“La voliera senza reti”, di Zingonia Zingone. Breve lettura critica

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Libro polisemantico, di alta cultura ed estrema concentrazione simbolica, godibile sia sul piano letterale, sia sul piano allegorico e anagogico, con sapienti, puntuali riferimenti alla cultura classica e alle sacre scritture, “La voliera senza reti” (Edizioni della Meridiana, 2022, pp. 52, Euro 10), di Zingonia Zingone, offre per rarefazione alchemica una poesia di fibre nascoste che esplora la dimensione sottile delle essenze, dialogando con l’invisibile e raccogliendo i messaggi dell’«inconfessato». La scrittura vi obbedisce a un «richiamo ancestrale / bocca a bocca con l’infinito», dunque è necessaria in quanto necessitata dall’annuncio e dall’impegno della sua stessa “visitazione”, per cui il poeta non scrive “ad arbitrio” estemporaneo ciò che vuole o sente, ma ciò che non può esimersi dal dire e che una forza, a un tempo conosciuta e sconosciuta, gli “ditta dentro” costringendolo a farsi docile “vas electionis”.

Il concetto del “vas” rimanda all’athanor, il forno utilizzato secoli fa dagli alchimisti per la trasmutazione della materia, e ancor oggi − per via metaforica − dagli artisti autentici, impegnati in un processo di ricerca entro cui avviene la mise en abyme dei significanti e dei significati, cioè la sconfinata amplificazione del segno nel simbolo archetipo che raggiunge la complessità psichica interiore del soggetto coinvolto, nonché la realtà indicibile che precede il linguaggio, il “nulla lucente” dell’essere e quindi, per via indiretta, il caos che la creazione cerca di arginare e ordinare in cosmo. “Vas”, a ben vedere, è la realtà tutta nelle infinite e inafferrabili stratificazioni del suo mistero: il poeta si rende disponibile come “sismografo” delle energie profonde che lo utilizzano per manifestarsi. Oltrepassando gli orpelli dell’io per schiarirsi la vista e la voce, passando cioè dagli occhi di carne alle visioni intangibili dello spirito, Zingonia sviluppa un rito personale di elaborazione cosmica verso la «radice di ogni inizio» dove si attende, dal suono del vuoto, «l’annuncio pontificale di un ritorno / all’età perduta», cioè alla purezza spirituale che oggi il mondo rinnega.

Leucotoe, l’alter ego femminile implicato in questo percorso di purificazione, vive in prima persona il conflitto tra la prigione dei sensi e le radici ultraterrene; ma per resistere alle aporie del mistero, cioè alle lusinghe del merlo (che spesso però è un corvo maligno), pianta la tenda della parola «al confine / dove i dubbi sfiorano la fede / (…) e il cielo si pronuncia». Teatro della scena poetica è infatti una terrazza sui tetti di Roma, «dove planano gli uccelli / le intuizioni le divinità» e dove Zingonia raccoglie il «canto / che proviene dall’alto». Una Roma di periclitante verticalità, dalle «vette del Pantheon» alla «torre barocca di Sant’Ivo» alla «facciata di Sant’Andrea della Valle» − tegole cornicioni ringhiere campanili cupole: la parola insiste e incide nello spazio vertiginoso delle prospettive aeree dove il corpo è «in bilico» e si protende al cielo, già quasi per smaterializzarsi:

Ti seguo sul colmo del tetto
barcollante
colloco i piedi nello squilibrio dei tuoi passi
mi affido alle ali di fumo
.

In realtà il libro è un poema di frammenti lirici magistralmente disposti entro la cornice di una psicomachia tra opposte pulsioni ambivalenti; una battaglia spirituale che conduce al vertice della sua tensione, anche se le ali sono tanto fragili, si rompono o inceneriscono per un nonnulla. Ecco perché invoca la sublimazione sacra della materia, ben simboleggiata dall’incenso che brucia: alleggerirsi di tutte le sovrastrutture, anche quelle religiose, per ardere del fuoco divino, amare del suo amore perfetto, abbandonarsi all’oceano mistico della sua pienezza.

La voliera senza reti del cielo, alla fine del percorso, non è più cerchio che imprigiona ma «cappella senza pareti» che protegge. Leucotoe è ormai liberata dalla cecità della luce terrena, dal veleno dei giorni, dalle trafitture della fiamma profana: giunta alla 33ª e ultima stazione del percorso (il numero non è certamente casuale) si rivela «colomba di fuoco / sulla scia del Pellicano», e il Pellicano è Cristo, Jesu Domine umile e trionfante su tutti i merli e i corvi del mondo. Zingonia Zingone può così sovrastare la propria ricerca metafisica con una risposta autentica alla “domanda delle domande” scavata nel silenzio del vuoto e pronunciata alla fine della composizione numero 13:  ̶  chissà se siamo qualcosa / oltre che polvere.       

Marco Onofrio

“Azzurro esiguo” recensito da Anna Maria Curci su poetidelparco.it

Magia

Lo schianto dentro l’attimo che passa

regge in bilico, come un giocoliere

tutto il peso del silenzio che rimane.

Ecco l’incanto, l’anima allargata

da un’onda che fluisce nelle vene.

Magia di questo cerchio senza fine

che appunta il centro esatto su di me.

(p. 53)

L’anelito all’infinito, una sete perenne e inestinguibile, è formidabile motore della parola poetica. È dalla sete di infinito che si diramano le direttrici in Azzurro esiguo di Marco Onofrio.

Sono molteplici e dinamiche, queste direttrici, sono centripete (versi 6 e 7), ma con un centro che non si fa afferrare e, soprattutto, seguono traiettorie talvolta imprevedibili e attraversano territori anche molto diversi tra loro. Ciò che unisce è indubbiamente il tentativo persistente, tenace e resistente a rifiuti e a fallimenti, di bussare alle porte del mistero, di trovare il varco per l’oltre, per la luce, di risalire all’origine, all’archè.

Il segno unificante e caratterizzante è un colore, azzurro, come il colore della lontananza e dell’infinito nella più filosofica poesia romantica, quella che si pone a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.

Eppure questo azzurro è “esiguo”. Viene da pensare allora alla sensibilità del primo Novecento austriaco, al “mondo di ieri” che si riverbera nell’azzurro pallido della “scrittura femminile” di cui narra Franz Werfel (e invero anche in Azzurro esiguo, così come nel romanzo di Werfel Una scrittura femminile azzurro pallido, la coscienza della storia è ben presente); tuttavia, Marco Onofrio chiarisce sia l’ossimoro (figura retorica significativamente prevalente in questa raccolta) e il dilemma tra il desiderio d’infinito e l’impossibilità di raggiungerlo pienamente in questa esistenza nella poesia che dà il titolo al volume, concludendolo: «Come riuscire a dire l’azzurro esiguo/ dentro l’universo tutto nero?/ Siamo lampi che aprono il mondo/ tra due abissi di tenebra infinita» (p. 108). Non si limita a questo, Marco Onofrio, ma, con solido principio di realtà, egli mostra consapevolezza che, se l’azzurro percepito può essere solo un bagliore, un balenio, una lama di luce tanto repentina quanto fugace, urge tuttavia la domanda circa le vie e gli strumenti per dirlo, per esprimere tutto ciò, per affermare, come rivela la prima persona plurale in «siamo lampi di luce», un autentico, concreto umanesimo della contemporaneità.

Sapere che la ricerca e il tentativo di oltrepassare il varco sono elemento costante e movimento reiterato per chi vive nella parola poetica da una parte dà forma alla coscienza del legame stretto tra la sensazione di fallimento e la certezza circa l’inalterabilità e l’invincibilità del mistero («Miliardi di universi sfuggono/ allo sguardo», p. 21), dall’altra, per moto tenace e contrapposto, imprime slancio a ogni ‘assalto all’infinito’.

