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“L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffìa” letto da Valerio Mattei

La definizione di “introduzione al personaggio” o “all’opera di”, riferendosi a L’uomo che parla ai libri. 110 domande a Dante Maffia, a cura di Marco Onofrio (EdiLet, Roma, 2018, pp. 88, Euro 13,00), è talmente riduttiva e fuorviante che nella presente recensione non si proverà neanche ad usarla. Questo libro, miracolosamente agile, data l’enormità dei contenuti che veicola, è un prodigio di sintesi, introspezione, speranza e nostalgia, carne e spirito, eterno e quotidiano e tutta un’infinità di categorie opposte, ma tali solo alla povera percezione della nostra umile mente lineare. La stessa che non sente mai che la Terra gira a velocità inimmaginabili, che crede ancora al tempo tic-tac tic-tac, che crede ancora che le cosiddette “cose” realmente entrino in esistenza una dopo l’altra solo per il fatto che la nostra limitata percezione mentale e cosciente ci arriva sempre e solo lentissimamente, così come un moscerino, posandosi su un libro in un pigro pomeriggio d’estate, potrebbe leggerne le parole di una singola pagina. Bene, L’uomo che parla ai libri va aperto con cautela perché rappresenta un vero e proprio vortice che all’improvviso ti risucchia in un panorama multidimensionale impressionante in cui la tua povera mente lineare non capisce più, non “sente” più la demarcazione tra ciò che è (sempre secondo lei ovviamente), ciò che è stato, e ciò che sarà. In queste pagine l’immagine di disperazione per una mamma inchiodata alla sedia da una tragica malattia, quando Maffìa era ancora un bambino, convive con il magmatico pulsare di tensioni innegabili (e candidamente innegate) intrise di amore, sensualità, sessualità vissuta al massimo dell’autentico e del trascendente, come trampolino verso lo spirito, verso l’assoluto.

Il diario di un uomo, prima e oltre che di un artista, di una persona sì, ma non al modo dei latini, anzi del tutto priva di qualsiasi maschera. Un uomo che ha vissuto sempre con il cuore sulle labbra e la poesia tra le dita. Un essere umano sapientemente corteggiato, svestito e poi ancora amato dall’altrettanto sapiente e sottile sentire di Marco Onofrio, che va aprendo inesorabile, una dopo l’altra, le 110 stanze di “Palazzo Maffia”, dell’imponente edificio culturale, spirituale e profondamente umano rappresentato da questo straordinario uomo d’ingegno, con la delicatezza di una colf esperta che ormai conosce tutto della famiglia che la ospita, apparentemente al mero servizio di un Maestro contemporaneo (e naturalmente della propria opera, “a cura di”), ma che in realtà svolge un ruolo indispensabile alla perfetta riuscita del libro e della sua incredibile autenticità mozzafiato. Non davanti a tutti infatti, il grande poeta, scrittore, saggista e molto, molto altro, Dante Maffìa, avrebbe messo a nudo la propria anima, la propria vita, fino ai più remoti recessi della coscienza, con un senso di relax tale che sembra proprio di partecipare a uno dei tanti convivi che Lui ama tanto.

Si provi ad immaginare un artista insignito della Medaglia d’Oro alla Cultura direttamente dal Presidente della Repubblica, un autore candidato al Premio Nobel da tutto il Consiglio Regionale (all’unanimità!) della propria Terra di origine (la Calabria) e da molte Università, Fondazioni e Comitati, in Italia e all’estero, uno scrittore tradotto in oltre venti lingue in tutto il mondo e che può vantare un’infinità di altri titoli e riconoscimenti, per non tralasciare una lunga e onorata carriera di insegnante che da sola giustificherebbe più di una vita intera. Ecco, dopo aver immaginato questo, si pregusti la sorpresa, la gioia disarmante, il sorriso beato che si schiude sulle labbra del lettore quando inizia a notare che la conversazione vira vorticosamente su… cosce femminili e sensualità! Ma anche sull’impellenza della scintilla divina alla base di qualsiasi opera, che altrimenti è pura ginnastica di polsi. Sì! Dante Maffìa, come Marco Onofrio, è “uno vero”, come si dice in questi casi. Sono entrambi ambasciatori della Luce, della Verità, della Magia! Nel senso che mai priverebbero una propria opera dello slancio, del fragore e della fragranza che solo un’esistenza profondamente calzata, gustata, leccata fino in fondo al piatto della quotidianità, può sprigionare.

