
“Echi” (Il Convivio Editore, 2022, pp. 48, Euro 9), di Gabriella Maggio, è una silloge poetica che fa onore al titolo che porta. Risuona infatti di “echi” provenienti da fonti svariate di irradiazione semantica e simbolica: interiori, che riemergono dalle profondità psichiche più remote (anche quelle inconsce), ad esempio gli «echi di un tempo smemorato»; naturalistici, ad esempio i suoni registrati sulla spiaggia (il mormorio del vento, il «mare che compone versi» – cioè il suo fenomeno come personificazione/manifestazione del poièin creativo, quasi che il mondo stesso fosse “poeta” e il tempo la sua scrittura – elaborando metriche «al ritmo lento della risacca», ecc.); culturali, attraverso le stratificazioni che la poetessa palermitana, assimilando in quintessenza le smisurate letture e mettendo felicemente a frutto una solida formazione classica, come attestano gli efficaci versi in latino, incardina per così dire alla filigrana più sottile della pagina. La periclitante condizione umana dell’esserci percorre ogni momento il «limite dubbioso»: la voce intima di queste poesie viene così articolata da un bordo fragile, che poi è la «soglia dell’anima» oltre cui si apre la profondità dello sguardo. È lì che si lascia percepire, più intensa che mai, l’ansia della vita, il ben noto struggimento di amore e dolore che ci predispone all’attesa perenne e alla speranza. Una dicotomia simbolica fondamentale del libro è quella tra luce e tenebra: l’«arcobaleno di pace» che dischiude il dono dei nuovi orizzonti e, inevitabile contrappeso, le «gocce velenose» che brinano il cuore procurandoci ferite immedicabili. La verità racchiusa nei forzieri del mistero, con la sua «parete di pietra compatta», sta alle dinamiche quotidiane di inganno (e conseguente disinganno) come la poesia “altra” del sogno sta a quella, non del tutto priva di sortilegi, dispiegata nella prosa dell’ordinario, con le «piccole cose d’ogni giorno» e la dolcezza malinconica della loro “musica”. “Echi” sviluppa i propri tracciati poetici come “secretum” di abissale introspezione: libera dunque le sue emozioni senza compiacimento da un soliloquio dell’anima allo specchio, di sé e del mondo (talora senza paratie divisorie, come in uno scambio energetico di osmosi):
Vorrei ascoltarti
Vorrei ascoltarti attenta
dulce loquentem
nella bolla di un sogno
nel vuoto del tempo
Vorrei guidarti
dulce ridentem
nel miele dell’anima
nel brusio dei ricordi.
Naturalmente non si tratta di una dolcezza edulcorata, ma della triste gioia della malinconia che sgorga dalla vita al suo culmine tremante, liberando la musica delle cose perdute. Quindi un suono sullo sfondo delle parole, quali che siano, come un “basso continuo” che distende il telo oscuro su cui si disegnano costellazioni di riflessi e tracce scintillanti di comete. Gabriella Maggio estrae dal quotidiano la sua “epica”: la poesia è l’annuncio di un «tempo epico / di assoluta vertigine» che balugina tra le pieghe e gli anfratti del viaggio dove il “fraterno Ulisse” (cioè l’everyman di ogni tempo e luogo) affronta un percorso sempre «pieno di dubbi», oggi più che mai periglioso, senza stelle e bussole a conforto. Ma Ulisse, per abbandonarsi al destino di questo viaggio, deve portarsi «fuori dalla folla» e scegliere – ascoltando il monito di Robert Frost – la strada meno battuta. La recita sociale si basa su patti di ipocrisia condivisa: i poeti, quando autentici, patiscono lo stato delle cose e la mediocrità delle persone, e allora come i burattini dopo lo spettacolo «tremano incompresi» nell’«angolo più nascosto» dove «non visti piangono amaro con la testa china».
La scrittura nasce dall’ascolto profondo delle realtà fisiche e metafisiche (quelle che sono, o non sono più, o non sono ancora), raccolte nell’invaso della «voce calma» che riecheggia dal «vuoto del tempo». La musica del tempo che scorre, così presente e viva nel suono quieto ma robusto di queste poesie, diventa perciò tessitura di sogni, paure, speranze… eterna sostanza umana che trapela come «residuo smarrito della pienezza della vita». La scrittura è anche “magnificentia temporis” che celebra i nostri “trionfi” da reperti sepolti che emergono alla luce imponendo «la loro forza tenace / contro la strage del tempo». E i reperti possono essere ad esempio ricordi ancestrali (come le fiabe dell’infanzia, le storie familiari, il pranzo della domenica) che, con efficace ossimoro, «baluginano ombre» poiché la conoscenza non è soltanto lunga masticazione ma, talora, lampo di rivelazione dentro il buio più fitto e assoluto. La poesia si produce come antro divinatorio che trae presagi da «segni insondabili di possibili svolte». Le parole catturano indizi di una trama nascosta che il silenzio congiura di dissipare, come la sabbia che «ingoia l’onda silenziosa». Gabriella Maggio, pur tenendo ben salda la nostra realtà, fruga «macerie di sogni vissuti» mentre stringe «in gomitolo ricordi» rielaborando epoche e occasioni. Opera viva in lei la volontà di recuperare, di quei sogni tanto amati, i brandelli avviluppati intorno alle spine delle rose. La poesia è un medicamento, una cura dell’anima, una forma di auto-terapia. Le parole sono mani pietose che tentano di ricomporre i cocci dell’amore crepato dal tempo e di stendere ponti empatici sopra un mondo pieno di indifferenza, alla ricerca di uno sguardo su cui impigliarsi per costruire insieme speranza:
Di là dal muro
Di là dal muro spuntano già i fiori
nella primavera della speranza.
Ovunque è tristezza e gelo di solitudine, «occhi bassi» e «bocche serrate» di «passanti frettolosi». Ma la poesia sa incunearsi anche tra le maglie più strette della desolante realtà sociale per cogliere il dono di un «raggio di sole tra presagi di tempesta». Quindi il volto sporco delle cose, pur innegabile, non potrà mai cancellare la ricchezza impareggiabile della vita dove «chicchi di melograno risplendono» anche se è notte. È proprio questo il compito dei poeti: dire «pietose / parole d’amore» per «cercare sempre la luce», anzi – più semplicemente – portare alla luce l’«albero della vita» anche se «difficile è dispiegare oggi / il canto del cuore / più certa l’oscurità»:
Alma Poësis
Alma Poësis
nutrice di passioni e di sdegni
vai per sentieri senz’orma e silenzi
Respiro della vita stessa
magica iridescenza
arca per il prossimo diluvio
Oggi io sono ansiosa di dire pietose
parole d’amore
a chi si unisce nella scrittura
in quest’albero della vita
che noi poeti portiamo alla luce
I versi cercano sempre la luce
per l’agile slancio dell’equilibrista.
Obscura de re tam lucida pango carmina
mi sussurra una voce fioca e lontana
ma difficile è dispiegare oggi
il canto del cuore
più certa l’oscurità
Sul tavolo restano dolenti
e spesso muti
gli strumenti della scrittura.
Marco Onofrio