L’anelito alla luce, allo «splendore dell’eternità» spinge a «Trascendere il visibile apparente/ entrando nel dominio dell’eccelso:/ oltre le scorie inutili/ e le ramaglie delle sfilacciature» (Il varco, p. 17). La percezione del limite, di una barriera che appare invalicabile, si unisce alla nozione esatta che quel confine attende tutti, ciascuno nella sua individualità e nel proprio peculiare grado di consapevolezza. Nei confronti di alcuni tra coloro che hanno varcato quella soglia è più difficile «dirsi pronti» (p. 42, in Morte del padre), ma la distanza che dopo il passaggio appare incolmabile è innanzitutto impegno a proseguire il viaggio su questa terra con il respiro che si nutre del respiro dell’altro, poi anche pungolo perenne all’interrogazione.

Fin dai primi testi di Azzurro esiguo emerge uno dei motivi conduttori di questa raccolta, quello del passaggio alla dimensione altra, «che ci ruba per sempre/ alla materia» (p 17); indagare sulla sua natura è compito di un’intera vita.

Porsi interrogativi, schierare le proprie domande, intensificarle, affilarle: questo è ciò che spetta all’umano, che sa di non saper rispondere a tali quesiti, eppure, nel suo vivere la poesia, non smette di formularli: «Cos’è, cos’è, cos’è stato/ a generare tanta magnificenza?/ Nessuno può rispondere ma/ sciogliere quei lacci è/ vivere una vita;/ disfarne il nodo/ il compito finale.» (Il compito, pp. 15-16).

Anna Maria Curci

Con il lapis* #25: Marco Onofrio, Azzurro esiguo

“Dolce di sale”, di Antonella Caggiano. Lettura critica

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“Dolce di sale” (Montesilvano, Costa Edizioni, 2022, pp. 80, Euro 12), di Antonella Caggiano, è un’opera poetica che insegue – fin dall’ossimoro del titolo – l’ambivalenza originaria delle cose oltre la crosta univoca delle superfici. La parola si gioca e si spende nella distanza mai del tutto approssimabile “fra me e / l’infinito”, e quindi nella coscienza di essere soltanto un “piccolissimo punto / fra molti orizzonti”. E tuttavia, un punto così prezioso e intelligente da poter gestire questa smisurata complessità e racchiudere l’infinito e l’altissimo nelle caverne buie del cuore, al netto delle sue miserie, delle sue imperfezioni, delle sue incomprensibili stranezze.

Uno dei nuclei centrali da cui la silloge irradia la forza che Antonella Caggiano ha saputo infonderle può agglutinarsi intorno al tema dell’identità, una terra sempre misteriosa e dagli incerti confini. L’identità è anzitutto un processo infinito (“Il viaggio è perenne”, scrive la poetessa) che rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, dipanando le nostre vicende tra esperienza e innocenza, esiti e premesse, ali e radici, ecc. Sono innumerevoli i “sedimenti faticosi / della lenta / costruzione di te informe”. Occorre dipanare i “fili neri / intrecciati di infinito” attraversando le “convulse onde dell’esistere”. Spesso il nemico non è fuori ma dentro, siamo noi le zavorre, i maggiori ostacoli al nostro volo: “Tu il tuo peggior nemico che dovrai amare”. L’identità è uno scrigno di tesori nascosti, il che implica la necessità di tutelarla e, di conseguenza, la paura di vederla sbiadire o addirittura perderla, come la “conchiglia sgomenta senza più / il ricordo della sua musica”, o l’“onda attonita priva dell’abbraccio della riva”. Guai a ciò che si snatura! Che il cuore non diventi mai “un luogo disabitato”: questo anzitutto importa, poiché l’identità (come la parola che la esprime) o è autentica, o non è.

Allora tutto il discorso poetico sviluppato da Antonella Caggiano in “Dolce di sale” gira intorno a una via taumaturgica di ricomposizione dell’armonia perduta. L’autrice campana celebra il culto della positività – così raro tra le dolenti note della scrittura poetica di ogni tempo – e quindi la ricerca della vita, l’adorazione della luce, l’esaltazione della gioia. Che non significa ovviamente esercitare la rimozione semplicistica dell’ombra, giacché “la notte / devi prenderla di petto / o lo farà lei”, pur coscienti che il buio non è e non sarà mai assoluto, anche quando si è ciechi: “ci sono stelle / a guardare per te”. Proprio per questo, dunque, è possibile e anzi auspicabile articolare il credo nella sacralità eterna della vita, intessendo la “trama di luce / che ostinata ricuce / speranze”. Occorre essere tutt’uno con la vita, impregnarsi delle sue miracolose energie fino all’“estasi senza confini” dagli “impensabili colori” che ci attende alla fine del percorso.

Sii il profumo che vuoi intorno.

Tieni la testa
al sole
come i girasoli
che l’abbassano
solo per seminare il terreno
di nuova vita.

È una poesia che sente congeniale il registro augurale, e infatti spesseggia di ottativi, se non di imperativi, a supporto di un più vasto discorso etico e pedagogico (l’autrice non a caso è un’insegnante) sotteso all’impianto immaginifico da cui distilla la percolazione dei versicoli, graficamente disposti al centro della pagina come raggi di un indicibile nucleo energetico. Vale a dire, tutte le parole obbediscono alla stessa gerarchia fondante, che forse è la vita da cui originano, il silenzio assoluto del suo mistero. Attenzione, però: l’assoluto qui non è mai astrazione metafisica ma captazione concreta del dato relativo e materiale: può essere afferrato solo nel prodigio che si svela attraverso il cronotopo presente.

Il Mare
qui
ora…

E ancora:

se dovessi pensare alla
Bellezza
vedrei l’istante esatto in cui
i petali si schiudono
nella promessa dell’alba.

La parola poetica vuole “sbriciolare tempeste” con la “pazienza morbida” dell’acqua che tutto vince, smussa, trasforma. Antonella Caggiano vagheggia, per sé e per tutti, la liberazione della psiche dai veleni, le scorie accumulate giorno per giorno, esperienza dopo esperienza, da un trauma a quello che lo segue. Vorrebbe “accendere / gli occhi / affogati / da troppa notte”, e allora chiede alla mano contratta di rilassarsi ed aprirsi:

Aprila!
scorgi il cielo che ti soffia parole
di cura.

I versi di questo libro trasudano una sacrosanta voglia di leggerezza e auspicano la capacità di gustare l’informe e “denudare / la paura e / interrare / le difese” abbracciando con fiducia l’invito all’abbandono, cioè lasciandosi andare all’onda libera per rinascere – come da un battesimo – nella corrente dell’anima. Si sogna, in una sorta di rêverie ultracosciente, la dolcezza felice che nascerebbe dal potersi distendere “di pace e di canzoni” sul “velluto di mare” accarezzato dai raggi della luna! E il vuoto interminabile da esplorare senza appigli, immuni dall’“ancestrale panico”, dove sperimentare tutte le esistenze possibili prima di precisarsi in un luogo e in una condizione:

Vorrei essere
piuma
in un cielo fermo
d’estate
e
piroette e volteggi
disegnati
nel sole
posarmi a terra.

Nient’altro.

Qual è la via della guarigione? È la via della natura, del “respiro profondo”, dell’adesione al cuore delle cose. Est modus in rebus diceva il poeta latino Quinto Orazio Flacco: e appunto la poesia di Antonella Caggiano, che si percepisce nutrita da un retroterra di autentica classicità, persegue la “giusta misura delle cose” ricercando l’essenza della natura e la natura stessa dell’essenza.