Senza anticipare troppo, si legga per esempio la domanda n. 104 e la dissacrante chiusura della relativa risposta! E si pensi, inoltre, che un creativo tanto riconosciuto e acclamato si propone ancora oggi (domanda n. 108) “di far sentire i brividi di un bacio alle persone che sono state dissestate dall’aridità della carriera, del danaro, del potere”. Quei brividi si avvertono già solo a leggere una frase del genere! In epoca di mobbing, di guerre, di pandemie, in una società suicida sull’altare infame dei numeri e del soldo, ecco finalmente ergersi coraggiosa una voce che ancora osa parlare di Amore in concreta sincerità. E ancora, con affascinante candore si apprende alla risposta della domanda n. 109 che il suo più grande sogno, pure in un percorso così indiscutibilmente brillante, è ancora oggi “che qualche mio verso, che qualche mia frase o pensiero, venissero pronunciati anche senza il mio nome, come patrimonio che è stato acquisito dall’umanità.

Si chiude l’ultima pagina di questo libro con un senso di affezione, come se si fosse trascorso un lungo weekend al mare con entrambi gli artefici di un’opera così straordinaria. Quelle di Marco Onofrio non sono domande. Sono perle di una collana magica che fin dalla prima pagina, ivi inclusa la preziosa introduzione di Rino Caputo, si ha la sensazione di indossare per prendere parte a un rito, un viaggio dentro e attraverso la vita di un interprete sublime del Libro Totale che la vita stessa rappresenta. Interprete talmente sublime che la Sua vita assurge a simbolo e metafora della vita stessa di ogni uomo. Un sentito grazie a Dante Maffìa per averci ospitato al banchetto della propria anima e del suo Mondo, moglie, figlie e nipoti inclusi, di cui traccia un quadro a dir poco commovente. E naturalmente grazie a Marco Onofrio per aver dimostrato ancora una volta che colui che si offre al servizio di un’opera con coscienza pura e devota, incarna ciò che Sting (ricordo che Marco Onofrio è anche un fine critico musicale, oltre che scrittore, poeta, saggista, ecc.) scriveva nel capolavoro dei Police, la mistica “Wrapped Around Your Finger”:

Devil and the deep blue sea behind me
Vanish in the air you’ll never find me.
I will turn your face to alabaster,
Then you’ll find your servant is your master.

(Il diavolo e il mare blu profondo dietro di me
Svaniscono nell’aria non mi troverai mai.
Trasformerò il tuo viso in alabastro,
Allora scoprirai che il tuo servo è il tuo padrone).

Valerio Mattei

“La voliera senza reti”, di Zingonia Zingone. Breve lettura critica

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Libro polisemantico, di alta cultura ed estrema concentrazione simbolica, godibile sia sul piano letterale, sia sul piano allegorico e anagogico, con sapienti, puntuali riferimenti alla cultura classica e alle sacre scritture, “La voliera senza reti” (Edizioni della Meridiana, 2022, pp. 52, Euro 10), di Zingonia Zingone, offre per rarefazione alchemica una poesia di fibre nascoste che esplora la dimensione sottile delle essenze, dialogando con l’invisibile e raccogliendo i messaggi dell’«inconfessato». La scrittura vi obbedisce a un «richiamo ancestrale / bocca a bocca con l’infinito», dunque è necessaria in quanto necessitata dall’annuncio e dall’impegno della sua stessa “visitazione”, per cui il poeta non scrive “ad arbitrio” estemporaneo ciò che vuole o sente, ma ciò che non può esimersi dal dire e che una forza, a un tempo conosciuta e sconosciuta, gli “ditta dentro” costringendolo a farsi docile “vas electionis”.

