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“Con altra voce”, di Sabino Caronia. Lettura critica

La silloge “Con altra voce” (Edizioni Nemapress, 2019), di Sabino Caronia, raccoglie 30 poesie che paiono scritte con la bocca amara, le labbra deformate nella smorfia di un gusto aspro che tenta di nascondersi sotto il velo brillante dell’ironia ma che in altri momenti, al colmo del malincuore, può lasciarsi andare apertamente nel sarcasmo. L’opera si dipana tra “diario di assenze”, giocate tra non più e non ancora, e “naufragio di amori” mai consumati, soltanto sognati, finiti sul nascere o al primo apparire della loro potenzialità. Dalla “ferita del possibile” qui si passa alla “ferita nell’esistere”, giacché l’esistere stesso è e produce una ferita che langue in silenzio e «tutt’a un tratto» può risanguinare. Caronia guarda da spettatore passivo al destino che muove da dentro l’evoluzione delle cose, governandone e determinandone gli incontri, gli scontri, le separazioni, fino alla chimerica «forma segreta» della loro essenza. Ad esempio il vento che «corre all’appuntamento con le foglie», o le nubi che passano in cielo «messaggere di lutto», oppure la cometa che fugge «chissà dove / da chissà quale terribile dove / e silenziosa nella notte» va «sempre obbediente ai calcoli del cuore». La voce “altra” della poesia scaturisce dalle crepe sul muro compatto dei sogni, fratturato dalle esperienze, dalle delusioni, dai dolori. Da cui, conseguente, la constatazione del nulla in cui siamo immersi e a cui siamo destinati, a dispetto del nostro inutile sforzo, e quindi anche l’incomunicabilità, «la coscienza d’essere vivi in un mondo di morti» e, talvolta, la vergogna «d’essere un uomo».

Cosa resta di noi, di queste nostre
vite senza memoria, cosa resta
di questa solitudine infinita?
Soli, come Franz Kafka, dentro un treno
che corre per deserti alti di neve.

La vita è come un viaggio in un mattino
freddo, nebbioso, triste, senza luce
che ci conforti e ci riscaldi il cuore.  

Infatti il cuore è freddo, ed è freddo perché troppo ha compreso, facendo di persone, cose e situazioni «specchio di me vivo e profondo» fino alla vertigine dell’inesistente. L’intelligenza (intus legere) è in certi casi una condanna, si vorrebbe avere meno consapevolezza – o almeno un senso meno vivo e straziante – di ciò che accade dentro e intorno a dove siamo.

Questo è morire, sai: guardare dentro.

L’esistenza è il dolore sconsolato di capire che «dietro quella finestra c’è la notte» e che siamo tanto fragili: «Domani il vento ci porterà via». A questo freddo, che in ultima ipotesi può anche essere eterno («quando i vermi un freddo pasto / faranno alfine del mio corpo»), Caronia oppone il potere consolatorio offerto – soprattutto nella prospettiva malinconica del post factum – da lacerti episodici di vita, attimi irripetibili, rare luminose epifanie, attraverso la mediazione salvifica della Donna: le sue mani sulle mani innamorate, il «calore delle dolci labbra» che scalda ancora le sue, gli occhi grandi «dove amore fa nido», gli «occhi di cielo» dove ritrova la «fuggiasca fecondità», i pensieri dove vorrebbe vivere, la «promessa di futuro / che ritorna da un tempo ormai lontano / e il cuore scalda e l’anima innamora», ecc. L’amore che nutre i frutti della vita e la poesia che li raccoglie possono opporre un argine di salvezza al baratro eterno in cui tutto prima o dopo è destinato a dissolversi. Lo scrittore è come colui che «accende fiori di solarità» posandoli in offerta votiva «sul nero del dolore», e Caronia ricorda il girasole che Plinio Perilli portò in dono al funerale del caro Elio Fiore. Si tratta insomma di poesie pervase da un disperato bisogno di felicità, in attesa di un appuntamento «dove non c’è miseria né dolore» (come quello sospirato da Don Fabrizio Salina quasi alla fine del Gattopardo, “un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza”), qualcosa che dunque ci liberi dal gioco trito e tristo dei giorni in cui siamo impelagati. L’opzione di un’altra voce (che è, infine, la poesia stessa) apre universi alternativi, scenari che si affacciano su dimensioni diverse da quelle ordinarie, per limpidezza, lucidità ed intensità percettive, benché ad esse parallele e in qualche modo adese, forse concentriche. Un esempio di questa realtà poeticamente rinnovata e “salva” è nella bella composizione “Sotto diverso cielo”:

SOTTO DIVERSO CIELO

Il vivissimo fuoco
dei tuoi verdi occhi chiari
come lama sottile
mi ha frugato nel cuore,
sotto diversa luce,
sotto diverso cielo,
su prati di smeraldo,
dentro una pioggia d’oro.

Il mondo visto con gli occhi di un trapassato, che finalmente ha visto svelata “sotto diversa luce” la verità del mistero, implica la salvezza ultima della fede religiosa, del credere in ciò che non si è visto e del sapere con tutta l’anima che «Cristo è Cristo», ossia che fedele e saldo come Lui al mondo non c’è e non ci sarà mai nessun altro. Cristo infatti è «infinita speranza che non muore» ed è Lui lo scoglio sicuro che può offrirci l’«appiglio» dove resistere al naufragio ininterrotto delle cose. La ricerca del divino che è in noi non deve languire nell’abitudine dei fatti scontati, ma essere pungolata dalla sete viva dell’assoluto, ed è ciò che si afferma nella prima composizione – quasi un segnavia, una stella cometa deposta a splendere proprio all’incipit del cammino – che peraltro ritengo la migliore, anzi la più memorabile delle trenta:

COME L’ACQUA

Poiché l’acqua è insegnata dalla sete
non ci resta che prendere la sete,
per maestra, per guida d’assoluto,
nei cammini dell’anima inquieta.

