamente come nel mare leopardiano, perché solo questo vuoto ci può, almeno nel pensiero,  restituire, dopo tanto, amate / persone e oggetti che non ritroviamo / come i relitti del mare dopo anni: / riportare immagini del tempo / la vita che abbiamo attraversato in un tempo che non c’è più, perché quel tempo ha cessato di esistere e il silenzio a cui chiederemo risposte ci risponderà che le cose che non sono più stanno nel vuoto. Un vuoto che dobbiamo riempire con le nostre tracce, per dire: siamo stati vivi, siamo esistiti.

Emanuela Dalla Libera

“Azzurro esiguo”: intervista su «Il mamilio» (21 marzo 2021)

 

Azzurro esiguo cop-2

https://www.ilmamilio.it/c/comuni/36522-il-poeta-di-marino-marco-onofrio-spiega-la-sua-ultima-opera-azzurro-esiguo.html

Con il suo nuovo libro di poesie, “Azzurro esiguo”, Marco Onofrio giunge alla sua quattordicesima opera in versi e al trentaseiesimo libro complessivo: una produzione ormai vastissima per il neo-cinquantenne autore romano naturalizzato marinese (oltre 6000 pagine pubblicate grazie a cui, in quasi trent’anni di carriera letteraria, egli ha ottenuto numerosi e prestigiosi riconoscimenti, in Italia e all’estero). “Azzurro esiguo” esce con un editore tra i più importanti per la poesia, Passigli di Firenze. Il volume, di 112 pagine, racchiude 59 composizioni ed è stato avallato e prefato da Dante Maffìa, che lo definisce «libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori». Abbiamo raggiunto telefonicamente Onofrio a Marino per rivolgergli alcune domande.

Marco Onofrio, la pandemia non sta affatto rallentando il ritmo delle tue pubblicazioni…

In realtà ho qualche remora, perché questi nuovi libri sono destinati a patire delle mancate presentazioni e non tutto si potrà recuperare a fine pandemia, speriamo presto. Molti mi chiedono di presentarli sulle piattaforme on line, in videoconferenza, ma a me non convincono, la linea è spesso disturbata, le voci metalliche, è un continuo rincorrersi di “mi sentite?” e “non si sente bene”, e insomma la vera presentazione di un libro è, da sempre e per sempre, un evento che vive con la presenza fisica degli interlocutori: preferisco aspettare tempi migliori. D’altra parte la cultura non può e non deve fermarsi, dunque è indispensabile non farsi condizionare più di tanto dal doloroso incubo che stiamo vivendo, e anzi usare i libri come scialuppe di salvataggio cui affidarsi, ora più che mai, per resistere e sperare.

Come nasce “Azzurro esiguo”?

Il libro raccoglie materiali eterogenei, molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita. Questo mix di “ere geologiche” stratificate contribuisce forse all’equilibrio di toni che “Azzurro esiguo”, più delle opere in versi precedenti, sembra riuscire a realizzare.   

In che senso “equilibrio di toni”?

Il poeta è un equilibrista sospeso su un filo sottile tra “vita” e “cultura”: se si abbandona completamente alla vita, la poesia è ingenua e inefficace; se dà troppa udienza alla cultura, la poesia si spegne nell’intelletto e scade in “letteratura”. In entrambi i casi il poeta cade e fallisce il proprio obiettivo, che è appunto questo equilibrio difficilissimo da raggiungere.

Perché il titolo “Azzurro esiguo”?

È il titolo della poesia che conclude il libro. Dice fra l’altro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? // Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. // La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola». L’azzurro è “esiguo” perché infinitesima ma infinitamente significativa è la goccia della vita su scala cosmica, cioè il prodigio di questo pianeta rispetto al buio e gelido orrore del vuoto senza fine in cui rotoliamo, e l’apertura brevissima della nostra esperienza tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” anche perché nell’esistenza di ognuno i dolori sono in genere più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni fuggevole gioia c’è da pagare un prezzo salatissimo. Come l’estate: 9 mesi per prepararla, poi finalmente arriva e… dura un soffio.     

Quali sono i temi principali del libro?

