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26 maggio 2023: Marco Onofrio presenta “Racconti brevi in tempi complessi” all’Enoteca Letteraria di Roma

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“Amen”, di Chiara Mutti. Lettura critica

Leggendo “Amen”, il nuovo, suggestivo libro di Chiara Mutti, vien fatto di estrarre dalla robusta tessitura dei “racconti”, sospesi tra diario senza date, espresso in terza persona, e poema lirico di frammenti in prosa, dall’impatto poetico-musicale piuttosto che narrativo, una sorta di identikit della protagonista fittizia, Giulia, in cui l’autrice, decidendo per sé un ruolo apparentemente neutro di “io narrante”, sembra con ben altra evidenza sostanziale riconoscersi e riversarsi, in guisa di “alter ego”. Starà poi al lettore comprendere e decidere quanto di Giulia appartenga a Chiara, o viceversa. Quanto cioè Chiara Mutti abbia avuto bisogno di uno “schermo” esterno – come la visiera con cui l’operaio si protegge gli occhi dall’incandescenza della saldatura – per maneggiare e, appunto, saldare i frammenti di un passato traumatico che le brucia dentro, malgrado i decenni trascorsi.

Regge, la finzione di Giulia? È un personaggio credibile, dotato di vita autonoma? Oppure è una mera funzione narrativa, ricavata semplicemente trasformando l’io nella “terzietà” di una prospettiva equidistante, almeno in teoria, tra l’io e il tu, cioè tra lo sguardo interiore e quello esterno proveniente dal lettore? Secondo me la risposta è “sì” per entrambi i corni del quesito: vale sia come finzione realistica, o almeno verosimile, e sia come trasposizione strumentale di contenuti privati che, anche grazie all’espediente narrativo, si pongono e si porgono in senso universale. È un problema di “sospensione dell’incredulità”: sta al lettore credere in Giulia, o vederci Chiara in trasparenza. In un caso o nell’altro emerge il temperamento, forte e fragile al contempo, di una donna fieramente anticonformista, e intendo l’anticonformismo autentico, non quello esibito, per darsi un tono, dai conformisti. Un mix di autonomia, libertà, orgoglio, dignità, volontà di bastare a se stessa. Un retrogusto antico di femminismo anni ’70 dove però gli slogan programmatici e le frasi fatte si sono ormai stemperati nella dolce maturità dell’esperienza e, perché no, in una prima forma di “saggezza”. Una infanzia difficile ha costretto Giulia a farsi da madre e padre, ad essere figlia di se stessa, ma anche a farsi compagnia come “unica amica dei giochi”. Aveva ed ha tuttora una sensibilità diversa: suonava fin da piccola “un’altra musica”, sventolava “una bandiera tutta sua”. Ha uno spirto guerrier ch’entro le rugge: un’anima barricadera che la spinge alla ribellione fin dalle cose più semplici, plasmando la sua volontà di uscire dal “bozzolo rassicurante” delle abitudini, dalla narcosi del tran-tran quotidiano. Ma specialmente una integrità morale che la costringe a non piegarsi, a non arrendersi mai: è persuasa che “la pace non fa saldi” e non può esistere senza giustizia. I vecchi ideali di un mondo che nel frattempo sembra cambiato di secoli, e non in meglio, sono agganciati ai contrappesi di un “disincanto” che è nutrito anzitutto di sano realismo: il coraggio di non raccontarsi favole e non cedere alle facili illusioni – forse per troppe delusioni subite.

Per Giulia la realtà è un baratro immenso e vuoto, come il “buco in fondo all’anima” dove cerca sempre la sua voce; il dolore è buio che illumina, svelando inganni e ipocrisie; l’esistenza è un desolato magazzino di depositi (scorie ricordi traumi ferite squallori): “migliaia di immagini… Non tutte comprensibili, ma ognuna sembra racchiudere una importanza vitale” – così scrive Chiara. Il fatto è che l’artista, quando lo è davvero, è “abitato” da visioni inconsumabili che nelle opere cerca di circumnavigare, comprendere, esorcizzare: le insegue per tutta la vita. Sono i miti personali: le scene che continuano sempre ad accadere, per esempio dopo l’ultima lite col padre “la porta sbattuta così violentemente da continuare a sentirne le vibrazioni per tutto il resto dei suoi giorni”. Essere artisti è un crisma che unisce benedizione e dannazione; il rovescio della medaglia che il dono comporta è il disagio esistenziale, cioè la difficoltà di adattarsi al mondo, alla comune socialità, alla comunicazione banale e insincera che domina i rapporti umani. Ecco quel tipico stato di sospensione e impaccio: la sensazione costante di “aver rimandato qualcosa di molto importante” o di essere “sempre in ritardo di qualche minuto sulla vita”.

La parola per Giulia è il surrogato di “un’altra via di comunicazione” che segue “strade impervie e misteriose”, “percorsi siderali” entro cui “chissà dove si perde e chissà quando poi si ritrova”. Le è connaturale il mutismo, cioè il silenzio che, come il bianco i colori, contiene tutte le parole. È, per così dire, taciturna anche quando parla: preferisce parlare con gli occhi o completare le parole con gli sguardi. Di conseguenza, Chiara scrive di lei per sottrazione: ma questo, anziché attenuarla, amplifica la forza della parola così come, proprio quando si vuol far piano, i gradini di una scala di legno scricchiolano più del normale o del necessario… Il rapporto sofferto e combattuto che anche Chiara intrattiene con l’imprecisione riduttiva della parola trova un compromesso accettabile nella parola scritta, che (al pari della fotografia) “salva” le cose estraendole dal flusso del tempo, ed esime dall’obbligo della presenza perché continua a parlare anche quando chi ha scritto non c’è, o non c’è più. La scrittura viene onorata e praticata come rito ancestrale di sprofondamento nelle umane radici, attraverso una dinamica biunivoca dal particolare all’universale e viceversa. È una “terrazza aperta sulla notte e sui segreti del cielo” dove hanno modo di svelarsi e apparire, come i punti luminosi di una figura archetipa che riemerge dai canali aperti dell’immaginazione, i significati profondi e originari dell’esistenza. Da qui, la concentrazione tipicamente “poetica” di questa prosa, orchestrata sulle potenzialità di una scrittura tesa, tagliente e lucida come l’aria dell’inverno. Vale, per la Chiara Mutti prosatrice, il monito di Lalla Romano: stringere un libro intero nella pagina, la pagina in una frase, la frase dentro la parola.

Se intendiamo “poesia” anzitutto come “intensità” dello sguardo, dimensione dello spirito e stato della mente, “Amen” è un libro di poesia trafugato in pagine di prosa che dalla dissimulazione del focus traggono motivi di efficacia più sottile e, proprio per questo, ancora più incisiva. Anche per la sfuggevolezza del senso, che obbliga talvolta a tornare indietro per ripetere la lettura: ed è tutt’altro che un difetto, penso ai “Canti Orfici” di Dino Campana, a “Biografia a Ebe” di Mario Luzi, ai libri di Carmelo Bene… La dimensione poetica veicola naturalmente una tonalità melanconica, di inquietudine struggente e di atroce nostalgia (soprattutto di ciò che non è stato). Lo scrittore turco Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006, ha notato in un suo libro di preziose riflessioni sull’arte del racconto, dal titolo “La valigia di mio padre”, che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Sono ferite che non cicatrizzano mai completamente, e infatti il poeta è un essere scorticato, come ci ricorda Rainer Maria Rilke.

Analizziamo lo sguardo melanconico di Giulia: da un lato il miraggio fugace della felicità nell’“urgenza di volersi e di sentirsi eternamente vivi”; dall’altro il grido disperato delle cose inghiottite dal vuoto, la fine irredimibile che incombe e lo strazio sottile del pianto universale (sunt lacrimae rerum), per esempio il grido gioioso e grottesco che alla fine, espressionisticamente, coincide con quello stesso del cosmo, dal cielo “colmo di stelle”. A fronte della ineludibile realtà tragica, ecco il colophon da Montaigne, dedicato all’attrazione per gli inizi: «La nascita di tutte le cose è debole e tenera; e quindi dovremmo avere i nostri occhi dediti agli inizi». L’impatto di questa debole tenerezza si traduce e si declina in forza come slancio retroattivo e regressivo, ricerca dell’origine dei giorni: il tempo perduto da ritrovare e il mistero sconosciuto che palpita al centro del conosciuto “ordinario”, anche come improvvisa rivelazione. Ed ecco, subito, il secondo colophon, da Pasolini: «Quando si scrive senza pensare di rivelare un segreto, cioè sinceramente, ci si accorge di rivelare un segreto che non si sapeva di avere». La crisi è sempre opportunità di un nuovo inizio, a patto di esercitare la tanto decantata “resilienza” che però in “Amen” non è la parola oggi tanto di moda, ma la forza autentica di sormontare gli ostacoli (nella fattispecie di Giulia abbracciano ad arco filiere di traumi dovuti a disgregazione familiare, miseria, fame, collegio, esclusione, solitudine, e in una sola parola riassuntiva: disamore), cioè la prodigiosa capacità di estrarre armonia dal caos più nero e doloroso di una vita non proprio fortunata.