Marco Onofrio

“Echi”, di Gabriella Maggio. Lettura critica

“Echi” (Il Convivio Editore, 2022, pp. 48, Euro 9), di Gabriella Maggio, è una silloge poetica che fa onore al titolo che porta. Risuona infatti di “echi” provenienti da fonti svariate di irradiazione semantica e simbolica: interiori, che riemergono dalle profondità psichiche più remote (anche quelle inconsce), ad esempio gli «echi di un tempo smemorato»; naturalistici, ad esempio i suoni registrati sulla spiaggia (il mormorio del vento, il «mare che compone versi» – cioè il suo fenomeno come personificazione/manifestazione del poièin creativo, quasi che il mondo stesso fosse “poeta” e il tempo la sua scrittura – elaborando metriche «al ritmo lento della risacca», ecc.); culturali, attraverso le stratificazioni che la poetessa palermitana, assimilando in quintessenza le smisurate letture e mettendo felicemente a frutto una solida formazione classica, come attestano gli efficaci versi in latino, incardina per così dire alla filigrana più sottile della pagina. La periclitante condizione umana dell’esserci percorre ogni momento il «limite dubbioso»: la voce intima di queste poesie viene così articolata da un bordo fragile, che poi è la «soglia dell’anima» oltre cui si apre la profondità dello sguardo. È lì che si lascia percepire, più intensa che mai, l’ansia della vita, il ben noto struggimento di amore e dolore che ci predispone all’attesa perenne e alla speranza. Una dicotomia simbolica fondamentale del libro è quella tra luce e tenebra: l’«arcobaleno di pace» che dischiude il dono dei nuovi orizzonti e, inevitabile contrappeso, le «gocce velenose» che brinano il cuore procurandoci ferite immedicabili. La verità racchiusa nei forzieri del mistero, con la sua «parete di pietra compatta», sta alle dinamiche quotidiane di inganno (e conseguente disinganno) come la poesia “altra” del sogno sta a quella, non del tutto priva di sortilegi, dispiegata nella prosa dell’ordinario, con le «piccole cose d’ogni giorno» e la dolcezza malinconica della loro “musica”. “Echi” sviluppa i propri tracciati poetici come “secretum” di abissale introspezione: libera dunque le sue emozioni senza compiacimento da un soliloquio dell’anima allo specchio, di sé e del mondo (talora senza paratie divisorie, come in uno scambio energetico di osmosi):

Vorrei ascoltarti

Vorrei ascoltarti attenta
dulce loquentem
nella bolla di un sogno
nel vuoto del tempo
Vorrei guidarti
dulce ridentem
nel miele dell’anima
nel brusio dei ricordi.

Naturalmente non si tratta di una dolcezza edulcorata, ma della triste gioia della malinconia che sgorga dalla vita al suo culmine tremante, liberando la musica delle cose perdute. Quindi un suono sullo sfondo delle parole, quali che siano, come un “basso continuo” che distende il telo oscuro su cui si disegnano costellazioni di riflessi e tracce scintillanti di comete. Gabriella Maggio estrae dal quotidiano la sua “epica”: la poesia è l’annuncio di un «tempo epico / di assoluta vertigine» che balugina tra le pieghe e gli anfratti del viaggio dove il “fraterno Ulisse” (cioè l’everyman di ogni tempo e luogo) affronta un percorso sempre «pieno di dubbi», oggi più che mai periglioso, senza stelle e bussole a conforto. Ma Ulisse, per abbandonarsi al destino di questo viaggio, deve portarsi «fuori dalla folla» e scegliere – ascoltando il monito di Robert Frost – la strada meno battuta. La recita sociale si basa su patti di ipocrisia condivisa: i poeti, quando autentici, patiscono lo stato delle cose e la mediocrità delle persone, e allora come i burattini dopo lo spettacolo «tremano incompresi» nell’«angolo più nascosto» dove «non visti piangono amaro con la testa china».

La scrittura nasce dall’ascolto profondo delle realtà fisiche e metafisiche (quelle che sono, o non sono più, o non sono ancora), raccolte nell’invaso della «voce calma» che riecheggia dal «vuoto del tempo». La musica del tempo che scorre, così presente e viva nel suono quieto ma robusto di queste poesie, diventa perciò tessitura di sogni, paure, speranze… eterna sostanza umana che trapela come «residuo smarrito della pienezza della vita». La scrittura è anche “magnificentia temporis” che celebra i nostri “trionfi” da reperti sepolti che emergono alla luce imponendo «la loro forza tenace / contro la strage del tempo». E i reperti possono essere ad esempio ricordi ancestrali (come le fiabe dell’infanzia, le storie familiari, il pranzo della domenica) che, con efficace ossimoro, «baluginano ombre» poiché la conoscenza non è soltanto lunga masticazione ma, talora, lampo di rivelazione dentro il buio più fitto e assoluto. La poesia si produce come antro divinatorio che trae presagi da «segni insondabili di possibili svolte». Le parole catturano indizi di una trama nascosta che il silenzio congiura di dissipare, come la sabbia che «ingoia l’onda silenziosa». Gabriella Maggio, pur tenendo ben salda la nostra realtà, fruga «macerie di sogni vissuti» mentre stringe «in gomitolo ricordi» rielaborando epoche e occasioni. Opera viva in lei la volontà di recuperare, di quei sogni tanto amati, i brandelli avviluppati intorno alle spine delle rose. La poesia è un medicamento, una cura dell’anima, una forma di auto-terapia. Le parole sono mani pietose che tentano di ricomporre i cocci dell’amore crepato dal tempo e di stendere ponti empatici sopra un mondo pieno di indifferenza, alla ricerca di uno sguardo su cui impigliarsi per costruire insieme speranza:

Di là dal muro

Di là dal muro spuntano già i fiori
nella primavera della speranza.

Ovunque è tristezza e gelo di solitudine, «occhi bassi» e «bocche serrate» di «passanti frettolosi». Ma la poesia sa incunearsi anche tra le maglie più strette della desolante realtà sociale per cogliere il dono di un «raggio di sole tra presagi di tempesta». Quindi il volto sporco delle cose, pur innegabile, non potrà mai cancellare la ricchezza impareggiabile della vita dove «chicchi di melograno risplendono» anche se è notte. È proprio questo il compito dei poeti: dire «pietose / parole d’amore» per «cercare sempre la luce», anzi – più semplicemente – portare alla luce l’«albero della vita» anche se «difficile è dispiegare oggi / il canto del cuore / più certa l’oscurità»:

Alma Poësis                    

Alma Poësis
nutrice di passioni e di sdegni
vai per sentieri senz’orma e silenzi
Respiro della vita stessa
magica iridescenza
arca per il prossimo diluvio
Oggi io sono ansiosa di dire pietose
parole d’amore
a chi si unisce nella scrittura
in quest’albero della vita
che noi poeti portiamo alla luce
I versi cercano sempre la luce
per l’agile slancio dell’equilibrista.
Obscura de re tam lucida pango carmina
mi sussurra una voce fioca e lontana

ma difficile è dispiegare oggi
il canto del cuore
più certa l’oscurità
Sul tavolo restano dolenti
e spesso muti
gli strumenti della scrittura.

