Note critiche di Sabino Caronia su “Specchio doppio”

 

Una scrittura articolata e complessa, sperimentale e talvolta persino anacronistica, quella di Marco Onofrio. Il Nostro ha come sua caratteristica peculiare la scelta della ‘divina’ parola, per usare un aggettivo caro al grande Gabriele D’Annunzio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, in un periodo in cui non si scrive quasi più in versi e non si distingue la poesia dalla prosa se non per gli ‘a capo’, Marco Onofrio qui in Specchio doppio (Pellegrini Editore, 2022), anche se in misura minore che nella raccolta precedente, ci offre l’esempio felice di una prosa in versi.

I suoi sono racconti onirici, surreali, animati da un grottesco tutto personale. Qualcuno ha voluto richiamare la linea Gadda-Manganelli mentre noi riteniamo piuttosto che si debba guardare a quella che da Marcello Marchesi arriva a Achille Campanile, e inoltre che questi racconti fanno pensare a Pier Paolo Pasolini, richiamato non a caso in Festa a tema.

C’è in un romanzo di Onofrio, Senza cuore (2012), una definizione che ritorna significativamente nel saggio Come dentro un sogno e che permette di intendere meglio di qualsiasi altra cosa la natura della sua operazione letteraria: «Hai bisogno di un modello multiforme che aderisca alla vita senza farla evaporare e che, d’altra parte, la fermi senza ucciderla. Una forma fluida, ma non troppo, né troppo poco. Questo equilibrio dinamico è la cosa più difficile da raggiungere quando si scrive».

Alla luce di queste osservazioni è più che logico che l’autore romano offra il meglio di sé nelle opere teatrali, come il recentissimo È caduto il cielo, o a vocazione drammaturgica, come ad esempio Emporium, dove meglio risalta la sua scrittura dal carattere “insieme iperrealista e visionario”, come ha notato Paolo Di Paolo cui si devono anche le parole che si leggono nel retro di copertina di Specchio doppio, parole con cui viene giustamente sottolineato l’aspetto, che appare evidente a chiunque legga questi racconti, di una sorta di “commedia all’italiana”, i cui protagonisti potrebbero essere definiti, con termine rubato appunto ai maestri di tale commedia, i “nuovissimi mostri”.

Quante volte ci siamo chiesti se Marco Onofrio sia un classico? Ebbene, lo è se si guarda alla complessità del discorso artistico, all’originalità dell’invenzione e alla cura dello stile, ma non invece se si intende per classico uno scrittore già arrivato e ormai soltanto da ammirare nella staticità del suo essere. In questo senso infatti Onofrio è un autore in continuo divenire, il suo “ora” è “altrove”, volendo parafrasare il titolo di una sua fortunata raccolta poetica. Alla luce di questa condizione ossimorica, potremmo parlare di un autore di perpetua avanguardia.

Entrando finalmente nel merito dei singoli racconti che compongono questa raccolta occorrerà innanzitutto notare che il primo, Specchio doppio, con il motivo, caro a tanta nostra letteratura da Pirandello a Sciascia, della finzione doppiata dalla vita, della realtà che appare generata dalla letteratura, fa pensare al Calvino de Le cosmicomiche, mentre l’ultimo, Don Alfio, la vicenda di un prete guardone che vuole assistere al rapporto carnale tra due fidanzatini, fa pensare al Boccaccio, autore prediletto peraltro da Pasolini che si dimostra ancora una volta come un punto di riferimento ideale del Nostro.

È fin troppo evidente il motivo del calcio unito a quello del sesso: basti pensare ai racconti A porta aperta, Il grande sogno e Mussolini centrattacco. In particolare in Il grande sogno, che rievoca la vittoria dello scudetto della Lazio nel 1974, troviamo quel sentimento dell’infanzia perduta che era già stato da noi messo in luce in alcuni racconti di Energie (2016) come Il calamaro e ancor più Fine di un mondo.

C’è  il motivo, così caro ad Onofrio che ad esso ha dedicato anche un godibile pamphlet, Le segrete del Parnaso. Caste letterarie in Italia, della letteratura come grande baraccone mediatico cui guardare con diffidenza, motivo che viene qui riproposto per l’ennesima volta in quel divertentissimo racconto che è intitolato Campare scrivendo.

Inoltre non possiamo fare a meno di sottolineare le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul senso del nostro essere qui, sul disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa, in quel racconto esemplare che è La vecchia Zerbe. Infine non sarebbe giusto passare sotto silenzio le mirabili pagine dedicate al Colosseo nel racconto intitolato assai felicemente Il tempio del tempo.

Mi piace concludere con una citazione tratta dal racconto Le mutandine. Non  a caso essa è riportata nel retro di copertina del volume: «Era bambino e già non capiva perché dal gelataio, per guarnire la cialda del cono, si dovesse scegliere due o tre gusti al massimo, escludendo gli altri: e perché non tutti? Così le donne.». È una citazione che la dice lunga a proposito della attitudine di Marco Onofrio non solo nei confronti dell’universo femminile.

Imperdonabile Onofrio! Indifferente alla vanità, guarda giustamente al sodo. Non diceva già del resto nel suo primo romanzo Gabriele D’Annunzio che bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte?

                                                                                    Sabino Caronia

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Luca Benassi

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Dopo il primo tentativo sistematico di Antonio Iacopetta del 2009 (Il cerchio aperto. Studio su Dante Maffìa, edizioni Feeria), che però aveva rinunciato a una bibliografia e una bibliografia critica ragionata, nel 2014 la critica cercò di fare il punto sull’opera di Dante Maffìa. L’editore Aracne pubblicò la raccolta di saggi – di fatto gli atti del convegno tenutosi a Roseto Capo Spulico – Ti presento Maffia a cura di Rocco Paternostro. Si trattava di 530 pagine di saggi sulla figura e l’opera di Maffia, anche questa però senza bibliografia e bibliografia critica. Sempre nel 2014, Marco Onofrio spostava il punto di vista e si incaricava di analizzare Maffìa in prosa con Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo (Città del Sole edizioni, senza apparato critico e bibliografico). Nello stesso anno uscì La casa dei falconi per puntoacapo editrice, a cura dello scrivente. Si trattava di una snella antologia di 249 pagine che rendeva ragione di un lungo periodo di scrittura in versi dall’esordio del 1974 al 2014, corredata da 36 pagine di bibliografia, antologia critica e un saggio introduttivo ricognitivo della poetica dello scrittore a firma del curatore.

Mancavano alcune vaste aree ancora da esplorare (il critico letterario, il saggista, l’autore teatrale, il critico d’arte), ma tutto sommato si pensò che la “questione Maffìa” fosse almeno per il momento sistemata. Non era affatto così. Mentre i critici si affannavano a scrivere, sistematizzare, fissare e chiudere, il poeta lavorava febbrile, inquieto, feroce, magmatico, sotterraneo e scoperto a un tempo. A maggio 2013 usciva un poema di 628 pagine, IO. Poema totale della dissolvenza (Edilazio editore). Nello stesso 2014 veniva dato alle stampe un altro poderoso volume di versi Il poeta e la farfalla (edizioni Lepisma) che apriva stagioni e percorsi totalmente inediti. I critici stavano correggendo le bozze dei loro saggi e Maffìa scappava loro fra le mani con migliaia di nuovi versi, con squarci e abissi nuovi e giganteschi come continenti.