Grazie al processo alchemico attivato nel corpo della rigenerazione creativa e poetica che Chiara opera in nome e a favore di Giulia, la musica del pensiero e l’intensità del cuore articolano il centro unitario da cui irradiano le suggestioni del libro: la pulsione che muove e commuove la scrittura verso un indefinibile “oltre” umanamente alto, qualcosa di diverso e più profondo, da cui procede il riscatto “postumo” delle energie negative prodotte, anche dopo molto tempo, dagli eventi. Chiara riesce ad estrarre la radice del mondo nella vita di Giulia, e la radice della vita di Giulia in mezzo ai fili molteplici del mondo. Non è dato sapere quanto travaso personale immetta nell’opera di trasduzione, ma è certo che nell’osmosi consente a Giulia di vedere il fondo delle cose attraverso la loro dolorosa opacità. Un fondo che spesso si rivela doppio, tanto che parla esplicitamente di “dicotomia d’immagine” a cavallo tra onirico e reale. Ma che cos’è reale? La realtà stessa è forse sogno? O il sogno è realtà? Una delle rivelazioni offerte dal percorso è che le cose più “normali” sono, a ben vedere, quelle più oscure e misteriose: come nel racconto di atmosfera kafkiana dal titolo “Il faro”. Realismo e simbolismo sono in effetti le due cifre estetiche in cui vanno a collocarsi le due forze motrici del libro, una centripeta (la paura) l’altra centrifuga (il desiderio): la paura tende al realismo, il desiderio al simbolismo, ovviamente con tutto l’arco delle gradazioni intermedie e degli impasti reciproci. Il grande dono offerto alla fine del percorso è la catarsi, che consente uno stadio di possibile guarigione e liberazione dal dolore, secondo il principio che tutti i grandi medici furono dei grandi malati, e ogni malato, se guarisce, può guarire a sua volta gli altri. Amen significa allora fare i conti col passato: perdonare e soprattutto perdonarsi per buttare giù la diga che opponiamo allo scorrere eterno delle cose, e che in realtà “non è altro che la nostra paura di vivere”. E allora imparare anche ad arrendersi, accettare che la vita faccia il suo corso malgrado noi, i nostri limiti, i nostri sforzi disperati di resistere e sperare.

Voglio concludere queste note evidenziando una straordinaria e forse non casuale assonanza tra il racconto “Pietra” e il pasoliniano “Teorema” (1968), film e romanzo. Leggiamo dal racconto di “Amen”: “La figura di sua madre si stagliava nitida contro il sole, stava rigida, inginocchiata come in un antico rito di adorazione, statua pagana nel mezzo dei prati brulli di fine estate”. La madre di Giulia, Giulia stessa e suo fratello maggiore sono usciti a passeggio per i prati del Tiburtino, dietro gli squallidi palazzoni, all’altezza del civico 613. La madre dei due bambini è malata di mente, preda di fissazioni mistiche e manie di persecuzione. Si pensa subito all’Emilia di “Teorema”, nel film interpretata da Laura Betti. Leggo passim dal romanzo di Pasolini: «Emilia (…) si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole. (…) piena, fino agli occhi e alla radice dei capelli, della sua pazzia. (…) I due bambini (…) sono sul prato davanti alla casa (…). Infagottati nei loro vestiti da contadini a modo, già quasi simili ai borghesi, raccolgono le ortiche in silenzio, diligentemente. Solo la bambina, ogni tanto, si lamenta un po’ perché le ortiche la pungono. Il pentolino lo tiene in mano il maschio. (…) E intorno, quasi vertiginosi per quel loro verde, si stendono i prati (…). Emilia immobile (…) È davanti a lei che i due bambini si recano. A debita distanza, si fermano, e, coi gesti dell’abitudine (…) depongono il pentolino di coccio pieno di ortiche. (…) Emilia, assorta altrove, con gli occhi foschi che non guardano nulla, mangia a lente cucchiaiate il cibo verde della sua scandalosa penitenza».

Torniamo ora a “Pietra”. I due bambini si tengono un po’ distanti dalla madre “inginocchiata, le mani giunte, lo sguardo fisso verso il sole”, poiché temono che sopraggiunga qualcuno a cui dover dare spiegazioni. Così accade: “A un tratto spuntò come dal nulla un uomo magro, alto ed elegante, il soprabito scuro svolazzante nell’aria quasi autunnale”. L’uomo si ferma, ipnotizzato dalla visione, e poi chiede ai due bambini se conoscono quella donna. I due bambini rinnegano la madre: alto è il rischio d’essere affidati ai servizi sociali, e perciò divisi. “Dopo minuti che sembrarono interminabili l’ospite indesiderato andò via, con il suo agile passo lungo, tornando a voltarsi e a guardare di quando in quando; loro fecero finta di giocare, fino a che fu sparito all’orizzonte”. Ora, considerando che da quelle parti – all’altezza di Casal Bruciato, nei pressi degli stabilimenti cinematografici della De Paolis – era praticamente di casa, ho il fondato sospetto che l’uomo dall’“agile passo lungo” fosse nientemeno che Pier Paolo Pasolini, e che abbia guardato avidamente quella scena strana, tragica e a suo modo ieratica per appuntarla mentalmente e poi riversarla (mutatis mutandis, per esempio trasformando i prati del Tiburtino nelle campagne della pianura padana) all’interno del film “Teorema” e del conseguente romanzo, dando così vita al personaggio della mistica Emilia. È da escludere una suggestione al contrario, poiché Chiara Mutti quando scrisse “Pietra” non aveva ancora letto né visto “Teorema”, e d’altra parte ha narrato un episodio, a quanto pare, realmente accaduto. Sarebbe peraltro da verificare la coincidenza temporale tra l’episodio stesso e “Teorema”, sempre tenendo conto che il multiforme ingegno pasoliniano aveva tempi rapidissimi di metabolizzazione, sintesi eidetica e scrittura. Insomma, era davvero Pasolini? Non lo sapremo mai, però a me piace credere di sì, e che in cambio della scena, così misteriosamente carica di simboli e significati, egli abbia trasmesso in dono a Giulia, quel giorno lontano nella polvere assolata della periferia romana, lo stigma e la dannazione della poesia autentica; e che di conseguenza Chiara Mutti li abbia ereditati, per Giulia, per sé e per noi tutti.

Marco Onofrio

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“Azzurro esiguo”, letto da Gabriella Maggio

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Ho letto più volte “Azzurro esiguo” di Marco Onofrio, edito da Passigli nel 2021. È una poesia difficile, che richiede tempo e dedizione per coglierne l’incanto. Lo ha ben visto Dante Maffia nella sua bella prefazione: “La poesia di Marco Onofrio non è stata mai di facile lettura”. Le cose belle sono sempre difficili, secondo Platone. L’intensità dei sentimenti e delle emozioni, s’intreccia a vaste letture e dà alla ricerca poetica di Marco Onofrio il carattere della complessità, il senso di un’esperienza che investe la mente e il corpo in un percorso circolare che abbraccia anche la natura: stelle, nuvole, mare, santuari e luoghi di protezione del poeta, emblemi del suo stato d’animo. Le ricorrenti immagini marine mi hanno fatto ricordare alcuni versi di Mallarmé: “Noi navighiamo, o miei diversi /amici, io di già sulla poppa / voi sulla prora fastosa che fende / il flutto di lampi e d’inverni…” (“Brindisi”, da Poesie, trad. L. Frezza, Feltrinelli) che ben rispecchiano il modo tutto personale di Onofrio di assimilare la tradizione poetica da Dante a Luzi, i suoi diversi amici. Anche la poesia di “Azzurro esiguo” è un’avventura rischiosa tra lampi e inverni verso il mistero e il suo silenzio, affrontati con la determinazione di chi compie una “oltranza” per estrarre le parole dalle cose, la loro verità segreta oltre il visibile per giungere a afferrare l’ombra del sogno rivelatore prima che si dilegui, per serbarne dantescamente almeno il sentimento. Verso l’origine della verità… dove tutto è libero e infinito…t ornare alle emozioni primordiali… percepire il ritmo della terra, il mistero verde blu del mare, sono le parole con cui Marco Onofrio esprime il suo streben e la sua sensucht. Due termini forti eppure adeguati ad esprimere la sua concezione della vita e della poesia come sforzo incessante, tentativo continuo di superare il limite materiale e spirituale, unito ad un senso acuto dell’irraggiungibile meta: camminiamo sul bordo / di un davanzale piccolo e scosceso / da cui scivola tutto / prima o poi (“La verità più vera)”. Il poeta può intuire non decifrare i segni di scritture/ incomprensibili / lasciate non sai quando / né da chi.  Ineludibile è lo scacco: Ma io passo, attraverso le nuvole / col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso: non credo più alle favole… ho finito di essere un’allodola, quella che secondo Baudelaire plana sulla vita e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Lo scacco non intacca l’amore per la vita, che ne esce rafforzato dalla consapevolezza che è possibile la felicità, se si accetta il limite stesso della vita, apprezzandone le cose minime essenziali, perché troppo spesso siamo già felici / e non lo sappiamo. Non s’arresta però la ricerca dell’oltre, il desiderio di oltrepassare il limite per comprendere / la creazione infinita/ del mondo e la bellezza inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato. /…disfarne il nodo… Trascendere il visibile apparente. Questo è il compito dell’uomo-poeta espresso nella poesia che apre la raccolta, “Il compito”. In questo dramma interiore pieno di tensioni emerge lo scopo della poesia: La poesia ci consola… con l’invisibile pensiero / del mondo senza fine / dentro il cuore. / È la dolcezza amara / della profondità: / fa più lieve, luminosa e cara /la vita che dobbiamo sostenere (“Il balsamo sublime”). E la vita con i suoi errori si riscatta nell’amore per il padre, per la figlia, per la donna amata. L’ultima poesia del libro “Azzurro esiguo”, dà il titolo all’opera e riannoda le fila del viaggio interiore che Marco Onofrio ha affrontato ed espresso nei suoi versi, trattando i grandi temi della vita e della morte: come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero?… la nostra casa è lo sguardo /i l canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola. L’azzurro, il colore del cielo e del mare, anche se debole, esprime la tensione inesauribile verso la libertà e l’infinito nonostante la fatiscente basilica del mondo.

Gabriella Maggio

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“Voci sepolte”. Poesia inedita

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VOCI SEPOLTE

Invisibile palazzo della storia:
centomila piani di silenzio
a guardia del suo vuoto.

È immenso il peso dei secoli
sulle rovine mute
degli imperi.

Voci sepolte per sempre,
fatti che nessuno potrà
più recuperare.

Solo lei, l’infame giustiziera
non smette di parlare dentro il pozzo
che brucia ogni momento
la memoria.