Arriva al centro
delle cose
del mondo,
quelle per cui si è ciò che si dona.

Che bello ri-crearsi e ri-originarsi nella “spuma fresca di mare”! Trovare l’infinito nel finito e l’immenso nell’esiguo, “il mare / intero / nel mio bicchiere”… e poi farsi mondo, vibrare con esso e musicarlo, come strumenti della sua mistica partitura. Occorre però uscire dalla consunzione delle abitudini per aprirsi all’ignoto e al diverso, con il cuore aperto, acceso e pronto a “rinnovare il patto / di fratellanza” già invocato, fra gli altri, dall’ultimo Leopardi. L’abitudine è “oscura consigliera” poiché insinua un grigiore che impedisce di sentire il polso dell’umanità, il suono multanime della vita che scorre, il “palpitare stanco / delle macchine” che pur non copre il volteggio delle voci come “coriandoli di speranze”, e insomma la coscienza comunitaria che vige e resiste, malgrado le infinite brutture che la deturpano, modificandosi nell’evoluzione temporale e spirituale della storia. E cosa c’è nel fondo oscuro della storia?  “Nulla è cambiato dalla grotta di Betlemme / ancora offriamo le lacrime degli ultimi” perché Amore è “fuoco fatuo / per l’ominide” e la fiammella vacillante ma perenne della speranza “rivela ciò che si teme”: il male, l’orrore, la disperazione. Se invece fossimo centrati nel cuore infinito dell’essenza sapremmo o capiremmo naturalmente che l’amore divampa improvviso “in uno sguardo / che non aspetti”. È per questo che il pensiero deve imparare ad avere il coraggio dei “passi irriverenti”: tanto più oggi che viviamo in un “tempo scolorito”, nella terra desolata dell’“ombra invernale”, senza garanzie di primavera e smarriti dinanzi a un tempio di mercanti “dove ci hanno traditi”.

Dovremmo imparare ad essere “giorno / di festa” poiché appunto ogni benedetto giorno è una festa – e invece diamo tutto per scontato, con presunzione folle come stolti. Nel libro si distende, più o meno evidente, un magnifico elogio della fragilità, come ad esempio in questi passi centrali:

Attenzione a come mi guardi
potrei andare in frantumi.
Parla sottovoce ché l’anima
ha pelle di acqua
scivola
senza ricordo.

(…)

Siamo soffio
non chiedere il peso
la misura.
La spuma divina
ci accende.
Un volo
di fiori d’angelo
ci disperde.

(E si noti come la poetessa riesce a racchiudere e incardinare il viaggio di ogni esistenza negli ultimi cinque versi poc’anzi citati). Scrivere, insomma, è come “scolpire l’aria”, dare peso al vuoto e leggerezza al pieno avendo a che fare con materie sottili mentre si palpa la carne viva dell’esistenza, cuore, nervi e sangue. “Dolce di sale” è il sapore stesso della vita; e il suo odore è quello primigenio del mare, di cui il libro è ricchissimo (mare salato, mare cosmico, mare interiore) e che Antonella Caggiano ama perdutamente, anche perché “ti sposta i pensieri”, cioè disancora dall’assuefazione che ottunde, dal centro limitante a cui restiamo abbarbicati per paura, come granchi su uno scoglio. La sua parola è così piena e struggente di vita che aspira a farsi cosa, a diventare ciò che indica ed esprime:

Come posso
dire cose?  

È il tema eterno della dicibilità, del confronto (anzi del corpo a corpo) della parola con l’infinito inafferrabile del mondo. E le parole scelte, da ultimo, sono soltanto i negativi fotografici della Luce intravista nel tentativo di aderire completamente e perfettamente a ciò che “ditta dentro”, eliminando le dispersioni, le resistenze opache, le interferenze disvianti.

 Marco Onofrio

Nota critica a una poesia inedita di Emanuela Dalla Libera

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HA ANCORA I SOLCHI DELL’ALTALENA L’ALBICOCCO

Ha ancora i solchi dell’altalena l’albicocco
tra l’erbe a stento si nasconde l’orcio
frantumato dove si abbeveravano i grilli
nelle estati umide di suoni e di fermento
e nelle notti di luna piena la civetta nascosta
tra le fronde levava schiva voci di mistero.
Chissà se il tiglio racconta storie ancora
ai balestrucci a primavera, se i nidi
accoglie a crescere dei merli i nuovi canti,
se il vento i semi sparge a perpetuare
gli incanti miei perduti nel mondo alla deriva.
Solo il fiume oltre i campi sa dirmi quali voci
si levano ancora tra le rive dei gelsi uvidi
agli inverni, di quali inciampi riempirò
i miei giorni che scioglierò la sera accanto al fuoco.
Ora saetta il tempo visioni affievolite,
hanno smarrito i volti delle fiabe le nuvole nel vuoto,
solo qualche sillaba mi porta ancora il vento
se un’eco dispiega in cielo come un aquilone.

Emanuela Dalla Libera

Commento di Marco Onofrio:

Sunt lacrimae rerum. In questa bella elegia di Emanuela Dalla Libera c’è il sospiro delle cose perdute, compostamente fuso al nitore classico di una “misura” né classicistica né, tanto meno, di mediocre retorica “ad orecchio”, ma consapevole, organica, funzionale alla poetica di “sedimento del tempo” e scavo dell’esistenza che l’autrice elabora nei significati profondi e universali della sua scrittura. Che fine fanno le scene vissute, gli attimi e le cose del passato? Li inghiotte per sempre il vuoto o ne rimangono, almeno, vestigia recuperabili? Che rapporto c’è tra “forma” e “vita”? Dove comincia l’argine della cultura rispetto all’oceano della natura? Quale capacità abbiamo di lasciare una traccia durevole dentro l’infinito storico e biologico in cui, per citare il grande Foscolo dei Sepolcri, il divenire “involve / tutte cose” e “l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo”?

Pare che qualcosa rimanga, se la brava poetessa vicentina può scrivere che l’albicocco conserva «i solchi dell’altalena» con cui giocava da bambina, e che l’orcio «dove si abbeveravano i grilli», seppur «frantumato», «a stento si nasconde» in mezzo all’erba. Tornando ai luoghi dell’infanzia (se mentalmente o fisicamente non è dato sapere e non importa) trova dunque dei “reperti” sopravvissuti alla devastazione onnivora del tempo: certo, i «suoni» e il «fermento» delle estati di allora sono svaniti per sempre, i grilli non sono più quelli, e così la civetta con le sue «voci di mistero», i balestrucci, i merli, i nidi, ecc. La natura non è materialmente identica a quei giorni, ma è essenzialmente immutata poiché, come una polla d’acqua sorgiva, resta uguale a se stessa (al netto dell’opera umana) pur nell’infinita trasformazione. Non solo l’albicocco e l’orcio, ma anche il tiglio e soprattutto il fiume (simbolo primario della metamorfosi che rende l’esistenza costantemente sospesa tra divenire ed essere) sono rimasti fedeli al “loro” posto. Quindi si torna come “reduci” tra cose che ci sopravvivono e che, pur rimescolando di continuo i loro connotati, danno conferma “postuma” alle nostre esperienze. Riconoscibili e insieme irriconoscibili come ci appaiono, dopo tanti anni, queste cose ci conducono allo snodo filosofico fondamentale che i versi della composizione vanno a sollecitare: la divergenza tra “spazio” e “ambiente” in cui e di cui può, volta a volta, connotarsi il mondo ai nostri occhi. Il poeta è un “archeologo della memoria” che cerca nel mondo, a nome di ciascuno, un ambiente riconoscibile e abitabile, cioè uno specchio rassicurante dove confermare tutto il buono e il bello dell’esperienza, anche se deve purtroppo fare i conti con lo spazio infinito del «mondo alla deriva» che ogni cosa cancella e divora nella sua “macchina impastatrice”. Tentiamo disperatamente di inquadrare e contenere il mistero inarrivabile, che ci illudiamo di comprendere ma che in realtà “non cape”: non solo l’infinito dello spazio ma quello, ad esso interrelato, del tempo.