A distanza di 7 anni da quel 2014, Marco Onofrio riprova a fare il punto rivolgendo il suo impegno critico sul versante della poesia con L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa (Città del Sole edizioni). Che Dante Maffìa sfugga alla critica e a chi in un modo o nell’altro cerca di dargli un vestito, una posizione e un ruolo, Marco Onofrio lo sa bene e lo evidenzia già nelle prime cinque pagine del volume dove racconta di un poeta che manda al diavolo, rifiuta onorificenze, sbatte la porta ma allo stesso tempo spalanca portoni al cuore, all’amore, all’amicizia, senza mai farsi chiudere o ingabbiare e, soprattutto, senza piegarsi a logiche di consorteria e cricche editoriali. Onofrio è consapevole che fare critica su un poeta vivente – e che scrive a getto quasi continuo – comporti l’impossibilità di mettere tasselli definitivi. Il punto però non è questo: è la poesia di Dante Maffìa a sfuggire, a essere rutilante, magmatica, a sfidare il pensiero, la conoscenza, l’amore, il divino. Anche di questo Marco Onofrio è consapevole; scrive sapendo di mettersi per mare con ottimi strumenti critici, ma sapendo di non sapere la vastità del pelago nel quale si muove. Del resto, per comprendere come Maffìa sfugga a una declinazione unica e definitiva, basta leggere le definizioni del poeta calabrese rinvenibili nella prima parte del libro, la Sintesi analitica che occupa le prime 74 pagine: Dante Maffìa è un grande poeta; il poeta lo è per lo sguardo avuto dalla natura; il fare del poeta è quello stesso del suo essere; Maffìa non bleffa; Maffìa non è uomo incline al compromesso né alle mezze misure; Maffìa non sa bussare né chiedere; Maffìa va dritto al bersaglio; Maffìa non edulcora; Maffìa chiede al sole di aprirsi e dettare; Maffìa ha chiaramente ricevuto o forse ereditato un dono spirituale che lo obbliga a innescare la cerimonia magica della scrittura; non c’è luogo o anfratto dove Maffìa non abbia avuto curiosità o ardire di incunearsi; Maffìa sa raccogliere un canto dal deserto di ogni terra desolata; Maffìa non lascia cadere il filo d’Arianna della comunicazione; Maffìa cerca l’origine; Maffia è il maggiore poeta vivente; Maffia parte sempre dalle cose comuni; Maffia sa bene come controllare il fuoco; il poeta è, citando Quasimodo, un umile “operaio di sogni” che lavora “nella marginalità dello spazio”.

Da questa lunga elencazione il lettore potrà cogliere due aspetti dell’analisi di Onofrio. Il primo è il seguente. Il critico romano inizia la sua analisi con l’affermazione Dante Maffìa è un grande poeta. Si tratta di una proposizione di principio che può essere colta più come un assioma che come una tesi, con la conseguenza che le pagine che seguono non hanno lo scopo di dimostrare l’affermazione, ma semplicemente illustrarne le conseguenze in termini strettamente poetici. Del resto basta aprire una qualsiasi delle pagine del saggio introduttivo per accorgersi – e questo è uno dei pregi del libro – come le analisi e le riflessioni di Onofrio siano sempre legate ai testi che, attraverso una costante citazione, portano a creare una rete di connessioni, indispensabile per entrare nell’opera di Maffìa. La citazione, tuttavia, non ha un intento dimostrativo, essa piuttosto si inserisce in maniera intertestuale nel tessuto del saggio al punto che in una lettura ad alta voce l’ascoltatore farebbe fatica a separare i versi del poeta dalla prosa del critico.

Il secondo aspetto che il lettore può trarre dall’elenco di definizioni del poeta Dante Maffìa è l’intenzionalità di Onofrio di puntare alla molteplicità e non a un’analisi che voglia definire e chiudere. L’obiettivo ampiamente raggiunto è quello di guidare il lettore innamorato nella ricerca del cuore del poeta Maffìa. L’officina del mondo non è quindi un punto di arrivo, ma semmai un luogo dal quale partire con la speranza di perdersi e ritrovarsi nei versi del poeta. È una mappa, un prontuario da tenere con sé che ricorda le migliori pagine di quella biografia-saggio-romanzo che è l’Evaristo Carriego di Jorge Luis Borges.

L’officina del mondo è distinta in tre parti. La prima è la Sintesi analitica della quale si è già accennato. Si tratta di un’analisi che va al nocciolo della visione del mondo e della scrittura di Dante Maffìa, cioè della sua altezza nel senso medievale della parola latina altus, usata per indicare la sommità del cielo quanto la profondità dell’abisso. Onofrio riesca a cogliere la capacità della poesia del nostro di trovare il sublime nel firmamento e nell’esile filo d’erba, nell’opera più alta e nella latrina piena di mosche; la capacità di entrare nelle cose e nell’amore senza infingimenti, con quell’onestà di fondo che Maffìa trova nel suo poeta novecentesco più amato: Umberto Saba. Il critico romano prende con punto irradiante per la sua analisi il poema totale del 2013; da lì esplora tutto Maffìa, trovando agganci soprattutto nella poesia posteriore al poema, Il poeta e la farfalla del 2014 e i 7 libri dedicati a Matera, fino a quel libro, feroce, terribile e titanico che è il suicidio lo stupro e altre notizie del 2020. Effettivamente, nei pochi mesi della fine del 2013 e l’inizio del 2014 che coincidono con la pubblicazione del poema totale e Il poeta e la farfalla, Maffìa rivela sé stesso e il suo mondo in maniera sorprendente, apre spiragli nuovi, feritoie di luce e di nuova poesia che introducono la grande stagione materana che impronta gli ultimi testi. Tale fecondità ricorda un altro anno forse ancora più strabiliante: il 2011 quando il poeta pubblicò 5 libri di capitale importanza: Poesie Torinesi, La strada sconnessa, Abitare la cecità, Poesie ritrovate, Sbarco clandestino.

Nella sua analisi Onofrio sceglie di non occuparsi della produzione in lingua calabrese composta dai libri A vite i tutte i jùrne (1987), U Ddìje poverìlle (1990), I rùspe cannarùte (1995), Papaciòmme (2000), che fu accolta con grandissimo favore dalla critica e che ebbe l’avallo illustre di uno studioso della poetica dialettale italiana quale fu Giacinto Spagnoletti. La scelta è da ricondursi alla volontà di non cadere nella trappola di chiudere Dante Maffìa nella dicotomia poeta dialettale (e quindi regionale) – poeta tout court. È una valutazione corretta, anche se finisce per non considerare come Dante Maffìa affidi al dialetto la riflessione filosofica più alta e dolente, profondamente esistenziale, mentre quando deve affrontare i temi dell’emigrazione e cantare la sua Calabria, a partire dall’eredità infranta del 1981, preferisca affidarsi all’italiano. Basterebbe questa annotazione per fugare qualsiasi dubbio circa la presunta “regionalità” di Maffìa, il quale peraltro non ha alcun timore nel rivendicare un’origine mediterranea, misterica e antichissima.

La seconda parte di Officina del mondo è costituita dalle Letture e approfondimenti nella quale Onofrio si dedica alle singole opere poetiche del poeta. Il critico rinuncia a entrare in ogni libro o a compiere una sintesi tematica (peraltro accennata a pagina 46 e dintorni della Sintesi analitica). Sceglie invece 20 libri che ritiene più significativi e compila le relative schede, poste in ordine cronologico di pubblicazione, per guidare il lettore nei libri del poeta. Si tratta di recensioni che hanno l’approfondimento di veri e propri saggi che rendono ulteriormente conto della capacità di analisi e di sintesi di Onofrio, che anche nel rigore recensorio non dà mai nulla per scontato, ma aggancia ogni affermazione ai versi del poeta, attraverso una fitta rete di citazioni.

La terza ed ultima parte è l’Antologia. Si tratta forse dell’operazione più sfidante del critico romano. Si può solo immaginare la fatica di sintetizzare Dante Maffìa e i suoi 47 anni di continua e fecondissima produzione poetica in 57 pagine. L’operazione è riuscita e l’antologia riesce a fornire un quadro significativo, soprattutto in un’ottica di lettura sistematica del libro (la Sintesi analitica e schede).

Il libro non finisce qui, lo completano gli Apparati bio-bibliografici a cura di Francesco Perri che comprendono, oltre alla bibliografia, anche un’antologia dell’epistolario che include fra gli altri nomi quali Jorge Luis Borges, Jorge Amado, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Josif Brodskij che hanno scritto e conversato con Maffìa. Segue un’antologia essenziale di saggi, articoli, recensioni e prefazioni a firma, fra gli altri, di nomi come Aldo Palazzeschi, Mario Luzi, Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Franco Loi.

L’officina del mondo è quindi un libro completo senza avere la pretesa della completezza; è ricco sapendo di essere povero, vuole essere definitivo sapendo di non poterlo essere. Si offre con la stessa generosità e uguale indispensabilità a chi non ha mai letto Dante Maffìa e a chi di Dante Maffia si occupato estensivamente. Testimonia anche l’abilità di un critico come Marco Onofrio, il quale senza rinunciare al rigore è capace di costruire un grande affresco a tratti lirico, a volte narrativo. Del resto Onofrio ha avuto modo di confidare come questo libro sia prima di tutto un atto di amore verso un grandissimo poeta. Un amore che non si può non condividere.