Marco Onofrio

“Dolce di sale”, di Antonella Caggiano. Lettura critica

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“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.

Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.

Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.

Sii il profumo che vuoi intorno.

Tieni la testa
al sole
come i girasoli
che l’abbassano
solo per seminare il terreno
di nuova vita.

È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.

Il Mare
qui
ora…

E ancora:

se dovessi pensare alla
Bellezza
vedrei l’istante esatto in cui
i petali si schiudono
nella promessa dell’alba.

La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:

Aprila!
scorgi il cielo che ti soffia parole
di cura.

I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:

Vorrei essere
piuma
in un cielo fermo
d’estate
e
piroette e volteggi
disegnati
nel sole
posarmi a terra.

Nient’altro.

Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.

Arriva al centro
delle cose
del mondo,
quelle per cui si è ciò che si dona.

Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia?  “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.

Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:

Attenzione a come mi guardi
potrei andare in frantumi.
Parla sottovoce ché l’anima
ha pelle di acqua
scivola
senza ricordo.

(…)

Siamo soffio
non chiedere il peso
la misura.
La spuma divina
ci accende.
Un volo
di fiori d’angelo
ci disperde.

(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:

Come posso
dire cose?  

È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.

 Marco Onofrio

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone

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Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.

Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.

(Dante Maffìa)

Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.

L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.

La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.

Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».

Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi   suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa. 

Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita.  Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.

Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».

Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.

Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».

Letizia Leone

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Carmine Chiodo

Va anzitutto ricordato che Marco Onofrio, saggista, scrittore e critico letterario di notevole spessore, ha dedicato a Dante Maffìa, oltre al libro che ora mi appresto ad esaminare, un altro che analizza a perfezione la narrativa maffiana (“Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”, Reggio Calabria, 2014); va pure ricordato, sempre di Marco Onofrio (a cura di), “L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” (libro-intervista, con ricco Album fotografico a colori), Roma, 2018. Orbene il nuovo volume – come ci dice chiaramente il titolo (“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa, Reggio Calabria, 2021) – analizza chiaramente e dettagliatamente la scrittura poetica di Maffìa, a partire dalle primissime raccolte fino alle più recenti. Anche questo nuovo lavoro monografico è molto limpido, chiaro, illuminante dei procedimenti poetici del poeta calabrese, che giustamente viene considerato il più grande poeta italiano del secondo Novecento. Sul poeta, sullo scrittore Maffìa esiste una sconfinata bibliografia, e della sua poesia come pure della sua narrativa si sono occupati innumerevoli critici e poeti, italiani e stranieri. Ora Onofrio, guardando esclusivamente ai testi, affrontati in un “corpo a corpo” spregiudicato e attento, senza mai sorvolare o svicolare nel vago, sa darci delle pagine di Maffìa calzanti e convincenti analisi. Così il lettore si trova davanti a un discorso critico-ermeneutico non difficile e astruso ma sempre comprensibile, limpido, scorrevole, che mette appunto chi legge nelle condizioni di capire e apprezzare i vari esiti poetici di Maffìa, conseguiti raccolta dopo raccolta. La scrittura critica di Onofrio è incisiva, sa cogliere la sostanza poetica dei testi analizzati, o meglio della scrittura di Maffìa, e dimostra con questo libro come il poeta di Roseto Capo Spulico (alto Jonio cosentino, ma da anni Maffia vive e lavora a Roma) è un “grande poeta”. Onofrio riesce benissimo nelle sue analisi e si riconosce in Maffìa, lo ammette egli stesso: “Mi riconosco in lui per questa sua passione totale e torrenziale che lo rende in grado di aderire alla propria interiorità, scrivendo in modo sempre autentico e sincero, senza ricorrere a mezzucci, schermi o infingimenti” (p. 10). Anche chi scrive queste note conosce bene l’uomo e il poeta Maffìa, come pure Onofrio, scrittore ed esegeta di grande talento che, prediligendo una lingua e uno stile sempre scorrevoli, riesce ad appassionare chi lo legge.

Amici, dunque, Maffìa e Onofrio. Ancora Onofrio scrive: “Gli incontri che la vita ci riserva sembrano fortuiti, in realtà non lo sono: noi chiediamo in silenzio e l’invisibile ci risponde sotto forma di “caso”. Avevamo dunque, ne sono sicuro, il destino di incontrarci e di essere amici (malgrado la differenza d’età di 25 anni): le nature simili si richiamano lungo il cammino. Abbiamo entrambi un’indole intemperante, libera, selvaggia. Siamo allergici al potere che non discenda dal merito […]. Ci disgusta quel retaggio di “feudalesimo” che ancora aleggia negli ambienti letterari, intricati di gerarchie simboliche e aprioristiche, di regole non scritte, di trafile umilianti da sostenere” (p. 10). Ho voluto abbondare con la citazione, con questa citazione, perché ci permette di capire l’uomo e quindi il poeta Maffìa ma pure il critico e scrittore Onofrio. Non bisogna però pensare che è un libro amicale, bensì è un lavoro che con la massima chiarezza – lo ribadisco – e con rigoroso metodo critico spiega ed evidenzia gli elementi caratterizzanti la personalità umana e artistica del poeta calabro-romano. Tutto sommato ci troviamo davanti a una guida preziosa e utile per entrare nel mondo poetico di Maffìa. Per esempio, in una “Nota” posposta alla riedizione a quarant’anni di distanza de “Il leone non mangia l’erba” con cui esordisce nel lontano 1974 (raccolta introdotta da Aldo Palazzeschi), si legge: “La poesia l’ho vissuta, lo ripeto spesso, e la vivo come una religione, una fede assoluta. La poesia come vita, la vita come poesia ed è ovvio che mi sento spesso come un pesce fuor d’acqua perché i miei valori sono spirituali e non venali […] Intanto frequentavo i salotti romani trascinato da Dario Bellezza, quello di Elsa De Giorgi, di Enzo Siciliano, di Barbara Alberti. Stavo sempre in disparte, sconosciuto ai più, silenzioso, attento, analizzavo gesti e parole e mi pareva d’essere tra selvaggi che si contendono una coscia della preda sventrata. Sentivo d’essere allora d’altra razza rispetto a molti di loro: postulanti, leccapiedi, cavalier serventi […] no, la letteratura per me era altro, era la tensione verso la bellezza, l’infinito, lo svelamento dell’invisibile, come aveva scritto Rilke” (p. 15). Maffìa ha lavorato e lavora assi bene nella poesia, nella narrativa, nella critica letteraria, e così facendo ha ottenuto e ottiene notevoli esiti artistici ben analizzati da Onofrio. Egli per esempio sottolinea che una delle costanti della poesia maffiana è “l’impossibilità di derogare da un approccio di sincerità assoluta alla vita e alla scrittura, che ne è diretta – anche quando non immediata – emanazione. Maffìa va dritto al bersaglio perché segue senza fronzoli e ammennicoli la via primaria della conoscenza, quella del cuore”.