I quattro «ancora» di cui il testo è disseminato sottendono un contraltare innominato che coincide con la tonalità musicale stessa dell’elegia: il “non più”. Eppure la memoria ha la capacità di «perpetuare» le cose che non sono più, anche gli «incanti miei perduti» di cui il tempo saetta «visioni affievolite» e il vento reca «qualche sillaba», sparuta come «un’eco» dei giorni che furono. La memoria immaginativa, ovvero il patrimonio di miti infantili a cui attinge fascinosamente ogni scrittore, è ciò che consente di salvare il tempo perduto dentro l’arca delle parole dacché, come scrive la giapponese Banana Yoshimoto (lo so: cultura diversissima da Emanuela Dalla Libera, ma il sentire umano è universale quanto più profondo), “i ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa”, ed è proprio “il cristallo scintillante dei tempi felici, riaffiorando all’improvviso dal sonno della memoria”, che ci aiuta ad “andare avanti”.

Marco Onofrio  

“La nostalgia dell’infinito”, letto da Maria Teresa Armentano

Nell’Introduzione l’autore annuncia che questa antologia racchiude le poesie di un “itinerario poetico” che qui, però, risulta cronologicamente discontinuo, ed è così voluto proprio per accostare temi secondo un “tracciato ondulatorio”; ma forse, aggiungo io, per il lettore sarebbe preferibile seguire l’evoluzione del cammino poetico di Onofrio ordinatamente, per comprendere il mutamento e le trasformazioni del suo sentire. Leggendo l’insieme di poesie del 2002, tratte dal volume di esordio Squarci d’eliso, si comprende il perché del titolo.

La “nostalgia dell’infinito” è la dimensione di un cielo senza confini a cui aspira il poeta e che è ancora in nuce in questi primi versi. Nostalgia è parola greca in cui il ritorno è intriso del dolore nato dall’emozione di una condizione della mente appena intravista, come scrive l’autore in “Eppure”: il volo senza fine della mente / integralmente / nel misterioso cuore del silenzio, / dopotutto qualcosa / riuscirebbe a vedere, / forse. Quel qualcosa di indicibile che il poeta scorge appena come una scintilla di una luce incerta che sfugge, mentre nel profondo del cuore   si radica la parola “forse”. Tre anni dopo, con Autologia, c’è un salto, nel senso che i versi assumono un ritmo più ampio e disteso e si fa strada una convinzione; il sentirsi nulla si confonde con la vita, sebbene confinata nel vuoto di un amore finito, di una privazione di senso, che si esprime con completezza nell’Inedito dal titolo “Disincanto”: Provai a vivere: / la vita amaramente mi respinse. / (…) Dallo specchietto rotto del mio sguardo / bagliori fuggitivi di una luce. / Ma io passo, attraverso le nuvole/ col mio procedere unico e diverso / sghembo, inesorabile, deluso…

Con D’istruzioni (2006) siamo ancora nel solco cronologico del viaggio intrapreso dal poeta che non chiude il cerchio iniziale: rimane aperta la domanda di sempre, espressa in “Esistere”: che cosa siamo? Se in Squarci d’eliso la risposta guardava al cielo, in D’istruzioni guarda all’abisso che è dentro di noi, tanto che il poeta sente la necessità di intercalare due poesie inedite di anni precedenti, entrambe intitolate “Essere”, che sono perfettamente in linea con le velate risposte di una lirica senza titolo: Colui solo può conoscere di luce / quel che torna dal profondo / per l’oscurità. / (…) Il giorno sfolgorante è nella notte / che lievitando cova la sua alba / nell’abisso, dentro il mare. E il ritorno si compie ed ha un senso in solo due poesie tratte da Antebe. Romanzo d’amore in versi in cui si adombra solo nel ricordo-rimpianto la figura evanescente di una donna senza forme e senza volto. Appena accennato il tema dell’amore, in questa antologia, e certo non dell’amore che è tripudio e gioia dei sensi ma solo un passaggio a un amore universale, tramite per tornare nuovamente al tema preferito: la luce che lotta contro il buio e la notte che, nella raccolta È giorno, trova il suo compimento. Sempre più forte l’anelito del poeta verso il cielo e l’Infinito, verso un Assoluto che è amore per il mistero, il creato e l’armonia divina che si percepisce appena, e se si guarda dentro sé si ritrova nella vita misteriosa del cuore: Tutto vibra palpita respira / in ferma compiutezza / in armonia. / È la divina, mistica euritmia. (“Alba”)

Nella seconda parte del libro, più vicina all’oggi, preponderanti sono le liriche di Ora è altrove che si alternano a inediti intorno al tema del mare e di ciò che rappresenta, nella bellezza di superficie e nel mistero delle sue profondità. Al mare sono legati il mito e il ritorno, in questo caso a se stessi, alla propria interiorità, che Onofrio ricerca nel respiro delle onde. Indosso il suo vestito d’acqua e sale: / è un saio di freschezza nella luce. (“Come l’onda”). E ritornano le nuvole, presenti nelle liriche all’inizio del percorso, in “Ai bordi delle nuvole”. Ora non sono più evanescenti giochi del cielo ma strumenti di un invisibile che si sente vicino: ai bordi delle nuvole i sentieri / le strade che cominciano nel vuoto / e sfumano nel vento… // Io vedo l’invisibile / io sento. Il cammino di Marco Onofrio diventa più arduo nell’avvicinarsi al mistero, al palpito di una natura che lo attrae e lo confonde per la sua bellezza, che lo affascina e lo conduce in un fasciante silenzio alla scoperta del proprio Io. E m’incanto / dinanzi a una bellezza / così grande da comprendere / così tremenda da sostenere. (“Incanto”) 

C’è nelle più recenti opere di questo poeta una ricerca assillante che attraversa anche il ritmo interno dei versi, lo rende nella ricerca delle assonanze più morbido e nello stesso tempo più stridente con le parole sconvolgenti che ne trasfigurano il senso. La parola dice come una folgore e poi nel suono ammorbidisce l’immagine angosciante evocata in una continua contrapposizione tra affermazione della bellezza del cielo e negazione della bellezza come vuoto eterno che assorbirà ogni tentativo di esistere. Nelle poesie degli anni 2013-2015, sia inedite sia nel testo Ai bordi di un quadrato senza lati, riappaiono tutti gli interrogativi: Riuscirò, un giorno / a volare in carne e ossa / senza ali? A tuffarmi / nell’immensità? si chiede il poeta, e trova una risposta seducente anche se incerta: afferrarsi al mondo, riscoprire in sé quell’immensità che lo lega al creato, il vuoto che si sostanzia di quel che dentro di noi cresce e lo annulla e consente di dimenticare tutto e rinascere finito ma libero. Dopo i due personaggi, Edipo e Amleto, segnati dal dubbio e dall’assenza di sé, scelti come emblemi dell’essere in conflitto col non essere, l’autore sceglie come inizio di un nuovo ciclo Icaro, e in un bellissimo Inedito lo celebra come l’uomo che sfida il mistero. Navigherò nel vuoto oceanico / per conquistare i segreti più remoti / dello spazio / i luoghi più nascosti / del mistero. Ritornano due parole, Nostalgia e Infinito, a chiudere il ciclo iniziato con il titolo dell’Antologia; ora, compiuto il cammino, il buio e l’abisso vengono sconfitti, assumono senso non più negativo perché la fine si congiunge a un nuovo inizio. L’invisibile ritorna e anche il tempo corruttore diventa una variabile se sulla carta resta la parola che diventa scrittura della vita e del mondo, la dimensione di immortalità del poeta.