Luca Benassi

“Specchio doppio”, letto da Letizia Leone

Oggi nella quasi totale omologazione, sia stilistica che formale, della sterminata produzione letteraria e d’intrattenimento, spicca il poco spazio riservato al genere del racconto da parte dell’editoria italiana. Eppure il racconto, anzi quella che un volta veniva appellata la novellistica, vanta una prestigiosa e consolidata tradizione nella letteratura italiana attestata già alla fine del duecento con Il Novellino. Il genere della prosa breve non rientra nelle politiche merceologiche dell’industria editoriale. Le motivazioni non sono culturali, bensì economiche, di profitto. Il libro, quale prodotto di consumo, deve rispondere a determinati requisiti di vendita tra i quali la semplificazione, l’intrattenimento e l’appartenenza a modelli destinati a fette di mercato predeterminate. Sebbene poi il racconto, così come la poesia, da questa posizione di marginalità e autonomia tragga linfa per la ricerca espressiva. Lo stesso Giulio Ferroni afferma che il racconto ormai sembra «farsi carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica». Salutiamo dunque con favore libri come questo di Marco Onofrio, racconti brevi ma densamente significanti, parodistici e rappresentativi di una società “borderline”, dove “Le persone normali” (per citare un titolo di Aldo Busi) sotto la superficie della consuetudine rivelano un estremismo esistenziale tutto contemporaneo.

Il titolo e la citazione ad incipit di Giordano Bruno annunciano, nell’immagine prettamente barocca dello specchio, una ontologia dell’essere e dell’apparire, un forte richiamo a certe questioni classiche della doppia identità vita/arte, finzione/autenticità. Questioni già metabolizzate in una modernità pervasa ormai dal virtuale, dal bombardamento mediatico e che va smussando i confini del reale e del riflesso, del contingente e dell’illusionismo prospettico. Tempi di post-verità, ipoverità, fake-news, di illusione di massa dove i fatti indietreggiano rispetto ai pregiudizi o alle emozioni. Il reale e la finzione si mescolano. Istanze sottese a questi racconti. Se lo specchio riflette l’immagine reale e, in una distorsione diabolica un doppio specchio riflette un’immagine di secondo grado, magari con un certo impercettibile livello di deformazione, allora viene spezzato il rapporto biunivoco tra osservatore e osservato. Il doppio specchio di Onofrio, con la doppia rifrazione include osservatore e osservato in una visione straniante e obliqua che potrebbe essere anche una via di fuga dal semplice rispecchiamento. Ma anche il Vuoto e il Nulla sono fili rossi che innervano questi racconti con le variazioni socio-antropologiche dell’inettitudine, dell’inazione, del fallimento. Allora l’intuizione che ci raggiunge dal titolo è un’immagine di riflessione del vuoto che avviene tra due specchi posti l’uno di fronte all’altro, dunque auto-riflettentesi. Scrive R. Barthes: «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso». «Il vuoto del vuoto. Così vuoto da rimpiangere il nulla», scrive Onofrio in un atipico racconto dell’orrore, La vecchia Zerbe. Oppure in Caos: «È il vuoto, sotto e intorno a me. Tutto gira, tutto sfila. Sto cadendo. Precipito ed urlo, ma non sento nulla…»

Il libro è strutturato in dieci coppie di racconti centrati su dieci parole-chiave (La Letteratura, La Carne, La Borghesia, la Morte, Il Caos, Il Sentimento, Il Football, La Politica, L’Italia, Roma) quasi un paradigma di variabili esistenziali dove la vita stessa è incasellata nei suoi aspetti macroscopici. La scrittura di Onofrio si muove con strategie stilistiche che rifiutano la rappresentazione lineare, mimetica. Lo straniamento ne è la cifra stilistica. Quasi tutti i racconti prendono avvio da situazioni di routine quotidiana, viaggi in treno, appuntamenti di studio, esami universitari di dottorato, Onofrio stesso lo dichiara in più punti: momenti di vite qualsiasi. Ad esempio nel racconto Le mutandine: «Una vita qualsiasi, Attilio lo sa, eppure non riesce a lamentarsi anche nella normalità puoi trovare, se vuoi, dello straordinario…». Attilio infatti si è specializzato nelle fantasticherie, come altri protagonisti del libro, tanto che nella “continuità dell’argomentazione logica”, per dirla filosoficamente, irrompe facilmente il surreale o il fantastico, l’assurdo o lo straordinario. Si tratta di rêveries, sogni ad occhi aperti, allucinazioni, esperienze surreali vissute come eventi normali. Fantasmi pubblici e privati. La narrazione di Onofrio ci suggerisce che il “Reale” è precario, incoerente, fluttuante e fluido, aperto alle irruzioni di altre dimensioni magari psichiche o inconsce che si mescolano ai fatti del giorno o della notte. Il principio di realtà ha perso il suo fondamento e l’Io ne esce indebolito e disorientato.

Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte scrive: «Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione, è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia ci sono soltanto dei simulacri.» Non a caso Onofrio parte dalla letteratura con un primo racconto eponimo smaccatamente pirandelliano, Specchio doppio, e lo colloca dentro un mosaico di temi, metafore e allusioni. Autore, lettore, in un gioco di continua interscambiabilità. Nel guardarsi allo specchio (il narcisismo, questa malattia tutta contemporanea!) ci si confonde infine, si entra in un loop, in un gioco di ripetizioni e di scatole cinesi, non si sa più chi è l’autore e il lettore, l’artista e il fruitore, L’Io e l’Altro. In fondo la coscienza e l’identità sono solo un punto di vista, un punto di osservazione prospettico che potrebbe cambiare da un momento all’altro. E l’equilibrio è solo un’illusione. Basta poco, un’impressione, una percezione, un nonnulla…Allucinazioni fantasmagoriche o illusioni ottiche sono ormai piani interscambiabili. L’assurdo e l’inverosimile vengono normalizzati.

La bravura di Onofrio è anche nella sorpresa. La sua narrazione parte da posizioni quasi didascaliche, ad esempio in Roma, dove le descrizioni di un monumento iconico quale il Colosseo vengono dispiegate in memorie storiche e aneddotiche fino ad un’inattesa virata nel grottesco e nell’umoristico con il racconto rocambolesco di un amplesso fantasmatico, finché nell’epilogo lo scrittore ti aggredisce poeticamente alle spalle con un finale che commuove a tradimento chi legge. Così come nel racconto Il grande sogno dedicato alla squadra del cuore, la Lazio, dove  entrano ed escono fantasmi e si può saltare da una parte all’altra della linea temporale con la facilità di una situazione onirica. La memoria è un fatto quotidiano come gli altri, e prendendo un autobus il protagonista può andare a cercarsi nel proprio quartiere a quarant’anni di distanza, magari arrivare dietro la porta di casa e ascoltare la propria voce infantile. Altro tema ricorrente quello del sesso, vissuto in una distorsione straniante, con femmine fameliche e maliarde, con l’immagine grottesca a tratti caricaturale del sesso femminile che ricorda certo espressionismo e deformazioni gaddiane. Non mancano gli affondi nella deiezione: «Indi calarsi le braghe, lentamente o meno – di questo ci si prega. Indi ancora, senza alcuna verecondia, liberamente dare inizio al cago: che ne spurghi le budella, dal gravame dell’attuffo che l’intrippa, e rilasci il ponderoso pegno di ventresca, che più utile riesca alla salute…». Con il cerimoniale scenografico della defecazione nel racconto Festa a tema avviene il ribaltamento grottesco del rito sociale della festa e del perbenismo borghese. Lo scarto fisiologico viene normalizzato a momento conviviale, parodia del trash mediatico in cui siamo immersi. Oppure la ricorsività di umoristiche  descrizioni delle performance sessuali sotto metafora calcistica.  

E se spesso il soggetto subisce una «perdita di realtà», in una conversione umoristica arriva più volte la sberla liberatoria. Come una catastrofe, il rivolgimento giunge alla fine dell’azione e la conclude: «…stufo di sentirlo, mi decido ad agire prima del prossimo “segnale”. Prendo la misura col braccio, poi la rincorsa e…PEM…gli assesto un manrovescio coi fiocchi, da farlo rivoltare.» (Il “Dannunziano”) Se il nichilismo ha depredato la realtà di ogni valore facendoci precipitare verso una incognita,  la vita ha assunto una parvenza farsesca. E questa scrittura stride di critica sociale e si dipana sempre un gradino sopra la logica tranquillizzante e la ragionevolezza. Ha detto bene Paolo Di Paolo nella quarta di copertina: «Marco Onofrio poeta nutrito dalla tradizione». Ma non si tratta di epigonismo, bensì di appropriazione per assimilazione cosciente di una tradizione letteraria nell’originalità e individualità propria dello stile dello scrittore Onofrio al quale aderiscono le parole di Ernst Robert Curtius: «Per la letteratura, tutto il passato è presente… Il presente atemporale, caratteristica specifica della letteratura significa che la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente».

