“L’equilibrio indifeso”, di Roberto Pallocca. Lettura critica

equilibrio

Per una lettura critica approfondita del nuovo romanzo di Roberto Pallocca (L’equilibrio indifeso, Graus Edizioni, 2024, pp. 204, Euro 16) vorrei partire dall’Epilogo, in cui lo stesso autore ha modo di definire questo libro «una storia d’amore e di equilibri che passano, poi tornano, poi spariscono, poi eccoli, di nuovo». Anche dalla memorabile frase riportata in quarta di copertina («Cerchiamo faticosamente l’equilibrio ma ci innamoriamo di chi ce lo sposta»), oltre che dal titolo, è evidente che l’Equilibro è il macro-tema strutturale del romanzo. L’equilibrio sottile dell’esistenza, che nella fragile storia d’amore narrata vive una tra le sue infinite e possibili “prove” emblematiche, evoca inevitabilmente – per coppie di opposti complementari non riducibili, nell’armonia dialettica del loro dualismo – tutta una filiera di connessioni simboliche e di arcipelaghi culturali, che vengono attivati (come in effetto-domino) durante la lettura. La coppia “equilibrio-disequilibrio” richiama dunque “radici-ali” e “controllo-abbandono”, cioè – in definitiva – l’eterno contrasto fra Amore e Psiche (su cui già si fondava il romanzo d’esordio di Pallocca, Giusto un amore, 2006), che sfocia in quello universale tra Vita e Forma, peraltro snodo estetico di particolare rilevanza nel ‘900 (si pensi per esempio a Pirandello). L’equilibrio indifeso è un romanzo di “cautele” che vengono scoperte e disarmate. Come in questo ricordo del protagonista:

Sono piccolo, sono me a 6 anni, al parco con mio padre, che mi tiene il sellino della bicicletta senza ruote. E mi fa andare. Mi fa pedalare. Mi dice: “Vai che ti tengo io, vai”. E poi mi volto, e lui è indietro, lo vedo distante e cado e rotolo a terra e penso che non si fa così, non si dice alle persone che ci sei se poi rimani indietro.

Se penso alla capacità di modulare controllo e abbandono mi sovvengono i tasti del pianoforte: per suonarlo occorre un equilibrio di forze, secondo cui le dita del pianista devono premere né troppo piano (il suono non uscirebbe), né troppo forte (verrebbe distorto). Così nella vita, che in fondo – ed è il primo grande elemento di riflessione offerto dal romanzo – accade da sé: cerchiamo di guidarla mentre ci trascina come fuscelli nei gorghi delle sue correnti. Le opponiamo – disperatamente e spesso vanamente – spessori di resistenza: dighe, argini, ripari, regole, tutele…  Ma tutto si consuma inesorabile, come il castello di sabbia in riva al mare. Qui entra in gioco l’entropia dell’universo: le cose «deperiscono da sole». La percezione del mondo è soggetta a struggente dissolvenza: «Ho un pensiero per ogni foglia che cade», scrive Pallocca. Una nostalgia che è anche delle occasioni mancate, declinata come rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato, appunto perché la vita ci porta dove vuole lei. Certe cose «decidono loro», come quelle che ci ritroviamo a raccogliere senza averle fatte cadere… E in quest’ottica si inquadra la mitologia dell’ultima volta, che appare tale quasi sempre “a posteriori”:

L’ultima volta che tocchiamo qualcuno. L’ultima volta che lo amiamo. L’ultima volta che siamo così vicini da sentirne l’odore, l’ultima volta che un “noi” ha ancora senso. L’ultima volta di tutto. Qualcosa che viviamo come un arrivederci e poi non torna.

Se dunque ci barcameniamo come “equilibristi” dinanzi alla bocca del Vuoto che mastica le cose consumandole, e prima o dopo inghiotte tutto, siamo destinati, direi fatalmente, all’imperfezione. Ecco il motivo dell’imperfezione, di cui il romanzo tesse l’elogio. Sbagliare, ci ricorda Pallocca, non significa “essere sbagliati”. La parola “errore” non esiste veramente: gli sbagli non sono negativi, poiché «edificano, sono piste» da esplorare, possibilità di esperienza e di crescita. Vien da pensare all’arte giapponese del Kintsugi, che ripara i cocci con resina dorata (le cosiddette “cicatrici d’oro”) per significare che le ferite sono preziose. L’imperfezione è molto più affascinante della perfezione. Anna, la protagonista femminile del romanzo, «ha il fascino delle cose imperfette che, per qualche ragione, sono perfette» in un modo speciale e tutto loro. Difatti «ci innamoriamo sempre di un’imperfezione»… E siamo portati a farlo perché la vita non è una forma chiusa come la morte che la interrompe, ma la dimensione aperta e fluida di un work in progress. Ogni cuore è di conseguenza un “cantiere” di lavori in corso: dopo la fine di un amore, la devastazione lo assimila addirittura a un «paesaggio post-atomico». Il compito esistenziale a cui siamo chiamati è di ricostruire continuamente noi stessi dopo i “terremoti” a cui il vivere ci espone. Spalare macerie, dissodare terreni, tirare su palizzate, piantare alberi e imparare a «smontare grattacieli piano piano, anziché abbatterli».

