“Andante con pioggia”, di Renato Fiorito. Lettura critica

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Renato Fiorito

Il nuovo libro di Renato Fiorito, Andante con pioggia (Terra d’Ulivi Edizioni, 2019, pp. 120, Euro 12), mi è parso notevole fin dalla prima lettura, dotato anzi di una bellezza destinata a crescere con le riletture. Settantadue poesie, divise in otto sezioni di nove composizioni ciascuna, orchestrano un canzoniere variegato di temi e tonalità, ricco di metafore, suggestioni, prospettive sconfinate, visioni, sensi e sentimenti universali. Ne emerge, per larghi tratti condivisibili, l’empito tipico della lirica autentica, quella che nasce dal traboccare della dolcezza quando si innalza – dalla totalità cosmica delle energie – “come una preghiera”. Evidentemente Poesia per Renato Fiorito è – si perdoni il gioco di parole – fioritura dell’esistenza: “non per astratto ragionamento” come diceva Antonia Pozzi “ma per un’esperienza che brucia attraverso la vita”. E Ungaretti: “Gentile / Ettore Serra / poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento”. Da una parte le cose vive nel tempo, dall’altra la forma comunque astratta della parola che cerca di catturarle e contenerle. “Stanno al di qua delle parole / le voci” scriveva Lalla Romano in “Giovane è il tempo”, cioè l’inafferrabile e brulicante universo dei fenomeni vivi: quei suoni, quelle luci, quelle nuvole, quegli attimi irripetibili della storia etc. E quindi l’impotenza della parola, in senso assoluto, dinanzi alla realtà e all’inarticolabile linguaggio del cuore: la parola inferiore alla vita, anche se per certi versi le è superiore (tanto che “muore la storia che non si scrive”): “ogni cosa / è destinata a lasciarci / compreso l’amore / senza che ci sia ancora un verso / che valga il nostro pianto”. Il dolore si mescola ai versi del poeta, e chi li legge ritrova il proprio dolore; così la poesia, come un grido unanime, “si fa parola in bocca della gente” e diviene di quelli “che leggendola hanno pianto”.

Approfondendo ora l’analisi del testo, emerge dalle pagine di Fiorito una tavolozza “pittorica” che, traducendo le timbriche musicali in sollecitazioni visive (o viceversa), sembra privilegiare la vibrazione energetica di quattro colori: nero, bianco, rosso, azzurro. Il nero del buio cosmico, della notte e della morte; il bianco della luce, del giorno, della luna e della vita; il rosso del cuore, dell’amore, dell’impegno e dell’attenzione per gli altri; l’azzurro del cielo e della cultura, coi significati che l’uomo deduce dal mondo e dall’esperienza delle cose.

L’amore che ci contraddistingue come specie sapiens “si espande” in “labirinti di buio”. Ecco i Notturni che aprono il libro. Ricorrono queste dinamiche di luce precaria, pur quando splendida, giacché sottoposta all’assedio del buio: “Bagliore, / pensiero d’amore. / E poi il buio”… Oppure: “tripudio di luce. / Poi si arrende / al mistero del buio”… Alla fine è il buio che vince: “Precipita il buio in fondo alla valle. / Irredimibile è la dimenticanza”. Tutto è destinato a dissolversi, e l’amore è la luce che possiamo contrapporre al “cielo nero di abisso”, che è anche il “pozzo nero dell’anima / che tutto assorbe / come abisso senza fine”.

È tipicamente nostra questa ricerca del riparo, del cantuccio di calore sereno dove starsene “rannicchiati / contro la notte / per non farci trovare” per cui si possono godere anche i “chiarori d’inverno” (quando la luce è ancora più preziosa) e assistere al prodigio della primavera che si fa “in un angolo d’inverno” dove è bello sognare e pensare parole nuove. E quindi il tentativo per certi versi disperato di trattenere la luce: “Accartoccio il mio amore / e ne faccio una bolla / per conservare la luce”. Ma il buio incombente non impedisce di cogliere le “straripanti magie” della vita impareggiabile, e il sentirci miracolo, parte di un progetto che converge nell’incastro di un attimo e di un incontro. Sentire il mondo creato apposta “per noi / solo per farci abbracciare”. “Risuona immenso / il battito del cuore / che quasi fa paura”. Anzi, il segno della maturità è proprio nella capacità di mettere a frutto la vita come è, senza più illusioni o infingimenti: “Come arance rosse / nel freddo dei giorni / maturo il mio succo migliore”.