Dunque racconti densi di stratificazioni letterarie, fantasmi pirandelliani, disarmonie espressionistiche gaddiane, trappole kafkiane, ironie alla Flaiano. Perché in fondo ognuno di questi racconti potrebbe anche rivelarsi un omaggio ai grandi testimoni della più alta tradizione letteraria, da Pirandello a Pasolini, da Flaiano a Kafka, da Calvino al Dürrenmatt.

Letizia Leone

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Letizia Leone

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Nel giro di poche ore
in me trascorrono millenni
si consumano stagioni
con poveri allori e tristi mete
vissuti in colloqui inutili
commentando il passo delle stagioni,
le inique leggi parlamentari.

Ma non sei mai assente
nel giro di quelle ore
(sullo sfondo il tuo ticchettare superbo)
e tra la sterpaglia becera del cicalare
appari e illumini il palco notturno,
riempi gli interstizi del possibile,
rendi umana la specie,
avvivi di annunci
il cammino del mondo.

(Dante Maffìa)

Il recente saggio di Marco Onofrio (poeta e dunque critico implicato ontologicamente nel fare poetico) è uno studio approfondito sull’opera poetica di Dante Maffìa. La lettura di questo libro ha dell’avventuroso: si legge d’un fiato, avendo una peculiarità di fascinazione che tiene legato sia il ‘lettore forte’ che il cultore delle humanae litterae e riesce a comunicare il senso e la verità della Poesia.

L’ermeneutica letteraria nel corso del Novecento ci ha fornito molteplici strumenti di analisi, l’estetica, la stilistica, la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi o la fenomenologia, prospettive dense di stimolazioni eppure devianti verso le ragioni ultime e fondanti del fare “Poietico”. Devianti verso una definizione che individui lo specifico e l’essenza stessa della poesia. Che cos’è la poesia? Anche il mito ci avvisa che la poesia-Euridice non si può/deve guardare alla luce di un logos chiarificatore, pena il suo svanire. Gli dèi inferi avevano avvisato Orfeo, il cantore-sciamano. Marco Onofrio prende di petto immediatamente la situazione e apre il libro apoditticamente con l’affermazione che Dante Maffìa è un grande poeta. Sviluppandone poi l’appassionata dimostrazione per circa trecento pagine.

La poesia è uno stato dell’essere, un “a priori” ontologico, una modalità della coscienza pre-verbale che sta alla base dell’espressione e che necessariamente deve incanalarsi, cristallizzarsi in forma. Deve cioè informare la lingua. La poesia è forma. Ma anche, ineludibilmente, talento innato, come rileva Onofrio, talento che va forgiato sull’incudine del sapere (techne e cultura). La prima sezione del libro “Sintesi analitica”, è un’accurata e puntuale analisi della poetica maffiana che si dispiega in un corpus in versi e prosa di oltre cento libri.

Onofrio è la guida, la bussola che ci orienta in questa immensa varietà e pienezza espressiva dove la matrice filosofica fondante è la riabilitazione del senso. In questo Maffia si rivela poeta assolutamente controcorrente nel panorama attuale, la sua poesia è quasi una frattura in seno alle correnti maggioritarie della poesia contemporanea che si abbeverano alla fonte del nichilismo, del postmodernismo o del minimalismo con le sue distopie domestiche, perché come scrive Onofrio il nostro poeta «segue la via primaria della conoscenza, quella del cuore».

Quanto c’è qui dei nobili pensatori della sua terra? Di quei pensatori calabresi, filosofi dell’Anima mundi   suoi conterranei e padri putativi, Telesio, Campanella, Gioacchino da Fiore ma anche di altri padri nobili come Bruno, Marsilio Ficino (per il quale l’uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell’universo) oppure Pico della Mirandola, quel platonismo cinque-secentesco che suggestionerà anche Giambattista Vico. E che nel contemporaneo informerà il pensiero di Hillman, Jung o Gaston Bachelard, il filosofo della rêverie, dell’immaginazione e dell’azione immaginaria. Si pensi, a proposito, all’ampia tematizzazione di Campanella del sensus come centro della coscienza e della conoscenza, da cui deriva una forte attitudine al concreto e al sensibile, a quella «sapienza del senso» quale facoltà creativa posta all’origine della poesia e della civiltà. Onofrio ben dimostra la concezione euristica che informa la poesia di Dante Maffìa. 

Già il titolo del libro, L’officina del mondo, è manifesto della poetica di Maffìa. Entrando nella sua opera veniamo sopraffatti dai temi, dalle questioni, dalle suggestioni. E Onofrio, con la bussola del suo libro, punta l’indicatore sul metodo, sul come e perché del lavoro del poeta. Un vero alchimista assaggia, assapora, entra in connessione con le materie che osserva, sviluppa un metodo empatico non semplicemente analitico, in vista di una metamorfosi dove evento, natura e verbo possono intersecarsi all’infinito: scrive Onofrio «Maffia non edulcora ciò che vede o immagina, ma lo diventa», e già siamo oltre le retoriche, gli stili e i formalismi, l’attenzione qui è volta al recupero di una lingua che sappia notare le qualità dei corpi, la qualità della vita.  Una poesia concreta fatta di parole che vivifichino le cose così simile a quella «chiarezza elementare», là dove Onofrio sottolinea il gesto arcaico e fondante di ogni civiltà, impastare la farina per farne pane. Questo il lavoro essenziale archetipico della scrittura di Maffia. Un corpo a corpo con la lingua che volge verso la ricerca inesauribile della semplicità, in quanto l’espressone è proprio una ricerca essenziale di autenticità: «È ora di chiedere alla poesia di diventare carne e sangue». Allora la poesia di Dante Maffia si rivela un inesausto esercizio spirituale prima che linguistico. E ciò non implica un distacco contemplativo dalla realtà, bensì una immersione, con consapevolezza rinnovata, anche nel contingente, nella Storia. Una poesia come memoria storica. Attività che preserva i grandi valori della civiltà umanistica agonizzante, quel patrimonio ibernato nei musei o biblioteche. E dunque ripensamento mito-poietico dei dati della tradizione che risponde in pieno a quella “nostalgia per la cultura mondiale” individuata da Brodskij.

Altro motivo enucleato da Onofrio in pagine mirabili è «l’espansione cosmica della poesia di Maffia». Il critico ci dimostra come la scrittura del poeta sia un incremento di realtà nel suo procedere per espansione, per onde concentriche o concatenazione analogica quando la coscienza entra in connessione con le vibrazioni della materia. Un penetrare il mistero della scrittura estenuandosi, scrivendo fino al limite delle proprie forze. E questo deriva dall’«approccio sintonico» alla realtà sensibile, nella comunione di eros e poesia, dato che la poesia in fondo è una “erotizzazione del linguaggio”. La scrittura del mondo è inesauribile. Testimonianza esemplare è IO. Poema totale della dissolvenza (2013), opera vertiginosa di oltre 18.000 versi dove il nostro si fa “scriba Dei”, in un viaticum ad infinitum attraverso la scrittura declinata in tutte le sue possibilità/impossibilità stilistiche, tentativi oltre il limite del linguaggio. Un poema accordato nella tonalità emotiva di una luce (radice millenaria) mediterranea radicata antropologicamente ad una terra che è radice dell’anima. Poema della maturità, summa e testamento spirituale. Una totalità mistica, un’estasi della scrittura che assomma in sé tutti gli opposti: visionarietà e lucidità, aperture metafisiche e gusto del particolare al punto di fusione del “qui e ora”, di una presentificazione che interseca l’ascissa di un tempo cosmico, infinito, eterno. E il punto di questa unione è il momento poetico, incandescente nella perfetta fusione di forma e contenuto. Ma in questa immersione olistica e cosmica ha una sua parte anche il vuoto, e la meditazione poetica che lo attraversa. Questa è anche una riflessione sulla caducità e l’impermanenza, e dunque sulla evanescenza delle forme: «supremo realista del canto e della perdita del canto».