Il concetto del “vas” rimanda all’athanor, il forno utilizzato secoli fa dagli alchimisti per la trasmutazione della materia, e ancor oggi − per via metaforica − dagli artisti autentici, impegnati in un processo di ricerca entro cui avviene la mise en abyme dei significanti e dei significati, cioè la sconfinata amplificazione del segno nel simbolo archetipo che raggiunge la complessità psichica interiore del soggetto coinvolto, nonché la realtà indicibile che precede il linguaggio, il “nulla lucente” dell’essere e quindi, per via indiretta, il caos che la creazione cerca di arginare e ordinare in cosmo. “Vas”, a ben vedere, è la realtà tutta nelle infinite e inafferrabili stratificazioni del suo mistero: il poeta si rende disponibile come “sismografo” delle energie profonde che lo utilizzano per manifestarsi. Oltrepassando gli orpelli dell’io per schiarirsi la vista e la voce, passando cioè dagli occhi di carne alle visioni intangibili dello spirito, Zingonia sviluppa un rito personale di elaborazione cosmica verso la «radice di ogni inizio» dove si attende, dal suono del vuoto, «l’annuncio pontificale di un ritorno / all’età perduta», cioè alla purezza spirituale che oggi il mondo rinnega.

Leucotoe, l’alter ego femminile implicato in questo percorso di purificazione, vive in prima persona il conflitto tra la prigione dei sensi e le radici ultraterrene; ma per resistere alle aporie del mistero, cioè alle lusinghe del merlo (che spesso però è un corvo maligno), pianta la tenda della parola «al confine / dove i dubbi sfiorano la fede / (…) e il cielo si pronuncia». Teatro della scena poetica è infatti una terrazza sui tetti di Roma, «dove planano gli uccelli / le intuizioni le divinità» e dove Zingonia raccoglie il «canto / che proviene dall’alto». Una Roma di periclitante verticalità, dalle «vette del Pantheon» alla «torre barocca di Sant’Ivo» alla «facciata di Sant’Andrea della Valle» − tegole cornicioni ringhiere campanili cupole: la parola insiste e incide nello spazio vertiginoso delle prospettive aeree dove il corpo è «in bilico» e si protende al cielo, già quasi per smaterializzarsi:

Ti seguo sul colmo del tetto
barcollante
colloco i piedi nello squilibrio dei tuoi passi
mi affido alle ali di fumo
.

In realtà il libro è un poema di frammenti lirici magistralmente disposti entro la cornice di una psicomachia tra opposte pulsioni ambivalenti; una battaglia spirituale che conduce al vertice della sua tensione, anche se le ali sono tanto fragili, si rompono o inceneriscono per un nonnulla. Ecco perché invoca la sublimazione sacra della materia, ben simboleggiata dall’incenso che brucia: alleggerirsi di tutte le sovrastrutture, anche quelle religiose, per ardere del fuoco divino, amare del suo amore perfetto, abbandonarsi all’oceano mistico della sua pienezza.

La voliera senza reti del cielo, alla fine del percorso, non è più cerchio che imprigiona ma «cappella senza pareti» che protegge. Leucotoe è ormai liberata dalla cecità della luce terrena, dal veleno dei giorni, dalle trafitture della fiamma profana: giunta alla 33ª e ultima stazione del percorso (il numero non è certamente casuale) si rivela «colomba di fuoco / sulla scia del Pellicano», e il Pellicano è Cristo, Jesu Domine umile e trionfante su tutti i merli e i corvi del mondo. Zingonia Zingone può così sovrastare la propria ricerca metafisica con una risposta autentica alla “domanda delle domande” scavata nel silenzio del vuoto e pronunciata alla fine della composizione numero 13:  ̶  chissà se siamo qualcosa / oltre che polvere.       

Marco Onofrio

“Appello” (a Dante Alighieri)

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APPELLO (a Dante Alighieri)

…ma non erano da ciò le proprie penne
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne…
(Paradiso – 33, vv. 139-141)

… Inesorabilmente, da quel cielo
nel suo perenne lumine irradiato
atterrò d’un attimo il mio ciglio
ché ancora non ardivo ricercare
la fonte del più nobile consiglio.
E lì si aperse il velo, innominato.

Lui m’induceva a dire come figlio
che domandato al padre si confessi
temendo di non reggere l’acume
nell’acqua trasparente dello specchio
ove polire, a forza di speranza
le brume incatramate degli abissi
e solvere l’enigma dell’andare
eterno che contiene l’esistenza.