C’è un macro-tema di fondo, ed è quello tipico di ogni mia scrittura letteraria: l’interrogazione continua, insistita e direi anche cocciuta sul mistero e il senso dell’essere, l’incredibile meccanismo di cui facciamo parte. Entro questa cornice di conoscenza (im)possibile vanno poi a collocarsi temi universali come il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo, ecc. E poi, naturalmente, motivi “classici” della mia poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni… Cose di sempre (da cui il valore di “summa” che l’opera assume rispetto alle precedenti), ma che qui brillano di un nuovo riflesso grazie appunto all’equilibrio di cui parlavo, tra la leggerezza dell’istinto e il peso del bagaglio acquisito nelle esperienze e negli studi quotidiani, probabilmente favorito dalla prima maturità dei 50 anni da me appena compiuti.       

Quanto c’è di personale?

Tutto, se si considera che ogni poesia di qualsiasi autore nasce da uno sguardo e che ogni sguardo – sia come “modo” di guardare alle cose, sia come “momento” diverso di questo guardare – è per definizione unico e inimitabile. L’importante è che le “impronte digitali” personalissime siano condivisibili, permettendo un riconoscimento universale di quanto visto e percepito. Tra le poesie di “Azzurro esiguo” mi piace ricordare quella scritta in morte di mio padre Aurelio, mancato lo scorso 4 giugno, che sta commuovendo profondamente tutti i lettori per l’intensità emotiva e, appunto, l’universalità delle corde sfiorate. È stato il mio modo di salutarlo e ringraziarlo per l’amore di una vita. Alla sua memoria è dedicato il libro.

D. C.

“Azzurro esiguo” letto da Fausta Genziana Le Piane

Azzurro esiguo cop-2

Riflettendo sul titolo dell’ultima raccolta poetica di Marco Onofrio (Azzurro esiguo, Passigli, 2021) e sulla dedica personale che trovo all’interno – per un azzurro tutt’altro che esiguo – resto perplessa: ma insomma questo azzurro è esiguo o no? Calma, procediamo per gradi. La parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).

Non è un caso che sia Mallarmé e sia Onofrio parlino di voce e di suono: Il suono, padre della terra / si incarna dentro un guscio / di splendore (…) (Il compito, p. 15)… Trionfo della creazione, dunque azzurro – lontano anche – che vince e supera la materia. Azzurro come dire Ideale, Bellezza, bellezza del mondo, bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo gettato qui sulla terra, dopo aver attraversato silenzio, spazio, tempo, è dilaniato tra la materia di cui è fatto e il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere, è combattuto tra la vita, che fa nascere e la morte che fredda nel mistero. Come dire le Città del Sogno / dove tutto è luce di pensiero (Il varco, p. 17). Tutto ciò scaturisce e prende forma dal tempo e dallo spazio e nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi, fatti di carne, di materia e di spirito, anime inquiete, intrise di mistero. Si resta colpiti dalla capacità dell’io del Poeta di sfaldarsi, allargarsi, perdersi dissolversi nello splendore dell’eternità, nell’universo, dilatato che inghiotte nella sua vastità:

Rinasco, ora, tra le braccia
del vento
che mi porta lontano
laggiù… laggiù…
sulle ali del tempo
dentro le vie dei colori
oltre l’orizzonte
in fondo al mare
ascolto la sinfonia dei giorni (…)

(So da sempre, p. 30)

Uscire dalla stanza.
Diventare luce dentro luce!
Sciogliersi nel sole
come una goccia
che cadendo in mare
mare diventa.

(Trascendenza, p. 33)

Risuona spessissimo la parola vuoto – una delle più presenti della silloge , vuoto incolmabile, vuoto che divora dove ci si spaventa senza che il turbamento diventi mai angoscia pura: è il centro ove tutto accade e si forma. È vuoto il silenzio, il silenzio / dei misteri?

L’universo è un grande buco
dentro il vuoto
pieno del nulla che ci ingoia…

(Ingranaggio nascosto, p. 20)

Anzi il vuoto non è indeterminato ma ha fattezze fisiche ben precise: Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di uomo, p. 80). Abisso, fondo, silenzio (più volte ripetuto), questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto. Fare il vuoto in se stessi, nel senso simbolico che danno a questa espressione poeti e mistici, è liberarsi del turbine delle immagini, dei desideri e delle emozioni; è scappare dalla ruota delle esistenze effimere, per provare solo la sete di assoluto. È, secondo Novalis, il cammino che va verso l’interno, la via della vera vita… “Il profumo dolce del silenzio / inchiavardato al vuoto” (Grato, p. 27). Il vuoto è vertigine che si attorciglia su se stesso in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore. Io interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del cerchio magico: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). C’è una corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo si specchia nel cuore,

Velati, gli occhi, e semichiusi
insensibili ormai a qualunque cenno
guardavano dentro
scorrere visioni trascendenti
come in un film
eccelso di indicibile grandezza
che qualcuno proiettasse dal cielo
dritto sullo schermo del suo cuore
proprio mentre stava per fermarsi.