Da un veloce excursus sull’opera di Maffia, che abbraccia mezzo secolo di storia, possiamo osservare la ricchezza (anzi la totalità) stilistica ed espressiva, a seconda che l’interrogazione che assilla il poeta sia sociale, esistenziale o metafisica. Proprio nella seconda sezione del libro Onofrio concentra la sua ermeneutica sulle singole opere. Dal primo libro, con prefazione di Palazzeschi, Il leone non mangia l’erba del ’74 al libro del 2020 Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Maffìa ha attraversato la storia di questo Paese, i cambi di governo, le politiche e i problemi sociali che a ben guardare sono rimasti immutati. E se l’emigrazione era quella meridionale, oggi è il flusso migratorio mondiale dal sud del mondo. L’Eredità infranta (1981) è poesia civile dove l’attacco gramsciano è guida illuminante di lettura: «La classe che detiene lo strumento di produzione… ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, sena preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dai cadaveri dei campi di battaglia…» La poesia come educazione, ancorché visione utopica che incrementa la consapevolezza delle classi emarginate e oppresse. In questo libro anche la città di adozione, Roma, diventa febbrile labirinto di rigurgiti politici e ideologici.

Correda il libro una prolusione del 2019 inerente al conferimento della cittadinanza onoraria da parte della città di Reggio Calabria, dove il lavoro artistico e culturale di Dante Maffìa si profila come azione politica di riscatto etico e culturale di una regione carica di memorie millenarie. L’antologia dei testi completa l’ermeneutica di Marco Onofrio, e rende questo libro una pietra di miliare per tutti gli studiosi di Maffìa. Un autore la cui opera si può inserire nell’ambito dei classici. E qui uso il termine classico nell’accezione data da Italo Calvino: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Oltre le mode e correnti letterarie, provoca incessantemente il lettore a idee e suggestioni nuove, a riletture che ne incrementano il senso continuamente e, per citare un filosofo molto popolare oggi come Massimo Cacciari, l’aggettivo ‘classico’ non indica qualcosa che «rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente».

Letizia Leone

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”, letto da Carmine Chiodo

Va anzitutto ricordato che Marco Onofrio, saggista, scrittore e critico letterario di notevole spessore, ha dedicato a Dante Maffìa, oltre al libro che ora mi appresto ad esaminare, un altro che analizza a perfezione la narrativa maffiana (“Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”, Reggio Calabria, 2014); va pure ricordato, sempre di Marco Onofrio (a cura di), “L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” (libro-intervista, con ricco Album fotografico a colori), Roma, 2018. Orbene il nuovo volume – come ci dice chiaramente il titolo (“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa, Reggio Calabria, 2021) – analizza chiaramente e dettagliatamente la scrittura poetica di Maffìa, a partire dalle primissime raccolte fino alle più recenti. Anche questo nuovo lavoro monografico è molto limpido, chiaro, illuminante dei procedimenti poetici del poeta calabrese, che giustamente viene considerato il più grande poeta italiano del secondo Novecento. Sul poeta, sullo scrittore Maffìa esiste una sconfinata bibliografia, e della sua poesia come pure della sua narrativa si sono occupati innumerevoli critici e poeti, italiani e stranieri. Ora Onofrio, guardando esclusivamente ai testi, affrontati in un “corpo a corpo” spregiudicato e attento, senza mai sorvolare o svicolare nel vago, sa darci delle pagine di Maffìa calzanti e convincenti analisi. Così il lettore si trova davanti a un discorso critico-ermeneutico non difficile e astruso ma sempre comprensibile, limpido, scorrevole, che mette appunto chi legge nelle condizioni di capire e apprezzare i vari esiti poetici di Maffìa, conseguiti raccolta dopo raccolta. La scrittura critica di Onofrio è incisiva, sa cogliere la sostanza poetica dei testi analizzati, o meglio della scrittura di Maffìa, e dimostra con questo libro come il poeta di Roseto Capo Spulico (alto Jonio cosentino, ma da anni Maffia vive e lavora a Roma) è un “grande poeta”. Onofrio riesce benissimo nelle sue analisi e si riconosce in Maffìa, lo ammette egli stesso: “Mi riconosco in lui per questa sua passione totale e torrenziale che lo rende in grado di aderire alla propria interiorità, scrivendo in modo sempre autentico e sincero, senza ricorrere a mezzucci, schermi o infingimenti” (p. 10). Anche chi scrive queste note conosce bene l’uomo e il poeta Maffìa, come pure Onofrio, scrittore ed esegeta di grande talento che, prediligendo una lingua e uno stile sempre scorrevoli, riesce ad appassionare chi lo legge.

Amici, dunque, Maffìa e Onofrio. Ancora Onofrio scrive: “Gli incontri che la vita ci riserva sembrano fortuiti, in realtà non lo sono: noi chiediamo in silenzio e l’invisibile ci risponde sotto forma di “caso”. Avevamo dunque, ne sono sicuro, il destino di incontrarci e di essere amici (malgrado la differenza d’età di 25 anni): le nature simili si richiamano lungo il cammino. Abbiamo entrambi un’indole intemperante, libera, selvaggia. Siamo allergici al potere che non discenda dal merito […]. Ci disgusta quel retaggio di “feudalesimo” che ancora aleggia negli ambienti letterari, intricati di gerarchie simboliche e aprioristiche, di regole non scritte, di trafile umilianti da sostenere” (p. 10). Ho voluto abbondare con la citazione, con questa citazione, perché ci permette di capire l’uomo e quindi il poeta Maffìa ma pure il critico e scrittore Onofrio. Non bisogna però pensare che è un libro amicale, bensì è un lavoro che con la massima chiarezza – lo ribadisco – e con rigoroso metodo critico spiega ed evidenzia gli elementi caratterizzanti la personalità umana e artistica del poeta calabro-romano. Tutto sommato ci troviamo davanti a una guida preziosa e utile per entrare nel mondo poetico di Maffìa. Per esempio, in una “Nota” posposta alla riedizione a quarant’anni di distanza de “Il leone non mangia l’erba” con cui esordisce nel lontano 1974 (raccolta introdotta da Aldo Palazzeschi), si legge: “La poesia l’ho vissuta, lo ripeto spesso, e la vivo come una religione, una fede assoluta. La poesia come vita, la vita come poesia ed è ovvio che mi sento spesso come un pesce fuor d’acqua perché i miei valori sono spirituali e non venali […] Intanto frequentavo i salotti romani trascinato da Dario Bellezza, quello di Elsa De Giorgi, di Enzo Siciliano, di Barbara Alberti. Stavo sempre in disparte, sconosciuto ai più, silenzioso, attento, analizzavo gesti e parole e mi pareva d’essere tra selvaggi che si contendono una coscia della preda sventrata. Sentivo d’essere allora d’altra razza rispetto a molti di loro: postulanti, leccapiedi, cavalier serventi […] no, la letteratura per me era altro, era la tensione verso la bellezza, l’infinito, lo svelamento dell’invisibile, come aveva scritto Rilke” (p. 15). Maffìa ha lavorato e lavora assi bene nella poesia, nella narrativa, nella critica letteraria, e così facendo ha ottenuto e ottiene notevoli esiti artistici ben analizzati da Onofrio. Egli per esempio sottolinea che una delle costanti della poesia maffiana è “l’impossibilità di derogare da un approccio di sincerità assoluta alla vita e alla scrittura, che ne è diretta – anche quando non immediata – emanazione. Maffìa va dritto al bersaglio perché segue senza fronzoli e ammennicoli la via primaria della conoscenza, quella del cuore”.