Maria Teresa Armentano

“Katapètasma”, di Paolo Corradini. Lettura critica

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La poesia di Paolo Corradini è permeata da un retroterra culturale classico, soprattutto di matrice greca. L’Ellade intesa come patria metafisica, oltre che cifra di un mondo e di un modo di “sentire” e guardare alle cose. Ecco dunque il titolo del suo nuovo libro (Lepisma, 2019, pp. 38, Euro 10): Katapètasma, ossia “velo”. Nei Vangeli indica il Velo del Tempio squarciatosi alla morte di Cristo. Con questo nome viene anche indicata la tenda che tradizionalmente chiude un santuario. Corre subito alla mente il Baudelaire di “Corrispondenze”: “È un tempio la Natura ove viventi / pilastri a volte confuse parole / mandano fuori”. E le parole sono confuse perché velano ma insieme svelano il mistero racchiuso nel tempio dell’universo. Come una tenda diafana, semitrasparente, che anzitutto attrae lo sforzo di inseguire la visione e la conoscenza chiara dell’infinito. E quindi la ricerca inappagabile della Bellezza. Riverberi lontani, echi di una patria perduta in interiore homine, cioè di una condizione dello spirito forse ancora recuperabile grazie alla fede nella poesia come veicolo di conoscenza e verità. La parola è, infatti, uno strumento scardinante che avvicina alla verità nel momento stesso in cui ce ne tiene separati. Come la conchiglia che, se l’accosti all’orecchio, sussurra interminatamente la nostalgia del mare che ha perduto, così da qualche parte della nostra oceanica profondità – se riusciamo a trovare il varco per intercettarla – potremo recuperare i “discorsi” che ascoltammo prima di nascere, la loro sapienza indicibile, la melodia di quella musica ancestrale. 

Leggendo queste composizioni se ne avverte subito l’intensità e l’altezza diremmo “liturgica” (però di un sacro laico, non determinato in senso “confessionale”, cui l’autore accede per sensibilità innata e cultura acquisita): ognuna è un mondo a sé di sensi abissali e quasi inattingibili, per la loro sconfinata suggestione, per le connessioni simboliche e mitopoietiche, per le ambivalenze evocate dalla limpida chiarezza dello stile. Più che di poesie, si tratta di 16 poemi – o meglio di un unico poema orchestrato in 16 momenti – capaci di concentrare l’oceano in poche gocce di parole dove (come scrive Dante Maffìa in Prefazione) “tutto è tenuto alto, dal tono espressivo al pensiero agli argomenti”, per cui alla fine della plaquette ci sembra di aver letto (per intensità espressiva e ampiezza evocativa) molto più della sua effettiva consistenza. La parola è insomma un frammento di quella totalità primigenia di infinito e assoluto verso cui si anela nostalgicamente. Corradini comincia il libro con “E poi”, sottintendendo un discorso o, meglio, un mondo che precede la parola. Di là (lassù, laggiù, oltre) splende la Luce-madre del mistero: “E poi c’è questa solitudine / densa ed oscura”, quella di essere nati, di essersi incarnati, di essere apparsi alla luce imperfetta che sorge e tramonta di qua: soli, isolati, finiti, determinati, mortali: esuli. Siamo reclusi nel principum individuationis che ci limita ad un corpo, a uno spazio, a un tempo. Ma proprio per questo nasciamo già cercatori di senso e mistero.

Il poeta si sente inabile sia al cielo sia alla terra: “incapace io d’essere uomo fra gli uomini, / incapace la mia preghiera di penetrare il cielo”. Ma non riesce a sfuggire la vertigine dell’assoluto che glielo fa scorgere in ogni volto, udire nel silenzio, intuire nel dolore delle creature. Corradini evoca la forma senza forma della vita e il suo mistero indicibile: la “forma / che non ha mai fine” e che guida “al sovrumano atto / del nascere”. E invece la forma finta e mutevole delle cose che ci attorniano “è un tormento / orfana dell’invisibile splendore”. Ecco però i due grandi poteri dell’uomo: l’amore e l’immaginazione. L’amore è l’antidoto contro la morte e l’eterna dissolvenza, per cui l’assenza rende paradossalmente più forte e viva la presenza: “più lucente / il tuo volto mi appare / di quanto non l’abbia mai veduto / (…) Anche se chiudo gli occhi / ti rivedo”. L’amore rende incancellabili le cose. Leggiamo: “Nelle forme / che si sono disfatte / ho raccolto qualcosa dell’infinito. / Nulla è perduto / nell’anima / che vuole tornare all’origine”. E poi, l’immaginazione. Immaginare: inseguire l’imago, cioè la visione profonda, dentro sé. Una etimologia vulgata e forse meno corretta recita la locuzione: in me mago agere, cioè farsi mago, evocare il mago che noi siamo. Corradini scrive: “Reco in me / molte magie”. “Reco in me” è il bagaglio del guerriero “trafitto da lance invisibili” e impegnato nella “battaglia del vivere”. Questo patrimonio umano raccolto e intriso di coscienza lo rende pronto a donarlo per amore: “Tutto consegno. / Tutto di me consegno / sulle tue labbra”. Occorre fare il vuoto, perdere ogni cosa di sé per sentire che “ogni cosa fuori” misteriosamente ci appartiene. Emergerà così la nostalgia della purezza perduta, giacché l’esistenza corrode l’anima “come fa la salsedine sugli scogli”, anche se l’angelo “a tratti mi illumina ancora”.

Corradini è perfettamente consapevole della nostra complessità di contrasti e ragioni ambivalenti, considerando “quanto mistero, / quanta gloria, / quanta violenza vi sia / nell’essere un uomo”. È poeta autentico perché anzitutto a colloquio con la sua “parte oscura”, necessario contraltare di quella “luminosa”. Un angelo e una belva albergano in noi (penso al “De hominis dignitate” di Giovanni Pico della Mirandola): “Sono stato strappato / alla mia angelicità” scrive Corradini “per diventare una bestia. / Alla mia bestialità / sono stato rapito / per diventare un angelo”. Allora la bellezza di cui il poeta si dichiara “prigioniero” e a cui chiede “tregua” ha una duplice valenza: può essere tempesta che schiaccia in basso e passione che abbrutisce, ma anche “turbinio / che solleva / nell’estasi del divino”. Si cade e si risale continuamente: “Diviso fra visione e cecità / mi sono elevato e smarrito”. Ma noi possiamo tornare alla nostra dimensione superna perché siamo abitati da un “senso d’eternità” che non ci abbandona, per quanto possiamo offuscarlo, poiché “tutto / sul nostro fondo è grazia” e “le stelle / non sono poi così lontane”. “L’Eden è remoto / ma un ricordo è rimasto / di quell’antica grazia”: è una luce purissima che “brilla da lontano / sulle nostre armature”. La tenebra stessa ha un cuore luminoso, il poeta lo sa, e sente la notte che combatte in lui “per diventare luce”. Nel sublime dimora la teologia laica dove la verità appare “velata / da penombra tremula” ora come “evanescenza” ora come “chiarore”. Ma è la grazia in cui il poeta vuole credere a condurlo oltre, “più in alto / nell’estasi” del sacro abbandono. Basta incantarsi a guardare ad esempio il volo di un airone per essere ricondotti “all’Immacolato / quando la bellezza / splendeva lassù come Essere / e la grazia illuminava il mondo”.

