Nota critica a una poesia inedita di Emanuela Dalla Libera

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HA ANCORA I SOLCHI DELL’ALTALENA L’ALBICOCCO

Ha ancora i solchi dell’altalena l’albicocco
tra l’erbe a stento si nasconde l’orcio
frantumato dove si abbeveravano i grilli
nelle estati umide di suoni e di fermento
e nelle notti di luna piena la civetta nascosta
tra le fronde levava schiva voci di mistero.
Chissà se il tiglio racconta storie ancora
ai balestrucci a primavera, se i nidi
accoglie a crescere dei merli i nuovi canti,
se il vento i semi sparge a perpetuare
gli incanti miei perduti nel mondo alla deriva.
Solo il fiume oltre i campi sa dirmi quali voci
si levano ancora tra le rive dei gelsi uvidi
agli inverni, di quali inciampi riempirò
i miei giorni che scioglierò la sera accanto al fuoco.
Ora saetta il tempo visioni affievolite,
hanno smarrito i volti delle fiabe le nuvole nel vuoto,
solo qualche sillaba mi porta ancora il vento
se un’eco dispiega in cielo come un aquilone.

Emanuela Dalla Libera

Commento di Marco Onofrio:

Sunt lacrimae rerum. In questa bella elegia di Emanuela Dalla Libera c’è il sospiro delle cose perdute, compostamente fuso al nitore classico di una “misura” né classicistica né, tanto meno, di mediocre retorica “ad orecchio”, ma consapevole, organica, funzionale alla poetica di “sedimento del tempo” e scavo dell’esistenza che l’autrice elabora nei significati profondi e universali della sua scrittura. Che fine fanno le scene vissute, gli attimi e le cose del passato? Li inghiotte per sempre il vuoto o ne rimangono, almeno, vestigia recuperabili? Che rapporto c’è tra “forma” e “vita”? Dove comincia l’argine della cultura rispetto all’oceano della natura? Quale capacità abbiamo di lasciare una traccia durevole dentro l’infinito storico e biologico in cui, per citare il grande Foscolo dei Sepolcri, il divenire “involve / tutte cose” e “l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo”?

Pare che qualcosa rimanga, se la brava poetessa vicentina può scrivere che l’albicocco conserva «i solchi dell’altalena» con cui giocava da bambina, e che l’orcio «dove si abbeveravano i grilli», seppur «frantumato», «a stento si nasconde» in mezzo all’erba. Tornando ai luoghi dell’infanzia (se mentalmente o fisicamente non è dato sapere e non importa) trova dunque dei “reperti” sopravvissuti alla devastazione onnivora del tempo: certo, i «suoni» e il «fermento» delle estati di allora sono svaniti per sempre, i grilli non sono più quelli, e così la civetta con le sue «voci di mistero», i balestrucci, i merli, i nidi, ecc. La natura non è materialmente identica a quei giorni, ma è essenzialmente immutata poiché, come una polla d’acqua sorgiva, resta uguale a se stessa (al netto dell’opera umana) pur nell’infinita trasformazione. Non solo l’albicocco e l’orcio, ma anche il tiglio e soprattutto il fiume (simbolo primario della metamorfosi che rende l’esistenza costantemente sospesa tra divenire ed essere) sono rimasti fedeli al “loro” posto. Quindi si torna come “reduci” tra cose che ci sopravvivono e che, pur rimescolando di continuo i loro connotati, danno conferma “postuma” alle nostre esperienze. Riconoscibili e insieme irriconoscibili come ci appaiono, dopo tanti anni, queste cose ci conducono allo snodo filosofico fondamentale che i versi della composizione vanno a sollecitare: la divergenza tra “spazio” e “ambiente” in cui e di cui può, volta a volta, connotarsi il mondo ai nostri occhi. Il poeta è un “archeologo della memoria” che cerca nel mondo, a nome di ciascuno, un ambiente riconoscibile e abitabile, cioè uno specchio rassicurante dove confermare tutto il buono e il bello dell’esperienza, anche se deve purtroppo fare i conti con lo spazio infinito del «mondo alla deriva» che ogni cosa cancella e divora nella sua “macchina impastatrice”. Tentiamo disperatamente di inquadrare e contenere il mistero inarrivabile, che ci illudiamo di comprendere ma che in realtà “non cape”: non solo l’infinito dello spazio ma quello, ad esso interrelato, del tempo.

I quattro «ancora» di cui il testo è disseminato sottendono un contraltare innominato che coincide con la tonalità musicale stessa dell’elegia: il “non più”. Eppure la memoria ha la capacità di «perpetuare» le cose che non sono più, anche gli «incanti miei perduti» di cui il tempo saetta «visioni affievolite» e il vento reca «qualche sillaba», sparuta come «un’eco» dei giorni che furono. La memoria immaginativa, ovvero il patrimonio di miti infantili a cui attinge fascinosamente ogni scrittore, è ciò che consente di salvare il tempo perduto dentro l’arca delle parole dacché, come scrive la giapponese Banana Yoshimoto (lo so: cultura diversissima da Emanuela Dalla Libera, ma il sentire umano è universale quanto più profondo), “i ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa”, ed è proprio “il cristallo scintillante dei tempi felici, riaffiorando all’improvviso dal sonno della memoria”, che ci aiuta ad “andare avanti”.

Marco Onofrio