Vediamo ora più da vicino come è fatto il libro. Comincia con pagine che nell’insieme, grazie a uno sguardo a 360° sull’intera produzione poetica di Maffìa (esclusa quella dialettale), danno vita a una “Sintesi analitica”; seguono poi “Letture e approfondimenti”; “La Calabria della cultura e della vita”; “Antologia” (99 poesie selezionate da 33 libri); “Apparati bio-bibliografici”, a cura di Franco Perri; “Epistolario” e infine “Bibliografia minima”. Onofrio ci offre così una puntuale sintesi dell’opera poetica di Maffìa, e tra le altre cose sottolinea appunto che la poesia del poeta di Roseto Capo Spulico non è mai esposta “al rischio sterile dell’arzigogolo, mai banalmente e riduttivamente  minimalista […] è una poesia che – nella sua semplice e sempre palpabile concretezza – dispiega a pieno regime le gigantesche potenzialità della lirica, quando è autentica espansione dell’“uomo vitruviano” negli spazi visibili e invisibili del cosmo” (p. 33). Da condividere l’affermazione di Onofrio che quando si legge la poesia di Maffìa si avvertono “le vibrazioni magiche e naturalistiche di Telesio, Bruno, Campanella, Marullo Tarcaniota, ma mi viene spesso in mente la luce del pensiero plotiniano: l’Uno come principio immobile del molteplice in cui e attraverso cui si irradia, in guisa di sole, negli esseri del mondo” (p. 37). Ogni poesia coincide con le parole dell’essere: per tale motivo “la scrittura si infila ovunque” e raggiunge “luoghi impensabili”, “lontananze assurde / che solo la poesia / millimetrando acciuffa” e tende a dire “tutto nel minimo dettaglio”. La poesia di Maffia, come ancora viene opportunamente notato da Onofrio, possiede pure le note “esacerbate e violente dell’invettiva (contro l’omologazione globalizzata delle città anonime, la crisi umanistica del pianeta, le società tecnocratiche, la “pornocrazia dell’insignificanza”, la decadenza dell’Italia contemporanea, ecc.) che può anche virare sul registro  apocalittico, in forma di profezia” (p. 47):

presto la terra sarà una filastrocca
raccontata da nani
nelle piazze americane,
con accompagnamento di pantomime
e spari che mirano al cuore dei passanti
per tenere vivo
il ricordo del disastro…

Altre volte la scrittura diventa allusiva e musicale come nell’arabesco, “dove la parola dice delle cose senza nominarle, e quindi va al di là di se stessa, oltre la comune denotazione, per accedere a una sorta di “intermondo” sospeso tra il piano fisico e quello spirituale, liberando il senso umano dalla contingenza del principium individuationis e connotandosi come “pura lucentezza di suoni di colori di immagini di sogno” (p. 50). Assai pertinenti pure le pagine dedicate al surrealismo di Maffìa: “Basta un’immagine a innescare il processo associativo, a scatenare  la “parata” […] “un piccolo insetto / che stride in armonia / con l’aeroplano che passa” […] e “all’improvviso la sfilata /dei ricordi, i nodi inestricabili / che danno il capogiro, ordinano / una sequenza arbitraria / di vicende estranee”… ed ecco, per esempio, “la potenza del particolare che si impone, come “il lampo d’una mutandina / bianca tra le cosce abbronzate” della ragazza che poi ha sposato” (p. 73). In “Letture e approfondimenti” sono analizzate in ordine cronologico 20 tra le varie sillogi poetiche apparse nel corso del tempo, a principiare da “Il leone non mangia l’erba” del ‘74, come già detto, fino a “Il suicidio, lo stupro e altre notizie” del 2020.

Ma chi è veramente Dante Maffìa? In sintesi si può affermare, con Onofrio, che è “un uomo e un artista insaziabile di vita e di bellezza”, e ancora che “è soprattutto l’interprete di una Calabria che finalmente, senza nulla rinnegare del suo passato, si avvia a una svolta etica, a un rinnovamento totale del suo cammino”. Alla città di Reggio Calabria il poeta mediterraneo dedica le sue attenzioni; Reggio “signora / dei due mari” che si accende all’alba e racconta “antiche storie” sotto l’egida attenta dei Bronzi. Il poeta “trasfigura ciò che vede e, oltrepassando nella Fata Morgana che aleggia e palpita sullo Stretto la “sacra effigie del viaggio infinito”, riconnette la città di oggi alle origini del mondo, dell’essere, del tempo” (p. 190). Segue poi una corposa antologia delle poesie estrapolate dalle varie raccolte, e poi ancora la bibliografia delle opere di Maffìa e della critica, la folta e qualificata critica su di esse. Esiste su Maffìa – lo accennavo prima – una vastissima bibliografia. Molte sue opere sono tradotte in lingue straniere, come pure in diversi atenei italiani sono state discusse tesi sulla sua sterminata produzione. Ancora va segnalato l’epistolario, qui antologizzato con minima parte di esso. Maffìa fin da ragazzo ha avuto una fitta corrispondenza con grandi autori della letteratura italiana e internazionale, tra cui Borges, Amado, Pasolini, Calvino, Primo Levi, per fare soltanto qualche nome. Il libro di Onofrio si accomoda con disinvoltura fra tanti contributi di prestigio, da cui riceve il “benvenuto” per la freschezza e l’acuta intelligenza dello sguardo. Ogni grande poeta ha bisogno di un critico capace di realizzare una osmosi creativa tra la filologia, l’interpretazione e lo spirito profondo della parola. È un connubio che questa potente narrazione monografica, bella anche perché ha essa stessa il respiro di un “poema”, realizza compiutamente; tanto che Maffìa trova in Onofrio, per certi versi, il suo critico ideale.     

Carmine Chiodo

“L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffìa”. Nota critica di Antonella Caggiano

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Marco Onofrio nel 2014 ha dedicato a Dante Maffia un saggio molto interessante intitolato “Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffia tra realtà e surrealismo mediterraneo”. Ora dedica un altro saggio alla poesia di Maffia (L’officina del mondo. La scrittura poetica di Dante Maffia, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2021, pp. 294, Euro 16), scandagliandone tutti i testi, mettendo a fuoco la tecnica compositiva del poeta calabrese, individuandone le scaturigini, fotografando da vicino il fare ed entrando, nel contempo, nelle atmosfere, nelle germinazioni dei versi, nella vasta e multiforme armonia che plasma i componimenti, senza trascurare ogni particolare riguardante le tematiche, i nessi con l’antico e il moderno. Venti volumi messi quasi in trasparenza per cogliere l’essenza della scrittura di Maffia e per poter affermare, come già avevano fatto Giacinto Spagnoletti, Dario Bellezza, Leonardo Sciascia e Jorge Luis Borges, che siamo al cospetto di un grandissimo poeta del Secondo Novecento.

Onofrio ha saputo leggere in profondità e ha saputo darne conto all’inizio con una “sintesi analitica”, come egli la chiama, e poi soffermandosi sui singoli libri per individuare le essenze, la materia di un poeta che della sua inquietudine sa fare un’arma che gli permette di scendere negli abissi per riportare alla luce fermenti di misteri, ombre sfuggenti, segni indelebili della ferocia del tempo, dell’essenza dell’Amore, e delle verità che tentano sempre di rifugiarsi dietro le apparenze. Onofrio dimostra il valore di Maffia offrendo la bellezza e la “castità” dei versi, la complessità d’un mondo che dapprima ha accumulato esperienze, letture, sofferenze, dubbi, e poi ha cercato nella parola cristallina la soluzione per entrare nel vivo delle emozioni, nel divenire eterno, per usare una espressione cara al poeta.

Convince il libro di Onofrio perché la tenuta critica si poggia sulla concretezza e riesce a coinvolgere, a dimostrare che con la poesia non si gioca, che la poesia è il traguardo che dà alle civiltà la via del futuro. Il libro offre anche una antologia dei testi maffiani, esattamente novantanove. A cura di Francesco Perri alla fine del volume si trovano gli apparati bio-bibliografici e un florilegio di giudizi critici su Maffia. Solo qualche nome: Amado, Starobinski, Pasolini, Calvino, Brodskij, Vargas Llosa; Palazzeschi, Zanzotto, Pontiggia, Luzi, Givone, Bodei…

Antonella Caggiano

“Ricordo di Nino Manfredi” nel centenario della nascita (22 marzo 1921-22 marzo 2021)