Mi rischiarai la voce titubante
che più sottile in punta della gola
il brivido impediva nell’uscire
ghiacciato dall’aguglia che le vene
appinza, e a porgere quel dire
brillava la mia fronte di sudore.
Allora m’ersi, vocai tutto l’ardire
forse l’ultima possanza che restava
e nel silenzio, madido di luce
come appena mormorando
cominciai:

“Dante, i’ vorrei che la tua voce
amara sì non fosse messaggera
di ciò che in questo giorno
mi riserva ad essere la sera.
Ah, saperti pareggiare
nell’eletto idioma che mi degni!
Mi mancano parole, e non poeta
né retore sono, ma giovane confuso
che ha perso la sua strada, se la ebbe
e ritrovar vorrebbe, fin da ora
la più alta dimensione
della vita, quella da cui nacqui
e arriverò passando, come spetta
per corso naturale ad ogni uomo.
Sdegno infatti l’ardimento
di guardarti aperto, ché ritengo
di perdere la vista al tuo splendore
meato dall’interno del diadema
che cinge la tua testa, t’incorona.

La tua sostanza prome d’intelletto
e della mente il seme a un punto tale
che favellar, tacere o contemplare
l’amore ch’arde vivo in chiara amanza
e da se stesso aumenta e si mantiene
non reca giovamento a quel suo male
o passo decisivo alla salute,
ma sì piuttosto danno e non rimane
l’onnipresente danza che l’involve
al divenir del mondo e del suo fare
ché ne basisce il labbro al verbo muto
e impallidisce in volto il colorito
allor che d’esta ardenza colmo il cuore
e intriso il sentimento di tremore
come un cavallo zoppo al dir mi pongo:
troppo parvo sònti nel cospetto
e prego la tua guida pel cammino
che nel destino ignoto s’apparecchia
e chieggo della luce il senso oscuro
che fa sotteso darsi a questo viaggio
dovere universale che c’impelle
assiduamente a scegliere la vita
la grazia e la portata del suo velle.

Che significa lo spazio circostante
dove muore, spegnendosi nel vuoto
la forza palpitante dentro il cuore?
Che cosa ci vuol dire dai primevi
il tremolio silente dei notturni?
Questo cielo inascoltato
che non ha contorni?

Donami un segno, un simbolo del vero
e che una volta la favilla dell’uscita
baluginando sorga dall’oscuro,
non sia fata morgana
la chiave-gibigiana del mistero
caduta da millenni in fondo al mare;
abbracci la tua mente queste spalle
e rampi verso l’anima giocondo
di fulmini al galoppo il palafreno
ed illeonito rugga il mite agnello:
s’incieli nel silenzio del profondo
l’aquila ghermendo la saetta
seguendo tra le stelle l’alta rotta
e insieme negli artigli il ramoscello
argento-verzicante dell’ulivo
e un giglio immacolato come emblema
che nel mio cuore scopro: sono vivo!
perché la vita amo e dono amore
copiosamente attorno, senza tema
come fosse la suprema
verità – sapienza et umiltà
dinanzi al pergamo del mondo
dico – certo tu m’intendi –
di quello spirito sognante che matura
nell’incubo del giorno più importante
e che gravarmi sento nell’esteso
e non evolve l’ombra persistente
questa mostruosa immensa allucinante
di vuoto apocalisse e spazio nero…
deh, sveglialo, bardalo, frustalo se vuoi
o eletto capitano e marescalco
fammi da mossiere alla partenza
spronalo al volo, tornalo al creatore
all’infinita fonte del potere
come il fiume che divalla verso il mare;
siimi padre, consigliere, amico
e solo che lo sforzo non sia vano
all’alba del risveglio, te lo giuro
potrai vedermi ridere nel sole
nella stupenda luce del mattino
alunno fiducioso più che figlio
sul misterioso, semplice cammino
che proprio dal tuo cenno
avrò intrapreso”…