Corradini ha il coraggio di riaffermare il valore della bellezza come verità ontologica – purché non smarrisca la grazia, senza cui è “falsità” –, e può farlo perché sa che la bellezza “non solo è grazia, / ma anche enigma”, labirinto in cui possiamo perderci. Direi che è proprio la coscienza della nostra creaturale fragilità a rendere – da ultimo – questi magnifici “inni al sacro” di Paolo Corradini così umani, credibili, toccanti.

Marco Onofrio

“Nel nome del mare”, di Cinzia Demi. Lettura critica

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Nel nome del mare (Carteggi Letterari Edizioni, 2017), di Cinzia Demi, costituisce un felice esempio di poesia “elementare”, tesa cioè all’essenza – della poesia stessa e delle cose. Il nocciolo scabro che questo libro, forse più dei precedenti, scevera dalla fallacia delle apparenze molteplici, e che insegue nella nostalgia dell’assente (non più esistente o mai esistito) demandando alla parola il compito sovrano di manifestarlo, come in un rito, dalla traccia luminosa della sua evocazione, emerge come una sintesi bellissima di natura e cultura, ovvero di spontaneità istintiva e meditata ricomposizione, per cui il dettato poetico entra in risonanza con le sfere di un sublime che commuove in profondità, giacché autentico, persuadendo l’animo all’attesa di presenze rivelatrici. Quando infatti si è dinanzi al mare, generatore di pensieri e di emozioni, ci si aspetta sempre che “qualcosa succeda”. Non è chiaramente il mare estivo, caotico di bagnanti maleducati, ma quello di ottobre, solitario, pallido, dimesso, con la sua “aria di sale antico”. La prospettiva è di chi guarda alle cose “con gli occhi del tramonto”, per cui esse “sfumano / in un sentire lontano”. Lì, davanti al mare, si apre il bordo dello svelamento. Il sole denso di storia fa percepire lo spessore del tempo, la sua “milizia certa” posta a guardia del mistero. La poesia stessa insegue “la voce il miraggio / della storia”. E poi le epifanie di quella terra, la Toscana piombinese, ovvero i ricordi stratificati della vita trascorsavi: ad esempio la “sabbia ferrosa e dorata” con cui Cinzia Demi giocava da bambina, e la vigna, la terra rossa, le ginestre “odorose di forme e poesia”, e il “profumo di alga bagnata” tipico del mare.

La poetessa aderisce al tema eterno del nostos, del ritorno alla terra originaria: è la “donna che è / cresciuta lontano che stringe / la sua terra con la mano”. Vivere è ri-vivere e ri-conoscere: “sarà giorno quando arriveremo / un giorno pieno riconosceremo / la vita, la cucina, il canestro del pane” insomma tutti i particolari del “luogo dove poter stare”. Ecco l’importanza della terra, delle radici: “quanto conta la tua impronta / quanto rimane dell’essere nati con te”. Il mare la spinge “nel fondale dei giorni”, al confronto con le cose che non le appartengono più; ma anche con le possibilità inespresse, i “mancati approdi”, i “luoghi dove / non sono stata”. Nel nome del mare perdersi dunque per ritrovarsi, riabbracciando le rotte del cammino. È così che può aprire un dialogo metafisico con la Luce che le ha affidato il compito esistenziale: “dio, pensi ancora a quello / che dicesti che volesti per me / – nasci per fare collane di parole / allungare le ore del giorno / dare voce alle foglie lontane”. Questo significa, tra l’altro, fare poesia. La scrittura ha il compito di accogliere il dono di ciò che esiste, l’impronta dell’esserci e dell’esserci stato.

Il mare è dunque un catalizzatore di sacralità, un “padre potente e affettuoso” anche se talvolta mostra un cuore disumano e feroce. Con la sua “essenza primordiale” agevola e innesca le “memorie di sogno”, come “la finestra della scuola / da cui si apriva l’orizzonte” poiché si affacciava sul mare, dove “spaziava lo sguardo”, e ci si chiede come i discenti potessero (se non per abitudine nativa) resistere a una distrazione così grande. Le piazze “ventilate” sul mare consentivano e consentono all’“arcipelago degli occhi” di aprirsi su scenari sconfinati. Da Sud a Nord, in sequenza panoramica: Argentario, Giglio, Montecristo, Elba, Corsica, Caprona. Lo sguardo di Cinzia Demi è spesso “trasognato” proprio perché passa attraverso filtri magici come appunto la memoria e il sogno, con le loro sagome sfumate nella prospettiva infinita del tempo e dello spazio; ma (e qui poggia l’equilibrio mirabile della sua arte) è anche contemporaneamente terragno, preciso, radicato nella concretezza del visibile e del tangibile. Il finito, anzi, è il veicolo primo dell’infinito a cui la poetessa incardina la devozione e lo slancio stesso della sua parola: “in alto il cielo è come / imprigionato nell’ovale di un / volto in un voto mai sciolto”. Ma per rivivere la propria terra e appartenere davvero alla propria vita, l’esperienza insegna che occorre “perdere quell’azzurro / infinito del canale / il faro sentinella / il silenzio dello scoglio / il battibecco dei gabbiani”. Occorre essere partiti, aver sofferto, avere amato, essere morti tante volte, aver visto altri mondi e incontrato altre genti, altre persone. La poesia è il passaporto vidimato di questi viaggi, nella sua essenza di “faro e curva di speranza” che la porge come “pianta molecolare” e “impronta della luce”: un rito con cui si partecipa al mistero della creazione, entrando in sintonia con tutte le dimensioni spaziotemporali per raggiungere il cuore indicibile della propria umanità.

Marco Onofrio

 

“Il cappotto del nonno”, di Francesco Sisinni. Lettura critica

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Francesco Sisinni

Definito in copertina come “romanzo storico”, Il cappotto del nonno (Iride-Rubettino, 2006, pp. 204, Euro 12), di Francesco Sisinni, sfugge in realtà al riduzionismo di una classificazione qualsivoglia (sia pure di romanzo): è molto di più. Considerato globalmente nel suo arco di sviluppo, dà la sensazione di un mirabile affresco di Vita, che della vita assume tutti gli aspetti: anche la violenza e i risvolti oscuri e irrazionali (come il caos storico-sociale, la guerra, le lotte fratricide tra popoli e persone), ma anche la gioia della fede e il dono dell’estasi divina. È un libro denso di realtà: concrete e spirituali, sensibili e soprasensibili, fisiche e metafisiche, temporali ed eterne. La scrittura – vivida, prensile, multisensoriale – lo rende ricco e ammaliante di suoni, colori, odori. Ma Sisinni “narra”, oltre che descrivere: fa cioè rientrare ogni dettaglio nella spiegazione complessiva di un mondo che non ha ancora perduto il senso della “totalità”. Per questo egli può ancora enumerare e articolare i valori eterni dell’uomo, senza timore di scrivere parole con l’iniziale maiuscola: in perfetta, consapevole controtendenza rispetto all’etica politeistica, relativista e desacralizzata, così di moda nel sentire contemporaneo. Sisinni parte, coerentemente, da un concetto “alto” di cultura come strumento di crescita umana, a livello sociale e individuale. “La cultura, per esser tale, deve restare in alto, non deve cioè abbassarsi alla gente, ma deve innalzare a sé la gente”. Ed è tale se anzitutto consente di attualizzare la memoria, richiamando in vita uomini, cose e valori. Naturalizzata dunque come attitudine, come habitus mentale, come ricchezza di vita interiore. Giuseppe (così come Sisinni) “non riusciva a pensare senza far ricorso a fonti e ricordi letterari”.