(L’oasi, p. 38)

Anzitutto si specchia, anche il cielo nel mare: Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli) (Sale sacro, p. 62), il cielo nel pozzo, un occhiolino bianco che vacilla… Guardarsi dentro e trovarvi il firmamento, l’infinito… Sono tutto l’universo / l’infinito. L’Azzurro allora è esiguo rispetto alle aspettative umane, rispetto all’anelito, al desiderio di elevarsi ma, nell’essere inarrivabile, diventa vasto (azzurro senza fine):

Invólati ben lungi da questi miasmi impuri;
sali a purificarti nell’aere superiore,
e bevi come un puro e divino liquore,
Il fuoco trasparente di quegli spazi limpidi.
Alto sui tedi e sui pesanti affanni
che gravano quaggiù l’esistenza brumosa,
beato chi potrà con ala vigorosa
lanciarsi verso i campi luminosi e sereni:
quell’uomo i cui pensieri, lieti come le allodole
si involano al mattino verso il cielo – colui
che plana sulla vita. ascolta e sa comprendere
il linguaggio dei fiori, e delle cose mute!

(Chales Baudelaire, Les fleurs du mal, Mursia, traduzione di Mario Bonfantini, 1980, Élévation, p. 35).

L’Azzurro – il cielo – coincide con la trascendenza, con l’eterno, la divinità, il desiderio di assoluto, di bellezza superiore ed implica la ricerca di un’entità spirituale superiore, perché il Poeta vuole vedere l’esistenza con gli occhi /stessi della divinità (9 passi, p. 28):

Chi disegna il mondo intorno a noi?
Chi sospinge il vento che trascorre?
Chi prepara i segni del futuro
quando noi emergiamo e si fanno
vivi, nel silenzio, catturare?
Chi decide i corsi e i mutamenti? (…).

(Chi è, p. 22)

La grande Luce irradia amore nel silenzio: il silenzio è un preludio di apertura alla rivelazione, apre un passaggio. Secondo le tradizioni, ci fu un silenzio prima della creazione; ci sarà silenzio alla fine dei tempi. Il silenzio avvolge i grandi avvenimenti, dando alle cose grandezza e maestà. Il silenzio, dicono le regole monastiche, è una grande cerimonia. Dio arriva nell’anima che fa regnare in sé il silenzio. Lassù c’è un silenzio così pieno / che rende inutile parlare (Inutile parlare, p. 79). Al poeta è dato di sognare, di lasciarsi andare al sogno, senza opporvi fuga o resistenza (9 passi, p. 28) e di arrivare un giorno al centro inabitabile del cielo… Attenzione! Dobbiamo avere cura dell’Azzurro, in un attimo sparisce, in un attimo cade, precipita e poi non resta che sprofondare nella palude. Lassù, con l’Azzurro, ci sono le stelle, ci sono i baci:

(…) quella bocca dolce da baciare
che ora sto baciando,
non è un sogno!
Gusto tra le stelle il tuo sapore
di sorgente alpestre
e di marina fresca da annusare:
è un’acqua che non basta e non finisce
la gioia senza tempo che fa male
e spande una carezza in fondo al cuore
mentre ringrazio e benedico il mondo
per il miracolo che sei
viva tra le mie braccia
in questo spazio sacro,
e tutto attorno ciò che non sei te
l’impenetrabile ignoto
dell’insensato niente.

(Il bacio, p. 71)

Mi piace concludere con queste bellissime parole d’amore del Poeta, amore che coinvolge tutti i sensi (assaporare, gustare, annusare, ecc.). La donna idealizzata, Madonna degna dei più famosi Trovatori, è essere angelicato che rientra nella benedizione del mondo:

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente e d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Da qui la metafora della spazio sacro: è il luogo dove Madonna passeggia dispensando baci e gioia e frescura, qui si riuniscono gli amanti e il resto è l’insensato niente.