Marco Onofrio

“La parola esclusa”, di Giuseppe Bova. Lettura critica

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La poesia di Giuseppe Bova nasce dal bisogno umanissimo di inseguire il Mito ai bordi della sua stessa eternità, facendone echeggiare i riverberi, i riflessi antichi e suggestivi, nella narrazione archetipa dell’esperienza: «Vorrei raccontare» – scrive in limine al libro La parola esclusa (Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2003) – «come ho scoperto il mare». Non solo il mare d’acqua salsa che dialoga con gli oceani del mondo, ma anche ovviamente il mare del tempo, dell’amore, della vita. E appunto ai bordi di questa dimensione nascosta ma eternamente presente, deputata a custodire i lacci del mistero a cui siamo e ci troviamo incardinati, si dirama una duplice visione del mondo: quella che si attiene alla natura, abbandonandovisi con dolcezza e commozione; e quella che viceversa cerca di trascendere la natura, resistendole per catturarne l’ultimo segreto. Da una parte l’anima, fluida e femminile; dall’altra lo spirito, tagliente e maschile: a determinare la maggiore o minore fiducia nella dicibilità dell’esperienza, e la consapevolezza che la parola è comunque esclusa dalla verità, non può mai raggiungerla in quanto “parola”, nel limite umano del suo essere relativo (quella parola), poiché la verità appartiene all’assoluto del silenzio che racchiude e origina tutte le parole possibili. Ma è la verità stessa che esclude la parola, per consentire all’uomo la ricerca senza fine attraverso cui intuirla ai confini dello sguardo, oltre l’orizzonte. Scrive Bova: «una risposta è sempre da venire. / Domani sarà ancora un’altra tappa / e andremo sempre avanti per capire», giacché il «mistero dei secoli» è sepolto «sul fondo» del mare, e «il fondo non si tocca / con la mano».

Nella cultura ebraica la parola è centrale rispetto alla cosa, anzi: la parola è la cosa, dal momento che Dio crea il mondo parlando (e Bova scrive «Il suono / avrà sostanza di Creato»). Nella cultura greca, invece, la cosa (cioè la φύσις, ovvero la natura) è centrale rispetto alla parola: “sema” significa “segno” ma anche “tomba”, cioè presenza vicaria di un’assenza, testimonianza imperfetta di ciò che esiste e dunque esclusione dalla pienezza del vivente. La parola come mondo e/o come suo imperfetto riflesso. Bova dà udienza a entrambe le concezioni, incarnandole nelle due pulsioni fondamentali della sua poesia, magistralmente lumeggiate da Antonio Piromalli in prefazione: trascendenza e terrestrità. La trascendenza nasce dal sentirsi esclusi e distonici, la terrestrità dal sentirsi inclusi e sintonici. E Bova le vive con reciproco scambio di attributi, per cui la trascendenza ha sempre accenti di concretezza e la terrestrità non manca mai di essere a suo modo spirituale. C’è un momento in cui le due pulsioni sono percepite in parallelo, sia pure in prevalenza della prima:

Sfuggire alla terra che mi attira
toccare le cime alte del pensiero.

Se da un lato, così, il poeta obbedisce allo slancio metafisico, cioè all’«urgenza di sapere / di toccare / di sfondare la porta del mistero», dall’altro estende la sua coscienza creaturale, centrata sulla forza di gravità, per riconoscersi fibra dell’universo nella misura in cui armonizzato, osmotico, uno con tutte le cose: «La roccia si spacca / ed è il mio sangue che sgorga». Può dunque affermare: «Sono / un albero / che vive sul dirupo / che vede su ogni fondo / la sua fine». Come salvarsi dall’abisso? Allungando le radici. «Stringersi / le mani / sulla terra / per trovare / le parole / d’amore. / Questo è / il segreto / di ogni nostro / resistere / alla morte». Un patto d’amore e resilienza di leopardiana memoria: allearsi e far fronte comune per rubare terreno alla morte, il «resistere estremo / sulla barricata». Le parole lasciano filtrare, come crepe su un muro, le trame della luce perduta, e riescono a recuperarla anche dopo che ha smesso di splendere.

Il mondo, purtroppo, è abitato da «anime nere» che trafficano «parole inutili» senza contezza né rispetto della potenza mitica e storica di cui ogni parola, creando la realtà, si fa intima portatrice. La poesia, ai loro antipodi, è una via di purificazione e chiarificazione («Quello che non capivo ora si fa più vero») grazie alla quale ci si cava «dallo sbattere quotidiano» e dai suoi velenosi frastuoni («a volte mi ritiro in una stanza / a cercare il silenzio»): uno «specchio / d’aria pulita» dove si disvela il «contatto estremo», cioè l’essenza ultima delle cose e del proprio rapporto col mondo: «Leggo carte che scavano cortecce / e vanno fino al cuore di ogni tronco». Occorre l’«ostinato credere» con cui il poeta oltrepassa, usando gli occhi dell’anima, la propria finitezza per tentare di amare «con la pelle di Dio» la Luce della «tremenda oscurità», ossia il Mistero da cui tutto emerge e in cui tutto viene, da ultimo, inghiottito. L’atto poetico, riecheggiando il non omnis moriar di Orazio, è anche uno strumento di ribellione al pensiero «d’esser stato / un decimiliardesimo di occhi / sul corpo inavvertito della terra», una minuscola e risibile «formica tra i mille camminamenti». La poesia ha questo potere perché è una potenza originaria e incontrollabile, un «fiume di corrente seminale»:

Questa è la poesia.
Un fiume di parole
per seminare i sogni.