Vediamo ora più da vicino come è fatto il libro. Comincia con pagine che nell’insieme, grazie a uno sguardo a 360° sull’intera produzione poetica di Maffìa (esclusa quella dialettale), danno vita a una “Sintesi analitica”; seguono poi “Letture e approfondimenti”; “La Calabria della cultura e della vita”; “Antologia” (99 poesie selezionate da 33 libri); “Apparati bio-bibliografici”, a cura di Franco Perri; “Epistolario” e infine “Bibliografia minima”. Onofrio ci offre così una puntuale sintesi dell’opera poetica di Maffìa, e tra le altre cose sottolinea appunto che la poesia del poeta di Roseto Capo Spulico non è mai esposta “al rischio sterile dell’arzigogolo, mai banalmente e riduttivamente  minimalista […] è una poesia che – nella sua semplice e sempre palpabile concretezza – dispiega a pieno regime le gigantesche potenzialità della lirica, quando è autentica espansione dell’“uomo vitruviano” negli spazi visibili e invisibili del cosmo” (p. 33). Da condividere l’affermazione di Onofrio che quando si legge la poesia di Maffìa si avvertono “le vibrazioni magiche e naturalistiche di Telesio, Bruno, Campanella, Marullo Tarcaniota, ma mi viene spesso in mente la luce del pensiero plotiniano: l’Uno come principio immobile del molteplice in cui e attraverso cui si irradia, in guisa di sole, negli esseri del mondo” (p. 37). Ogni poesia coincide con le parole dell’essere: per tale motivo “la scrittura si infila ovunque” e raggiunge “luoghi impensabili”, “lontananze assurde / che solo la poesia / millimetrando acciuffa” e tende a dire “tutto nel minimo dettaglio”. La poesia di Maffia, come ancora viene opportunamente notato da Onofrio, possiede pure le note “esacerbate e violente dell’invettiva (contro l’omologazione globalizzata delle città anonime, la crisi umanistica del pianeta, le società tecnocratiche, la “pornocrazia dell’insignificanza”, la decadenza dell’Italia contemporanea, ecc.) che può anche virare sul registro  apocalittico, in forma di profezia” (p. 47):

presto la terra sarà una filastrocca
raccontata da nani
nelle piazze americane,
con accompagnamento di pantomime
e spari che mirano al cuore dei passanti
per tenere vivo
il ricordo del disastro…

Altre volte la scrittura diventa allusiva e musicale come nell’arabesco, “dove la parola dice delle cose senza nominarle, e quindi va al di là di se stessa, oltre la comune denotazione, per accedere a una sorta di “intermondo” sospeso tra il piano fisico e quello spirituale, liberando il senso umano dalla contingenza del principium individuationis e connotandosi come “pura lucentezza di suoni di colori di immagini di sogno” (p. 50). Assai pertinenti pure le pagine dedicate al surrealismo di Maffìa: “Basta un’immagine a innescare il processo associativo, a scatenare  la “parata” […] “un piccolo insetto / che stride in armonia / con l’aeroplano che passa” […] e “all’improvviso la sfilata /dei ricordi, i nodi inestricabili / che danno il capogiro, ordinano / una sequenza arbitraria / di vicende estranee”… ed ecco, per esempio, “la potenza del particolare che si impone, come “il lampo d’una mutandina / bianca tra le cosce abbronzate” della ragazza che poi ha sposato” (p. 73). In “Letture e approfondimenti” sono analizzate in ordine cronologico 20 tra le varie sillogi poetiche apparse nel corso del tempo, a principiare da “Il leone non mangia l’erba” del ‘74, come già detto, fino a “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” del 2020.

Ma chi è veramente Dante Maffìa? In sintesi si può affermare, con Onofrio, che è “un uomo e un artista insaziabile di vita e di bellezza”, e ancora che “è soprattutto l’interprete di una Calabria che finalmente, senza nulla rinnegare del suo passato, si avvia a una svolta etica, a un rinnovamento totale del suo cammino”. Alla città di Reggio Calabria il poeta mediterraneo dedica le sue attenzioni; Reggio “signora / dei due mari” che si accende all’alba e racconta “antiche storie” sotto l’egida attenta dei Bronzi. Il poeta “trasfigura ciò che vede e, oltrepassando nella Fata Morgana che aleggia e palpita sullo Stretto la “sacra effigie del viaggio infinito”, riconnette la città di oggi alle origini del mondo, dell’essere, del tempo” (p. 190). Segue poi una corposa antologia delle poesie estrapolate dalle varie raccolte, e poi ancora la bibliografia delle opere di Maffìa e della critica, la folta e qualificata critica su di esse. Esiste su Maffìa – lo accennavo prima – una vastissima bibliografia. Molte sue opere sono tradotte in lingue straniere, come pure in diversi atenei italiani sono state discusse tesi sulla sua sterminata produzione. Ancora va segnalato l’epistolario, qui antologizzato con minima parte di esso. Maffìa fin da ragazzo ha avuto una fitta corrispondenza con grandi autori della letteratura italiana e internazionale, tra cui Borges, Amado, Pasolini, Calvino, Primo Levi, per fare soltanto qualche nome. Il libro di Onofrio si accomoda con disinvoltura fra tanti contributi di prestigio, da cui riceve il “benvenuto” per la freschezza e l’acuta intelligenza dello sguardo. Ogni grande poeta ha bisogno di un critico capace di realizzare una osmosi creativa tra la filologia, l’interpretazione e lo spirito profondo della parola. È un connubio che questa potente narrazione monografica, bella anche perché ha essa stessa il respiro di un “poema”, realizza compiutamente; tanto che Maffìa trova in Onofrio, per certi versi, il suo critico ideale.     