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Nino Manfredi ci ha lasciato fisicamente il 4 giugno 2004. Solo il corpo si è arreso alla morte, poiché l’arte ne ha reso immortale la figura, sia l’attore sia l’uomo, e costante l’affetto che il pubblico gli ha tributato nel corso degli anni. In tempi recenti, tuttavia, e la cosa mi addolorava, il suo nome stava un po’ uscendo “dai radar”. Nessuno metteva in dubbio la grandezza dell’artista ciociaro, nato a Castro dei Volsci il 22 marzo 1921, ma se ne parlava troppo poco rispetto a ciò che invece merita. Mi ha fatto molto piacere, quindi, il successo riscosso in TV (Rai 1, 25 settembre 2017) dal film “In arte Nino” (2016), regia di Luca Manfredi (figlio di Nino), con Elio Germano interprete principale – film riproposto appena due giorni fa, sempre su Rai 1, in occasione del centenario che si celebra oggi. Ne ho avuto piacere soprattutto perché è servito a ravvivare il ricordo di quello che considero, insieme a Sordi e Mastroianni, uno tra i maggiori attori italiani del ’900; e poi perché ha dimostrato che l’amore della gente per Manfredi è intatto e inscalfibile: un diamante su cui il tempo non può nulla. L’oblio, peraltro, era un grande cruccio di Nino, come in genere accade per gli artisti. Negli ultimi tempi aveva paura di essere dimenticato e di non avere tempo per quanto gli restava ancora da dire, ed era ancora tanto. È così che si confessa durante un’intervista sulla sua lunga e fruttuosa carriera: «Certe volte, nella mia follia, mi chiedo: e se fossi diventato immortale? Certo non mi dispiacerebbe, perché potrei continuare a raccontare le mie favole come da bambino. Dentro sono rimasto bambino, e questa è già una forma di immortalità». Dentro lo sguardo custodiva tutto il suo percorso: aveva gli occhi pieni di vita, ricchissimi di esperienza e tuttavia limpidi, sinceri, pronti allo stupore. Curava e coltivava il bambino interiore alimentando ogni giorno la sua fantasia, la voglia di essere creativo, di non spegnersi nell’abitudine: la gioia d’esser vivo. Per fare Geppetto, nel “Pinocchio” (1972) di Comencini, era andato a studiare i bambini al giardino degli aranci, sull’Aventino. Comencini gli disse: “Secondo me sei l’unico attore che può parlare con un pezzo di legno”.

Manfredi è stato un grande interprete, un protagonista a 360° dello spettacolo italiano: teatro, cinema, televisione, musica, doppiaggio. Indimenticabile di autentica romanità, fra i tanti ruoli, il “Rugantino” (1962) di Garinei e Giovannini, con musiche di Trovajoli, accanto ad Aldo Fabrizi nei panni del ferale Mastro Titta. E poi i film con Gigi Magni, su tutti “In nome del Papa Re”, 1977 (nei panni di Mons. Colombo da Priverno) e “In nome del popolo sovrano”, 1990 (nei panni di Ciceruacchio). Che tipo di attore era? Tutti lo ricordano scrupoloso, meticoloso, assai severo con sé stesso, estremamente concentrato sul set. Entrava davvero nel personaggio: recitando arrivava a pensare, sentire e vivere come lui. Non si affidava all’improvvisazione, teneva a bada l’istinto. C’era tutto uno studio a monte: Nino meditava a lungo sul copione, soppesava le sfumature, costruiva con impegno e precisione il personaggio che doveva interpretare. «Nel costruire un personaggio» ebbe modo di riflettere «mi ispiro alla realtà delle cose, anche se i gesti non vanno riprodotti in modo meccanico, ma reinventati e poi espressi in un linguaggio che tutti possono comprendere. Cioè trasporto i gesti, i movimenti, i tic che sono un patrimonio di esperienze comuni alle mie corde interpretative». E poi la tecnica: aveva una capacità straordinaria di far lavorare tutto il corpo in funzione espressiva, soprattutto la micro-mimica del volto. Diceva: «Conta prima la mimica, poi la parola: questo non lo insegna più nessuno». La sua arte di attore insegue anzitutto l’ideale del film muto; riconosceva infatti C. Chaplin come maestro intramontabile. Così Manfredi recita nella prima delle sue tre prove di regista, “L’avventura di un soldato” (1962), dall’omonimo racconto di Italo Calvino, in cui un fante vive solo attraverso i gesti e il progressivo contatto fisico la sua fugace avventura con una vedova sul vagone di un treno. Ricorda Manfredi: «Mi diedero da leggere i racconti di Calvino, mi soffermai su L’avventura di un soldato, dove capii che c’era un’idea con cui potevo confrontarmi: inconsciamente la molla dell’interesse mi scattò dentro anche perché io stesso avevo vissuto una esperienza in certo modo simile quand’ero giovane, durante una gita a Ostia. Mi decisi allora per questo racconto; e dato che i miei padreterni erano stati Chaplin e Buster Keaton, mi dissi che se volevo dimostrare a me stesso di aver capito il cinema, dovevo rifarmi al cinema muto, alla nascita del cinema. E la misura dell’episodio mi pare giusta, per un racconto di pure immagini». 

La potenza epifanica dell’immagine muta richiama, per assonanza evocativa, lo stilema caratteristico di Manfredi: il doppio sguardo. È una cifra tipica del suo stile, quella di guardare e poi riguardare, una o più volte. Secondo me ha un valore ontologico. Anzi: segna forse il passaggio dal piano ontico (le cose chiuse nel loro mistero) al piano ontologico (la scintilla dell’essere che si svela all’uomo in cerca di conoscenza). Guardare e poi riguardare è la sua reazione dinanzi al mistero dell’esistente: per vedere e capire meglio; perché la prima volta gli è sfuggito qualcosa che pure lo spingeva a riguardare; perché magari non riesce a capacitarsi di qualcosa. Guarda e poi riguarda perché non può distogliere lo sguardo e si sente toccato dalle cose: ciò che appartiene all’uomo non può lasciarlo indifferente. Guarda e poi riguarda perché ciò che ha di fronte lo riguarda. Come dice nelle vesti di Ciceruacchio (“In nome del popolo sovrano”): «io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo, e l’omo se impiccia». C’è una volontà di conoscere e di approfondire, al di là degli schemi acquisiti e dei luoghi comuni, per cui si sente pro-vocato dalla verità nascosta nelle cose. L’arte obbedisce a un impulso inesauribile di ricerca e scavo nell’infinito dell’universo umano: occorre recitare sul set per risultare autentici nella vita, inducendo gli spettatori ad essere altrettanto. Questa tensione gnoseologica, che infine si rivela nel suo carattere precipuamente etico, lo spingeva verso il cinema di impegno sociale e i film “difficili”, oltreché splendidi, come ad esempio “Girolimoni, il mostro di Roma” (1972), di Damiani, o “Pane e cioccolata” (1973), di Brusati, o “Brutti, sporchi e cattivi” (1976), di Scola, o “Café Express”, di Loy, dove Manfredi spesso si trasfigura con impressionante realismo pur di giungere al cuore scomodo delle apparenze e delle convenzioni. Ebbe infatti modo di affermare: «Io ho sempre scelto film difficili. Se non sono difficili, non mi stimolano».

Manfredi non è mai stato un “buonista”, e questo gli ha consentito di avere la credibilità per interpretare i tipi umani e sociali più disparati, anche diametralmente opposti: vincenti e perdenti, cattivi e buoni, violenti e timidi. La dimensione etica a cui tende riesce efficace dal momento in cui egli non si tira fuori dalla rappresentazione ironico-satirica del mondo, come farebbe un moralista, ma sente di farne parte perché conosce e comprende l’ambivalenza del cuore umano e l’enigmatica stranezza delle cose. Tutti potremmo essere vittime e tutti carnefici, poiché l’angelo e il demone albergano nel cuore di ogni individuo, e l’attore – se vuol essere grande – deve riuscire a sprigionare questa complessità in forme di volta in volta autentiche senza cedere allo stereotipo o, peggio, alla caricatura. In tal senso Manfredi è attore non dico maggiore, ma forse più convincente del pur bravissimo Sordi, proprio per la capacità di interpretare le molteplici verità dell’Uomo tout court prescindendo dalle tipizzazioni nazionali e regionali come l’italiano e il romano degli stereotipi acquisiti. E lo si è visto – per intensità e profondità – fino alla sua ultima, commovente prova, nel personaggio testamentario di Galapago-Garcia Lorca per “La fine di un mistero” (2003) di Miguel Hermoso, che gli valse un meritatissimo Premio alla carriera.        

Marco Onofrio

“Novecento e oltre” recensito da Gianni Maritati su “Leggere:tutti” (dicembre 2020)

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Torniamo alla letteratura. Marco Onofrio ha raccolto nel volume Novecento e oltre ben 50 saggi critici dedicati ad importanti autori italiani del secolo scorso. Troviamo molti classici come Calvino, Campana, D’Annunzio, Luzi, ma anche molte firme poco note al grande pubblico o addirittura dimenticate, che meritano invece apprezzamento. Agganciato ad una visione europea dell’estetica novecentesca, l’autore dedica poi una speciale attenzione agli autori viventi, facendoci riscoprire la passione della critica militante e la sua inesauribile curiosità per il nuovo che porta il novecento “oltre”. Fra questi autori ricordiamo Dante Maffia, Paolo Di Paolo, Luciano Luisi.