Pallocca è convinto che – contraddicendo un famoso titolo della Mazzantini – «ognuno si salva da solo». In realtà siamo “orti” (dal latino “orior”, cioè: avere origine, sorgere, iniziare, crescere), orti dove fruttifica ciò che sappiamo innaffiare con cura, ciò in cui davvero sappiamo credere. Il concime dell’orto è il dolore. Per questo occorre lasciarsene scavare e attraversare: «Più è profondo il vuoto che lascia, più grande sarà la gioia da metterci dentro». E ancora: «quanto a fondo siamo costretti ad andare per tirare via ciò che ci argina, ciò che ci intasa».

E la felicità?

Per essere felici ci vuole coraggio. La felicità non è un talento, è un progetto. Abbandonare luoghi confortevoli, in cui siamo diventati grandi. Habitat. Famiglie. Difendersi è soprattutto andarsene.

E invece ci adattiamo, ci accontentiamo. Preferiamo mentire a noi stessi, pur di non affrontare la verità e le conseguenze di una scelta, tanto più se dirimente. Chi viene travolto da una valanga emotiva e accetta di uscire dalla zona-comfort (pur tra mille resistenze) è Roberto, protagonista maschile e funzione razionale del romanzo. È un ghost-writer, cioè scrive libri per altri, e ha la sensazione d’esserlo anche nella vita. Lo vediamo incerto, insicuro, indeciso… anche per i postumi di un grande amore andato in frantumi. Rimane spesso sospeso in mezzo a una sensazione che non focalizza: «Non sto dietro alle cose, mi fermo sui dettagli e la velocità del treno li trascina via». Ma ha un costante bisogno di capire e controllare, che lo porta a non lasciarsi andare e a volere a tutti i costi la “verità”, anche se poi fatica a gestirla. L’incontro fortuito con Anna, alla stazione di Firenze, e il rapporto d’amore che ne deriva lo dilatano, lo fanno sentire “sparpagliato” nel mondo. Anna è il rimorchiatore che finalmente lo trascina oltre gli argini del porto, costringendolo a misurarsi con il mare aperto della vita – meraviglie e pericoli compresi.

Anna, d’altro canto, è un personaggio indimenticabile: una felice creazione che ricorda, per la capacità di farsi sentire e d’imprimersi alla memoria, certe “presenze” femminili di Cassola, Moravia, Soldati e, per venire più verso di noi, Andrea De Carlo. Sbalza viva dalle pagine al punto che la conosciamo personalmente, ne avvertiamo il destino, l’anima, l’essenza. È una ragazza di 26 anni certamente complicata: sfuggente (appare e scompare senza mai dare riferimenti certi) ma anche sintonica, quando vuole empatica, originale, segnante, impulsiva, imprevedibile… Preferisce fare, più che parlare… e talvolta commette sciocchezze, gesti inconsulti che presuppongono freni inibitori abbassati, più che aprioristica mancanza di regole. Se Roberto rappresenta la Forma, Anna la Vita. E infatti:

È limpida e fluida come un torrente d’acqua. Non esiste qualcosa che possa far da muro a ciò che intende fare, e non c’è spazio tra pensiero e azione, non c’è possibilità.

Pallocca ce ne fa sentire tutte le contraddizioni, in un ritratto mosso e vivace – a 360° − che si trasforma “a vista” nel corso dei 95 brevi capitoli del libro.

Forse non ti piaci, forse talvolta ti odi e qualche volta ti ami. Ti nascondi dietro una marmorea sicurezza, poi magari tremi per una carezza. Non sei perfetta, ma non ti lamenti dei tuoi difetti. Combatti le altalene con l’amore. Ami tanto, tantissimo. Talvolta male, ma che importa? Chi ama sempre uguale? Sei dolce, sei sensibile, sei impetuosa. Sei ostinata. Lotti da una vita per un equilibrio così indifeso da essere inabitabile.