Che cosa può mai la gloria
se tutto inesorabile divora
l’enormità del tempo?

Ognuno è solo al mondo
e vive un soffio.
Eterno è solamente
il dileguare. 

Marco Onofrio
(poesia inedita)

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“Castelli Notizie” celebra l’ingresso di Marco Onofrio nel Gruppo dei Romanisti, a cura di Anna Maria Gavotti

Lo scrittore  Marco Onofrio è stato accolto nell’antico e  glorioso sodalizio di studiosi di Roma, il Gruppo dei Romanisti, associazione di diritto privato che ha per scopo istituzionale “contribuire – fuori da ogni condizionamento politico – alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale e al divenire della città di Roma nel rispetto delle sue tradizioni e della sua funzione storica”. La cerimonia di presentazione ufficiale si è tenuta nel prestigioso Caffè Greco di Via Condotti.

«È un grande onore per me essere chiamato a far parte di un Gruppo così prestigioso. Ciò mi dà ulteriori motivazioni per  proseguire i miei studi di romanistica letteraria e offrire il mio contributo alla tutela della cultura e della bellezza che i Romanisti si propongono nei confronti della loro amata città». Questa la dichiarazione a caldo resa dallo scrittore Marco Onofrio alla nostra testata all’indomani dell’evento che si è svolto nella Saletta rossa del Caffè Greco di Via Condotti lo scorso 1° febbraio dove è stato accolto come nuovo socio del “Gruppo dei Romanisti” – antico glorioso sodalizio di studiosi di Roma – dal Presidente Donato Tamblè, già Sovrintendente archivistico del Lazio e dagli altri soci tra i quali il giornalista Marco Ravaglioli, Romano Bartoloni, gli studiosi Franco Onorati, Carla Benocci, Laura Biancini, Francesca Di Castro, Sandro Bari, Marcello Teodonio e molti altri docenti universitari, architetti, avvocati. Il sodalizio è nato da un’idea, tra gli altri, di Ceccarius, Jandolo, Trilussa e Petrolini, che si riunivano in un’osteria di Trastevere. Nel 1940 la prima grande iniziativa del “Gruppo dei Romanisti” fu la pubblicazione della Strenna dei Romanisti, annua­le antologia di scritti d’argomento romano, alla quale hanno collaborato e collaborano autori valo­rosi e competenti. Hanno fatto parte del Gruppo personaggi illustri, appartenenti a diverse categorie. Tra gli scrittori, poeti e critici letterari: Antonio Baldini, Vittorio Clemente, Mario Dell’Arco, Giuseppe Ceccarelli (Ceccarius), Luciano Folgore, Giovanni Mosca, Silvio Negro, Ugo Ojetti, Cesare Pascarella, Carlo Alberto Salustri (Trilussa), Orio Vergani, Giorgio Vigolo.

Marco Onofrio,  52 anni, è uno scrittore, saggista e critico letterario. Nel 1995 si è laureato in Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, discutendo una tesi di laurea sul poeta Dino Campana, che ha ricevuto il “Premio Eugenio Montale” nel 1996. Ha pubblicato 40 libri: tra poesia, narrativa e saggistica. Negli ultimi anni si è dedicato allo studio del rapporto di scrittori italiani e stranieri con la città di Roma e l’impatto del soggiorno o della visita a Roma nel loro lavoro. A tale proposito ha pubblicato i volumi: Ungaretti e Roma (2008), Giorgio Caproni e Roma (2015), Non possiamo non dirci romaniLa Città Eterna nello sguardo di chi l’ha vista, vissuta e scritta (2013), Roma vince sempre. Scrittori Personaggi Storie Atmosfere (2018), I Castelli Romani nella penna degli scrittori (2018). Ha conseguito finora 49 riconoscimenti letterari, tra cui il “Montale”, il “Simpatia”, il “Carver”, il “Farina”, il “Città di Sassari”, il “Città di Torino”, il “Pannunzio”, il “Quasimodo”, il “Tulliola-Renato Filippelli” e il “Viareggio Carnevale”. 

Marco Onofrio vive nei Castelli Romani dal marzo 1988 (a Grottaferrata) e dal 2006 a Marino con sua moglie Mariarita Pocino, giornalista e la loro figlia Valentina di 13 anni. Molto noto negli ambienti letterari della capitale si è fatto conoscere anche sul territorio animando numerose  iniziative di carattere culturale soprattutto nell’ottica di una promozione della lettura utilizzando delle performances originali e accattivanti.  A questo proposito è doveroso sottolineare la sua azione di stimolo all’interno del panorama culturale del territorio quale ideatore di due Premi Letterari: quello dedicato alla figura di Sandro Sciotti MOVM dell’Arma dei Carabinieri caduto nell’adempimento del proprio dovere –  in collaborazione con il Comune di Marino – e il Premio Nazionale Moby Dick giunto quest’anno alla seconda edizione in collaborazione con l’Associazione ACAB Bibliopop APS.

Allo scrittore Marco Onofrio vanno i complimenti della nostra redazione uniti agli auguri più sentiti per il proseguimento del suo lavoro intellettuale, molto apprezzato dalla comunità in cui vive all’interno dei Castelli Romani.

Anna Maria Gavotti

Marino, Marco Onofrio nel Gruppo dei Romanisti per la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale di Roma

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“Santa Maria delle Mole: i Sogni di un compleanno al Bibliopop – 11 febbraio 2023”. Cronaca della serata su Paconline.it, a cura di Maurizio Aversa

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Record di presenze al Bibliopop: oltre 50 partecipanti e sedie aggiunte per far accomodare tutti, ma qualche ritardatario ha dovuto assistere in piedi! Una serata memorabile di poesia, musica, rap: emozioni e riflessioni di alto profilo, viepiù nobilitate dallo scopo benefico che Marco Onofrio ha immaginato e realizzato per festeggiare il proprio compleanno con la performance de “La cenere dei Sogni”, già trionfalmente presentata alla Sala Lepanto di Palazzo Colonna, a Marino, il 4 agosto di due anni fa.

“La cenere dei Sogni” è un recital musicale tratto dall’opera di Onofrio che, tra i suoi 40 libri, ha riscosso finora il successo più evidente, ovvero il “poemetto di civile indignazione” dal titolo emblematico “Emporium”: emblematico nel senso di una denuncia vibrante e lucida del “profitto a tutti i costi” che ispira e informa quasi tutte le decisioni dell’economia contemporanea, anche in ambiti dove non dovrebbe avere neppure udienza. «L’indignazione» afferma Onofrio «nasce dal senso palpabile delle ingiustizie e delle sperequazioni che stanno consumando i margini del futuro, avvitando il pianeta in una crisi ecologica senza precedenti dovuta principalmente al fatto che il 10% della popolazione detiene e consuma il 90% della ricchezza totale. Il mondo-pattumiera (di macerie anche morali, oltre che di scorie fisiche) celebra il suo trionfo nella società tecnocratica che, senza parer di nulla, ci hanno edificato intorno da qualche decennio. Una società pensata e costruita appannaggio delle élites, gestita da un esercito di burocrati asserviti al potere dell’ingiustizia, subita dalla stragrande maggioranza dei popoli. Una società dove si viene valutati e gratificati per quello che si ha e si consuma, piuttosto che per quello che si è e si pensa. Infatti il potere non gradisce esseri autocoscienti e spiriti critici, ma automi ipnotizzati eterodiretti, dalle risposte automatiche agli stimoli indotti». Invece Onofrio vuole scuotere e svegliare le persone, spingendole al riscatto, alla ribellione. Detesta a tal punto le storture del mondo d’oggi da demolirle e analizzarle anche nel suo prossimo libro, di imminente pubblicazione, una raccolta di saggi storici, politici e sociali dal titolo, anch’esso emblematico, “Ricordi futuri”.

Per tornare alla bella serata dell’11 febbraio, la recitazione del poemetto, dopo le brevi introduzioni del presidente di Bibliopop, Sergio Santinelli, e della giornalista ed editrice Mariarita Pocino, scivolava fluida come un fiume incalzante di parole intercalate – con efficace contrappunto – dalle canzoni di Valerio Mattei, in arte Saman, coautore dell’omonimo CD “La cenere dei Sogni”, nonché da alcune musiche strumentali composte dallo stesso Onofrio e – per l’occasione – da quattro pezzi del rapper marinese Fra’ Sorrentino. I tre artisti si integravano magnificamente sulla scena, rappresentando in sintesi storica e culturale altrettante risposte generazionali (Onofrio è del ’71; Mattei del 1980; Fra’ Sorrentino addirittura del 2002!) allo stesso disagio condiviso, mentre sullo sfondo venivano proiettate dieci immagini in sequenza, a commento ulteriore dei diversi momenti dello spettacolo. Concluso il quale, dopo il lungo applauso dei presenti, la serata si è trasformata nella festa che già era, in effetti, però con toni più allegri e scanzonati. La festa di compleanno, appunto, di Marco Onofrio. Tolte le sedie e apparecchiati i tavoli, si è proceduto così alle degustazione del rinfresco offerto dal festeggiato, con pizza, porchetta, dolciumi e stuzzichini vari, fino all’apoteosi di una gustosissima matriciana, preparata da Santinelli, e della torta rituale, con l’immancabile “Tanti auguri a te” intonato da tutti. Valerio Mattei ha continuato a intrattenere i presenti, chitarra acustica e voce, suonando raffiche di canzoni dal repertorio americano, napoletano e romano. Insomma, un clima di gioia e amicizia sincera, all’insegna della fraternità nella cultura che è già tipica di Bibliopop.

Onofrio è stato particolarmente contento non solo per la riuscita dello spettacolo e i successivi festeggiamenti, ma anche perché – come da suo espresso desiderio – è riuscito a raccogliere una discreta sommetta per aiutare una famiglia del territorio in gravi difficoltà, e a tale scopo aveva esposto una scelta di titoli dalla sua produzione letteraria, che quasi tutti i presenti hanno acquistato con offerta libera. Grazie Marco, Bibliopop ti ammira, ti augura e si augura mille di queste serate!       