Carmine Chiodo

“Il roseto sul bunker”, di Italia Vitiello Izzo. Lettura critica

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Il romanzo “Il roseto sul bunker” (Europa Edizioni, 2022, pp. 198, Euro 14,90) configura un rapporto di continuità con le precedenti opere narrative di Italia Vitiello Izzo. Lo spettacolo della gente, l’eterna faccenda delle esistenze in gioco, i temi universali. Insomma, la scrittrice e biologa di origine salernitana pare costantemente appassionata alla scrittura del tempo, ovvero il tentativo quasi impossibile di ricostruire gli anni, i giorni, le ore e i minuti volati via per sempre, non prima di annodare le trame e lasciare le tracce da cui è formato il patrimonio storico che sostanzia la nostra identità; quindi, nella fattispecie, la ricognizione del Novecento in Italia, in particolare dagli anni della seconda guerra mondiale al boom economico attraverso le vicende esemplari di personaggi comuni “pedinati” nella loro evoluzione quotidiana. Occorre sempre distinguere tra un vero poetico, basato sulla rielaborazione dell’esperienza e sulla libertà dell’immaginazione (tesa al verosimile); e un vero storico, basato su fatti e documenti di pubblico dominio, che è il traliccio su cui l’autrice annoda le trame della sua scrittura. Da una parte la Storia con l’iniziale maiuscola; dall’altra le “storie” come gocce d’acqua che, unite nell’amalgama del tempo, compongono il mare. Ma sono proprio le storie ricostruite e immaginate dagli scrittori a restituirci il sapore autentico della grande Storia! Nei romanzi, così, troviamo atmosfere, aspetti e particolari su cui la storiografia ufficiale non può e non vuole soffermarsi. Per capire e “sentire” lo spirito del tempo che intride di unicità ogni epoca storica occorre anche e soprattutto leggere le opere narrative che di essa si nutrono, sostanziando le proprie intime ragioni. 

La narrativa vuole “edificare universi” (è il titolo della collana che ha accolto il romanzo) restituendo il lievito del vissuto, la sua inafferrabile sostanza di complessità. Lo scrittore di storie intesse le testimonianze del passato in una narrazione organica e partecipante dalla quale emerge il senso profondo: la più alta forma dell’intendere, infatti, è proprio l’esperienza ri-vissuta. La vita stessa è un perenne scomparire nell’oblio: tutto è cadùco e trema sul bordo del vuoto. È per questo che spetta alla storiografia o alla narrativa di impianto storico manifestare il senso dell’esistenza umana: che non può essere colto immediatamente. Il tempo viene sottratto all’oblio, cioè ricostruito e ripensato sulla base di connessioni strutturali ignote a coloro stessi che lo hanno vissuto. Sono i narratori e gli storici a far rivivere gli antenati, anzi: a farli vivere davvero, giacché la loro esistenza – come la nostra – non era che un costante dileguare. Scrive Vincenzo Cerami: «Nessun linguaggio è in grado di restituire nella sua complessità ed interezza il sistema di segni che forma l’immaginario umano. I linguaggi artistici, tentando di riprodurlo, creano una sorta di mitologia del reale, nella quale vanno a specchiarsi le cose segrete e rimosse del vivere». Naturalmente lo scrittore mette insieme tutto: impasta ciò che ha vissuto, o visto, o ascoltato con ciò che immagina, fantastica, sogna. In un romanzo la realtà viene oltrepassata, selezionata, modificata, in una parola: creativamente trasfigurata. La narrazione è come l’armadio che si descrive a p. 14, con «una serie di cassetti, cassettini e porticine segrete, in cui spesso Graziella [così come Italia, la nostra autrice, quando narra – NdR] andava a curiosare alla ricerca di qualche oggetto, di qualche documento, che svelasse qualcosa di sorprendente». Tale natura prismatica delle cose ben si attaglia a quella profonda delle persone e delle loro esistenze in continua evoluzione.

Italia Vitiello Izzo libera dalla polvere questi “italian graffiti” attraverso le storie di numerosi personaggi, soprattutto femminili, seguiti nelle loro vicende di resilienza distese nell’arco di periodi storici difficili o tragici come quelli da cui parte il romanzo, nel settembre 1943. Giorni terribili di bombardamenti (la scrittrice ci fa sentire nelle ossa «l’urlo della sirena che lacera il silenzio»), giorni di corse precipitose nei rifugi, di razionamenti, penuria, miseria, malattie, disperazione. Una condizione di estrema precarietà che abbiamo riattivato nella nostra coscienza con la pandemia, e ora con la guerra in corso. La dimensione corale che emerge dalla “scena” di queste storie, seguite e sviluppate in parallelo, non è mai anonima, ma originale e diversa in ogni voce: tutti i personaggi hanno la loro nota peculiare, la loro impronta distintiva che li fa emergere dalla folla e dalla nebbia del tempo. E appunto in parallelo ci sono gli eventi della grande Storia, citati “a latere” delle storie come motori nascosti o cause segrete delle vicissitudini individuali. E quindi, per esempio, l’armistizio di Cassibile del 3 settembre ’43, o le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre ’43). Si riflette soprattutto sul destino dei ragazzi di quegli anni, costretti a sbocciare e dissipare il fiore della loro giovinezza in un periodo di guerra. Poi il 1947, la vita che risorge dalle ceneri tra le immense macerie materiali e morali della guerra, con lo strascico infinito di ferite visibili e soprattutto invisibili (paure, angosce, traumi irrisolvibili, ossessioni). Il primo ritorno alla vita “normale” partorisce una visione un po’ più rosea del futuro e la speranza di un mondo migliore. E arrivano gli anni ’50, l’età dell’oro: «Un mondo stava cambiando ai loro occhi, ma intravvedevano ancora incerto il futuro». Ecco le festicciole e i balli in casa, le nuove istanze di «posizionamento sociale», l’accentuarsi dei contrasti tra città evolute e province arretrate, e la comparsa dei primi televisori con la fruizione comunitaria nei bar e nei circoli, raramente privata dato il costo elevato degli apparecchi. E infine gli anni ’60, con il boom economico che trasforma velocemente l’Italia da Paese agricolo a Paese industriale su base capitalistica e consumistica. Di quel periodo contraddittorio, ma felice e ricco di speranza, Italia Vitiello Izzo ci fa sentire l’energia come materia vitale, un misto di immaginazione creatrice, possibilità “aperta” di proiettarsi nel futuro e capacità di imporre la propria impronta sul corso delle cose. Il cambiamento non elimina, ovviamente, le sacche di arretratezza. Per esempio in questo tratto: «Nel mezzogiorno, permangono tradizioni familiari che tardano ad estinguersi. Le donne sono ancora in condizioni di totale subordinazione. L’uomo invece può godere di tutte le libertà». Ed ecco, ancora, le tracce della grande Storia: la “nuova frontiera” di John Kennedy per un «equilibrio tra le super potenze, non fondato più sulla sopraffazione, ma sulla democrazia e sui diritti civili». E il contatto visivo con un suo passaggio italiano: «Era il 2 luglio del 1963 e Mergellina trovò una folla in tripudio che agitava bandierine italiane e americane; il presidente Kennedy sfilava tra due ali di folla a bordo della Lincoln nera decappottabile e veniva accolto da un incontenibile entusiasmo popolare. Era abbronzato e in abito azzurro scuro». Un sogno mondiale che sarebbe tragicamente finito dopo qualche mese, il 22 novembre, con l’assassinio del presidente americano a Dallas. Ma i semi avrebbero dato i loro frutti, i nuovi scenari prefigurati dal progresso, dall’emancipazione di popoli e costumi. Ecco i movimenti giovanili, la contestazione globale, il femminismo, ecc.