Fausta Genziana Le Piane

“Azzurro esiguo” letto da Maria Teresa Armentano

Azzurro esiguo cop-2

Lo stesso titolo del nuovo testo poetico di Marco Onofrio (Azzurro esiguo, Passigli, 2021, pp. 112, Euro 14, Prefazione di Dante Maffìa) pone al centro le contraddizioni che animano il cuore del poeta. L’azzurro non può essere esiguo; nel definirlo con questo aggettivo l’azzurro a cui pensiamo, quello del cielo e del mare, rievoca immagini di lontananza. E appare irraggiungibile, nebuloso e vago, e riporta alla dimensione interiore di una vastità che ha le sue radici nell’anima e che trabocca nei versi.

…La verità più vera / è il cuore buio / che incista in fondo all’incubo sublime /nel dolore del suo volto /ancipite: /da un lato la vita / che ci fa nascere; / dall’altro la morte che ci fredda /nel mistero. (“La verità più vera”)

…Miliardi di universi sfuggono / allo sguardo /e come polverume di foschie / si lasciano intuire / dentro il buio gelido / dell’inghiottitoio. (“Scritture incomprensibili”)

…L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia / dove entrano-escono le cose… (“Ingranaggio nascosto”).

Già in questi versi tratti dalle prime poesie del testo, Onofrio s’immerge nella dimensione dell’universalità in cui il buio e la morte non sono intesi come elementi di un pensiero negativo, bensì come l’altra faccia del nostro vivere, nella grandezza e sublimità di un mistero che la poesia tenta di decifrare, offrendo la possibilità di scorgere oltre l’umano. E nella poesia intitolata “Chi è” il poeta propone al lettore una sequela di domande che sa già essere senza risposta e che, proprio in questa mancanza, assumono senso. Nel libro intercala ai versi pagine di prosa poetica, quasi non trovasse che in prosa lo spiraglio necessario per esprimere l’arcano che avvicina al Mistero. Nella “Favola”, ad esempio, i tre tempi dell’umano sono scanditi come in una partitura: la rinuncia prima, poi il volo senza più barriere per raggiungere spazi infiniti e infine il mutare e il trasformarsi nel cuore di ogni cosa.  Scrive il poeta: «tutto è Amore, di sempre e di mai»: ecco, il segreto alfine assume un senso che è significato del mondo in sintonia con il proprio essere. In questo sogno il poeta ritrova sé stesso, percepisce l’universo che ora appare raggiungibile, perlomeno nella visione poetica. Percorrendo il cammino iniziato da Onofrio, il lettore avverte una leggerezza che si colora di speranza dove la primavera, rinascita del cuore, annuncia l’inizio di un nuovo disgelo, anche quello dei sentimenti: l’amore per la vita e la natura e l’invisibile pensiero sono un grido dolce, non più la voce stridula di chi emerge dal pozzo senza fondo ma di chi risalito guarda dall’orlo del burrone, ormai conscio delle infinite possibilità che la poesia apre al sé stesso sconosciuto e  celato nel profondo del cuore che ne svela i segreti.

Si avverte una grande umanità in questi versi e nei seguenti in cui il ricordo della figura paterna assume contorni tra il reale e l’immagine evanescente, sfumata, che riporta al buio profondo della perdita e della distanza non avvertite nell’evocazione poetica. I dubbi sul viaggio, dal luogo da cui nessuno ritorna, si moltiplicano insistenti e si concretano nell’unica Domanda finale: «Finisce poi davvero tutto quanto?»  E questa volta la risposta del poeta è senza esitazioni. Il luogo-non luogo, che fa di noi una goccia nel mare immenso dell’Universo, è dove fiorisce la radice dell’amore, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”, l’indecifrabile svelato che viene da lontano. E il miracolo è compiuto dal poeta mentre crea versi che suonano e risuonano come note di uno spartito ampliato dal riecheggiare di nuove sensazioni, visive e uditive insieme: dai sensi che percepiscono la bellezza del mare e del cielo alla luce delle stelle lontanissime che rivelano l’Assoluto. La verità –scrive il poeta – è nel cuore, piccolo e immenso perché è uno dei due estremi (l’altro è la luce delle stelle di cui percepiamo appena lo splendore) del filo invisibile che ci unisce all’Eterno. Sbalordisce questa capacità di Onofrio di infondere nelle parole, attraverso le metafore e le sonorità, la complessità di una natura di sogno, mitica, che allude al mistero di cui le cose e noi stessi siamo pervasi.