(a cura di Maurizio Aversa)

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Marco Onofrio eletto ed accolto nel Gruppo dei Romanisti. Mercoledì 1˚ febbraio 2023 la presentazione ufficiale nella Sala Rossa dell’Antico Caffè Greco (via dei Condotti, 86 – Roma)

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«Caro prof. Onofrio,
sono lieto della sua accettazione di far parte del nostro sodalizio.
La prossima Adunanza del Gruppo, che avrà luogo il 1° febbraio al Caffè Greco, sarà dedicata proprio alla presentazione dei nuovi Romanisti.
Allego la circolare ufficiale di convocazione e invio i più cordiali saluti,

Donato Tamblé
Presidente del Gruppo dei Romanisti»

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“Echi”, di Gabriella Maggio. Lettura critica

“Echi” (Il Convivio Editore, 2022, pp. 48, Euro 9), di Gabriella Maggio, è una silloge poetica che fa onore al titolo che porta. Risuona infatti di “echi” provenienti da fonti svariate di irradiazione semantica e simbolica: interiori, che riemergono dalle profondità psichiche più remote (anche quelle inconsce), ad esempio gli «echi di un tempo smemorato»; naturalistici, ad esempio i suoni registrati sulla spiaggia (il mormorio del vento, il «mare che compone versi» – cioè il suo fenomeno come personificazione/manifestazione del poièin creativo, quasi che il mondo stesso fosse “poeta” e il tempo la sua scrittura – elaborando metriche «al ritmo lento della risacca», ecc.); culturali, attraverso le stratificazioni che la poetessa palermitana, assimilando in quintessenza le smisurate letture e mettendo felicemente a frutto una solida formazione classica, come attestano gli efficaci versi in latino, incardina per così dire alla filigrana più sottile della pagina. La periclitante condizione umana dell’esserci percorre ogni momento il «limite dubbioso»: la voce intima di queste poesie viene così articolata da un bordo fragile, che poi è la «soglia dell’anima» oltre cui si apre la profondità dello sguardo. È lì che si lascia percepire, più intensa che mai, l’ansia della vita, il ben noto struggimento di amore e dolore che ci predispone all’attesa perenne e alla speranza. Una dicotomia simbolica fondamentale del libro è quella tra luce e tenebra: l’«arcobaleno di pace» che dischiude il dono dei nuovi orizzonti e, inevitabile contrappeso, le «gocce velenose» che brinano il cuore procurandoci ferite immedicabili. La verità racchiusa nei forzieri del mistero, con la sua «parete di pietra compatta», sta alle dinamiche quotidiane di inganno (e conseguente disinganno) come la poesia “altra” del sogno sta a quella, non del tutto priva di sortilegi, dispiegata nella prosa dell’ordinario, con le «piccole cose d’ogni giorno» e la dolcezza malinconica della loro “musica”. “Echi” sviluppa i propri tracciati poetici come “secretum” di abissale introspezione: libera dunque le sue emozioni senza compiacimento da un soliloquio dell’anima allo specchio, di sé e del mondo (talora senza paratie divisorie, come in uno scambio energetico di osmosi):

Vorrei ascoltarti

Vorrei ascoltarti attenta
dulce loquentem
nella bolla di un sogno
nel vuoto del tempo
Vorrei guidarti
dulce ridentem
nel miele dell’anima
nel brusio dei ricordi.

Naturalmente non si tratta di una dolcezza edulcorata, ma della triste gioia della malinconia che sgorga dalla vita al suo culmine tremante, liberando la musica delle cose perdute. Quindi un suono sullo sfondo delle parole, quali che siano, come un “basso continuo” che distende il telo oscuro su cui si disegnano costellazioni di riflessi e tracce scintillanti di comete. Gabriella Maggio estrae dal quotidiano la sua “epica”: la poesia è l’annuncio di un «tempo epico / di assoluta vertigine» che balugina tra le pieghe e gli anfratti del viaggio dove il “fraterno Ulisse” (cioè l’everyman di ogni tempo e luogo) affronta un percorso sempre «pieno di dubbi», oggi più che mai periglioso, senza stelle e bussole a conforto. Ma Ulisse, per abbandonarsi al destino di questo viaggio, deve portarsi «fuori dalla folla» e scegliere – ascoltando il monito di Robert Frost – la strada meno battuta. La recita sociale si basa su patti di ipocrisia condivisa: i poeti, quando autentici, patiscono lo stato delle cose e la mediocrità delle persone, e allora come i burattini dopo lo spettacolo «tremano incompresi» nell’«angolo più nascosto» dove «non visti piangono amaro con la testa china».

La scrittura nasce dall’ascolto profondo delle realtà fisiche e metafisiche (quelle che sono, o non sono più, o non sono ancora), raccolte nell’invaso della «voce calma» che riecheggia dal «vuoto del tempo». La musica del tempo che scorre, così presente e viva nel suono quieto ma robusto di queste poesie, diventa perciò tessitura di sogni, paure, speranze… eterna sostanza umana che trapela come «residuo smarrito della pienezza della vita». La scrittura è anche “magnificentia temporis” che celebra i nostri “trionfi” da reperti sepolti che emergono alla luce imponendo «la loro forza tenace / contro la strage del tempo». E i reperti possono essere ad esempio ricordi ancestrali (come le fiabe dell’infanzia, le storie familiari, il pranzo della domenica) che, con efficace ossimoro, «baluginano ombre» poiché la conoscenza non è soltanto lunga masticazione ma, talora, lampo di rivelazione dentro il buio più fitto e assoluto. La poesia si produce come antro divinatorio che trae presagi da «segni insondabili di possibili svolte». Le parole catturano indizi di una trama nascosta che il silenzio congiura di dissipare, come la sabbia che «ingoia l’onda silenziosa». Gabriella Maggio, pur tenendo ben salda la nostra realtà, fruga «macerie di sogni vissuti» mentre stringe «in gomitolo ricordi» rielaborando epoche e occasioni. Opera viva in lei la volontà di recuperare, di quei sogni tanto amati, i brandelli avviluppati intorno alle spine delle rose. La poesia è un medicamento, una cura dell’anima, una forma di auto-terapia. Le parole sono mani pietose che tentano di ricomporre i cocci dell’amore crepato dal tempo e di stendere ponti empatici sopra un mondo pieno di indifferenza, alla ricerca di uno sguardo su cui impigliarsi per costruire insieme speranza:

Di là dal muro

Di là dal muro spuntano già i fiori
nella primavera della speranza.

Ovunque è tristezza e gelo di solitudine, «occhi bassi» e «bocche serrate» di «passanti frettolosi». Ma la poesia sa incunearsi anche tra le maglie più strette della desolante realtà sociale per cogliere il dono di un «raggio di sole tra presagi di tempesta». Quindi il volto sporco delle cose, pur innegabile, non potrà mai cancellare la ricchezza impareggiabile della vita dove «chicchi di melograno risplendono» anche se è notte. È proprio questo il compito dei poeti: dire «pietose / parole d’amore» per «cercare sempre la luce», anzi – più semplicemente – portare alla luce l’«albero della vita» anche se «difficile è dispiegare oggi / il canto del cuore / più certa l’oscurità»:

Alma Poësis                    

Alma Poësis
nutrice di passioni e di sdegni
vai per sentieri senz’orma e silenzi
Respiro della vita stessa
magica iridescenza
arca per il prossimo diluvio
Oggi io sono ansiosa di dire pietose
parole d’amore
a chi si unisce nella scrittura
in quest’albero della vita
che noi poeti portiamo alla luce
I versi cercano sempre la luce
per l’agile slancio dell’equilibrista.
Obscura de re tam lucida pango carmina
mi sussurra una voce fioca e lontana

ma difficile è dispiegare oggi
il canto del cuore
più certa l’oscurità
Sul tavolo restano dolenti
e spesso muti
gli strumenti della scrittura.

Marco Onofrio

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“Azzurro esiguo” recensito da Anna Maria Curci su poetidelparco.it

Magia

Lo schianto dentro l’attimo che passa

regge in bilico, come un giocoliere

tutto il peso del silenzio che rimane.

Ecco l’incanto, l’anima allargata

da un’onda che fluisce nelle vene.

Magia di questo cerchio senza fine

che appunta il centro esatto su di me.

(p. 53)

L’anelito all’infinito, una sete perenne e inestinguibile, è formidabile motore della parola poetica. È dalla sete di infinito che si diramano le direttrici in Azzurro esiguo di Marco Onofrio.

Sono molteplici e dinamiche, queste direttrici, sono centripete (versi 6 e 7), ma con un centro che non si fa afferrare e, soprattutto, seguono traiettorie talvolta imprevedibili e attraversano territori anche molto diversi tra loro. Ciò che unisce è indubbiamente il tentativo persistente, tenace e resistente a rifiuti e a fallimenti, di bussare alle porte del mistero, di trovare il varco per l’oltre, per la luce, di risalire all’origine, all’archè.

Il segno unificante e caratterizzante è un colore, azzurro, come il colore della lontananza e dell’infinito nella più filosofica poesia romantica, quella che si pone a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.

Eppure questo azzurro è “esiguo”. Viene da pensare allora alla sensibilità del primo Novecento austriaco, al “mondo di ieri” che si riverbera nell’azzurro pallido della “scrittura femminile” di cui narra Franz Werfel (e invero anche in Azzurro esiguo, così come nel romanzo di Werfel Una scrittura femminile azzurro pallido, la coscienza della storia è ben presente); tuttavia, Marco Onofrio chiarisce sia l’ossimoro (figura retorica significativamente prevalente in questa raccolta) e il dilemma tra il desiderio d’infinito e l’impossibilità di raggiungerlo pienamente in questa esistenza nella poesia che dà il titolo al volume, concludendolo: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo/ dentro l’universo tutto nero?/ Siamo lampi che aprono il mondo/ tra due abissi di tenebra infinita» (p. 108). Non si limita a questo, Marco Onofrio, ma, con solido principio di realtà, egli mostra consapevolezza che, se l’azzurro percepito può essere solo un bagliore, un balenio, una lama di luce tanto repentina quanto fugace, urge tuttavia la domanda circa le vie e gli strumenti per dirlo, per esprimere tutto ciò, per affermare, come rivela la prima persona plurale in «siamo lampi di luce», un autentico, concreto umanesimo della contemporaneità.