Le cronache familiari sviluppate in questo libro accolgono una tessitura del quotidiano fatta di azioni minime, di pensieri che attraversano gli istanti, di cibi cucinati e mangiati, di confidenze, piccoli segreti, speranze, sogni, progetti, fantasticherie, trasfigurazioni infantili, palpiti, false promesse, delusioni… Su tutto aleggia un quid di inafferrabile struggimento, una sorta di “sunt lacrimae rerum” di virgiliana memoria, poiché il tempo – scultore delle cose e grande divoratore delle stesse – ha il «potere di cambiare nel profondo le persone» e allora «si trattava di mantenere in vita qualcosa di molto prezioso che sembrava spegnersi» resistendo alla realtà ma anche imparando ad accettarla, nuda e cruda, in tutta la sua dolce ferocia rivelatrice. Il tema dei temi è l’amore, l’eterna dimora del mondo: una casa fragile che va continuamente costruita e ricostruita, e noi siamo le pietre vive di questa costruzione. «L’amore, gli amori» scrive Italia Vitiello Izzo, costituiscono «l’essenza della vita; tutti gli amori, quelli veri, quelli traditi, quelli finiti». Lo snodo simbolico fondamentale è proprio il contrasto tra eros e thanatos, amore e morte, e quindi tra civiltà e barbarie nella misura in cui “amore” significa etimologicamente a-mors, cioè morte preceduta, negata e contenuta dall’alfa privativa, quindi: “senza morte”. Non a caso la guerra è l’opposto assoluto dell’amore, in quanto apoteosi dell’odio e della morte. La morte in verità non viene esorcizzata in questo libro: c’è ad esempio la malattia e la morte di Virginia e di Agnese; c’è la morte di Pietro, il padre di Celestina; c’è la morte per parto di Graziella… ma c’è anche la maternità felice di Vittoria; c’è il sospirato matrimonio di Celestina, c’è la sua prossima maternità che dissipa ombre, nostalgie e rimpianti («tutto cancellato grazie al potere della vita che portava in grembo»)… e insomma la Vita, sì, l’indomita volontà di vivere che trionfa su ogni tragedia, su ogni disperazione.

Di qui, la visione emblematica che dà il titolo al romanzo: «Quattro anni dopo, là dove una volta vi era stato il bunker, un’aiuola, delineata da mattoncini, racchiudeva un roseto variegato di tanti colori. (…) Il bunker era stato riempito e ricoperto di terriccio e sopra vi erano state interrate le piantine». La speranza del futuro è affidata a quelle tenere piantine da annaffiare e far crescere. Vorremmo che ogni bunker del mondo – e troppi ce ne sono! – fosse coperto da un roseto, ma sappiamo che non sarà possibile finché qualcuno continuerà a trarre vantaggi e profitti dalle guerre. E tuttavia, a questa potente immagine di vita possiamo ancorare il nostro contributo alla civiltà contro il pericolo sempre incombente della barbarie, oltre che il nostro sacrosanto desiderio di pace e felicità, tanto più sentito negli anni complicati che stiamo affrontando.    

     Marco Onofrio

“Fummo ragazzi felici”, poesia inedita

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FUMMO RAGAZZI FELICI

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Gorgoglii di cose liquide,
scrosci sopra i tetti, crepitii.
Il mondo piccolo in un tempo chiuso
dal fluire dolce della vita.
Quant’era bello l’orto dei nonni!
Freschezza verde ombrosa
nel celeste molle dei mattini.
Si giocava per ore, indemoniati
a rincorrerci dentro le savane
ma poi, sopraggiunta la stanchezza
il sereno degli occhi s’incupiva
di uno strano veleno
mentre cresceva il senso dell’ignoto
e il mare distillato dai silenzi
come i pensieri scritti negli sguardi
e i suoni in fondo al cuore.
Che si trova, a terra
nel punto dove il fulmine è caduto?
Forse un sale, che ad averne
i cristalli in bocca
poi si può nuotare in aria
per volare? E raggiungere
gli imbuti delle nuvole
per capire cosa dicono davvero
mormorando arcani alle pianure?
Eccole, stupende, le rivedo
arricciate nell’azzurro come lana
di pecore ancestrali…

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.
Oh, lo scintillio dei platani
dolcemente accarezzati dalla brezza!
Splendore di vette lontane
contro l’ocra-arancio delle sere!
L’estate infinita
e incorruttibile durava
oltre la morte
fuori dalla sua portata.
Era la morte stessa, forse
che aveva tutta in pugno l’esistenza
la gamma ultravioletta del mistero
nel barlume d’oro dentro noi.

Fummo ragazzi felici.
Leggevamo l’alfabeto della luce.