Il romanzo parte dalla bellezza calma e piena delle tradizioni, che puntellano – con cadenza rituale – il percorso dell’uomo attraverso i valichi del tempo, sostanziandone la capacità di riconoscimento e di autorappresentazione. Ad esempio i riti salvifici del Natale: la costruzione e l’esposizione del presepe, la messa di mezzanotte, la processione, la deposizione del Bambino nella grotta, le “zeppole calde inzuppate di miele” (con tutto il potere di rammemorazione e di tempo ritrovato che ognuno di questi elementi riesce intensamente a sprigionare). All’inizio della narrazione c’è l’incontro con un protagonista fittizio: nonno Francesco. Ha un rapporto privilegiato con l’omonimo nipote. Poi il nonno muore, e Francesco il nipote trova, nel suo cappotto, un fascio di fogli manoscritti, intitolato “Giuseppe e i suoi sogni”. È la storia di un loro avo, Giuseppe, vissuto tra Settecento e Ottocento. Naturalmente è, a livello narrativo, il classico espediente del “manoscritto ritrovato”. Questo introduce nel libro un opportuno cambio di prospettiva: il vero protagonista del romanzo è in realtà Giuseppe. Il cappotto del nonno, lungo e vecchio (“pendeva da tutti i lati delle cuciture (…) le tasche particolarmente gonfie”) diventa una metafora del tempo che si innesta nella storia, col fardello dei secoli e dei giorni. E quindi l’onore e l’onere dell’esperienza, e il valore del passaggio che ci rende umani. Leggiamo allora il percorso terreno di quest’uomo, a partire dal noviziato nel convento dei Cappuccini di Lauria (la Lucania è terra dalle forti radici francescane: ben 117 insediamenti); poi Napoli, dove affronta gli studi teologici; poi Roma; poi il ritorno a Lauria, e il turbamento d’amore per Caterina, bellissima trovatella del posto, che lo corrisponde: Giuseppe lascia momentaneamente il convento, sospeso “a divinis”; vive un’estasi d’amore nel casino di caccia di Caterina; torna al convento. Caterina, incinta di Giuseppe, partorisce Francesco e muore nel darlo alla luce. Giuseppe ripara in Argentina, dove insegna teologia e viene anche tradotto in prigione per un equivoco; ritorna in Italia dopo anni; si rifugia in solitudine ascetica nell’isolotto di Santo Janni, dove infine morirà.

Giuseppe dipinge, soprattutto acquarelli che i confratelli definiscono “paesaggi dell’anima” per la levità dei colori, le delicate sfumature e le tenui dissolvenze, vibranti di luce di aurore più sognate che vissute (ed è il modo tipico che Sisinni usa per descrivere – splendidamente – la natura, che ama con un trasporto spirituale vicino spesso alla commozione). La natura è un arabesco dorato di soffuse, cangianti sfumature; è scala coeli per raggiungere la comunione con Dio creatore; è “liturgia epifanica della Bellezza”, tesa al virgineo nitore del primo mattino del mondo. Giuseppe vive l’esistenza in chiave problematica. Affronta le cose con attitudine interrogante. Il suo è un percorso di ricerca senza fine: un itinerarium mentis in Deum. La sua ansia di conoscenza è mossa da amore forte e sincero, alimentato dall’esercizio sincero dell’umiltà, che è anzitutto coscienza di non sapere. Il suo pensiero si approfondisce verso una sempre più chiara conoscenza “dell’uomo rispetto a se stesso, ai suoi simili, alla natura”, in cerchi concentrici sempre più vasti, fino al punto supremo da cui tutto origina e si fonda: Dio, Sommo bene e Termine d’ogni percorso. Giuseppe si abitua ad annotare impressioni e suggestioni per “tesaurizzare” fatti e momenti significativi, su cui tornare a riflettere. Sono cose così grandi e inesauribili da pensare, che il tempo non basta mai. Non basta una vita intera per sgranare il mistero vivente di Dio, per magnificare e onorare la gloria infinita della Sua Bellezza. Giuseppe ascolta la voce eloquente del silenzio, la “mistica caligine” attraverso cui entra in colloquio con lo Spirito Santo e si immerge nel mistero trinitario. È questa capacità di ascolto sovrumano, questa purezza infuocata del cuore, questo senso sublime dello stupore, che lo portano a comprendere la preziosa unicità di ogni cosa: “Ogni frammento di vita è per la storia prezioso come l’obolo della vedova”. La potenza del Tutto si manifesta dentro ad ogni parte, ogni frammento: il mare e il cielo sono immagini e respiro dell’infinito. Trascorre così ore ed ore di meditazione sui grandi problemi dell’essere e dell’esistere: il tempo, la libertà, la giustizia, la bellezza… È lacerato dal contrasto tra fede e ragione, ovvero tra restrizioni ecclesiastiche, imposte dal voto dell’obbedienza, e inquietudini libertarie di stampo umanistico e illuministico, che traduce nell’aspirazione a ordinamenti più aperti e democratici per il bene del popolo. L’Umanesimo vede l’uomo che prende potere di se stesso, affrancandosi dalla teocrazia e scoprendo una nuova forma di felicità terrena, che lo rende orgoglioso e libero di sentirsi finalmente arbitro del proprio destino, faber fortunae suae. Ma Giuseppe sente che tra gli estremi della fede teocratica e della ragione divinizzata (cioè tra Medioevo e Illuminismo) c’è la media virtus della ragionevolezza giusnaturalistica, già recta ratio degli antichi. Cristo è “il” cardine, principio e termine d’ogni cosa: fondamento che la regge dall’interno. La libertà non si conquista in modo sanguinoso, con la ragione della forza, ma con la forza della ragione, con l’osservanza della norma etica, ovvero della legge naturale. Come la “repubblica comunitaria” fondata dai Gesuiti in Argentina, nella quale il comunismo “concretamente attuato, era unicamente quello voluto dal Vangelo di Cristo, che non ha bisogno di essere ateo per dare il giusto valore alla materia, che non deve abolire la proprietà privata per condannare il plusvalore e l’ingiustizia sociale, e che per essere dalla parte del popolo non deve appiattire la persona nella massa, ma deve piuttosto esaltarne l’individualità unica ed irripetibile nella sua dignità”.

La rivoluzione, peraltro, è un fatto individuale, prima che collettivo. È un bene intimo che l’individuo raggiunge con l’impegno di tutta la sua persona sulla via della purificazione spirituale (anzitutto dalla schiavitù delle passioni). Ed è una ricerca senza fine: la faticosa ma esaltante marcia di avvicinamento all’Assoluto. Il “vero” è qui inteso in senso platonico: coincide con il “bello” e con il “bene”. Il male è defectum boni: lacuna del bene, assenza di Dio, ombra dove il sole non arriva. Chi pratica il male, ignora il bene; chi conosce il bene, non può non farlo. Giuseppe capisce che non c’è pace senza giustizia; ma non c’è giustizia senza libertà; e non c’è libertà senza verità. Cristo è verità; dunque libertà; dunque giustizia. È un vessillo fulgido da sventolare, appetto a un mondo secolarizzato che ci scandalizza, per scandalizzarlo a nostra volta: un mondo fondato prevalentemente sulle logiche dell’utile, segnato dalla scomparsa progressiva dei valori, dall’eclissi di Dio, dal relativismo estremizzato, che porta al nichilismo, alla disperazione, alla morte. Altro spinoso conflitto interiore è tra l’obbligo del celibato sacerdotale (garanzia di dedizione esclusiva alla Chiesa – anche se “di donne è pieno il Vangelo”) e la naturale pulsione amorosa, che porta Giuseppe a congiungersi, carnalmente e spiritualmente, con Caterina. Il casino di caccia dove si rifugiano è una sorta di isola dell’Utopia, un’Atlantide incantata dove ritrovare lo stato di grazia edenica, la libertà assoluta dell’essere, un mare dolcissimo di felicità e di pienezza esistenziale. È una gioia troppo bella per essere tutta loro e tutta vera: e infatti l’incanto si spezza, l’eden è perduto. La domanda sorge spontanea: che male c’è? Chiede Caterina ai due confratelli – il padre guardiano e don Filippo – venuti a “riprendersi” Giuseppe: “Come potete voi, uomini di Dio, vedere in un amore sincero e perciò puro un’offesa al Signore, che è il Dio dell’amore?”.