Sapere che la ricerca e il tentativo di oltrepassare il varco sono elemento costante e movimento reiterato per chi vive nella parola poetica da una parte dà forma alla coscienza del legame stretto tra la sensazione di fallimento e la certezza circa l’inalterabilità e l’invincibilità del mistero («Miliardi di universi sfuggono/ allo sguardo», p. 21), dall’altra, per moto tenace e contrapposto, imprime slancio a ogni ‘assalto all’infinito’.

L’anelito alla luce, allo «splendore dell’eternità» spinge a «Trascendere il visibile apparente/ entrando nel dominio dell’eccelso:/ oltre le scorie inutili/ e le ramaglie delle sfilacciature» (Il varco, p. 17). La percezione del limite, di una barriera che appare invalicabile, si unisce alla nozione esatta che quel confine attende tutti, ciascuno nella sua individualità e nel proprio peculiare grado di consapevolezza. Nei confronti di alcuni tra coloro che hanno varcato quella soglia è più difficile «dirsi pronti» (p. 42, in Morte del padre), ma la distanza che dopo il passaggio appare incolmabile è innanzitutto impegno a proseguire il viaggio su questa terra con il respiro che si nutre del respiro dell’altro, poi anche pungolo perenne all’interrogazione.

Fin dai primi testi di Azzurro esiguo emerge uno dei motivi conduttori di questa raccolta, quello del passaggio alla dimensione altra, «che ci ruba per sempre/ alla materia» (p 17); indagare sulla sua natura è compito di un’intera vita.

Porsi interrogativi, schierare le proprie domande, intensificarle, affilarle: questo è ciò che spetta all’umano, che sa di non saper rispondere a tali quesiti, eppure, nel suo vivere la poesia, non smette di formularli: «Cos’è, cos’è, cos’è stato/ a generare tanta magnificenza?/ Nessuno può rispondere ma/ sciogliere quei lacci è/ vivere una vita;/ disfarne il nodo/ il compito finale.» (Il compito, pp. 15-16).

Anna Maria Curci

Con il lapis* #25: Marco Onofrio, Azzurro esiguo

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“Dentro il muro”, poesia inedita. In memoria di mia madre

DENTRO IL MURO

Liberarmi di tutto
anche di me
in te precipitato
fino al pensiero senza più parole
che scioglie il sentimento
il non evento
del fato universale:
dice non dice
e disammanta il velo
che ricopre chiaro
il suo mistero.

Ho soltanto perso
uno dei corpi che abbiamo,
quello toccabile di carne.
Era morituro.

Lo so, mi manca appunto
toccarti vederti
sentire la tua voce.
Sfondo porte aperte
dentro il muro
che t’incarna nella voce
delle cose,
luce del tempo
forma invisibile del vuoto
limpida visione
che dilegua
amnesia divina
strazio e compassione
ai vertici del senso
e del profondo.

M’impiglio con i piedi
sulle nuvole,
saltimbanco indegno
del silenzio.

Chiudo gli occhi e sento
lo Splendore
a cui ora appartieni.

Traccio ponti di fiori nel cielo,
li percorro fermo a testa in giù
e dormo beato
fra le tue coltri d’acqua
mentre abbracciati cantiamo insieme
madre dolcissima
i tramonti che non vedremo più.

Marco Onofrio






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Lettera aperta di Laura Sagliocco su “È caduto il cielo”

Ciao Marco, “È caduto il cielo” secondo me è tra le cose migliori che hai scritto. Splendide l’invenzione e la scenografia: semplici e magiche. È un testo fiabesco e al tempo stesso caustico fino a scarnificare, ma senza far soffrire: piuttosto fa sorridere e pensare, anche duramente, perché è un sogno che mette in scena la verità cruda dell’esistenza, raccontando i dilemmi del pensiero (la nostra evoluzione) senza emettere sentenze definitive, nell’impotenza di non essere di più e oltre ciò che siamo. Una prova di maturità da cui a mio avviso può partire un nuovo corso della tua già enorme produzione. Doni questa tua meraviglia con leggerezza apparente e gusto sincero del creare, che provoca poi la naturalezza dei nostri sorrisi. Straordinario questo dio piagnucoloso che resta appeso a un codice di comportamento scritto non si sa da chi, e poi la torcia che fa le luci stroboscopiche per la musica disco, e le illusioni incrociate, e la poesia – bellissima – recitata dall’angelo Grebel alla fine del terzo atto, e il concetto affascinante del “finizio”, e il corpo a corpo col mistero, e… potrei continuare a lungo. Hai messo in quest’opera tante parti diverse di te, forse senza rendertene conto, e le hai armonizzate in una misura perfetta, poiché nulla è velleitario o forzato, tutto viene da un atto creativo naturale… tutto è sempre di una schiettezza viva che quasi schiaffeggia, ed è così profondo in senso metaforico, surreale, disperatamente e anche tristemente umano! E malgrado questo non smette mai di essere un gioioso e riuscito testo drammaturgico, col suo meccanismo poetico, geniale e fin dei conti benefico poiché catartico. C’è la tua consueta voglia feroce di dissacrare e andare oltre il già detto e già vissuto (da uomini e artisti), il che non ti impedisce di assimilare la grande lezione del teatro classico, greco e latino. A parte l’antico, o forse proprio per l’antico rivissuto in chiave contemporanea, il grande Luigi Pirandello che citi nel colophon di apertura guarderebbe la rappresentazione con curiosità, divertimento, piacere e sofferenza… in poche parole, lo capirebbe in ogni dettaglio e, sono convinta, lo apprezzerebbe assai. Lui non può più farti i complimenti, quindi più modestamente te li faccio io: di questi tempi ci si deve accontentare…   

Laura Sagliocco

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Nota critica di Dante Maffìa su “È caduto il cielo”

Marco Onofrio non ha requie, è un vulcano in  costante eruzione, le sue inquietudini interiori accumulano esperienze, letture, immersioni totali nei germogli di ciò  che accade giorno dopo giorno e, una volta  amalgamati nella sua dimensione e nel suo stile, nella sua sensibilità e nel suo ideale di poesia, di narrativa, di saggistica e di teatro, egli riesce a scrivere opere io direi incandescenti, perché c’è sempre nelle pagine un fuoco che cerca ragioni etiche ed estetiche, storiche e poetiche, e non per sperimentare soltanto ma per coagulare la sua necessità espressiva che punta a dissodare le incrostazioni del risaputo e innestarvi la forza del suo ideale. È quello che fa, disinvoltamente con “È caduto il cielo” opera di teatro innovativa, per dirla con Giorgio Taffon, “metateatro, senso allegorico-simbolico, tragedia metafisica e cosmologica, assieme a umoristici tratti farseschi, personaggi immaginari (a partire da un Dio perdente) e personaggi molto umani”. Taffon fotografa la pienezza del libro e lo fa da maestro che interpreta con gli strumenti del sapere e dell’esperienza quella che è una novità nel teatro, non solo italiano. E sappiamo tutti che Taffon non scende mai a patti con opere che non siano di valore e non abbiano un consistenza individuabile letteraria e artistica.

È difficile sintetizzare “È caduto il cielo” (per rappresentarlo occorrono almeno quattro puntate), ma conta poco, ciò che conta è la maniera in cui il nostro Autore sa maneggiare gli strumenti del palcoscenico ponendo in essere il capovolgimento della realtà, lo spostamento dell’asse logico, la simmetria dei dialoghi. Marco Onofrio sconvolge e dissipa il senso, lo ricostruisce e lo rinnova e poi lo rende polpa viva di ragioni che stanno dietro l’apparenza, costituendo così figurazioni che, sovrapposte, si coprono e si scoprono e danno la verità di qualcosa che fugge in fretta e si dilegua per poi ritornare a vivere in altra veste e con altre vicissitudini.

Fare dei nomi di precedenti autori a cui idealmente Onofrio si possa ricollegare? Non serve e sarebbe un arbitrio, e per una ragione semplice: Onofrio ruba alla vita, ai paradossi che s’intrecciato e si bisticciano tra di loro e non trovano requie se non quando diventano parola, scena di vita, possibilità di un nuovo significante. Insomma, anche scrivendo teatro Marco Onofrio non tradisce la sua natura di prestigiatore che però non vende illusioni; di prestigiatore che sa dare alle immagini e ai pensieri un’adeguata sostanza di poesia, che è sempre l’anima viva e pulsante delle sue pagine più belle.

Dante Maffìa

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Note critiche di Sabino Caronia su “Specchio doppio”

 

Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.

I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.

C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».

Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.

Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.

Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.

È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.

C’è  il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.

Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.

Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non  a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.

Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?

                                                                                    Sabino Caronia

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“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Luca Benassi

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Dopo il primo tentativo sistematico di Antonio Iacopetta del 2009 (Il cerchio aperto. Studio su Dante Maffìa, edizioni Feeria), che però aveva rinunciato a una bibliografia e una bibliografia critica ragionata, nel 2014 la critica cercò di fare il punto sull’opera di Dante Maffìa. L’editore Aracne pubblicò la raccolta di saggi – di fatto gli atti del convegno tenutosi a Roseto Capo Spulico – Ti presento Maffia a cura di Rocco Paternostro. Si trattava di 530 pagine di saggi sulla figura e l’opera di Maffia, anche questa però senza bibliografia e bibliografia critica. Sempre nel 2014, Marco Onofrio spostava il punto di vista e si incaricava di analizzare Maffìa in prosa con Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo (Città del Sole edizioni, senza apparato critico e bibliografico). Nello stesso anno uscì La casa dei falconi per puntoacapo editrice, a cura dello scrivente. Si trattava di una snella antologia di 249 pagine che rendeva ragione di un lungo periodo di scrittura in versi dall’esordio del 1974 al 2014, corredata da 36 pagine di bibliografia, antologia critica e un saggio introduttivo ricognitivo della poetica dello scrittore a firma del curatore.