Marco Onofrio
(poesia inedita)

 

 

 

 

 

 

“Azzurro esiguo”, letto da Stefano Vitale (www.ilgiornalaccio.net)

Azzurro esiguo cop-2

L’ultima raccolta di Marco Onofrio è un volume che racchiude 59 testi prefato da Dante Maffìa che lo definisce “libro d’amore dove contano i privilegi delle conquiste interiori”. Il libro, come ha spiegato lo stesso autore, raccoglie materiali eterogenei “molte poesie scritte negli ultimi anni e altre recuperate da quaderni “antichi” di appunti, risalenti addirittura alla mia adolescenza. Spesso le cose dormono al buio per decenni e poi d’improvviso reclamano spazio poiché il tempo è finalmente maturo: è uno dei misteri della scrittura, così come della vita.” Ne vien fuori un libro in cui temi e timbri poetici formano comunque un corpo unico e coerente.

Dante Maffìa nella sua prefazione ha scritto: “Siamo al cospetto di una poesia che non lascia spazio alle pause, alle cospirazioni irrazionali, alle dispersioni del senso in direzione del risaputo. Onofrio s’immerge in una dimensione che salta il Novecento e l’Ottocento e si colloca, ma con istanze e progetti nuovi, verso un Settecento di furori che ha il passo di un Voltaire degli anni Venti del nostro secolo: «Il suono del passato / e quello del futuro / sono uguali». O ancora: «Il suono, padre della terra». Si legga con calma questo libro, lo si mediti con attenzione, non si abbia fretta, si misuri intanto la portata musicale che ha qualcosa di torbido e di scomodo (Onofrio adopera spesso la parola suono) e poi si ragioni attraverso le metafore e le similitudini, attraverso il “clamore” che viene preteso come chiave introduttiva per comprendere le “necessità” espressive, filosofiche, estetiche e direi anche politiche…

“Azzurro esiguo” è il titolo della poesia che conclude il libro: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo / dentro l’universo tutto nero? / Siamo lampi che aprono il mondo / tra due abissi di tenebra infinita. / La nostra casa è lo sguardo / il canto, l’amore, il senso / la disperata, ultima parola».

L’azzurro è dunque “esiguo” perché tale è la, pur significativa, nostra piccola goccia di vita se paragonata all’universo e al fluire della storia. Ma viviamo in una terra fortunata, pare dirci il poeta, una terra piena di bellezza, sia pure dolente, attraversata da contraddizione e profonde assurdità. Il prodigio è la vita stessa, che si contrappone continuamente al buio del vuoto. Ed è tra i due estremi “classici” del finito e dell’infinito che si colloca la chiave di lettura del libro. L’azzurro è la metafora di un varco possibile che è la nostra stessa esperienza di vita tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro è “esiguo” perché i dolori sono più numerosi e frequenti delle gioie, e per ogni gioia c’è da pagare un prezzo. C’è un sentimento esistenziale di precarietà evidente in questo libro che però si scontra con la “voglia di azzurro”, con la volontà del poeta di esprimere il bello della vita, il suo assoluto.

La raccolta declina, così, un tema di fondo: quello dell’interrogazione continua sul mistero e il senso dell’essere, la cui conoscenza per noi è destinata ad una impossibile soluzione e definizione ultima. Da qui derivano gli altri temi fondamentali della poetica di Onofrio: il vuoto, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore, la paternità, la speranza, la nostalgia, il ricordo. Questi arci-temi si collegano con altre immagini e motivi “classici” della sua poesia come il cielo, la forma delle nuvole, il mare, il silenzio, la luce, l’ombra, l’ascolto delle stagioni.

I testi della poesia di Onofrio hanno un punto di partenza che nasce dal suo sguardo diretto sulle cose del mondo e degli uomini. Ma il tono tipico è di alzare il livello della comunicazione, il timbro di voce assumendo una postura solenne. La poesia di Onofrio vive di uno slancio quasi epico che fa sì che i versi assumano poi una coloritura “religiosa” in senso filosofico. E qui tocchiamo, a mio modo di vedere, il punto focale della poetica espressa in questo libro.

È stato giustamente notato che la parola azzurro richiama subito alla mente la celebre lirica di Mallarmé dal titolo L’Azur:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

(Stéphane Mallarmé, Poesie, Traduzione e cura di Luciana Frezza, Feltrinelli, 1991, pp. 35-36 ).

In Onofrio, l’Azzurro è sinonimo di: “Ideale”, “Bellezza”, “bellezza del mondo”, “bellezza / inconcepibile dell’attimo / presente, / ora che è già passato”. (Il compito, p. 15). Azzurro è trascendere il visibile apparente / entrando nel dominio dell’eccelso (Il varco, p. 17): l’uomo è “gettato” nel mondo ed attraversa il deserto dello spazio e del tempo, portando però dentro di sé il ricordo dell’Azzurro, dell’ideale da compiere. C’è una sorta di platonismo poetico che anima questi testi che ci raccontano dell’eterno conflitto tra la vita che anima le nostre speranze e la morte che fredda nel mistero. Il contrasto tra questi estremi assume, come accennato, dei connotati religiosi.

Il senso religioso della poesia di Onofrio è evidente, ad esempio, quando scrive che nostro è il compito di adorare e comprendere / la creazione infinita (Il compito, p. 15). Noi siamo fatti di materia e di spirito, siamo anime inquiete, intrise di mistero ma siamo parte di questo mondo ed aspiriamo ad altri mondi. La poesia di Onofrio luzianamente si chiede: “Cos’è, cos’è, cos’è stato / a generare tanta magnificenza?” (Il compito, p. 15): il poeta è attratto dallo splendore del creato, dell’universo: attratto dal sublime e dalla sua inafferrabile vastità. Così cerca una forma di elevazione spirituale nel “varco” che “attende ognuno di noi / dentro l’ultimo respiro / che ci ruba per sempre / alla materia” (p. 17). E non basta: “Rinasco, ora, tra le braccia / del vento / che mi porta lontano / laggiù… laggiù… / sulle ali del tempo / dentro le vie dei colori / oltre l’orizzonte / in fondo al mare / ascolto la sinfonia dei giorni … (So da sempre, p. 30). Il poeta desidera “Uscire dalla stanza. / Diventare luce dentro luce! / Sciogliersi nel sole / come una goccia / che cadendo in mare / mare diventa”. (Trascendenza, p. 33).

Insomma Onofrio esprime una posizione esistenzialista che cerca un riscatto nell’umanesimo religioso. E così il vuoto, che ha una risonanza mistico-filosofica, come spesso nei suoi testi “vuoto incolmabile, vuoto che divora” che ci spaura senza però mai diventare angoscia pura.