Al colore del cuore e del sangue è dedicata una intera sezione (“Pastorale rossa”) dove Fiorito sperimenta il suo incontro con la storia e la sua espansione nei territori della coscienza civile, dove percepisce che “ogni cosa si tiene / in un unico abbraccio / la terra, il lavoro, la vita e l’amore”. E mi ha colpito l’impasto di dignità, sobrietà e tenuta anti-retorica – rare quando si scrive (specie a caldo) di cronaca e storia contemporanee – che sorregge la voce di Fiorito quando parla dei “ragazzi del Bataclan”, fotografando il loro ultimo istante, ciò che stavano facendo quando la morte li ha proditoriamente freddati.

La vita tutta “ha consistenza di nuvole”, come i pensieri che si inseguono nel cielo della nostra mente. Il poeta ascolta passare la vita sotto i platani del lungotevere, e sente che “scorre via dalla vita” stessa “come da un otre bucato”. Ecco la sua urgenza di salvare la bellezza che “rotola a precipizio” lungo le “irte scarpate del tempo”: aggrapparsi a qualche appiglio per “fermare la caduta” prima che il “silenzio stellato” (e quindi, ancora, il buio del cosmo e dell’oblio) copra i rumori delle nostre opere e soprattutto delle nostre omissioni. Il poeta fa sua la fatica di Sisifo: ricordando Giorgio Caproni a Genova, diventa Enea che trascina sogni e raccoglie ricordi. Gli occhi delle persone raccontano muti “il dolore di questa vita” ma l’inganno delle cose si può “ribaltare” con la “temerarietà del cuore”, cioè con quel pizzico di coraggio e di follia tipiche dell’anima napoletana. “Sono stanco del dolore di andare / ma prendo ancora su di me / la fatica dei remi” per continuare il viaggio: come il “superstite / lupo di mare” ungarettiano. Allegria di naufragi, dunque. Frantumi, desolazione, cenere, ma un residuo inconsumabile di speranza: anche la luna viene a dirci, nella notte, che “non tutto è perduto”. Ed ecco la “striscia d’azzurro” che si “apre inattesa” sopra i terrazzi “come un amore inatteso”.

L’azzurro dentro cui Fiorito intreccia le sue “rapsodie” simboleggia la ricchezza inconcepibile del mondo, il “forziere senza fondo” dei significati e del mare. La nostra ragione è bella ma risibile: l’universo scompagina ogni mappa. Si provi a scrutare il cielo stellato (“Al primo sguardo / caddero ascisse e ordinate / meridiani e paralleli si attorcigliarono / e dovetti reinventarmi il nord / e i punti cardinali), ma la conseguente vertigine non inficia “il senso del viaggio / oltre ogni cielo”, cioè la carovana dell’Essere nel Tempo.

“Ha regole che non conosciamo l’amore” poiché partecipa del mistero del mondo. E il poeta, consapevole di questo, prova “tristezza per chi sa sempre tutto”. Occorre andare alla deriva, attingere alle “riserve auree d’amore”, raggiungere e sfondare le depressioni più oscure della solitudine. Il poeta ha sogni di grande cabotaggio che gli permettono di avventurarsi e di inabissarsi, con mani palmate e pinne di squalo, dentro le “azzurrità infinite”. L’abisso che “si apre sul fondo” non mette paura: il poeta si immerge per sfiorare la verità, “senza sapere dov’ero / dimenticando il mio nome”. È qui che sorge la prospettiva metafisica che porta il poeta ad “amare senza corpo / ed essere una sola cosa col vento / per abbracciare senza braccia”. Nel confine tra il visibile e l’invisibile emerge quel nulla d’inesauribile segreto che si percepisce nella contemplazione incantata dello spettacolo della vita, attraverso le sue impercettibili variazioni: “Una barca alla fonda toglie l’ancora / si mette di traverso / e prende il vento. / La seguo un poco / fin quando non scompare. / Poi penso ad altro / ed è già domani”.