Mancavano alcune vaste aree ancora da esplorare (il critico letterario, il saggista, l’autore teatrale, il critico d’arte), ma tutto sommato si pensò che la “questione Maffìa” fosse almeno per il momento sistemata. Non era affatto così. Mentre i critici si affannavano a scrivere, sistematizzare, fissare e chiudere, il poeta lavorava febbrile, inquieto, feroce, magmatico, sotterraneo e scoperto a un tempo. A maggio 2013 usciva un poema di 628 pagine, IO. Poema totale della dissolvenza (Edilazio editore). Nello stesso 2014 veniva dato alle stampe un altro poderoso volume di versi Il poeta e la farfalla (edizioni Lepisma) che apriva stagioni e percorsi totalmente inediti. I critici stavano correggendo le bozze dei loro saggi e Maffìa scappava loro fra le mani con migliaia di nuovi versi, con squarci e abissi nuovi e giganteschi come continenti.

A distanza di 7 anni da quel 2014, Marco Onofrio riprova a fare il punto rivolgendo il suo impegno critico sul versante della poesia con L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa (Città del Sole edizioni). Che Dante Maffìa sfugga alla critica e a chi in un modo o nell’altro cerca di dargli un vestito, una posizione e un ruolo, Marco Onofrio lo sa bene e lo evidenzia già nelle prime cinque pagine del volume dove racconta di un poeta che manda al diavolo, rifiuta onorificenze, sbatte la porta ma allo stesso tempo spalanca portoni al cuore, all’amore, all’amicizia, senza mai farsi chiudere o ingabbiare e, soprattutto, senza piegarsi a logiche di consorteria e cricche editoriali. Onofrio è consapevole che fare critica su un poeta vivente – e che scrive a getto quasi continuo – comporti l’impossibilità di mettere tasselli definitivi. Il punto però non è questo: è la poesia di Dante Maffìa a sfuggire, a essere rutilante, magmatica, a sfidare il pensiero, la conoscenza, l’amore, il divino. Anche di questo Marco Onofrio è consapevole; scrive sapendo di mettersi per mare con ottimi strumenti critici, ma sapendo di non sapere la vastità del pelago nel quale si muove. Del resto, per comprendere come Maffìa sfugga a una declinazione unica e definitiva, basta leggere le definizioni del poeta calabrese rinvenibili nella prima parte del libro, la Sintesi analitica che occupa le prime 74 pagine: Dante Maffìa è un grande poeta; il poeta lo è per lo sguardo avuto dalla natura; il fare del poeta è quello stesso del suo essere; Maffìa non bleffa; Maffìa non è uomo incline al compromesso né alle mezze misure; Maffìa non sa bussare né chiedere; Maffìa va dritto al bersaglio; Maffìa non edulcora; Maffìa chiede al sole di aprirsi e dettare; Maffìa ha chiaramente ricevuto o forse ereditato un dono spirituale che lo obbliga a innescare la cerimonia magica della scrittura; non c’è luogo o anfratto dove Maffìa non abbia avuto curiosità o ardire di incunearsi; Maffìa sa raccogliere un canto dal deserto di ogni terra desolata; Maffìa non lascia cadere il filo d’Arianna della comunicazione; Maffìa cerca l’origine; Maffia è il maggiore poeta vivente; Maffia parte sempre dalle cose comuni; Maffia sa bene come controllare il fuoco; il poeta è, citando Quasimodo, un umile “operaio di sogni” che lavora “nella marginalità dello spazio”.

Da questa lunga elencazione il lettore potrà cogliere due aspetti dell’analisi di Onofrio. Il primo è il seguente. Il critico romano inizia la sua analisi con l’affermazione Dante Maffìa è un grande poeta. Si tratta di una proposizione di principio che può essere colta più come un assioma che come una tesi, con la conseguenza che le pagine che seguono non hanno lo scopo di dimostrare l’affermazione, ma semplicemente illustrarne le conseguenze in termini strettamente poetici. Del resto basta aprire una qualsiasi delle pagine del saggio introduttivo per accorgersi – e questo è uno dei pregi del libro – come le analisi e le riflessioni di Onofrio siano sempre legate ai testi che, attraverso una costante citazione, portano a creare una rete di connessioni, indispensabile per entrare nell’opera di Maffìa. La citazione, tuttavia, non ha un intento dimostrativo, essa piuttosto si inserisce in maniera intertestuale nel tessuto del saggio al punto che in una lettura ad alta voce l’ascoltatore farebbe fatica a separare i versi del poeta dalla prosa del critico.

Il secondo aspetto che il lettore può trarre dall’elenco di definizioni del poeta Dante Maffìa è l’intenzionalità di Onofrio di puntare alla molteplicità e non a un’analisi che voglia definire e chiudere. L’obiettivo ampiamente raggiunto è quello di guidare il lettore innamorato nella ricerca del cuore del poeta Maffìa. L’officina del mondo non è quindi un punto di arrivo, ma semmai un luogo dal quale partire con la speranza di perdersi e ritrovarsi nei versi del poeta. È una mappa, un prontuario da tenere con sé che ricorda le migliori pagine di quella biografia-saggio-romanzo che è l’Evaristo Carriego di Jorge Luis Borges.

L’officina del mondo è distinta in tre parti. La prima è la Sintesi analitica della quale si è già accennato. Si tratta di un’analisi che va al nocciolo della visione del mondo e della scrittura di Dante Maffìa, cioè della sua altezza nel senso medievale della parola latina altus, usata per indicare la sommità del cielo quanto la profondità dell’abisso. Onofrio riesca a cogliere la capacità della poesia del nostro di trovare il sublime nel firmamento e nell’esile filo d’erba, nell’opera più alta e nella latrina piena di mosche; la capacità di entrare nelle cose e nell’amore senza infingimenti, con quell’onestà di fondo che Maffìa trova nel suo poeta novecentesco più amato: Umberto Saba. Il critico romano prende con punto irradiante per la sua analisi il poema totale del 2013; da lì esplora tutto Maffìa, trovando agganci soprattutto nella poesia posteriore al poema, Il poeta e la farfalla del 2014 e i 7 libri dedicati a Matera, fino a quel libro, feroce, terribile e titanico che è il suicidio lo stupro e altre notizie del 2020. Effettivamente, nei pochi mesi della fine del 2013 e l’inizio del 2014 che coincidono con la pubblicazione del poema totale e Il poeta e la farfalla, Maffìa rivela sé stesso e il suo mondo in maniera sorprendente, apre spiragli nuovi, feritoie di luce e di nuova poesia che introducono la grande stagione materana che impronta gli ultimi testi. Tale fecondità ricorda un altro anno forse ancora più strabiliante: il 2011 quando il poeta pubblicò 5 libri di capitale importanza: Poesie Torinesi, La strada sconnessa, Abitare la cecità, Poesie ritrovate, Sbarco clandestino.

Nella sua analisi Onofrio sceglie di non occuparsi della produzione in lingua calabrese composta dai libri A vite i tutte i jùrne (1987), U Ddìje poverìlle (1990), I rùspe cannarùte (1995), Papaciòmme (2000), che fu accolta con grandissimo favore dalla critica e che ebbe l’avallo illustre di uno studioso della poetica dialettale italiana quale fu Giacinto Spagnoletti. La scelta è da ricondursi alla volontà di non cadere nella trappola di chiudere Dante Maffìa nella dicotomia poeta dialettale (e quindi regionale) – poeta tout court. È una valutazione corretta, anche se finisce per non considerare come Dante Maffìa affidi al dialetto la riflessione filosofica più alta e dolente, profondamente esistenziale, mentre quando deve affrontare i temi dell’emigrazione e cantare la sua Calabria, a partire dall’eredità infranta del 1981, preferisca affidarsi all’italiano. Basterebbe questa annotazione per fugare qualsiasi dubbio circa la presunta “regionalità” di Maffìa, il quale peraltro non ha alcun timore nel rivendicare un’origine mediterranea, misterica e antichissima.

La seconda parte di Officina del mondo è costituita dalle Letture e approfondimenti nella quale Onofrio si dedica alle singole opere poetiche del poeta. Il critico rinuncia a entrare in ogni libro o a compiere una sintesi tematica (peraltro accennata a pagina 46 e dintorni della Sintesi analitica). Sceglie invece 20 libri che ritiene più significativi e compila le relative schede, poste in ordine cronologico di pubblicazione, per guidare il lettore nei libri del poeta. Si tratta di recensioni che hanno l’approfondimento di veri e propri saggi che rendono ulteriormente conto della capacità di analisi e di sintesi di Onofrio, che anche nel rigore recensorio non dà mai nulla per scontato, ma aggancia ogni affermazione ai versi del poeta, attraverso una fitta rete di citazioni.

La terza ed ultima parte è l’Antologia. Si tratta forse dell’operazione più sfidante del critico romano. Si può solo immaginare la fatica di sintetizzare Dante Maffìa e i suoi 47 anni di continua e fecondissima produzione poetica in 57 pagine. L’operazione è riuscita e l’antologia riesce a fornire un quadro significativo, soprattutto in un’ottica di lettura sistematica del libro (la Sintesi analitica e schede).

Il libro non finisce qui, lo completano gli Apparati bio-bibliografici a cura di Francesco Perri che comprendono, oltre alla bibliografia, anche un’antologia dell’epistolario che include fra gli altri nomi quali Jorge Luis Borges, Jorge Amado, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Josif Brodskij che hanno scritto e conversato con Maffìa. Segue un’antologia essenziale di saggi, articoli, recensioni e prefazioni a firma, fra gli altri, di nomi come Aldo Palazzeschi, Mario Luzi, Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Franco Loi.