Il traliccio maestro del libro mi pare il percorso di svelamento progressivo della “verità indicibile” di Anna, già preannunciata da alcune sue stranezze: le fughe improvvise, le reticenze, l’ossessione per i labirinti (che disegna continuamente, costringendosi a risolverli)… Un labirinto è anche il groviglio mentale di misteri e discrepanze in cui Anna attira Roberto, senza consentirgli vie d’uscita. Il labirinto assurge a metafora della verità sfuggente («La verità non esiste. È sempre parziale. È sempre illusoria. E nessuno può arrogarsi il lusso di farsene portatore»), ma anche metafora della volontà di trovare soluzioni ai dilemmi indecidibili dell’esistenza. Infatti, malgrado tutto, «una soluzione alle cose c’è sempre». Insomma, da ragazza stramba Anna si rivela – qual è – persona problematica, psicotica, bipolare (per sindrome di abbandono e rifiuto da parte del padre, che fra l’altro è un importante politico). È spettacolare, narrativamente parlando, la trasformazione del punto di vista offerto al lettore sul suo conto, per cui si svelano pian piano tutte le verità omesse o adulterate nella prima parte del romanzo. Tanto che a un certo punto Mattia, l’amico scaltro di Roberto, gli dice senza mezzi termini: «Vattene di corsa, questa è una matta». Da rilevare anche un livello di meta-narrazione, sapientemente gestito da Pallocca, per cui lo stesso libro che stiamo leggendo diventa retrospettivamente quello che Roberto, il ghost-writer protagonista, ha cominciato a scrivere (stavolta a proprio nome) per ricostruire meglio quanto narrato. Fino alla scelta dello splendido titolo, L’equilibrio indifeso, donato inconsapevolmente dalla stessa Anna.

A proposito di equilibrio, il benedetto equilibrio di cui siamo tutti in cerca: Pallocca ne discute e ne argomenta da par suo (avendo un pensatore-aforista incorporato, sempre pronto a trapelare fra le righe del narratore) facendone, sulla scorta del Murakami citato in limine al testo, il bene «in sé» che è «alla base di ogni bellezza. Tutte le cose belle stanno in equilibrio». Ma l’equilibrio va difeso con cura poiché è precario e appunto indifeso: basta poco per romperlo, per squilibrarlo.

È così indifeso il nostro equilibrio, basta un niente. Possiamo solo scegliere di abitarlo, nel frattempo.

Ecco perché Anna è stata attratta da Roberto, come per richiamo di compensazione: ha visto in lui «una persona con cui abitare un equilibrio». Anche se l’equilibrio «si raggiunge da soli», l’amore ci aiuta a costruirlo, a partire dal disequilibrio iniziale che produce, nella misura in cui è il «modo migliore per essere se stessi. Non snatura, semmai valorizza. Soprattutto la diversità». Pallocca non si limita ad approfondire il tema, ma ce lo fa vivere in modo tattile, concreto, epidermico: descrive a un certo punto la panchina di un parco vandalizzata, con solo due listelli superstiti, e la sensazione di sedervisi: «quel microsecondo in cui perdi l’equilibrio ma non sei ancora caduto, in cui inciampi e resti sospeso tra la possibilità di finire sull’asfalto e quella di riprendere l’equilibrio come se niente fosse». E allora investiga la possibilità di abitare il disequilibrio, che è – in definitiva – l’arte di vivere. Che altro è, infatti, la nostra esistenza se non un «gioco di equilibri provvisori»? Un riassestamento continuo dei “terremoti” che sconvolgono l’equilibrio precedente? Quando l’equilibrio si rompe nel punto critico, precipita verso un nuovo riassetto, e così via. «Le cose» scrive Pallocca «accadono per disequilibri, per sbilanciamenti, per scarti. Solo quando manca, e siamo costretti a ridefinirlo, l’equilibrio diventa perfetto», e aggiungerei: perfetto della propria imperfezione. È così che, come durante un viaggio, gli scenari mutano di continuo, e quel che prima era centro oggi è periferia, e viceversa…

La complessità del vuoto che ci attrae verso il disequilibrio ha il suo corrispettivo nella “multidimensionalità” delle radici che invece ci trattengono al sicuro. Pallocca accoglie più che mai i messaggi sottili che ci raggiungono dal mondo, spesso invisibili e silenziosi; l’importanza dei “momenti performanti” che ci cambiano la vita; i bivi, le svolte decisive, le sliding doors; ma soprattutto il rapporto complesso e solo intuibile tra cause e conseguenze, il “reticolato” di «situazioni, imprevisti, scelte, una nube di incalcolate influenze e di stupori infantili, di sbagli imperdonabili e di colpi di fortuna, di gioie e di addoloramenti».

In questo romanzo di prima maturità, dal linguaggio preciso, plastico e incisivo (ad esempio «Vedo un albero chino su se stesso. Come un uomo che si allaccia una scarpa»), Roberto Pallocca esplora la microfisica dei rapporti umani e la chimica emotiva dei sentimenti, la dimensione del profondo che ci sfugge, i sogni e i ricordi che nella nostra mente «si tengono le mani». Come il suo omonimo personaggio, scava una nicchia di parole a mani nude, cioè con adesione e sincerità totali: crea un mondo dal caos e lo abita, dopo aver tolto argini e tutele. Si conferma narratore felice e consapevole. Scultore di stati d’animo. Pittore di paesaggi emotivi. Poeta di emozioni universali.       

Marco Onofrio

        

 

 

 

 

    

    

 

 

     

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