“La voliera senza reti”, di Zingonia Zingone. Breve lettura critica

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Libro polisemantico, di alta cultura ed estrema concentrazione simbolica, godibile sia sul piano letterale, sia sul piano allegorico e anagogico, con sapienti, puntuali riferimenti alla cultura classica e alle sacre scritture, “La voliera senza reti” (Edizioni della Meridiana, 2022, pp. 52, Euro 10), di Zingonia Zingone, offre per rarefazione alchemica una poesia di fibre nascoste che esplora la dimensione sottile delle essenze, dialogando con l’invisibile e raccogliendo i messaggi dell’«inconfessato». La scrittura vi obbedisce a un «richiamo ancestrale / bocca a bocca con l’infinito», dunque è necessaria in quanto necessitata dall’annuncio e dall’impegno della sua stessa “visitazione”, per cui il poeta non scrive “ad arbitrio” estemporaneo ciò che vuole o sente, ma ciò che non può esimersi dal dire e che una forza, a un tempo conosciuta e sconosciuta, gli “ditta dentro” costringendolo a farsi docile “vas electionis”.

Il concetto del “vas” rimanda all’athanor, il forno utilizzato secoli fa dagli alchimisti per la trasmutazione della materia, e ancor oggi − per via metaforica − dagli artisti autentici, impegnati in un processo di ricerca entro cui avviene la mise en abyme dei significanti e dei significati, cioè la sconfinata amplificazione del segno nel simbolo archetipo che raggiunge la complessità psichica interiore del soggetto coinvolto, nonché la realtà indicibile che precede il linguaggio, il “nulla lucente” dell’essere e quindi, per via indiretta, il caos che la creazione cerca di arginare e ordinare in cosmo. “Vas”, a ben vedere, è la realtà tutta nelle infinite e inafferrabili stratificazioni del suo mistero: il poeta si rende disponibile come “sismografo” delle energie profonde che lo utilizzano per manifestarsi. Oltrepassando gli orpelli dell’io per schiarirsi la vista e la voce, passando cioè dagli occhi di carne alle visioni intangibili dello spirito, Zingonia sviluppa un rito personale di elaborazione cosmica verso la «radice di ogni inizio» dove si attende, dal suono del vuoto, «l’annuncio pontificale di un ritorno / all’età perduta», cioè alla purezza spirituale che oggi il mondo rinnega.

Leucotoe, l’alter ego femminile implicato in questo percorso di purificazione, vive in prima persona il conflitto tra la prigione dei sensi e le radici ultraterrene; ma per resistere alle aporie del mistero, cioè alle lusinghe del merlo (che spesso però è un corvo maligno), pianta la tenda della parola «al confine / dove i dubbi sfiorano la fede / (…) e il cielo si pronuncia». Teatro della scena poetica è infatti una terrazza sui tetti di Roma, «dove planano gli uccelli / le intuizioni le divinità» e dove Zingonia raccoglie il «canto / che proviene dall’alto». Una Roma di periclitante verticalità, dalle «vette del Pantheon» alla «torre barocca di Sant’Ivo» alla «facciata di Sant’Andrea della Valle» − tegole cornicioni ringhiere campanili cupole: la parola insiste e incide nello spazio vertiginoso delle prospettive aeree dove il corpo è «in bilico» e si protende al cielo, già quasi per smaterializzarsi:

Ti seguo sul colmo del tetto
barcollante
colloco i piedi nello squilibrio dei tuoi passi
mi affido alle ali di fumo
.

In realtà il libro è un poema di frammenti lirici magistralmente disposti entro la cornice di una psicomachia tra opposte pulsioni ambivalenti; una battaglia spirituale che conduce al vertice della sua tensione, anche se le ali sono tanto fragili, si rompono o inceneriscono per un nonnulla. Ecco perché invoca la sublimazione sacra della materia, ben simboleggiata dall’incenso che brucia: alleggerirsi di tutte le sovrastrutture, anche quelle religiose, per ardere del fuoco divino, amare del suo amore perfetto, abbandonarsi all’oceano mistico della sua pienezza.

La voliera senza reti del cielo, alla fine del percorso, non è più cerchio che imprigiona ma «cappella senza pareti» che protegge. Leucotoe è ormai liberata dalla cecità della luce terrena, dal veleno dei giorni, dalle trafitture della fiamma profana: giunta alla 33ª e ultima stazione del percorso (il numero non è certamente casuale) si rivela «colomba di fuoco / sulla scia del Pellicano», e il Pellicano è Cristo, Jesu Domine umile e trionfante su tutti i merli e i corvi del mondo. Zingonia Zingone può così sovrastare la propria ricerca metafisica con una risposta autentica alla “domanda delle domande” scavata nel silenzio del vuoto e pronunciata alla fine della composizione numero 13:  ̶  chissà se siamo qualcosa / oltre che polvere.       

Marco Onofrio

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