L’officina del mondo è quindi un libro completo senza avere la pretesa della completezza; è ricco sapendo di essere povero, vuole essere definitivo sapendo di non poterlo essere. Si offre con la stessa generosità e uguale indispensabilità a chi non ha mai letto Dante Maffìa e a chi di Dante Maffia si occupato estensivamente. Testimonia anche l’abilità di un critico come Marco Onofrio, il quale senza rinunciare al rigore è capace di costruire un grande affresco a tratti lirico, a volte narrativo. Del resto Onofrio ha avuto modo di confidare come questo libro sia prima di tutto un atto di amore verso un grandissimo poeta. Un amore che non si può non condividere.

Luca Benassi

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3 novembre 2022: Marco Onofrio parla di “Mediterraneo” su Slash Radio Web

Per la rassegna “Conversazioni d’arte” e il ciclo “Mediterraneo. Culture, scambi e immaginari condivisi”, promossi dal MIC in collaborazione con l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Marco Onofrio sarà ospite della puntata del 3 novembre 2022, dalle ore 16.40 alle ore 17.30, sul tema a più voci: “Creare nel Mediterraneo: arte, musica e letteratura”.

Per seguire la diretta:  http://www.uiciechi.it/radio/radio.asp

Per seguire la diretta su Facebook: https://www.facebook.com/SlashRadioWeb

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“Specchio doppio”, letto da Letizia Leone

Oggi nella quasi totale omologazione, sia stilistica che formale, della sterminata produzione letteraria e d’intrattenimento, spicca il poco spazio riservato al genere del racconto da parte dell’editoria italiana. Eppure il racconto, anzi quella che un volta veniva appellata la novellistica, vanta una prestigiosa e consolidata tradizione nella letteratura italiana attestata già alla fine del duecento con Il Novellino. Il genere della prosa breve non rientra nelle politiche merceologiche dell’industria editoriale. Le motivazioni non sono culturali, bensì economiche, di profitto. Il libro, quale prodotto di consumo, deve rispondere a determinati requisiti di vendita tra i quali la semplificazione, l’intrattenimento e l’appartenenza a modelli destinati a fette di mercato predeterminate. Sebbene poi il racconto, così come la poesia, da questa posizione di marginalità e autonomia tragga linfa per la ricerca espressiva. Lo stesso Giulio Ferroni afferma che il racconto ormai sembra «farsi carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica». Salutiamo dunque con favore libri come questo di Marco Onofrio, racconti brevi ma densamente significanti, parodistici e rappresentativi di una società “borderline”, dove “Le persone normali” (per citare un titolo di Aldo Busi) sotto la superficie della consuetudine rivelano un estremismo esistenziale tutto contemporaneo.

Il titolo e la citazione ad incipit di Giordano Bruno annunciano, nell’immagine prettamente barocca dello specchio, una ontologia dell’essere e dell’apparire, un forte richiamo a certe questioni classiche della doppia identità vita/arte, finzione/autenticità. Questioni già metabolizzate in una modernità pervasa ormai dal virtuale, dal bombardamento mediatico e che va smussando i confini del reale e del riflesso, del contingente e dell’illusionismo prospettico. Tempi di post-verità, ipoverità, fake-news, di illusione di massa dove i fatti indietreggiano rispetto ai pregiudizi o alle emozioni. Il reale e la finzione si mescolano. Istanze sottese a questi racconti. Se lo specchio riflette l’immagine reale e, in una distorsione diabolica un doppio specchio riflette un’immagine di secondo grado, magari con un certo impercettibile livello di deformazione, allora viene spezzato il rapporto biunivoco tra osservatore e osservato. Il doppio specchio di Onofrio, con la doppia rifrazione include osservatore e osservato in una visione straniante e obliqua che potrebbe essere anche una via di fuga dal semplice rispecchiamento. Ma anche il Vuoto e il Nulla sono fili rossi che innervano questi racconti con le variazioni socio-antropologiche dell’inettitudine, dell’inazione, del fallimento. Allora l’intuizione che ci raggiunge dal titolo è un’immagine di riflessione del vuoto che avviene tra due specchi posti l’uno di fronte all’altro, dunque auto-riflettentesi. Scrive R. Barthes: «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso». «Il vuoto del vuoto. Così vuoto da rimpiangere il nulla», scrive Onofrio in un atipico racconto dell’orrore, La vecchia Zerbe. Oppure in Caos: «È il vuoto, sotto e intorno a me. Tutto gira, tutto sfila. Sto cadendo. Precipito ed urlo, ma non sento nulla…»

Il libro è strutturato in dieci coppie di racconti centrati su dieci parole-chiave (La Letteratura, La Carne, La Borghesia, la Morte, Il Caos, Il Sentimento, Il Football, La Politica, L’Italia, Roma) quasi un paradigma di variabili esistenziali dove la vita stessa è incasellata nei suoi aspetti macroscopici. La scrittura di Onofrio si muove con strategie stilistiche che rifiutano la rappresentazione lineare, mimetica. Lo straniamento ne è la cifra stilistica. Quasi tutti i racconti prendono avvio da situazioni di routine quotidiana, viaggi in treno, appuntamenti di studio, esami universitari di dottorato, Onofrio stesso lo dichiara in più punti: momenti di vite qualsiasi. Ad esempio nel racconto Le mutandine: «Una vita qualsiasi, Attilio lo sa, eppure non riesce a lamentarsi anche nella normalità puoi trovare, se vuoi, dello straordinario…». Attilio infatti si è specializzato nelle fantasticherie, come altri protagonisti del libro, tanto che nella “continuità dell’argomentazione logica”, per dirla filosoficamente, irrompe facilmente il surreale o il fantastico, l’assurdo o lo straordinario. Si tratta di rêveries, sogni ad occhi aperti, allucinazioni, esperienze surreali vissute come eventi normali. Fantasmi pubblici e privati. La narrazione di Onofrio ci suggerisce che il “Reale” è precario, incoerente, fluttuante e fluido, aperto alle irruzioni di altre dimensioni magari psichiche o inconsce che si mescolano ai fatti del giorno o della notte. Il principio di realtà ha perso il suo fondamento e l’Io ne esce indebolito e disorientato.

Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte scrive: «Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione, è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia ci sono soltanto dei simulacri.» Non a caso Onofrio parte dalla letteratura con un primo racconto eponimo smaccatamente pirandelliano, Specchio doppio, e lo colloca dentro un mosaico di temi, metafore e allusioni. Autore, lettore, in un gioco di continua interscambiabilità. Nel guardarsi allo specchio (il narcisismo, questa malattia tutta contemporanea!) ci si confonde infine, si entra in un loop, in un gioco di ripetizioni e di scatole cinesi, non si sa più chi è l’autore e il lettore, l’artista e il fruitore, L’Io e l’Altro. In fondo la coscienza e l’identità sono solo un punto di vista, un punto di osservazione prospettico che potrebbe cambiare da un momento all’altro. E l’equilibrio è solo un’illusione. Basta poco, un’impressione, una percezione, un nonnulla…Allucinazioni fantasmagoriche o illusioni ottiche sono ormai piani interscambiabili. L’assurdo e l’inverosimile vengono normalizzati.

La bravura di Onofrio è anche nella sorpresa. La sua narrazione parte da posizioni quasi didascaliche, ad esempio in Roma, dove le descrizioni di un monumento iconico quale il Colosseo vengono dispiegate in memorie storiche e aneddotiche fino ad un’inattesa virata nel grottesco e nell’umoristico con il racconto rocambolesco di un amplesso fantasmatico, finché nell’epilogo lo scrittore ti aggredisce poeticamente alle spalle con un finale che commuove a tradimento chi legge. Così come nel racconto Il grande sogno dedicato alla squadra del cuore, la Lazio, dove  entrano ed escono fantasmi e si può saltare da una parte all’altra della linea temporale con la facilità di una situazione onirica. La memoria è un fatto quotidiano come gli altri, e prendendo un autobus il protagonista può andare a cercarsi nel proprio quartiere a quarant’anni di distanza, magari arrivare dietro la porta di casa e ascoltare la propria voce infantile. Altro tema ricorrente quello del sesso, vissuto in una distorsione straniante, con femmine fameliche e maliarde, con l’immagine grottesca a tratti caricaturale del sesso femminile che ricorda certo espressionismo e deformazioni gaddiane. Non mancano gli affondi nella deiezione: «Indi calarsi le braghe, lentamente o meno – di questo ci si prega. Indi ancora, senza alcuna verecondia, liberamente dare inizio al cago: che ne spurghi le budella, dal gravame dell’attuffo che l’intrippa, e rilasci il ponderoso pegno di ventresca, che più utile riesca alla salute…». Con il cerimoniale scenografico della defecazione nel racconto Festa a tema avviene il ribaltamento grottesco del rito sociale della festa e del perbenismo borghese. Lo scarto fisiologico viene normalizzato a momento conviviale, parodia del trash mediatico in cui siamo immersi. Oppure la ricorsività di umoristiche  descrizioni delle performance sessuali sotto metafora calcistica.  

E se spesso il soggetto subisce una «perdita di realtà», in una conversione umoristica arriva più volte la sberla liberatoria. Come una catastrofe, il rivolgimento giunge alla fine dell’azione e la conclude: «…stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e…PEM…gli assesto un manrovescio coi fiocchi, da farlo rivoltare.» (Il “Dannunziano”) Se il nichilismo ha depredato la realtà di ogni valore facendoci precipitare verso una incognita,  la vita ha assunto una parvenza farsesca. E questa scrittura stride di critica sociale e si dipana sempre un gradino sopra la logica tranquillizzante e la ragionevolezza. Ha detto bene Paolo Di Paolo nella quarta di copertina: «Marco Onofrio poeta nutrito dalla tradizione». Ma non si tratta di epigonismo, bensì di appropriazione per assimilazione cosciente di una tradizione letteraria nell’originalità e individualità propria dello stile dello scrittore Onofrio al quale aderiscono le parole di Ernst Robert Curtius: «Per la letteratura, tutto il passato è presente… Il presente atemporale, caratteristica specifica della letteratura significa che la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente».