Gianni Maritati

“Novecento e oltre” su “Il Caffè dei Castelli romani” del 4 giugno 2020

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Il periodo di quarantena non ha rallentato la vulcanica officina letteraria di Marco Onofrio, che ha anzi approfittato del forzato “riposo” per scrivere nuove opere e portarne a termine altre. Così, appena riaperte le tipografie, ecco la sua ennesima raccolta di saggi: “Novecento e oltre. Letteratura italiana di ieri e di oggi” (EdiLet). Il faro al tramonto riprodotto nell’immagine della bellissima copertina la dice lunga sullo spartiacque tra due secoli che Onofrio si propone di esplorare. A vent’anni dall’inizio del nuovo millennio c’è ormai la necessaria distanza critica sia per fare un bilancio del secolo scorso, sia per evidenziare i fermenti che ne stanno portando “oltre” l’eredità e l’essenza. Il libro consta di 50 saggi critici, con addentellati europei, che configurano «una vasta e potente analisi del Novecento letterario italiano, e di alcune tra le più significative opere contemporanee». Ad una prima parte di “Preliminari” estetici, dove fra l’altro si parla di un mostro sacro come Benedetto Croce, segue una seconda di “Letture” focalizzata su alcune opere fondamentali, da ”Alcyone” di d’Annunzio a “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, da “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti al “Pasticciaccio” di Carlo Emilio Gadda, da “Gli egoisti” di Bonaventura Tecchi a “La vita agra” di Luciano Bianciardi – ma si parla anche di Pascoli, Campana, Luzi, Calvino, Patti, Tomasi di Lampedusa, Ungaretti, Caproni, Pasolini, etc. Segue un “Intermezzo” dedicato ad autori meno noti o dimenticati (Pitigrilli, Malaparte, Manganelli, Fiorentino, Bajocco, Seccareccia, Dolores Prato), meritevoli di scoperta o riscoperta per la qualità oggettiva della loro scrittura e il valore emblematico delle loro opere. L’ultima parte, “Contemporanei”, procede alla lettura di 14 libri usciti dopo il 2000, soprattutto romanzi, e annovera anche tre autori legati al territorio dei Castelli Romani: Aldo Onorati, con “La speranza e la tenebra”; Paolo Di Paolo, con “Una storia quasi solo d’amore”; Lina Raus, con “Nostra signora Solitudine”. Il libro di Onofrio sarà utile di sicuro agli studenti, ma anche a chi desidera conoscere e approfondire la società italiana del secolo scorso, fino ai giorni nostri, attraverso i suggestivi riflessi della letteratura. E non spaventino le 416 pagine del volume: “Novecento e oltre” si legge tutto d’un fiato, come un romanzo, perché Onofrio è un eccellente saggista divulgatore e sa appassionare come pochi alla materia di cui scrive, proprio perché sincera e viva è anzitutto la sua passione.

M. S.

 

Dante Maffìa su “Novecento e oltre”. Recensione in forma di epistola

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Caro Marco, non meravigliarti, c’è sempre una prima volta, ed ecco una recensione in forma di epistola.
Caro, caro Marco, non t’aspettare elogi, sarai subissato da quelli che non appaiono nel tuo libro Novecento e oltre. Letteratura italiana di ieri e di oggi (EdiLet, 2020, pp. 416, Euro 23), che non sono esclusi, semplicemente non sono stati ancora studiati, forse non lo saranno mai o lo saranno presto, ma la canea si scatenerà e finiranno addirittura col mettere in giro la voce che non è possibile che una sola persona possa avere prodotto e continuare a produrre romanzi, poesia e saggistica in questa quantità e con la qualità che ti appartiene. C’è sicuramente il trucco, hai dei negretti al tuo comando che ti scrivono le opere. E se si fermeranno a questa diceria ti sarà andata anche bene, perché la canea in genere ha mentalità mafiosa e non va oltre il proprio cortile, riconosce solo gli adepti, le ballerine scritturate.

Hai avuto, dopo avere dato alle stampe altri dodici volumi di saggistica (dico dodici! tra cui le monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti e Giorgio Caproni), il coraggio di scrivere un libro di oltre quattrocento pagine in cui ragioni (voce del verbo ragionare e dopo avere fatte le letture, sia chiaro), nella prima parte, di quelli che hai chiamato “Preliminari”, cioè parli di Benedetto Croce, di Lessing, di Omero, delle tecnologie linguistiche, per passare alla seconda parte, cioè alle “Letture”, tutte puntuali! Ma davvero sei stato capace di ripercorrere un itinerario così denso, interessante e scelto con cura? Davvero hai avuto modo di leggere Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, il Futurismo, Mario Luzi, Calvino, Gadda, Tecchi, Bianciardi, Patti, Ottieri, Pasolini e Fellini? E poi le “Scoperte” e le “Riscoperte”, andando a pescare in Malaparte, in Manganelli, in Zavattini, in Dino Segre, in Luigi Fiorentino. Sei pazzo? Dovresti imparare che se alcuni autori vengono messi da parte, dimenticati, spesso cancellati, c’è una ragione del Potere, quale che sia, che ha interesse a mettere a tacere quegli scrittori, quei libri. Sei pazzo, come vuoi che il potere ti assecondi e ti batta le mani, ti faccia i complimenti? Le riscoperte si fanno per ragioni politiche, mica per ragioni estetiche o di merito. In letteratura il merito non conta più, ti prego, non dimenticarlo.

I guai grossi comunque li hai combinati nell’occuparti dei “Contemporanei”: Raffaello Utzeri, Sabino Caronia, Paolo Di Paolo, Lina Raus, Paolo Corradini, Francesco Sisinni…Temo che sarai sfidato a duello e se non accadrà, non tornare mai solo a casa a tarda notte, rischi la vita. No, non dire che sono pessimista, perché ho fatto una decina di telefonate oggi pomeriggio dicendo che avevo tra le mani “Novecento e oltre” e la sola domanda che mi è stata fatta, prima ancora che io dicessi della mia gioia di leggere pagine così profonde, criticamente limpide, frutto di letture vere e ponderate, è stata “Ma io ci sono?”. Ho sentito all’altro capo del telefono parole aspre, che non ti ripeto, e la cosa che mi ha fatto e mi fa ridere è che ognuna di queste persone ha perentoriamente detto, quasi con le medesime parole: “Ma come? Un libro sul Novecento non ha senso senza la mia presenza, è sicuramente un aborto”.

Ora, se gli aborti sono creature così ricche, agili e affascinanti come il tuo “Novecento” ben vengano per la felicità dei lettori che sono realmente interessati ai libri belli, che contano, che sanno dare la dimensione del futuro, della bellezza intesa come strumento per rigenerare il senso della vita. Posso dirti comunque che alcune di queste pagine non solo le ho lette, ma anche rilette, perché mi hanno portato a stagioni dei miei studi che mi hanno visto frugare e appassionarmi ai testi di Giuseppe Antonio Borgese, di Emilio Cecchi, di Giuseppe De Robertis, di Enrico Falqui, di Pietro Pancrazi, di Donato Valli, di Giovanni Titta Rosa, di Giacinto Spagnoletti, di Luigi Reina, per fare appena qualche nome, e che mi hanno insegnato a saper entrare con attenzione e passione nelle pagine degli scrittori perché li avevano realmente letti. Come hai fatto tu. Che poi si debba essere sempre d’accordo con quel che hai affermato è altra faccenda, perché nelle letture c’entrano anche il gusto, la formazione, la sensibilità.

Questo tuo “Novecento” potrà essere prezioso per gli studenti e per i professori, anche perché sono illuminanti le affermazioni fatte sulle questioni metodologiche, che non si fermano alle enunciazioni, alla teoria, ma danno esempi probanti sempre tratti direttamente dai testi. Per quel che vale la mia testimonianza ti do atto che hai scritto un libro necessario, importante per entrare a testa alta nel mondo dei libri che, me lo insegni, sono creature straordinarie se saputi trattare con umanità, con intelligenza e con eleganza. Ma torno a ricordarti che, proprio perché hai dimostrato di essere bravo, troverai sul tuo sentiero veleni d’ogni genere. Perché non sei stato un mediocre menestrello che spampina sentenze, e di cani e porci dice “è il più grande scrittore del secolo”. Avresti avuto battimani a non finire.

Hai voluto essere bravo? Peggio per te. Non dimenticare di rincasare presto ogni sera.

Dante Maffìa