Quello di Giuseppe è un percorso di approfondimento spirituale che lo fa entrare appieno nella complessa trama delle vicende umane e universali. Vive le illusioni della repubblica partenopea; assiste all’infuocata battaglia dei lucani contro i francesi e alla caduta di Maratea; soffre per la progressiva secolarizzazione del mondo. Percorre poi le vie del mondo: attraversa l’oceano e, parallelamente, naviga nei profondi pelaghi della coscienza, avventurandosi dentro i labirinti della storia del pensiero. In tutto ciò che lo circonda arriva a vedere e sentire la presenza di Dio: l’universo è un ineffabile tempio cosmico, all’incrocio tra storia e natura. La storia, a sua volta, è legata alla continua presenza della metastoria, questo corso parallelo di storia ideale che “concretamente significa il mirabile ma reale inserimento dell’infinito nello spazio e dell’eterno nel tempo”. È il respiro dell’oltre che travalica e illumina il mero, limitato contingente; è l’incommensurabile piano divino che si affaccia sul recinto feroce della vicenda umana. Giuseppe procede dunque a una “lettura provvidenziale” del quotidiano, a un inquadramento metafisico del tempo. Cerca e trova “segni” di rivelazione: basta saper vedere. La Bellezza, ad esempio, è linguaggio d’amore che parla di Dio, che avvicina a Dio, e Lo rivela a sprazzi. È claritas, riverbero di splendore ineffabile e soffio di mistero: percepita e goduta con commozione intima di spirito. È armonia, concordanza gioiosa tra il sé e il fuori di sé: va cercata dunque dentro noi. Cristo si dona continuamente come Bellezza, che salva per mistero d’amore. La realtà stessa è un quadro dipinto da Dio. A un certo punto, ad esempio, troviamo scritto: “La rappresentazione si era servita di tutti i colori, le luci, i toni, che natura ed arte avevan insieme apparecchiato sulla magica tavolozza del dipintore divino”. Si rileva una spiccata dimensione teatrale e scenografica – anche a livello terminologico – nell’approntamento del cronotopo esistenziale: le “scene” che si succedono con i loro interpreti – ad esempio “madre natura allestiva ad ogni ora del giorno una scena diversa”; o “le montagne parvero aprirsi come un velario teatrale su una scena meravigliosa, da tempo approntata da un’invisibile mano d’artista”; o Filippide e i suoi compagni, che sbarcarono “lentamente, con ogni cautela, come se entrassero nella scena di un teatro, da sempre allestito per un atto unico e inimmaginabile, che pure da tempo aspettava i suoi attori”. E c’è anche parecchia coralità in queste “scene”. Ad esempio: “Dal centro della piazza una donna elevò un grido straziante (…) stringeva al petto il suo piccolo figlio morto. Tutti allora smisero di combattere e le si fecero attorno, gemendo e imprecando contro i francesi”. La scrittura umana del tempo, messa in opera da Giuseppe, si confronta spesso con la scrittura vivente del mondo (come quaderno o libro di segni che svelano sentieri metafisici). Ad esempio “i terrazzamenti che disegnavano, come righe di quaderno, il monte”; o la stupenda falce di luna che “si incaricava di significare quella virgola, che il dipintore divino aveva appena abbozzato nel palpitante quadro della volta celeste, giusto per dire che in quell’universo etereo il discorso era appena cominciato e che il punto definitivo restava lontano”.

Il percorso spirituale di Giuseppe, che lo porta a una comunione intima con l’Assoluto, si completa nella mistica, ascetica solitudine in cui, tornato in Lucania dopo gli anni trascorsi in Argentina, decide di raccogliersi, eleggendo ad eremo l’isolotto di Santo Janni. È una scelta paradigmatica, in quanto ripercorribile da ciascuno: nella misura in cui ciascuno, da sempre, è compagno della propria solitudine. Dio si cerca e si trova dentro noi stessi. Dipende da noi, infatti: “il Verbo è dentro di noi, e sta a noi riconoscerlo per ascendere dalla verità dell’uomo alla verità di Dio”. L’isola anche è emblematica: è una sponda di finito da trascendere, circondata com’è dall’infinito. La solitudine spaziale consente quella dello spirito, attraverso cui è più agevole il colloquio con l’Assoluto. A Santo Janni Giuseppe restaura la piccola chiesa. La vicinanza di Dio lo porta a una palpitante tensione estatica: vive esperienze di bellezza ineffabile, di gioiosa beatitudine, di mistica, silenziosa corrispondenza. Dio gli parla, gli rischiara, gli rivela: gli apre il senso più profondo delle cose. È un fuoco ebbro nel cuore: una languida, eterea leggerezza. Un “oceano di arcadico stupore”. Per Giuseppe è un cerchio che si chiude e un mosaico che si compie: “Tutte le vicende della vita si rivelavano ora saldamente connesse e consequenziali tra loro, come grani di un’unica corona. V’era un legame profondo tra il prima e il dopo e l’intero svolgimento rivelava un progetto organico, quasi razionale”. Percorre così i sentieri dello spirito, i camminamenti dell’anima verso l’ineffabile armonia. Sprofonda nei meandri arcani e ancestrali della Storia. Verca la soglia del sensibile: è contemporaneo ad ogni tempo, non ha più limiti. Travalica i secoli, gli spazi interminabili del tempo. Entra in colloquio con ogni epoca. I suoi occhi si fanno “onniveggenti”, in grado di vedere l’invisibile svelato nel visibile. E sogna: entra sempre più spesso in questo stato di “nebulosa vaghezza” che è un canale e uno strumento di conoscenza ultrasensibile, di immersione negli abissi della rivelazione. Ed è presente a Greccio, quando Francesco allestisce il primo presepe; e vede il greco Filippide, discendente diretto del maratoneta, che sbarca sulla sponda italica e vive un edenico idillio d’amore con la bella Corina; e ripercorre il cammino di San Paolo, prima e dopo la conversione; e prova compassione per Isabella Morra, la sfortunata poetessa di Valsinni; e incontra l’imperatore Carlo V, etc. Appartiene al mondo, insomma: a tutto lo spazio e a tutto il tempo del mondo. Un’esperienza estatica che si traduce in un vertiginoso fiume in piena di riferimenti, di richiami, di echi culturali – che poi è anche il modus precipuo del narratore: analisi circostanziata all’interno di vaste sintesi.

La stanchezza progressiva del corpo non impedisce a Giuseppe di continuare senza tregua a perfezionarsi, ad acuire ulteriormente il suo “occhio di lince”, rendendo sempre più lucida e sicura la sua mente. Fino all’incontro terminale col Cristo di Luce: “dal catino dell’abside il Cristo, Bellezza incarnata, lo rapì nella sua luce abbagliante”. Lo trovano avvolto nel saio francescano, genuflesso ai piedi dell’altare: aveva appena celebrato la sua ultima messa – così, termina il romanzo. Di cui mi preme in conclusione rimarcare la concezione etica ed estetica incarnata da Sisinni nell’esemplare percorso umano di Giuseppe: improntata alle più alte idealità, ai più nobili valori dello spirito. Scelta sicuramente coraggiosa, nel suo consapevole anacronismo, e dunque tanto più valida e necessaria in questi tempi di crisi che stiamo a malincuore attraversando.

Marco Onofrio