Dunque racconti densi di stratificazioni letterarie, fantasmi pirandelliani, disarmonie espressionistiche gaddiane, trappole kafkiane, ironie alla Flaiano. Perché in fondo ognuno di questi racconti potrebbe anche rivelarsi un omaggio ai grandi testimoni della più alta tradizione letteraria, da Pirandello a Pasolini, da Flaiano a Kafka, da Calvino al Dürrenmatt.

Letizia Leone

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15 ottobre 2022: “Emporium” a Siviglia. Alcune foto dell’evento

Con il rapper Fra’ Sorrentino all’entrata de “La Carbonerìa”
Con Bernardo Santos e Marina Sciarretta
Parte del numeroso pubblico presente
Marco Onofrio risponde a una domanda
Le attrici interpretano la lettura drammatizzata di un brano

Marco Onofrio legge un brano da “Emporium”
Fra’ Sorrentino canta una sua canzone
Marco Onofrio firma dediche e autografi
Brindisi conviviale dopo la Presentazione
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“Magistra iniquitatis”, poesia inedita. Con traduzione in spagnolo di Bernardo Santos

Europa

MAGISTRA INIQUITATIS

Oh, splendore occidentale della Storia!
Dov’è finito il tuo Sonderweg
glorioso e necessario?
Ipocrita megera dagli occhi allucinati
tendi le mani agli altri continenti
per mostrare come pulirle,
ma gliele sporchi di sangue
e neanche te ne accorgi!
Dall’aurora di Atene alla notte di Auschwitz.
Com’è stato possibile? Chi lo sa spiegare?
Hai insegnato al mondo l’arte del profitto
l’interesse ragionato, l’impatto razionale:
racchiudi tutto il bene e tutto il male.
Forse non è oro ciò che in te riluce
e le Eumenidi non sono mai esistite.
Per chi suona l’Inno alla gioia?
Beethoven lo ha composto per le banche?
I grugniti crassi dei magnati
coprono i lamenti dei popoli
e i pianti quotidiani della gente
che non sa più come mettere insieme
il pranzo con la cena.
Il patto federato degli abbienti
procura la rovina degli iloti.
L’Unione, tanto decantata
è un chiaro fallimento
un grande bluff
giocato alla moneta ingannatrice
nel casinò-tarocco della truffa
dove solo vince chi indossa
abiti adeguati all’occasione
e non è un “terrone”
del Mediterraneo.
Il cimitero azzurro, in alto mare
inghiotte tanti urli disperati:
scendono nel buio degli abissi
con gli occhi spalancati.
Sognavano le tette velenose
della grande madre benestante
e invece hanno bevuto acqua salata
fino alle meningi
riempiendosi i polmoni in un istante
mentre gli altri, insigni carolingi
brindano a champagne
il plusvalore netto delle imprese
e fanno i paladini dell’amore.
Adesso dico tutto, mi costringi!
L’Unione ci ha diviso sempre più.
Il blu della bandiera
è un cielo chiuso
un succedaneo opaco
dell’Idea.
I gangster sorridenti in doppiopetto
hanno imposto leggi disumane
nel trionfo della burocrazia,
delle complicazioni.
L’impero finanziario dei massoni
ha preso tristamente il predominio.
Il sistema psicopatico ossessivo
che tu stessa un tempo hai concepito
mangia le risorse del pianeta
devastando preziosissimi equilibri
e non dà futuro a garanzia.
I politici, servi dei mercati
obbediscono ai dettami sottobanco,
burattini sistemati in parlamento
a far finta di decidere per tutti.
Fermate questo scempio, per favore!
Ah, la civilissima barbarie
dei salotti, i luoghi d’elezione
dove si amministra la violenza
parlando di giustizia e umanità!
Il progresso democratico è fasullo
come le parole usate da secoli
per venderlo, e poi fare l’esatto contrario.
Soprattutto per tua colpa, tua colpa
tua grandissima colpa, Europa
la Storia è un disco rotto:
suona sempre la stessa canzone,
il silenzio della nostra impotenza
in attesa della rivoluzione.

Marco Onofrio

MAGISTRA INIQUITATIS

¡Oh, esplendor occidental de la Historia!
¿Dònde acabò tu Sonderweg
glorioso y necesario?
Bruja hipócrita de ojos alucinados
le das la mano a los otros continentes
para mostrar cómo limpiarìas,
pero se las manchas de sangre
iy ni siquiera te das cuenta!
De la aurora de Atenas a la noche de Auschwitz.
¿Cómo fue posible? ¿Quién puede explicarlo?
Enseñaste al mundo el arte del lucro
el interés razonado, el impacto racional:
encierras todo lo bueno y todo lo malo.
Tal vez no sea oro lo que brilla en ti
y las Euménides nunca existieron.
¿Para quién suena el Himno a la Alegrìa?
¿Lo compuso Beethoven para los bancos?
El gruñido vulgar de los magnates
tapa el lamento de los pueblos
y el llanto cotidiano de la gente
que no sabe ya como juntar
el almuerzo con la cena.
El pacto federado de los ricos
garantiza la ruina en los ilotas.
La Unìon, tan elogiada,
es un claro fracaso,
un gran bluff
jugado a la moneda engañosa
en el casino-tarot de la estafa
donde solo gana el que lleva
ropa adecuada a la ocasión
y no es un sureño
del Mediterraneo.
El cementerio azul, en alta mar
engulle demasiados gritos afligidos:
descienden a la oscuridad del abismo
con ojos desorbitados.
Soñaban con las tetas venenosas
de la gran madre opulenta
y en su lugar han bebido agua salada
hasta las meninges
en un istante llenando sus pulmones
mientras los otros, ilustres carolingios
brindan con champaña
la plusvalía neta en las empresas
y se venden como campeones del amor.
Ahora lo digo todo, ¡me obligas!
La Unión nos ha dividido cada vez más.
El azul de la bandera
es un cielo cerrado
un sucedáneo opaco
de la Idea.
Con su traje cruzado, los gánsters sonrientes
han impuesto leyes inhumanas
en el triunfo de la burocracia,
de las complicaciones.
El imperio financiero de los masones
tristemente se ha hecho prevalente.
El sistema psicopático obsesivo
que tú misma hubiste un tiempo concebido
se come los recursos del planeta
devastando equilibrios valiosísimos
y no da el futuro en garantía.
Los políticos siervos del mercado
obedecen los dictados bajo cuerda,
marionetas en el parlamento colocadas
para simular que todos decidimos.
¡Parad este desastre, por favor!
Ah, la civilizadísima barbarie
de los salones, lugares de elección
¡donde se administra la violencia
hablando de humanidad y de justicia!
Es falso el progreso democrático
como las palabras usadas desde siglos
para venderlo y luego hacer exactamente lo contrario.
Sobre todo, por tu culpa, tu culpa
tu grandísima culpa, Europa,
la Historia es un disco rayado:
suena siempre la misma canción,
el silencio de nuestra impotencia
en espera de la revoluciòn.

(traduzione di Bernardo Santos)

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Roma, 7 ottobre 2022: Marco Onofrio alla Reale Accademia di Spagna, per l’evento LA VIOLENZA: reading poetico sul tema “Europa e violenza”

Venerdì 7 ottobre 2022, ore 19, alla Sala RAER della Reale Accademia di Spagna (Piazza di San Pietro in Montorio, 3 – Roma), Marco Onofrio sarà tra gli autori invitati per un reading di poesia civile sul tema “Europa e violenza”. Avrà così modo di leggere, fra l’altro, la poesia inedita – di riflessione sulla storia europea e sul ruolo dell’occidente nella storia del mondo – dal titolo “Magistra iniquitatis”. L’evento è parte del progetto LA VIOLENZA, ideato da Isaias Griñolo e Bernardo Santos.

NON SIAMO MATTI encuentro poetas espanÞol
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“Dolce di sale”, di Antonella Caggiano. Lettura critica

DolceDiSale1000x

“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.

Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.

Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.

Sii il profumo che vuoi intorno.

Tieni la testa
al sole
come i girasoli
che l’abbassano
solo per seminare il terreno
di nuova vita.

È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.

Il Mare
qui
ora…

E ancora:

se dovessi pensare alla
Bellezza
vedrei l’istante esatto in cui
i petali si schiudono
nella promessa dell’alba.

La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:

Aprila!
scorgi il cielo che ti soffia parole
di cura.

I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:

Vorrei essere
piuma
in un cielo fermo
d’estate
e
piroette e volteggi
disegnati
nel sole
posarmi a terra.

Nient’altro.

Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.

Arriva al centro
delle cose
del mondo,
quelle per cui si è ciò che si dona.

Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia?  “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.

Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:

Attenzione a come mi guardi
potrei andare in frantumi.
Parla sottovoce ché l’anima
ha pelle di acqua
scivola
senza ricordo.

(…)

Siamo soffio
non chiedere il peso
la misura.
La spuma divina
ci accende.
Un volo
di fiori d’angelo
ci disperde.

(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:

Come posso
dire cose?  

È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.

 Marco Onofrio

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26 settembre 2022: Cerimonia di Premiazione del Premio Letterario “Moby Dick-Danko”, ideato e presieduto da Marco Onofrio. Alcune foto della serata

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L’intervento di Sergio Santinelli, Presidente di Acab – Bibliopop
Il saluto istituzionale di Stefano Cecchi
L’intervento di Marco Onofrio
Le letture dei testi premiati, a cura di Sabina Barzilai
La premiazione di Chiara Mutti, vincitrice assoluta della Categoria A – Poesia
La Sala Consiliare gremita, a Palazzo Colonna (Marino, RM)
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“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone

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Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.

Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.

(Dante Maffìa)

Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.

L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.

La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.

Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».

Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi   suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa. 

Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita.  Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.

Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».

Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.

Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».

Letizia Leone