L’azzurro è anche luminosità pura e potente, gioia incorrotta, positività, pienezza colma di vita: “Abita il tuo sorriso / il cuore immenso della terra / ed è lì che costruirò la mia casa (…) / Si muove sinuoso / un desiderio di felicità. / Affondo le dita / tra riccioli di sole / e dai tuoi occhi imparo / la profondità del mare”. Versi in cui si respira un sentimento oceanico di totalità e un “pensiero senza confini” che davvero riecheggia il passo della “Bohème” citato nel colophon: “Ho tante cose che ti voglio dire, o una sola, ma grande come il mare”. E questa azzurra infinità attrae lo sguardo di Fiorito nella sua predilezione per lo “scorcio”, la distanza inattingibile, i vaporosi e “sconfinati biancori” della dissolvenza: ecco ad esempio “il respiro del mare / che si perde lontano / oltre lo sguardo”. Le visioni procedono verso il fondo (si legge ad esempio di “fondo dell’estate”) o, se il movimento è a ritroso, dal fondo: “Nascevano laghi e coralli / dal fondo della sera”… oppure: “Risaliva lieve dal fondo dei ricordi / la tenerezza di un tremante bacio”. In tale prospettiva cimmeria la poesia assomiglia alla donna-cigno che “si annoda alla mia ombra / e discorre con me per siderali silenzi” entro cui si svelano le incantevoli “profondità del sogno”. Per raggiungere le regioni eterne che dimorano in fondo allo sguardo, i laghi immobili dell’oltre, il poeta deve usare con sagacia l’alambicco del tempo con cui “distilla i giorni”, cogliendo le trasformazioni continue e spesso irreversibili delle cose, e oltrepassando con fiducia la banalità del male che si cela nei dettagli a prima vista più insignificanti: come “la piccola pioggia di marzo” con le sue “bocche di gelo”, o il “piccolo dolore” percepibile “tra i rumori del traffico / e le offese del giorno”.

Ci sono passaggi di grande lirica, come questo: “quando mi sorrise / il cielo si colmò dei suoi occhi / e come rossi papaveri / fiorirono labbra / in mezzo alla notte. / Allora in segreto mi dissi / che avrebbero avuto brividi / le stelle a tenerle il viso tra le mani / e a bere dalla sua bocca / il cielo”. Ma la poesia di questo libro non rinuncia mai al suo statuto nativo di chiarezza e semplicità. Le metafore di cui traboccano le pagine sono sempre concrete, tangibili, corpose: non a caso “Il corpo sa. Solo lui sa l’amore. / Le mani sanno”. Due esempi su tutti: “Tira fuori i remi la luna / per attraversare il cielo”; “I miei giorni sono lenzuola bianche / protese sulla strada / che non so più annodare”. Per Fiorito la poesia è, come la sua Napoli, “una ragazza che cammina / e che non ha paura di guardarti”. E il lettore può dire, con lui: “M’immergo in quest’acqua limpida / e divento anch’io chiaro e luminoso”. Questa chiarificazione mai banalizzante dell’esistenza riesce a riprodurre sulla pagina, ed è forse il dono supremo del libro, il ritmo stesso delle cose, la musica del tempo, la sua ispida ma fluida scorrevolezza, la sua “felicità leggera” malgrado gli acquazzoni e le “strade di pece”. Ed ecco il titolo del libro, bellissimo e azzeccato. Come recita un noto aforisma contemporaneo, La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia. E la pioggia ipnotizza lo sguardo perché in fondo ci pare di assomigliarle:

Ci assomiglia lo scorrere dell’acqua
sempre uguale a se stessa
coi suoi vuoti tumulti
che il tempo non acqueta.

Marco Onofrio

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