Ma non si ordina alla parola poetica, altrimenti muore «appena nata». È la parola, anzi, che ordina e “ditta dentro” al poeta, pesando in volo la sua luce: «trascinata è l’idea / che il sangue irrora / per vie d’inquietudini». Non un gioco di prestigio, dunque, ma un mandato di rivelazione. La parola è la chiave che apre lo spazio della sacralità. Senza questo fiato caldo essa «si accorcia»: «suonatore e strumento / vanno insieme». Il poeta, dunque, suona ed è contemporaneamente suonato dal proprio strumento. Il suo sguardo coglie «lo spunto di un’origine / liberato da ogni costruzione», ovvero l’energia orgonica pura, anteriore alle forme dell’intelletto: è lì che si apre lo «slargo d’infinito». E quindi i semi delle cose: della notte, della pietra, del vento, della pioggia, del mare, etc. come granelli setacciati «già luminosi / e privi di ogni scoria». La parola si confronta con l’infinito degli elementi che la rendono «piccola», «esclusa» e «imprigionata», ma proprio per questo capace di afferrare le coscienze e spingerle in alto, sopravvivendo anche a chi muore o viene ucciso nei patiboli. La parola non può essere fermata perché, quando autentica, è incisa nell’ordine cosmico-ciclico del divenire e sale dalle origini del mondo, producendosi come evento creativo che traduce in scrittura «quanto non è scritto»; altrimenti è spenta, è «corpo morto».

Comunque giunta
la mia parola chiude
un grande cerchio
ed io sono materia
di ogni avvolgimento
all’origine degli occhi
nel fulcro della trave.

Così accade quanto non è scritto
e ciò che non riflette
è corpo morto.

La presenza e la sostanza delle cose: mai essere assuefazione di forma vuota, imitazione di voce originale, ripetizione del sentito dire. «Non sarò mai pane / senza essere lievito». La poesia sgorga dalla vita che la nutre e che la impasta: «Non scrivere parola non sentita» ammonisce Bova, ricordandolo anche a se stesso. Il poeta che parla in questo libro lo fa da una condizione di maturità ulissiaca, di inquietudine nella tenebra e nello smarrimento: la sua anima è «alla deriva» ed egli si sente «barca sul mare avvolta dalla notte», ovvero «barca già in disarmo» come «dopo tanta odissea / un corpo inanimato sulla riva». Non solo la polvere bruciata durante i viaggi, ma anche quella «incombusta» delle occasioni mancate, della vita non vissuta. L’incompiutezza ci è connaturale poiché siamo incatenati al principium individuationis, per cui in realtà «siamo dove non siamo». Questo produce e procura un senso vertiginoso di dispersione: «Sono nel gorgo anch’io / portato da correnti disperate / su ondate ascendenti e discendenti», quelle stesse che lo fanno risalire proprio attraverso il punto più basso e buio, dove sente il tempo che demolisce e divora, e la morte come un ingranaggio interno al meccanismo della vita. La memoria profonda si dissolve, qualcosa resta sempre «indecifrato» fino a che «tutto rimane muto / disconoscenza / vuoto» inghiottito da irredimibile oblio. Bova rappresenta la morte come una bambola «regina / in tutti i mondi» che si fa percepire in déjà vu, come appunto «l’impressione di un’immagine già vista» poiché «siamo sempre vissuti / e sempre morti» attraverso i tempi della nostra vita.