Guidami, Spirito, tienimi per mano / quando la notte illumina il cammino / mentre oscura, il sole / la verità segreta / delle cose / come se il mondo fosse / quello che vediamo / con gli occhi di carne, / e non soltanto l’ombra / la parvenza / del sogno che vorremmo / ricordare. (“Adorcismo”)

Il sogno che permea questi versi, nucleo di un segreto celato in ogni cosa, rende affascinante la scoperta rivissuta nell’immagine poetica della natura, come se ogni elemento trovasse posto in un’armonia irradiata da una infinita sorgente di luce. La perfetta felicità appartiene all’Eterno, la sete immensa di felicità del poeta non sarà mai placata. Non c’è in queste ultime poesie del testo, impropriamente conclusive se non graficamente, un prima e un dopo ma un filo sottile che è da ricercare esplorando la profondità dei versi,  ed è la meraviglia e lo stupore di fronte al Mistero della natura che il poeta riscopre nel sogno quando si scioglie nella ricchezza di un bacio, nella sofferenza del disagio e del dolore per ciò che muta senza ragione, nella discontinuità del sentimento che vivifica e nello stesso tempo sussurra che la vita è passata. Non resta che abbandonarsi alla natura che saprà darci l’ultimo abbraccio, quello che ci riporta al luogo a cui apparteniamo e che la Poesia rende eterno.

Nella complessità di questo libro, da lettrice, ho ritrovato nella sua interezza la bellezza di versi che non si dissolvono e non si perdono nel vuoto che si crea dentro e intorno a noi. E nonostante incomba il Gigantesco del vuoto, richiamato nel testo “Gigante di vuoto”, il poeta rasserena sé stesso, quando offre il proprio cuore alle Parole («Le Parole sono tracce di sogni perduti», da “Parole dalle cose”), e così ritrova l’azzurro esiguo dentro il suo universo, non più tutto nero, ma rischiarato dalla luce della Poesia.

Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. (“Azzurro esiguo”).

Maria Teresa Armentano

“Anatomia del vuoto” recensito da Antonella Rizzo sul blog “CulturaMente”

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Marco Onofrio è uno dei poeti italiani più prolifici: ha pubblicato oltre 6000 pagine di opere per un totale di 35 volumi ma Anatomia del vuoto, edito dalla casa editrice La vita felice, è sicuramente la sua opera omnia.
La poetica di Marco Onofrio appartiene alla sfera formale della scrittura inteso come facoltà in nuce, sillabazione primaria, ideale platonico. La sua collocazione al di fuori del recinto poetico pseudointellettuale di alcuni giovani autori o di vecchi scrittori di mestiere arroccati nei loro esercizi letterari lo rende un poeta iconico, indispensabile.
Non è opera facile calarsi negli abissi dei quali non si conosce la misurazione dello spazio né la percezione del sentimento quando risulta dominato dallo smarrimento, o dall’emozione di lasciare precipitare i moti interiori dell’anima nella fragilità dell’inconsistenza, del vuoto.
Sicuramente è di questo vuoto primordiale che si occupa la volontà caparbia di Marco Onofrio nel catturare le minime emozioni che scaturiscono dalla caduta libera, dalla liberazione dell’esperienza.
Il rapporto perfetto con il logos che fa parte della sua lunghissima peregrinazione nel mondo letterario gli fornisce gli strumenti adatti per compiere un’opera ardita: quella di lasciar cadere l’istinto nel baratro della libertà tenendone un capo a una corda, quella dell’Uomo senziente che della natura matrigna è signore indiscusso ma mai padrone per la sua disobbedienza al precetto primordiale.
Il vuoto che rappresenta nelle sue molteplici sembianze è l’utopia di Campanella, la Città del Sole ermetica e perfetta nelle sue gerarchie spirituali, il sogno platonico e sapienziale che ordina gli stati fisici e mentali degli esseri viventi. L’uso della parola è strategico e si svolge in un clima di naturalezza che palesa gli strumenti culturali dello scrittore solido, fabbricatore di speranza.
Anche un tocco di classicismo attraversa i versi di Marco Onofrio senza mai renderli desueti, ma preziosi: è quel comune denominatore sprigionato dalle opere senza tempo.

Antonella Rizzo