Il vuoto è per Onofrio la matrice delle cose: è il centro ove tutto accade e si forma misteriosamente: “L’universo è un grande buco / dentro il vuoto / pieno del nulla che ci ingoia… (Ingranaggio nascosto, p. 20). Talvolta il vuoto assume fattezze fisiche ben precise: “Vedo un gigante di vuoto. Enorme, altissimo, leggero. La sua testa brilla minuscola lassù, dentro un elmo che luccica, epigono di sole. Un piede su una nuvola, un piede su un’altra. Prendimi con te, gigante, raccoglimi sulla tua mano gentile e portami da lei (Gigante di vuoto, p. 80). Abisso, fondo, silenzio, questi sono i termini che accompagnano la metafora del vuoto, secondo Onofrio.

Come dicevo prima, fare il vuoto in se stessi è un movimento mistico: è liberarsi dalle pastoie della materia, dal turbinare di immagini, di desideri, fuggire dall’effimero per far prevalere l’assoluto: “Il fiume del sogno mi porterà un giorno / al centro inabitabile del cielo: capirò / l’amore che palpita nel mare / il significato della luce / il segreto mistico del tempo” (p. 27). Onofrio va oltre il concreto delle cose e afferra con il pugno della poesia concetti e termini assoluti, tipici della tradizione. Il vuoto è allora anche vertigine che ci prende quando siamo in attesa di un suono, di una voce, quella del proprio io, del mare interiore richiamato dalla metafora frequente nella raccolta del “cerchio magico”: Magia di questo cerchio senza fine / che appunta il centro esatto su di me (Magia, p. 53). Emozionalismo e sentimento cosmico religioso-esistenziale si esprimono nel tema della corrispondenza tra il cielo e il cuore, il cielo che si specchia nel cuore: “Velati, gli occhi, e semichiusi / insensibili ormai a / qualunque cenno / guardavano dentro / scorrere visioni trascendenti / come in un film / eccelso di indicibile grandezza / che qualcuno proiettasse dal cielo / dritto sullo schermo del suo cuore / proprio mentre stava per fermarsi”. (L’oasi, p. 38). La visione del poeta è quella di un macrocosmo in cui tutto si rispecchia in tutto, in una sorta di dimensione altra dalla materia: “Sono cieli insaccati nell’acqua / i millenni di storie sepolte / dentro il tuo mistero verde blu / (quanti relitti intrappolati laggiù, / vorrei vederli” (Sale sacro, p. 62) per potersi guardare dentro e trovarvi l’infinito… “Sono tutto l’universo / l’infinito.”. L’Azzurro è figura dell’essere inarrivabile, è ciò che è vasto (azzurro senza fine) coincidendo con la trascendenza che l’occhio della poesia in qualche modo indica come “l’esistenza con gli occhi / stessi della divinità (9 passi, p. 28): Chi disegna il mondo intorno a noi?/ Chi sospinge il vento che trascorre?/ Chi prepara i segni del futuro / quando noi emergiamo e si fanno / vivi, nel silenzio, catturare? / Chi decide i corsi e i mutamenti? (Chi è, p. 22) E torna così la suggestione di un riferimento alla poesia di Mario Luzi che si palesa, infine, nell’amore per il silenzio come preludio di apertura alla rivelazione, come passaggio verso l’essere nel superamento dell’insensato niente.

Stefano Vitale

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Antonio Miniaci

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L’“officina del mondo”, cioè un posto dove si lavora ininterrottamente e si aggiusta la macchina che muove l’universo? E dov’è situata? Chi è il meccanico che riesce a far funzionare gli argani, a mettere in moto, spegnere, far girare le ruote sull’asfalto dell’anima? È Dante Maffìa, lo dice Marco Onofrio in questo libro (“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2021, pp. 298, Euro 16) che ho trovato edificante, necessario, scritto con l’anima e con l’intelligenza, cioè col cuore e con la mente; un libro che ha saputo entrare nella pienezza della poesia del poeta calabrese e ricavarne indicazioni alle quali gli uomini di cultura, quelli veri e non venduti al potere, dovrebbero porre attenzione, perché Maffìa ha toccato si può dire ogni argomento, da poeta, cioè da uomo che si è servito della sensibilità per cogliere ciò che si muove dietro le quinte del quotidiano.

Dante Maffìa ha scritto a valanga, senza posa, spinto dal demone dell’ispirazione, ma non lo ha fatto, almeno così dimostra Onofrio, per presenzialismo o per essere riconosciuto fautore di qualcosa; lo ha fatto per scavare nei meandri del mistero, nei risvolti delle azioni umane, ma soprattutto nei sentimenti e nelle emozioni. Le sorprese non mancano, si parla d’amore, innanzi tutto, ma anche di follia, del patrimonio culturale che spesso va in fumo, della sostanza sociale che viene distorta e camuffata in vesti inadeguate, di politica, di economia, di filosofia, di metafisica, di storia, di emigranti, e si parla anche di riproposte di versi antichi che in Maffìa assumono una valenza nuova e si trasformano nella voce della verità. Incredibile il lavoro fatto da Onofrio: non ha lasciato nulla al caso, non ha sorvolato sulle connessioni che il poeta ha sempre compiuto con la realtà, anche quando gioca col surrealismo più sfrenato, con la liricità, con la classicità.

Un libro come questo vale non solo per scoprire una personalità illustre come Maffìa, ma anche per il metodo con cui è stato concepito e scritto. Finalmente non assistiamo allo sciorinamento di una serie di “ragioni” generiche. Quel che afferma Onofrio è misurato e valutato sul campo, cioè dopo avere letto e riletto all’infinito i testi, dopo averli spremuti per vedere se davvero grondano di bellezza, di “provocazioni”, di “passeggiate” che fanno conoscere il senso vero dell’uomo, dell’esistere, del morire e del rinascere. Dopo l’ondata malefica – come altrimenti chiamarla? – delle ossessioni linguistiche, che di avanguardia avevano soltanto la crosta, finalmente un critico agguerrito e paziente che ha saputo tessere la filigrana del fuoco impastato da Maffìa e darcene conto, facendoci intendere la portata universale del suo “messaggio”, grazie a cui è stato da tempo proposto per il Nobel ed è da sempre apprezzato, in Italia e all’estero, come uno dei maggiori poeti contemporanei.

Antonio Miniaci