Il poeta non edulcora, non seleziona per convenienza, ma ha il coraggio di affrontare integralmente il dolore: «poetare è una ferita sempre aperta / perché toccare il cielo con un dito / è scavare il cuore di ogni angoscia». L’identificazione con la vittima sacrificale lo porta a visualizzare il «costato trafitto» di San Sebastiano: basta guardarlo per sentire Dio «come una lancia». E tuttavia il dolore non ci esime dal dovere di «legare la vita / dentro a un sogno» e, malgrado tutto, non smettere mai di farlo. Il poeta obbedisce alla vita e alla sua volontà insaziabile: egli sta «nel seme che rinnova» e non ha fame né sete «se non di nascite / e porte spalancate / ai grandi abbracci». Il dolore, la sofferenza e il caos attraversati nutrono anzi il desiderio di gioia e positività: «rimuovere il disagio» fugando le ombre e le angosce per trovare «un’altra strada», giacché – scrive il poeta con due versi sentenziosi e memorabili – «il tempo è troppo breve / per essere tristi». Ci sarà infatti «una fontana dove bere / senza più la paura di morire» dissetando «l’anima assetata». Occorre ritrovare sempre la condizione della bellezza dentro il proprio sguardo: «la gioventù del cuore / quel sorriso che spalanca girasoli». Il segreto è proprio il cuore.

Così è la vita:
due rette in parallelo per la gioia
percorse all’incontrario
se ad azionare lo scambio del binario
non è il cuore.

Il sacrificio nel dolore non deve mai bagnare le polveri all’agonismo, al fuoco della vita, alla capacità di risollevarsi dopo le tempeste e di meravigliarsi («stupisco al solo esistere di forma»), vedendo le cose come nel primo mattino del creato. Ecco lo sguardo commosso e “miracoloso” che in ogni albero vede un giardino e nell’unione di un uomo e una donna «tutto il mondo». Uno sguardo che è anche frutto di amore, nella vigile attesa di segnali («Raccolgo come l’occhio di Colombo / i piccoli detriti di altri mondi») e nell’attenzione alle cose invisibili, alle delicate sfumature dell’impercettibile («Sono il solitario origliere / di ciò che dorme»). È come se Bova avesse dinanzi due strade per scalare la montagna del Mistero: una più breve ma più ardua, a parete verticale, della trascendenza metafisica; l’altra meno ripida ma più lunga, a tornanti concentrici, della coincidenza naturale. Nel primo caso la parola è uno «scandaglio» che scava la «caverna dei silenzi» per tradurre in segno, dell’essere, l’indicibile “barriera semantica” (per citare Dante Maffìa) e il segreto principio animatore: «Sono la donna che ha generato i figli. / Creo lo spazio infinito e lì mi annego». Nel secondo caso la parola deve sciogliersi nella natura e acquisire la voce stessa delle cose: essere «liquido sciacquio» ed «eco di musiche nel cuore».

Quando
come l’acqua sarà la mia lingua
ed io nel corpo al canarino
sviterò la mia gola
per non essere parola senza vita
(oh volo d’amore che traffica tra i rami
più lontani e refrattari)
tu parlerai con me da uomo a uomo
(…).
Solo nell’acqua
può schiarire il verso
nel lento gocciolare
è l’oscuro mio processo.

E quindi, anche la bellezza purificatrice del mare, che «è una chiesa / coi suoi fedeli interpreti. / Mai parola è uscita / di una qualche confessione. / Il mare è il mare». E ancora: il mistero del divenire, «lo strano mutare degli avvenimenti», la circolarità dei fenomeni per cui «ogni approdo è un inizio». Entrambe le strade portano a un passo dalla rivelazione, laddove la “porta” potrebbe aprirsi. Giungere «al cuore del principio»: è lì che, recandosi idealmente, il poeta scrive «pagine di un mare sconosciuto / immaginando l’altrove», l’inesauribile varietà del mondo, gli «occhi sconosciuti di ogni approdo». La poesia de La parola esclusa è una finestra aperta tra l’io del poeta e il sé del cielo, tanto che egli chiede di essere chiamato non «per nome» ma in prospettiva eterna, «per l’infinito», cioè nella sua verità di essere cosmico. E così, allo stesso modo, è una finestra aperta tra la sensibilità di Giuseppe Bova e lo sterminato firmamento della poesia mondiale, dai classici antichi ai maggiori contemporanei, di cui il poeta reggino assorbe e rielabora creativamente l’aurea eredità. Egli si sente chiamato dalla voce «che viene da un braccio di cielo», ma il suo sgabello è «insicuro» e non «così alto / da vedere l’oltre», e allora ristagna in un limbo di conoscenza: «Aspettare è ristagno / e le braccia vanno aperte sulle rive / quando ancora le speranze sono vive». Ma, forse, ciò che più gli interessa è mantenersi puro e selvaggio «come il monte oscuro / che conserva il segreto del principio» anche quando il mattino è di là da venire.

Marco Onofrio